ABITARE IL CARCERE

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PREFAZIONE

Saverio Migliori

PREMESSA

DEFINIZIONE E PRASSI

DEI TERMINI

Carcere

Dignità

Spazio

Tempo

LO SPAZIO DELLA DETENZIONE

NELLA STORIA

Il carcere come custodia: dagli albori al Medioevo

Il carcere nella trattatistica rinascimentale

Genesi e autonomia del carcere

Il carcere nell’Età dei Lumi: umanizzazione e ispezione

La scienza delle prigioni: modelli detentivi e tipologie architettoniche

IL CARCERE IN ITALIA

La Riforma dell’O.P. e l’edilizia carceraria degli anni Ottanta

Il carcere e la città: la lezione di Giovanni Michelucci

Il nuovo millennio: il Regolamento di esecuzione dell’O.P. e le iniziative del DAP

Sovraffollamento e crisi del sistema carcere: la sentenza Torreggiani

UMANIZZARE GLI SPAZI

DEL CARCERE

Diritti e bisogni negli spazi del carcere

Le commissioni ministeriali

Carcere e università: prove di umanizzazione

Ripensare la camera di pernottamento

Gli spazi per l’affettività

OSSERVARE OLTRE IL MURO DENTRO GLI SPAZI

Seconda Casa di Reclusione di Milano-Bollate

Casa Circondariale “Francesco di Cataldo”, Milano

Nuovo Complesso Penitenziario di Sollicciano, Firenze

Casa Circondariale “Regina Coeli”, Roma

Casa di Reclusione “San Michele”, Alessandria

Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno”, Torino

RIFLETTERE PER RIABILITARE

GLI SPAZI DEL CARCERE

Quale prospettiva per gli spazi?

Spazi a misura di uomo e di donna

APPARATI

Bibliografia

Sitografia

Fonti delle immagini

PREFAZIONE

Saverio Migliori

Area Carcere e Giustizia

Fondazione Giovanni Michelucci

Tra i molti ed interessanti quesiti che questo lavoro si pone ne emerge uno in particolare che si domanda come sia possibile riabilitare una persona detenuta senza riabilitare lo spazio che la circonda. Si tratta di un quesito direttamente connesso col tema generale dell’opera che riflette sull’“abitare il carcere” e specificamente sull’abitare gli spazi della quotidianità detentiva. La domanda riecheggia peraltro alcuni dei punti interrogativi che nel 2014 si era posto anche Alessandro Margara1, il quale, riflettendo sullo stato delle politiche penali e penitenziarie italiane, si chiedeva: «Perché le condizioni delle carceri peggiorano progressivamente, producendo sovraffollamento, a sua volta causa di degrado, così che il lavoro, la scuola e le altre attività che dovrebbero rendere attiva la vita nel carcere non sono più realizzabili?». Ed ancora: «Perché, col sovraffollamento,

aumentano le ore di permanenza in celle sovraffollate dei detenuti, costretti all’ozio in periodi giornalieri di circa venti ore? Perché aumentano i suicidi e le morti in cella?»

1. A. Margara, “Punti interrogativi”, in Corleone F. (a cura di), Alessandro Margara. La giustizia e il senso di umanità, Fondazione Giovanni Michelucci Press, Fiesole, 2015, pp. 441-442.

Margara si poneva queste domande provocatoriamente all’interno di un complesso di quesiti più articolato e finalizzato a far emergere la sostanziale deriva delle politiche penal-penitenziarie volte a produrre sicurezza per mezzo di un sempre più ampio e mero ricorso all’internamento carcerario, ma anche le precarie condizioni detentive che caratterizzavano il sistema carcerario. Queste domande, riproposte nell’oggi, sono di un’attualità sconvolgente considerando la drammaticità delle condizioni carcerarie odierne, sottoposte ad una forte pressione sul piano del sovraffollamento, alla crescita esponenziale dei cosiddetti eventi critici, primi tra tutti i suicidi, al progressivo deperimento del patrimonio edilizio penitenziario e, quindi, ad un gravissimo peggioramento degli spazi penitenziari. È oltremodo importante porsi questi interrogativi nell’anno – il 2025 – in cui si celebra il cinquantennale dall’Ordinamento penitenziario, legge di riforma del sistema penitenziario.

A fronte di una legge lungimirante, ulteriormente rafforzata sul piano della finalità rieducativa della pena e della flessibilità dell’esecuzione penale dalla Legge Gozzini del 1986 e dal Nuovo Regolamento di esecuzione dell’Ordinamento penitenziario del 2000, le prassi penitenziarie sono rimaste altre, la fattualità del carcere ha disatteso in buona parte i principi normativi, tant’è che lo stesso Margara nel 2004 significava la distanza tra la norma, ancora valida e solida in molte sue parti, e la sua applicazione, ben distante o addirittura contraria alle previsioni normative, parlando di «carcere della legge e di carcere che c’è»2!.

Quale prospettiva, dunque, per “riabilitare” gli spazi? Il volume ci mette dinanzi a varie interessanti riflessioni che, partendo da una ricostruzione storica attenta e da un’osservazione puntuale di diverse realtà penitenziarie, muovono soluzioni e riconducono alla necessità di una visione rinnovata e lungimirante.

In via generale, lo spazio di vita in carcere deve essere sottoposto ad un processo deflattivo finalizzato a ridurre il sovraffollamento, fenomeno che rende oggi invivibili le strutture carcerarie, riducendo le risorse professionali ed economiche

già insufficienti e condizionando ogni sforzo formativo e volto ad un efficace reinserimento sociale della persona detenuta. Il sovraffollamento, insieme alla mancanza di risorse adeguate, ed allo stato delle strutture penitenziarie, è elemento che mina i più elementari principi di dignità della persona.

Appare altresì necessario tornare a parlare di architettura, abbandonando il concetto di edilizia penitenziaria, che pare dominare le scelte dell’Amministrazione penitenziaria. In questa prospettiva la riflessione sullo spazio carcerario potrà allora superare la mera applicazione degli standard dell’edilizia carceraria, soffermandosi sulla decostruzione dei processi di afflittività ed isolamento e cogliendo la persona in rapporto col proprio corpo, col proprio tempo, con i propri affetti e le proprie potenzialità e, non ultimo, con le proprie capacità di costruire relazioni.

2. A. Margara, “Il carcere della legge e il carcere che c’è: tendenze, possibili derive, senso delle attività trattamentali”, in Migliori S., Lo studio e la pena. L’Università di Firenze nel carcere di Prato: rapporto triennale 2000-2003, Firenze University Press, 2004, pp. 5-23.

La restituzione di spazi di quotidianità adeguati alla persona detenuta, non soggetti al sovraffollamento, progettati secondo un pensiero decarcerizzato e quanto più ordinario possibile, può rappresentare non solo un generatore di nuove condizioni di vita, maggiormente dignitose per la persona, ma può divenire motore formativo, opportunità di crescita e di potenziamento del sé, possibilità di operare con maggiore libertà scelte per se stessi, scelte per autodeterminarsi, superando il rischio di desocializzazione ed infantilizzazione che gli spazi carcerari continuano a rafforzare.

→ IL CARCERE COME CUSTODIA: DAGLI ALBORI AL MEDIOEVO

I reati e i crimini sono sempre esistiti, le pene inflitte anche, variabili a seconda delle epoche storiche, ma il concetto di carcere come luogo di reclusione dove scontare la pena, così come lo intendiamo oggigiorno, è invece di acquisizione recente. Pena e carcere sono stati quindi per molto tempo due concetti a sé stanti: il carcere come spazio detentivo nacque intorno all’ascesa capitalistica, prima di allora l’internamento non era sinonimo di privazione della libertà personale. Esso infatti era solo una delle sette strategie punitive che venivano utilizzate per correggere i comportamenti non rispondenti al corretto vivere dell’uomo nella società, come individuato da Norman Johnston: morte, pene corporali, disonore, lavori forzati, sanzioni pecuniarie, esilio1. Nell’antichità non essendo quindi centrale la privazione della libertà come forma di punizione inflitta, ne consegue l’impossibilità di individuare una tipologia edilizia carceraria specifica dove trattenere i colpevoli: tali luoghi erano improvvisati2

Con il diritto romano si iniziarono a distinguere tra pene private e pene pubbliche: se le prime erano per lo più pecuniarie e il trasgressore veniva punito pagando il giusto risarcimento a chi aveva offeso a seguito di un processo civile, le seconde venivano commutate a seguito di processo penale in pene per lo più corporee. In questa epoca il carcere era ricavato all’interno di strutture esistenti destinate

1. N. Johnston, Form of constraint. A History of Prison Architecture. University of Illinois Press, Champaign, 2000, p. 5.

2. Ibidem

punto di vista architettonico l’edificio consisteva «nell’abbinamento di due contenitori coassiali, a più piani, con funzioni opposte complementari49: le celle, collocate lungo la circonferenza, dovevano rispondere ai requisiti di «detenzione, reclusione, isolamento, lavori forzati e istruzione»50, al centro la residenza dell’ispettore, tra la circonferenza e il centro un’area intermedia. La cella, di tipo singolo, era dotata sul perimetro esterno di una finestra per l’ingresso della luce, sul ballatoio di un affaccio mediante una grata in ferro, tale da non impedire il controllo visivo dei sorveglianti, contenente il cancello: i prigionieri non potevano vedersi in quanto le pareti divisorie si prolungavano oltre la grata. Era preferibile che le celle fossero scaldate, dal momento che il lavoro svolto all’interno era sedentario, utilizzando il sistema con tubazioni a vista già in uso nelle serre. La torre di osservazione necessitava di ampie finestre per osservare i detenuti e nello stesso tempo di elementi, tipo persiane, che impedissero ai carcerati di vedere all’interno e di porte con affaccio sull’area intermedia per poter comunicare più agevolmente con le celle51. Come scrisse Renzo Dubbini, il Panopticon rappresentò «il modello di reclusione che meglio di qualsiasi altro segna la trasformazione della prigione da monumento a macchina»52, dove l’uomo attraverso l’isolamento, il lavoro, il controllo diventava sempre più un suo ingranaggio. Foucault scrisse ancora a proposito dell’istituzione: «è una macchina per dissociare la coppia vedere-essere visti: nell’anello periferico si è totalmente visti, senza mai vedere; nella torre centrale, si vede tutto senza mai essere visti»53: appare evidente come il controllo sull’individuo recluso fosse totale, intimidatorio e incessante. Ancora Dubbini parlò di «perfezionamento tecnico delle possibilità offerte dalla gabbia»54: l’architettura dello spazio come congegnata nella proposta dei Bentham non necessitava di mezzi brutali per far sentire il suo potere. Il modello panottico, si è detto poco sopra, non venne mai realizzato; tuttavia è possibile ritrovare alcune caratteristiche di tale impianto nel carcere di Santo Stefano a Ventotene. Disegnato da Francesco Carpi tra il 1792 e il 1793 con impianto a ferro di cavallo, presentava tre file (l’ultima fu aggiunta nel corso della costruzione) di celle a

49. V. Comoli, Il carcere per la società del Sette-Ottocento. Centro Studi Piemontesi, Torino, 1974, p. 36.

50. J. Bentham, Panopticon ovvero la casa di ispezione. Marsilio Editori, Venezia, 2009, p.37.

51. Ivi, pp.37-38.

52. R. Dubbini, op. cit., p. 32.

53. M. Foucault, op. cit. p. 220.

54. R. Dubbini, op. cit., p. 34.

6 → Casa di Forza, Gand, 1775; sezione e pianta.

tre/quattro posti con affaccio su corridoio lungo il perimetro interno; ogni piano era destinato ad una tipologia di detenuti, a piano terreno quelli che necessitavano maggior controllo, a primo piano e parte del secondo detenuti meno problematici, mentre le celle rimanente dell’ultimo livello erano destinate ad infermeria. Nel cortile interno al centro era collocata una cappella (che fungeva anche da posto di controllo) per le cerimonie religiose a cui i detenuti assistevano dalle loro celle attraverso lo spioncino della porta; il cortile, delimitato da una palificata rispetto al blocco detentivo, fungeva da spazio all’aperto per i reclusi. Le funzioni amministrative e di servizio erano ubicate in un edificio a pianta rettangolare alla base del ferro di cavallo55.

Come sottolineò Vera Comoli56, il termine Panopticon fu usato successivamente per indicare la tipologia a pianta stellare o a raggiera, derivata anch’essa dall’architettura ospedaliera: presentava un fulcro centrale adibito a controllo e servizi attorno a cui erano incernierati i corpi edilizi destinati alle celle; i bracci di detenzione con doppia

55. A. Parente, op. cit., pp. 83-85.

56. V. Comoli, op. cit. p. 38.

Fig.

liberamente fornendo configurazioni spaziali differenti. La cucina-refettorio si configura nel pieno rispetto del Regolamento del 2000 come luogo dove preparare e consumare i pasti convivialmente. Come a Poggioreale il corridoio diventa un luogo dove sostare e non solo da percorrere: sedute e tavoli consentono lettura, scrittura e gioco in un ambiente dove le forme colorate (anche con l’aiuto delle detenute) sulle pareti imprimono dinamicità [Fig. 4]

DAStU – Dipartimento di Architettura e Studi Urbani – Politecnico di Milano

Le attività sportive fanno parte a tutti gli effetti degli elementi del trattamento rieducativo dei detenuti al pari di attività culturali e ricreative, istruzione, lavoro e religione così come i contatti con il mondo esterno e il mantenimento degli affetti familiari: è l’art. 15 dell’O.P. a sottolinearlo. L’attività fisica contribuisce alla salute del corpo, abbassa la tensione muscolare, aiuta a distrarsi, a diminuire lo stress e l’ansia: produce quindi effetti positivi sia a livello fisico che mentale. Lo sport favorisce inoltre lo stare insieme ed è quindi un’opportunità di inclusione e coesione sociale: puntando su questo assunto è nato il progetto ACTS80, acronimo di A Chance Through Sport. Il progetto di inclusione passa ovviamente attraverso la riqualificazione di spazi interni ed esterni, affinché siano effettivamente rispondenti alla funzione che devono assolvere da parte degli utilizzatori finali [Fig. 5]. L’attuazione del progetto è stata articolata attraverso step alle diverse scale di intervento81. Il primo intervento ha interessato la sezione femminile della C.R. di Bollate attraverso un processo di autocostruzione operata con una rappresentanza di detenute: lungo il corridoio che conduce ai passeggi una grafica a parete e a pavimento di colore blu promuove l’attività fisica del camminare sottolineandone i benefici; al secondo e terzo piano sono state realizzate postazioni per attività dolci attrezzate con tre barre tubolari ad altezze differenti, gancio per elastici e pannello indicante come eseguire gli esercizi correttamente; infine una parte del locale stireria è stata allestita con due attrezzi a parete per il potenziamento muscolare. Si è sviluppata quindi l’idea di una palestra diffusa in varie parti del 80. Il progetto è risultato vincitore di un concorso bandito da Polisocial, struttura del Politecnico di Milano che mirava a creare una forte sinergia tra il sapere universitario e tematiche sociali. Referente scientifico del progetto prof. Andrea Di Franco; sono stati inoltre coinvolti il Dipartimento di Design della Comunicazione e il Dipartimento di Elettronica, Informazione e Bioingegneria. 81. https://www.acts.polimi.it/

sezione Orchidea della C.C. femminile di Rebibbia a Roma.

padiglione detentivo. La grafica di colore blu definisce l’identità dello spazio fisico informale delle nuove aree deputate all’allenamento fisico, nella logica anche di porsi come elemento di riconoscibilità e attrazione per le detenute nei diversi momenti della giornata. Un secondo intervento ha riguardato il terzo padiglione del reparto maschile e anche in questo ambito alcuni detenuti hanno preso parte alle lavorazioni: attraverso l’apertura di due varchi nel muro di separazione tra due cortili di passeggio è stato creato un anello per la corsa della lunghezza di 125 metri rivestito da idonea pavimentazione. I varchi hanno una forte carica simbolica: rappresentano un momento di porosità tra spazi generalmente chiusi che aiutano a scardinare il concetto di separazione come elemento generatore dell’organizzazione del carcere. Sono inoltre stati pavimentati con idonea resina un cortile di passeggio della sezione femminile e uno del settimo reparto, rispettivamente utilizzabili per volley e basket, dando ai reclusi la possibilità di praticare più discipline sportive, di vivere appieno uno degli spazi di relazione che devono essere previsti all’interno delle strutture penitenziarie che, come sostiene Di Franco, svolgono la funzione di riavvicinare i detenuti al mondo civile in termini costruttivi82.

82. A. Di Franco, P. Bozzuto (a cura di), Lo spazio di relazione nel carcere. Una riflessione progettuale a partire dai casi milanesi. LetteraVentidue. Siracusa, 2020, pp. 46-47.

Fig. 4 → DiAP - Dipartimento di Architettura e Progetto, Sapienza Università di Roma; corridoio (a sinistra), sala socialità (a destra) nella

→ SECONDA CASA DI RECLUSIONE DI MILANO-BOLLATE

La Seconda Casa di Reclusione di Milano-Bollate venne inaugurata nel dicembre del 2000 come istituto a custodia attenuata per detenuti comuni che mira alla graduale inclusione sociale dei detenuti attraverso il coinvolgimento del territorio: i detenuti arrivano a Bollate a seguito di una richiesta che segna l’inizio di una loro predisposizione al cambiamento. Il complesso è ubicato nella periferia milanese, precisamente nel comune di Baranzate, in un’area caratterizzata da un’alta densità di imprese e servizi tra cui spicca l’ospedale Galeazzi Sant’Ambrogio e il costruendo polo universitario sull’ex area Expo 2015. Il complesso è facilmente raggiungibile con l’auto e con un mezzo pubblico dalla stazione ferroviaria e metropolitana di Rho Fiera.

Come messo in evidenza dal direttore, Giorgio Leggieri, questo istituto che riconosce tutti i diritti compatibili con la privazione della libertà, rappresenta una struttura modello all’interno del sistema carcerario italiano perché è l’espressione concreta dell’art. 27 comma 3 della Costituzione e dei principi contenuti nell’O.P.; il termine modello non deve essere tuttavia inteso come sinonimo di straordinario o all’avanguardia, ma semplicemente come rispettoso della normativa esistente. In questo luogo il concetto di separazione tra gli spazi per la notte e quelli diurni per lo svolgimento della vita detentiva è assicurato: le camere vengono utilizzate esclusivamente per dormire e durante il giorno si abitano altri spazi della casa carceraria, dove si studia, si lavora, si trascorre il tempo libero, si partecipa all’organizzazione della vita dell’istituto e delle attività a supporto dei detenuti più deboli avviando un processo di responsabilizzazione. Il sistema di sicurezza è basato sulla conoscenza e sull’osservazione dei detenuti da parte degli agenti e degli operatori di tutte le aree dell’istituto: ai detenuti è concessa una graduale autonomia e libertà di movimento negli spazi del complesso per spostarsi nei luoghi di studio, di lavoro e del tempo libero, eliminando il sistema di accompagnamento che rappresenta un modo infantile di considerazione dei reclusi.

L’interazione con la comunità esterna in tutte le sue declinazioni, dalle istituzioni pubbliche all’imprenditoria, dal terzo settore al volontariato, è indispensabile per poter programmare interventi efficaci di reinserimento dei detenuti nella società: la ricerca e l’offerta delle attività trattamentali rappresenta la progettualità nel presente che il carcere mette a disposizione per il futuro dei reclusi. Il carcere di

Seconda Casa di Reclusione di Milano-Bollate

Attività lavorative

Attività ricreative

→ CASA DI RECLUSIONE “SAN MICHELE”, ALESSANDRIA

Costruita negli anni Ottanta del secolo scorso, la C.R. è operativa dal 1992: dal 2017 la direzione dell’istituto è stata unificata con quella della C.C. Don Soria ubicata nel centro di Alessandria. Il complesso si trova in aperta campagna, agevolmente raggiungibile in auto, ma non è collegato da mezzi pubblici alla città di Alessandria; occorre servirsi di un servizio di autolinea a chiamata.

Una recinzione metallica cinge il complesso demaniale definendo una fascia perimetrale verde lungo la quale è stato realizzato un luppoleto, un progetto sperimentale per coltivazione del luppolo e la produzione di birra agricola che potrebbe ingrandirsi utilizzando parte dell’ampia fascia di terreno ancora a disposizione nell’intercinta dove si coltiva già la lavanda e dove si pratica l’apicoltura per la produzione di miele; sul lato prospiciente la strada provinciale sono ricavati l’area a parcheggio sia per i dipendenti che i visitatori e un campo polivalente a disposizione del personale penitenziario. Una seconda recinzione metallica contiene la block house e delimita l’area su cui insistono il fabbricato degli alloggi demaniali, gli uffici della direzione e dell’amministrazione con la portineria, la caserma per gli agenti, il nucleo traduzioni della PP, la centrale termica e l’edificio destinato ai detenuti semiliberi e quelli in art. 21 O.P.; tutti gli edifici sono a due piani fuori terra e sono caratterizzati da un rivestimento a pannelli di calcestruzzo di colore verde, la caserma è invece a cinque piani e presenta uno zoccolo del medesimo colore, mentre i piani destinati agli alloggi hanno un rivestimento a pannelli di tonalità più chiara. Attraverso la portineria si accede al carcere vero e proprio delimitato dal muro in calcestruzzo armato, varcato il quale ci si trova di fronte ad edifici a diversa altezza a copertura piana rivistiti con pannelli di tre diverse tonalità di verde, la cui presenza è in parte mitigata dalla presenza di alberi e coltivazioni. L’edificio più vicino all’ingresso è il fabbricato adibito a colloqui con le famiglie preceduto da uno spazio ludico con pavimentazione anti-shock attrezzato per i bambini e uno spazio coperto per i colloqui all’aperto arredato con tavoli e panche in legno prodotti all’interno della falegnameria del carcere. I familiari in visita ai detenuti accedono attraverso un percorso che inizia in una saletta a fianco della portineria, dalle pareti turchine con ampie vetrate che si aprono lungo il porticato prospiciente il parcheggio, che prosegue in un ambiente che, grazie alle pitture murali e a soffitto, simula un

Casa di Reclusione “San Michele”, Alessandria

Seconda Casa di Reclusione di Milano - Bollate

Vista del complesso dalla caserma agenti
Dettaglio facciata della caserma agenti
Interno del ristorante InGalera
Padiglione “traccia di libertà”
Spazio di relazione coperto nell’area verde
Accesso all’area detentiva

Nuovo Complesso Penitenziario di Sollicciano - Firenze

Corridoio di accesso alle sale colloqui
Sala colloqui con famiglie
Muro di cinta in corrispondenza del reparto B
Collegamento aereo tra fabbricati
Vista interna del Giardino degli Incontri
Reparto B giudiziario

Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino

Viale di accesso
Arredi camere
Soggiorno
Block house
Cucina e lavanderia
Area gioco e TV
Palazzina I.C.A.M.
Area esterna
Area colloqui con avvocati ed educatrici

Fig. 5 → Proposta organizzativa e di arredo per la sala colloqui con familiari.

formale come quello con genitori e/o fratelli e sorelle, tavolini bassi con divanetti dove poter stare seduti fianco a fianco come in un soggiorno di casa sono più appropriati per cercare di mantenere vivo un rapporto di coppia, pouf e sedute non convenzionali quando invece il colloquio avviene in presenza di figli minori, dove l’informalità spesso rende meno traumatica l’inospitalità degli ambienti e meno difficile anche il momento del distacco a colloquio terminato19. In particolare le aree dedicate al colloquio con i minori potrebbero essere dotate di strutture, semitrasparenti per consentire il controllo, che nel disegno in qualche modo ricordino loro l’idea di casa20 [Fig. 5]. Gli arredi possono quindi conferire allo spazio un carattere eterogeneo, a cui concorre anche l’uso dei colori: la scelta di colori caldi inoltre amplifica il senso di accoglienza e di domesticità, così come l’uso di colori brillanti aumentano e stimolano i minori.

19. La circolare DAP n. 3693/6143 del 18/07/2022 rimarca la necessità di organizzare sale di attesa a misura di bambino e ludoteche attrezzate che meglio si prestano all’incontro con il genitore detenuto di un locale promiscuo, pp. 10-11.

20. Spesso i detenuti si rifiutano di fare i colloqui con i propri figli, specie quelli piccoli, perché ritengono i luoghi in cui avvengono gli incontri non idonei e causa di possibili traumi a livello psicologico.

Il rumore provocato dalle conversazioni nelle diverse postazioni, insieme a quello derivato dal gioco e movimento dei bambini crea difficoltà a percepire le voci: è necessario prevedere pannelli acustici fonoassorbenti da collocare in posizione idonea, preferibilmente a soffitto o sospesi, in quanto la loro collocazione non deve creare disturbo e ostacolo al controllo visivo delle postazioni colloquio da parte degli agenti, sia esso di tipo diretto attraverso un vetro di separazione tra la sala e la postazione degli agenti che ne impedisce il controllo uditivo, che indiretto attraverso le telecamere installate. I pannelli combinati con i corpi illuminanti possono generare un disegno in grado di caratterizzare a livello visivo lo spazio eliminando il senso di monotonia e di impersonalità che spesso lo contraddistingue.

Il carcere è una casa abitata e vissuta per un arco temporale più o meno lungo, costituita tanto da luoghi collettivi e condivisi al chiuso e all’aperto, quanto da luoghi più privati, le celle.

Il testo indaga dapprima la storia del carcere analizzando il rapporto tra l’istituzione sociale, il modello di detenzione, la forma architettonica e il luogo in cui l’edificio è collocato, per poi concentrarsi sull’Italia, dove la tipologia edilizia è ancora pensata più per contenere che per rieducare, disattendendo l’art. 27 c. 3 della Costituzione.

La visita degli spazi confinati di alcuni istituti,ha permesso di comprendere l’organizzazione spaziale dei diversi ambiti e le gerarchie che costituiscono un carcere, l’atmosfera che caratterizza gli spazi interni ed esterni della quotidianità dei detenuti e anche del personale , le relazioni fisiche e percettive all’interno e dall’interno verso l’esterno: tutto ciò con lo scopo di elaborare per alcuni ambienti criteri progettuali in grado di incidere sul miglioramento della qualità dell’abitare improntata a modelli di vita comunitaria che assomiglino a ciò che i detenuti si ritroveranno a vivere una volta tornati alla libertà.

ISBN 979-12-5644-083-2€ 22

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