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Leopardi a Firenze
La lapide che ne ricorda il passaggio è sbiadita, e al piano terra ci sono un minimarket pakistano e un ristorante giapponese. La casa fiorentina in cui Leopardi visse per lunghi periodi, tra il 1828 e il 1833, affaccia su un viavai di automobili e motorini. Di fronte ci sono il palazzo delle poste, rifatto negli anni ‘60, e l’ex Casa del Fascio di Firenze, inaugurata nel 1940. La linea sghemba della vecchia balaustra in ferro del balconcino - a cui si può immaginare Leopardi affacciato in un lontano mattino - non ha niente delle rette razionaliste, ad esse non è parallela né perpendicolare, resta lì, semplicemente a monito di una città che in altri tempi cresceva per agglomerazione, e non per demolizioni. La casa di Leopardi è immersa in una nebbia di tanto tempo trascorso, di smog e di noncuranza dei passanti. Anche il nome della via, per come lo conosceva Leopardi, è cancellato: non più si chiama via del Fosso (ricordo di un antico fossato che scorreva lungo le mura della penultima cerchia), ma via Verdi, il numero civico è l’11, sulla strada che dalla basilica di Santa Croce va a piazza Salvemini. All’epoca era quartiere penitenziario: dove oggi sorge il teatro Verdi, Leopardi poteva scrutare le prigioni delle Stinche, di cui è memoria un tabernacolo del 1616 (all’angolo tra via Ghibellina e via Isola delle Stinche, non a caso) che raffigura l’opera di misericordia della visita ai carcerati. Ma quando Leopardi arriva per la prima volta a Firenze va a soggiornare alla Locanda della Fontana, nei pressi di piazza del Grano (all’angolo tra via dei Neri e via dei Leoni infatti, addossata a una colonna della loggia che ora ospita Coin, c’è la Fontana del Mascherone). A tal proposito, il 7 luglio 1827 (è arrivato a Firenze il 21 giugno) scrive alla sorella Paolina: “Qui sono alloggiato alla Locanda della Fontana. Si paga assai e si mangia poco: ma la biancheria si cambia quasi ogni giorno. Dozzine in case particolari si trovano difficilmente, e si pagano un terzo più che a Bologna”. Firenze lo mette alla prova, e non solo per la ristrettezza di alloggi (le “dozzine”) e per i costi di vita più elevati rispetto a Bologna: in Toscana si acuiscono le sofferenze fisiche, come Leopardi registra in alcune lettere, quando afferma “sono qui da due settimane, trattato con molta gentilezza dai Fiorentini, ma tristo per la cattiva salute, e in particolare per la malattia degli occhi, la quale mi costringe a starmene in casa tutto il dì senza né leggere né scrivere. Non posso uscir fuori, se non la sera al buio, come i pipistrelli” (ad Antonio Papadopoli, il 3 luglio 1827) e “mi hai da perdonare il mio lungo silenzio, perch’io pochissimo posso scrivere, travagliato come sono da un’estrema debolezza [...] de’ nervi degli occhi e della testa, la quale mi obbliga ad un ozio più tristo assai della morte. Certo è che un morto passa la sua giornata meglio di me” (a Francesco Puccinotti, il 16 agosto 1827).
Firenze è anche la città dei primi grandi confronti con gli intellettuali dell’epoca. La frequentazione del gabinetto Vieusseux gli procura le inimicizie dei cattolici liberali, come quella di Niccolò Tommaseo, che delle Operette morali rileva una negatività di principi che “diffondono e nelle immagini e nello stile una freddezza che fa ribrezzo, una desolante amarezza”. Leopardi, in una lettera all’editore Stella, risponde a Tommaseo citando Bayle: “In metafisica e in morale la ragione non può edificare, ma solo distruggere”. L’ardente patriota Tommaseo, impegnato, invece, a “edificare” l’Italia, non glielo perdonerà mai, e nel 1837, poco prima della morte di Leopardi, lo colpisce con un distico fendente: “Natura con un pugno lo sgobbò: / Canta, gli disse irata; ed ei cantò”. Il 3 settembre, Leopardi incontra Manzoni al gabinetto Vieusseux, che all’epoca aveva sede a palazzo Buondelmonti (oggi ce l’ha a palazzo Strozzi), in piazza Santa Trinita: oltre a una targa che ricorda il passaggio di Ariosto, ce n’è un’altra a testimoniare che l’edificio fu sede del noto circolo letterario. Leopardi dirà: “Ho avuto il bene di conoscere personalmente il signor Manzoni, e di trattenermi seco a lungo: uomo pieno di amabilità, e degno della sua fama” (all’editore Stella, l’8 settembre 1827) e “Manzoni è un bellissimo animo, e un caro uomo” (al padre Monaldo, il 17 giugno 1828); nonostante le prime ritrosie: del “Romanzo” (così, per antonomasia, lo chiama Leopardi) di Manzoni c’è un “grande rumore” in tutta Italia. Ma i dubbi iniziali di Leopardi sulla fama crescente dello scrittore milanese trovano conferma: “Solo quella divinizzazione che vi si fa del Manzoni, mi è dispiaciuta, perché ha dell’adulatorio, e gli eccessi non sono mai lodevoli” (a Giovan Pietro Vieusseux, il 31 dicembre 1827). Nel
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1829, quando l’Accademia della Crusca indice un concorso letterario, Leopardi, che partecipa con le Operette morali, ha paura che Manzoni stravinca per fama, pur non essendo candidato (cfr. lettera a Vieusseux del 12 aprile 1829). Manzoni, non presentandosi, non vince come da regolamento, ma Leopardi perde lo stesso. Riceve un solo voto, da Gino Capponi. Firenze è anche il teatro della sua ultima passione amorosa. Nel maggio del 1830, Leopardi conosce la nobildonna Fanny Targioni Tozzetti, che abita non molto lontano da lui, in via Ghibellina 85, proprio accanto all’attuale Enoteca Pinchiorri. Per Tozzetti, Leopardi nutre un’ossessione di sentimento che non è mai ricambiata, e le insistenti visite, facilitate dalla vicinanza di domicilio, finiscono per sfiancare la donna, inizialmente compiaciuta dell’interesse di un poeta tanto colto. La tomba di Fanny Targioni Tozzetti si trova fuori città, al cimitero monumentale dell’Antella, dove riposa tra decorazioni di gusto Liberty e la nomea di Aspasia.
La prima separazione dalla città avviene già alla fine del 1827. Leopardi, in una lettera a Monaldo del 4 ottobre, si dice “risoluto” a non trascorrere l’inverno a Firenze, e prosegue: “Questo clima non è molto freddo, ma infestato continuamente da venti e da nebbie”. Appunto, la nebbia che cala su Firenze e la cela, la rinfresca di pioggia appena caduta, con un’impressione di clima che è anche di Dostoevskij: “Firenze è bella, ma è umidissima. Le rose, però, nel giardino di Boboli continuano a sbocciare” (da una lettera ad Apollon Majkov del 1868). La Firenze di Leopardi è proprio una grande città di nebbia, vista solo a tratti nelle sue forme, più udita nelle parole dei suoi abitanti e degli intellettuali che la animano. La lapide che non si legge più, che sta in alto in via Verdi passandole oltre come attraverso una nebbia, recita:
In questa casa dimorò più volte fra il 1828 e il 1833 Giacomo Leopardi e qui agli amici suoi di Toscana dedicava i canti nelle austere armonie non vinta dallo sconforto delle cose umane persisteva fatidica la magnanima nota delle italiane speranze