Mies e Klee

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MIES e KLEE

L’arte moderna di costruire tra le cose e l’attesa dell’apparizione

DARIO COSTI

GLI ANGOLI DI MIES

Costruire una stretta relazione tra l’opera pittorica di Paul Klee e l’opera architettonica di Mies van der Rohe, obiettivo di questo volume, potrebbe apparire una impresa che forza l’identità dichiarata di quest’ultimo. In un testo pubblicato su Arts and Architecture nel 1950, con il suo caratteristico tono apodittico, Mies scrive: «Spero che voi capirete che l’architettura non ha nulla a che fare con l’invenzione di forme. Non è un campo di giochi per bambini, piccoli o grandi che siano»1. Certamente siamo cronologicamente lontani dagli anni su cui si incentra lo studio che segue e Mies ha portato a termine una severa revisione critica della fase di intreccio stretto tra ricerca architettonica e ricerca artistica che, per lui, si colloca tra la fine della guerra e la partenza per gli Stati Uniti. «L’eroica ribellione di uomini di grande talento verificatasi alla svolta del secolo ha avuto la durata di una moda. Inventare forme non è evidentemente compito dell’architettura. L’arte del costruire è qualcosa di più e di diverso. Questa stupenda parola esprime chiaramente che il suo contenuto essenziale è la costruzione e l’arte il suo completamento»2 Tuttavia, come l’autore del presente volume sottolinea in prefazione, una ragione di interesse, la seconda ragione di interesse diremo noi, per la figura di Mies, è la ricchezza delle sue contraddizioni e, ancor di più, l’energia produttiva che tali contraddizioni, ancora oggi, riescono a sprigionare nel campo, teorico e operativo, dell’architettura. Ma ciò che rende complesso affrontare le contraddizioni miesiane, le sue finzioni, i suoi inganni – come diversi osservatori, progettisti e storici, li hanno definiti –, è che la prima ragione di interesse per guardare ancora oggi a Mies sono le sue opere costruite, la cui chiarezza architettonica è stata immancabilmente rilevata anche dai più scettici osservatori, anche da coloro che vi hanno rilevato, appunto, inganni e finzioni3. «La mia idea, o meglio la “direzione” verso cui vado», – afferma Mies riferendosi al progetto per il Seagram – «è la ricerca di una chiarezza costruttiva e di struttura – ciò si applica a tutti i problemi architettonici che ho affrontato. In effetti, sono del tutto contrario alla idea che un edificio specifico debba avere un carattere individuale»4 Una rinuncia radicale alla espressione artistica di matrice romantica che accomuna architettura e arte nella stagione delle avanguardie. Una direzione che nulla ha a che vedere con la semplicità, il minimalismo o le diverse etichette riduzioniste che hanno segnato la divulgazione se non anche parte della storiografia dedicata a un maestro del Moderno che in realtà, del Moderno, è tra i critici più severi, tra coloro che con più lucidità e preveggenza ne ha indicato la natura di chiusura del ciclo classico piuttosto che di avvio di una nuova genealogia anticlassica. Mies riafferma l’esito di una estraneità al Moderno – esito frutto di un lungo percorso che qui non possiamo evidentemente richiamare – in molti passaggi: «[...] la tecnica deve trasformarsi in architettura per poter giungere alla sua perfezione. Sarebbe un’architettura che ha ereditato il gotico. Questa è la nostra più grande speranza [...] l’epoca della tecnica non è così recente quanto può apparire

Gli angoli di Mies

PRO LO GO

Indizi e apparenti contraddizioni

Sono cresciuto avvicinandomi all’arte leggendo, fino dai tempi del ginnasio, i diari di Paul Klee1 attirato dal fascino magnetico dei suoi quadri. Ho coltivato nel tempo la conoscenza del suo lavoro indagandone progressivamente le ragioni e consolidando, occasione dopo occasione, la convinzione, all’inizio solo intuita, che dietro a quelle immagini essenziali e sospese ci fosse una straordinaria potenza di significati.

Alcuni anni dopo, quando iniziai a interessarmi di architettura, trovai alla Clup alcuni piccoli libri economici grazie ai quali volevo conoscere i grandi architetti. Quello su Mies era forse il più difficile da comprendere proprio per la sua chiarezza. Impaginato con lui da Werner Blaser nel 19652 prevedeva alcune sezioni tipologiche e molti dettagli esecutivi soprattutto in pianta. Vedevo putrelle applicate alle pareti, profili e serramenti che portavano l’attenzione su aspetti tecnologici che mi apparivano freddi e operativi, un fatto meccanico e poco interessante. Non mi rendevo conto allora che quegli approfondimenti tecnici nascondevano, pur mettendolo in evidenza, il mistero del progetto e una dimensione molto più profonda di quello che potevo vedere. Ho capito solo molto tempo dopo che le apparenti contraddizioni di Mies sono il suo insegnamento più importante. Eduardo Souto de Moura lo sottolinea in conclusione della sua recente Un’autobiografia poco scientifica3, attribuendogli un ruolo centrale nella propria esperienza e introducendo, forse senza saperlo, anche la questione che voglio affrontare: «Oggi, dopo 30 anni, lavoro ancora con Siza e con piacere. Incontro periodicamente Herzog e colleziono libri e immagini di Mies. Uno degli ultimi che mi è stato offerto è Mies a casa, con le finestre chiuse, sdraiato in un abito di seta, su un banale divano in velluto, senza design, bevendo un Martini (?). In un’altra cartolina vedo il Maestro seduto su una poltrona anonima, che legge con una lampada circondato da dipinti di Klee, Kandinsky, sculture di Picasso, forse dischi di Bach e certamente libri di Sant’Agostino. Mies ha trascorso la vita citando Sant’Agostino, che “la bellezza è lo specchio della verità”, ma Mies ha mentito, mentito costantemente nei dettagli costruttivi che di solito venivano rivestiti e nascosti con altri materiali più scenografici. Questa è la contraddizione che mi interessa di più nel suo lavoro. Mies aveva un appartamento tutto di vetro sul Lake Shore Drive in cui non si era mai trasferito. Ha vissuto sempre tra pareti in penombra circondate da opere d’arte. Scoprire perché Mies non si è mai mosso è capire il futuro dell’architettura. Scoprire perché a Farnsworth puoi solo mettere un dipinto, una fotografia sopra un mobile. Capire perché gli architetti, come Mies sono costretti a mentire, a mentire nei loro progetti, è capire la frase di Nietzsche “abbiamo l’arte di non morire dalla verità”. Forse è per questo che, nonostante tutto, siamo ancora architetti».

C’è una questione che non si può analizzare nell’esperienza progettuale degli architetti. È la distanza solo appena esplorabile tra la definizione di un tema con la sua visione del mondo e le ragioni che lo

In alto a sinistra, P. Klee, Diari 1898-1918, Verlag M. Dumont Schauberg, Colonia, 1957, edizione italiana per Il Saggiatore Milano, 1960, edizione consultata Il Saggiatore economici, copertina.

A destra e in basso: W. Basel (a cura di) Mies van der Rohe, prima edizione italiana Zanichelli Editore, Bologna, 1977, copertina e pp. 142-143.

Dario Costi

hanno determinato, in molti casi addirittura sconosciute all’autore. È uno spazio segreto da non violare che si può solo avvicinare, un pezzo fondamentale del senso delle cose che va solo osservato con attenzione e trattato con il massimo rispetto, senza pretese di certezze. Avviciniamoci quindi con molta cautela.

Il nodo centrale è il significato di una passione. La domanda non è semplice e, proprio per questo, va formulata con chiarezza: la sospensione di Klee e la sua ricerca sulla essenza della forma sono, per Mies, uno spazio logico di confronto che porta riflessi nella costituzione della sua idea di architettura?

Guardiamo intanto un attimo l’opera di Klee. La capacità significante del suo lavoro ancora oggi stimola l’interesse quasi automatico di chi progetta, per la forza evocativa degli esiti di quel processo di riduzione al carattere delle cose, nel disegnare, con pochi elementari segni, gli oggetti, i paesaggi, le città e le architetture. Penso, tra tutti, all’intuizione chiara della valenza figurativa dichiarata da Aldo Rossi quando inserisce nell’apparato iconografico dello scritto epocale Architettura per i musei due immagini di tema architettonico e urbano di Klee4 dimostrando un interesse progettuale proprio per la composizione plastica delle forme riportate a semplici ma potenti rapporti poetici tra solidi geometrici. Il parallelo con la Cattedrale di Colonia sembra suggerire un modo di reinventare le figure della storia che collega tradizione e modernità. Guarda a caso nello stesso saggio, qualche pagina dopo, la planimetria curvilinea del grattacielo sulla Fridrichstrasse di Mies affiora nel montaggio tipologico della Composizione di forme architettoniche con le piante dell’Anfiteatro di Nimes e del Castello di Couchy.

Come noto, prima di Rossi, proprio il quasi coetaneo Mies aveva dichiarato più volte la propria preferenza e cercato nella sua opera un continuo rimando evocativo testimoniato da frequenti citazioni nei collages progettuali. Ho sempre interpretato questa attenzione come una piacevole ossessione, quasi un rito laico di ritorno, forse di ringraziamento.

Mi sono chiesto allora innanzitutto cosa dovesse rappresentare Klee negli anni Venti non solo per lui ma per tutta la cultura europea a lui contemporanea.

Klee non è solo un grande pittore, è anche uno dei rappresentanti più autorevoli del pensiero di rifondazione culturale della modernità nell’arte in un momento storico in cui tutte le discipline si interrogano sui loro statuti, si guardano, si tengono, si contaminano e provano a dialogare.

Mi sembrava ovvio che la predilezione di Mies per Klee non potesse essere solo quella di un collezionista d’arte. Mi sembrava interessante capire invece come quella preferenza aveva influenzato la sua opera intuendo che negli anni Venti era successo qualche cosa di irripetibile, per certi versi definitivo, che li avrebbe connessi nel tempo. D’altro canto ho sempre sentito l’esigenza di comprendere da dove veniva la ricerca figurativa collegata alla rivoluzione spaziale ed estetica di Mies che poteva sembrare

IN DI CE

Gli angoli di Mies

Giovanni Leoni

Prologo

Indizi e apparenti contraddizioni

Vite e relazioni

Gestaltung e Form

Separazione e vicinanza

Il riconoscimento di ruolo

Spiriti, continuità e allineamenti

La tempesta del progresso

La vita di dentro: Klee, Rilke, Guardini,

Costruttivo e grande forma

Esattezza e distanza

I was interested in work of architecture

La collezione di Mies

Figurazioni architettoniche e urbane

L’aria densa tra le cose

Materie e forme

Parti e tutto

Dove sono nate le idee

«Non mi importa cosa ci dipingi»

Renato Capozzi

L. Mies van der Rohe, foto della Neue Nationalgalerie, Berlino, 1968, Fotografia di M. Ferrara, 2021.

L. Mies van der Rohe, Nuova Galleria Nazionale, Berlino, padiglione espositivo, prospetto e pianta concettuale, 1964, Collezione Werner Blaser, in Mies in America, a cura di P. Lambert, cit. p. 494, immagine originariamente pubblicata in W. Blaser, Mies van der Rohe: less is more, Zürich and New York: Waser Verlag, 1986, p. 153, in cui lo schizzo viene collegato in modo errato al progetto della Concert Hall di Mies. Si ringrazia Renato Capozzi per aver segnalato questo schizzo.

© Ludwig Mies Van Der Rohe, by SIAE.

Due schizzi sovrapposti di Mies per la Neue Nationalgalerie di Berlino collegano chiaramente due dimensioni e due condizioni del progetto.

Sopra l’alzato con due appoggi opportunamente arretrati sembra essere verificato dal punto di vista strutturale per gli effetti di bilanciamento che gli sbalzi possono produrre rispetto alla grande luce compresa tra loro. Alcuni segni verso il basso sembrano verificare le ragioni tecniche di quel sistema strutturale o la proiezione dei suoi fili esterni come a definire un ambito coperto.

Sotto l’impianto planimetrico è un perimetro sottile che non corrisponde alla dimensione della grande copertura sospesa. Non sono segnati gli appoggi, come se non fossero importanti. Il disegno geometrico concluso, è il diaframma che separa dentro e fuori come una lama minima, quasi senza spessore. La sua posizione è indipendente dai fili strutturali.

Il quadrato è un ambito contenuto, il campo di una possibile apparizione. Al suo interno uno strano segno occupa lo spazio al centro, una nuvola di energia sembra concentrarsi definendo un grumo indefinito e vivo. Dentro questo disegno c’è forse il senso dello spazio universale portato alla luce dallo spirito nell’epoca della Modernità12.

Gli schizzi sembrano affermare il principio di reciproca necessità delle due ragioni prime dell’architettura di Mies che coesistono e si combinano tra loro. La Grande Forma – Großeform – assetto definitivo di un nuovo mondo che si fissa una volta per tutte, esito coerente dello spirito del tempo, trasfigurazione architettonica della tecnica, è l’esito di uno sviluppo dinamico dell’essenza delle cose. Questo punto di arrivo è quindi una forma fissa che sembra però non voler perdere la propria spinta generativa, uno spazio assoluto che grazie al processo che lo ha determinato si predispone all’attesa per la vita che potrà ospitare. Forma fissa e forma formante sembrano coesistere. La Gestaltung sembra essere diventata vita. La Grande Forma lo sfondo che l’attende.

Da dove viene l’apparente contraddizione della compresenza dei due concetti in teoria alternativi con cui la lingua tedesca pensa il concetto di forma, quello immobile di Form, normalmente utilizzato per le nature morte e quello vivo e fertile della Gestaltung, tipico dei processi di configurazione anche dell’architettura, che sono, entrambi, continuamente intrecciati nel pensiero progettuale di Mies?

LA VITA DI DENTRO

Klee, Rilke, Guardini, Mies

Apartire dall’approccio culturale che contempera resistenza culturale e necessità di rinnovamento si diffonde nei circuiti culturali e artistici dei primi anni del Secolo nel centro dell’Europa una nuova sensibilità che rovescia le convinzioni, riordina le priorità e modifica le visioni del mondo. Filosofia, poesia, letteratura, arte sono strettamente legate in un intreccio che riporta tutto nella sfera di un fluido sensibile in cui immergersi95.

C’è una connessione di grande interesse ancora tutta da esplorare che emerge sullo sfondo del rapporto tra Klee e Mies come una linea resistente, sottilmente ma solidamente legata all’esperienza fenomenologica di Hussler, come filo conduttore di orientamento delle sensibilità e di avvicinamento degli approcci. Penso al ruolo di sismografo delle scosse, di chiave di lettura delle dinamiche in corso e di innesco di riflessioni che svolge il poeta Rainer Maria Rilke su entrambi attraverso rapporti diretti con l’uno, mediati e interpretati da Romano Guardini con l’altro. Queste relazioni sono state di recente in parte tratteggiate attraverso la ricostruzione di alcuni momenti di contatto che si susseguono dal 1915 agli anni Venti96. Il rapporto tra Rilke e Klee è diretto e personale e vede alcune occasioni di condivisione.

La prima è testimoniata da un prestito di acquerelli dell’artista al poeta che diventano per lui un centro di attrazione e di stimolo. Rilke sottolinea il fascino magnetico delle opere: «Durante gli anni della guerra, nel 1915, Klee mi portò sessanta delle sue composizioni a colori e io ebbi modo di tenerle a casa per mesi: mi attiravano e occupavano la mia attenzione»97. Klee, di converso, afferma nei Diari di aver guardato i lavori di Rilke e di aver trovato una grande affinità, con direzioni di ricerca differenti e con uno scarto culturale sulla modernità. Ricordando la riconsegna degli acquerelli, ripensa al grande piacere di vederlo e svolge un confronto tra loro che li avvicina e, al tempo stesso, li distanzia: «Dopo di ciò ho sfogliato il Libro delle immagini e I Quaderni di L. Brigge. La sua sensibilità mi è assai vicina, soltanto che io penetro più in profondità, mentre egli va vagando a fior di pelle». Distingue il suo approccio – È ancora impressionista – che considera artisticamente superato al proprio ormai stabilmente orientato sui grandi temi dell’arte moderna: alla grafica e al campo coloristico. Collega forse a questo vagare in superficie il suo tenere così tanto all’eleganza esteriore (959). La seconda li vede vivere vicinissimi. Nel 1918, dopo aver entrambi servito l’esercito durante la prima guerra, si trasferiscono tutti e due al numero 34 di Ainmillerstrasse a Monaco. La vicinanza fisica porta certamente a una frequenza maggiore, a un accrescimento della sintonia e a una ovvia dinamica di contaminazione. La confidenza tra Rilke e la famiglia Klee deve essere stata alta se a lui l’artista dedicherà una marionetta, tra le altre realizzate per giocare con Felix, che lo ritrae come Poeta coronato nel 191998. Rilke ricambierà salvando, tra le avanguardie, solo Picasso e Klee

La vita di dentro

P. Klee, Ohne Titel (Selbstportrait) (Senza titolo [Autoritratto]), 1922. Burattino, 38 cm.

Zentrum Paul Klee, Berna, Donazione di Livia Klee.
Zentrum Paul Klee, Berna, Archivio immagini.
La vita di dentro

P. Klee, Ohne Titel (Gekrönter Dichter) (Senza titolo [Poeta incoronato]), 1919. Burattino, 35 cm.

Zentrum Paul Klee, Berna, Donazione di Livia Klee.

Zentrum Paul Klee, Berna, Archivio immagini.

La vita di dentro

I WAS INTERE STED IN WORK OF ARCHI TECTURE

Mies lascia molti indizi della sua predilezione per Klee e lascia intuire una passione storica precisamente finalizzata che si amplifica nel periodo americano.

Jean-Louis Cohen ricorda che il trasferimento negli Stati Uniti legato alla nomina di Direttore dell’Armour Institute del 1938 lo vede addirittura dormire sui dipinti, tenersi vicino le opere d’arte in suo possesso, quasi per proteggerle e farsi proteggere al tempo stesso: «Durante i primi mesi, Mies risiede al Blackstone Hotel, con le sue tele di Klee sistemate sotto il letto»139.

Il rapporto personale con l’artista rimasto in Europa era ancora forte se il mercante d’arte berlinese Karl Nierendorf, anch’esso appena emigrato oltre oceano, gli chiede una iniziale intercessione diretta con Klee per ottenere l’esclusiva del mercato americano140.

In ogni caso Mies si fa accompagnare e sostenere dalle tele di Klee nell’esilio dalla Germania nazista attraverso alcune opere che acquisisce e che possiamo interpretare come àncora concettuale e affettiva alla sua provenienza culturale.

Come noto i quadri di Klee compaiono nei collages di presentazione dei progetti. Sempre nel 1938, al suo arrivo negli Stati Uniti, quello per la famiglia Resor pone un chiaro riferimento all’artista al centro della sua architettura.

Francesco Dal Co ha di recente sottolineato la lunga durata e il valore fondativo dell’immersione iniziale di Mies nell’avanguardia artistica del Movimento Moderno rintracciandone una conferma chiara nella retorica del montaggio messa a punto a Berlino negli anni fondativi e declinata per tutta la vita nell’utilizzo dei collages con gli allievi del Bauhaus divenuti collaboratori in terra americana141. Il mantenimento nel tempo di questa modalità di descrizione del progetto non è solo una tecnica grafica ma una precisa scelta di campo142.

La riflessione sul montaggio del quadro di Klee Bunte Mahlzeit del 1928 nel progetto per la famiglia Resor (che lo acquisirà per la propria casa) – «la fotografia dilatata del dipinto di Klee dichiarava l’alterità degli intrinseci valori dello spazio che Mies avrebbe voluto costruire»143 – è allora rivelatrice anche del rapporto tra l’opera ingrandita e l’impaginato dell’interno. Il quadro portato fuori scala e indagato nello spessore interno dello spazio su cui galleggiano le figure allontanate sembra costituire una matrice onirica della logica di combinazione degli elementi. La composizione fissa un equilibrio stabile e asimmetrico nel collage che evoca lo spazio architettonico grazie alla studiata alternanza tra la pienezza orizzontale delle immagini, dei materiali e dei paesaggi e alla presenza verticale dei sostegni. Possiamo quindi forse interpretare la riproduzione dilatata del quadro come un rimando concettuale e un riferimento all’atteggiamento compositivo di articolazione dello spazio racchiuso. Analoga logica di deformazione e adattamento è seguita nel collage per Row House with Interior Court Project realizzato dopo il 1938. Il quadro

L. Mies van der Rohe, Progetto per Casa Resor (Jackson Hole, Wyoming). Prospettiva del soggiorno vista dalla vetrata sud. 1937-41 (non realizzato). Grafite e collage di rivestimento ligneo e riproduzione stampata e fotografia su cartoncino, cm. 76,1x101,5.

Museum of Modern Art (MoMA), New York, USA, Mies van der Rohe Archive, dono dell’architetto. Inv. n. 716.196. 2025© Digital image, The Museum of Modern Art, New York/Scala, Firenze. © Ludwig Mies Van Der Rohe, by SIAE.

P. Klee, Bunte Mahlzeit (Pasto colorato), 1928. Olio e acquerello su tela, 84 x 67 cm.
Collezione privata, USA. Zentrum Paul Klee, Berna, Archivio n. 29.

DARIO COSTI

L. Mies van der Rohe, Collage di riproduzioni tagliate e incollate (“Figura in piedi” di Wilhelm Lembruck’s, 1919, e di un dipinto non identificato). Collage su cartoncino, 76,1 x 101,5 cm.

Il dipinto "non identificato" è P. Klee, Regentag (Giorno di pioggia), 1931, documentato qui a fianco. L’autore desidera ringraziare il Zentrum Paul Klee per l’indicazione.

The Mies van der Rohe Archive, gift of the architect. Acc. n. 690.1963, Museum of Modern Art (MoMA), New York, USA. 2025© Digital image, The Museum of Modern Art, New York/Scala, Firenze. © Ludwig Mies Van Der Rohe, by SIAE.

P. Klee, Regentag (Giorno di pioggia), 1931. Acquerello su cartone, 20,5 x 38,5 cm.
Collezione privata.
Zentrum Paul Klee, Berna, Archivio n. 150.

LA COLLEZIONE DI MIES

Mies osserva un'esposizione di quadri, tra cui il suo Klee, Rückfall einer Bekehrten (Ricaduta di una convertita), 1939.

© Ludwig Mies Van Der Rohe, by SIAE.

La collezione di Mies

P. Klee, Modell 106 (erweitertes) in farbiger Polyphonie (Modello 106 (esteso) in polifonia colorata), 1931.

Acquerello e matita su carta, 45,5 x 63 cm.

Collezione privata, Svizzera. Zentrum Paul Klee, Berna, Archivio. ID 13323, n. 198. Acquisito nel 1939.

P. Klee, Maske Motte (Falena mascherata), 1933. Colore in pasta su carta su cartone, 42,6 x 32 cm.

Museum Ulm.

Immagine presa dal catalogo dello Zentrum Paul Klee, Berna. ID 10337, n. 290.

Acquisito nel 1939.

P. Klee, Umfangen (Abbraccio), 1932. Olio e sabbia su tela, 83,4 x 67,3 cm.

Nationalgalerie, Staatliche Museen zu Berlin, Germania. 2025© Foto Scala, Firenze/bpk, Bildagentur für Kunst, Kultur und Geschichte, Berlino. Photographer, Jörg P. Anders. Acquisito nel 1941.

La collezione di Mies

NON MI IMPOR TA COSA CI DIPINGI

[…] una volta chiesi a Klee un grande quadro da un lato bianco e dall’altro nero e gli dissi: “Non mi importa cosa ci dipingi”.

Ludwig Mies van der Rohe, 1955

Scrivere una Postfazione a uno studio come Mies e Klee, vergato da un amico di lunga data, di cui si condividono molte premesse e, persino, alcune conseguenze è molto stimolante e assieme difficile. Mi sento nella stessa situazione, in un gioco di rimandi, in cui si trovò Roberto Masiero nello stendere la Postfazione a un testo fondamentale del suo amico Vittorio Ugo – I luoghi di Dedalo – apparso nel 1991 per i tipi Dedalo. Masiero, infatti, scrive in apertura: «Capita di rado, ma capita, di trovarsi a leggere un libro che avremmo voluto scrivere noi. […] Ciò che non siamo riusciti a essere si dimostra possibile». Nove anni dopo Masiero – dopo aver promesso, in chiusura di quella bella Postfazione che avrebbe scritto a parti invertite un libro sullo stesso problema – con Umberto Barbisan, per Franco Angeli pubblica un saggio con un titolo – Il labirinto di Dedalo – che sembra quasi una parafrasi di quello ughiano, forse una critica o, piuttosto, un modo diverso di ri-guardare lo stesso argomento, lo stesso campo denso. Se il lavoro di Ugo si fondava sull’identificazione di alcuni archetipi fondamentali e sulla dimensione teorica dell’architettura, quello di Masiero-Barbisan spostava l’attenzione della teoresi sul ruolo ineliminabile della costruzione. Forse anch’io, potrei scrivere, tra qualche anno, un Klee und/mit Mies invertendo la sequenza proprio per provare a vedere, a ri-presentare certamente da un punto di vista più centrato sul maestro di Aachen, le liaisons fertili intessute con il maestro di Münchenbuchsee e, più in generale, con l’arte moderna e l’avanguardia. Sarebbe un saggio, forse non breve, centrato soprattutto attorno alle non concordanze su quanto sostiene qui Dario Costi, cui anch’io affiderò la Postfazione, ma anche adoperando un modo diverso – forse meno lirico e più analitico – di indagare i due maestri, il portato della loro opera, il significato e il valore operante che ha ancora per noi oggi. Intanto, quattro anni fa, in uno degli ultimi lavori monografici che ho dedicato al prediletto Mies americano – Lo spazio universale di Mies per Letteraventidue – in attesa di quanto oggi mi trovo a commentare e a mettere in questione, segnalavo e preannunciavo in una nota: «Sul rapporto tra Mies e Klee segnalo i contributi di Dario Costi che è in procinto di pubblicare un saggio in cui vengono indagati i sottili nessi tra i modi di operare di questi due grandi maestri». Negli ultimi anni l’attenzione sul pensiero laconico ma profondo di Mies e lo scandaglio delle sue opere sono stati rialimentati da numerosissimi lavori di cui alcuni, non molti, assai rilevanti e questo studio si inscrive perfettamente in questa teoria di riflessioni. Lo fa su due piani, quello

Non mi importa cosa ci dipingi

Il libro esplora il legame tra Paul Klee e Ludwig Mies van der Rohe, nella consapevolezza di come le loro opere e il loro modo di pensare abbiano influenzato la cultura artistica e architettonica della modernità. Artista e architetto, nelle loro rispettive discipline, si confrontano in una fase storica in cui tutte le arti si interrogavano sui loro statuti, influenzandosi reciprocamente. Come noto Mies ha spesso evocato Klee nelle sue opere in numerosi collage, dimostrando una connessione profonda che trascendeva il semplice interesse del collezionista.

L’indagine comparativa tra Klee e Mies esplora le risonanze tra i due come interpreti autentici del loro tempo – implacabili, come diceva Benjamin – con uno sguardo sulla modernità che include profondità storica, giudizio critico e dimensione spirituale. Le opere di Mies sono analizzate come composizione di elementi di un insieme poetico dove l’architettura, in dialogo con l’arte, libera la parete dal semplice fatto costruttivo elevandola al ruolo di piano concettuale.

La ricerca condotta in questo libro, supportata dall’analisi delle lettere personali e documentata con inediti materiali dell’archivio del Klee Zentrum, presenta per la prima volta tutti i 26 quadri posseduti da Mies impaginati in ordine di acquisizione e presenta continui rimandi tra le opere architettoniche e il lavoro artistico. Il testo propone una lettura dell’opera di Mies che va oltre le interpretazioni storico-critiche consolidate, suggerendone un’integrazione di significati.

ISBN 978-88-6242-986-3 € 25 www.letteraventidue.com

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