RdP Numero Speciale – "Dovuto a Heaney"

La Resistenza Della Poesia anno VI

dicembre 2017

NUMERO SPECIALE

Dovuto a Heaney

Semestrale di Cultura e Poesia

La Resistenza Della Poesia DIRETTORE RESPONSABILE Giuseppe Ghini COMITATO DI REDAZIONE Monica Bravi Umberto Brunetti Lorenzo Carnevali Alberto Fraccacreta Matteo Giunta Riccardo Marchionni Alessandro Zaffini HANNO COLLABORATO Alessandra Calanchi Gabriella Morisco Giuseppe Puntarello Marco Sonzogni IMMAGINE DI COPERTINA E ILLUSTRAZIONI Luana D'Alfonso FOTOGRAFIE Guido Dall'Olio PROGETTO GRAFICO La Resistenza della Poesia Logo: Beatrice Schena REDAZIONE Piazza Rinascimento, 7 - 61029 Urbino email: laresistenzadellapoesia@gmail.com www.laresistenzadellapoesia.com AUTORIZZAZIONE Tribunale di Urbino, N. 2/2012

La Resistenza della Poesia Dovuto a Heaney

EDITORIALE

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Dovuto a Heaney di Umberto Brunetti

OMAGGIO A HEANEY

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Forse c’era di Alessandra Calanchi

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Una persona umile Ricordo di Seamus Heaney di Alberto Fraccacreta

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Perché tradurre Intervista a Gabriella Morisco di Giuseppe Marchegiani

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La poesia di Seamus Heaney è un compito di realtà di Giuseppe Puntarello

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Attraversare Heaney di Lorenzo Carnevali

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Digging: una versione collettiva di Roberta Chiuchiolo, Maddalena di Bari, Sara Giorgi, Alessandra Rioldi, Marina Sanguinetti

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Seamus Heaney: due poesie di Marco Sonzogni

Anno VI / Numero speciale / 2017 Dovuto a Heaney

IL CALAMAIO

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Adam Zagajewski

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Konstanty Wilk

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Majka Sokal

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Marco Bruno

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Lorenzo Carnevali

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Costantino Turchi

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Giorgio Franceschelli

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Davide Lucantoni

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Guido Dall’Olio

CONSIGLI PER LA LETTURA

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Nell’insidia della frontiera Recensione a L’intermissione dei cigni di Vannini di Riccardo Bravi

EDITORIALE

Dovuto a Heaney di Umberto Brunetti

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eamus Heaney è il poeta contemporaneo che più di tutti ha ispirato La Resistenza della Poesia. Nel suo saggio The Redress of Poetry, da cui trae spunto il numero 3 (Dicembre 2012) di questa rivista, abbiamo trovato la migliore guida per intendere il ruolo della poesia nel mondo di oggi. La scelta di dedicare questo numero speciale al poeta irlandese è dettata però anche da una contingenza particolare. L’anno scorso, infatti, a tre anni dalla sua scomparsa, è uscito in Italia il “Meridiano” con tutte le liriche scelte dall’autore. Per tale occasione l’Università di Urbino, che nel 2001 ha insignito Heaney della laurea honoris causa, attraverso la Scuola di Lingue del discui (Dipartimento di Scienze della Comunicazione, Studi Umanistici e Internazionali) ha organizzato il 15 e il 16 dicembre 2016 due giornate di commemorazione in suo onore, alle quali ha partecipato anche il neonato Centro Teatrale Universitario Cesare Questa, di cui siamo lieti di aver contribuito alla creazione proprio nello scorso anno.

Ospitiamo perciò in questo numero alcuni dei contributi che hanno animato l’evento urbinate. Desiderio delle organizzatrici, le professoresse Gabriella Morisco e Alessandra Calanchi, è stato quello di far dialogare università e scuola, coinvolgendo i giovani studenti dell’I.I.S. Raffaello di Urbino. La scelta quanto mai felice ha offerto una preziosa opportunità ai docenti coinvolti, Lorenzo Carnevali e Giuseppe Puntarello, di introdurre uno dei maggiori poeti contemporanei nel programma di studio della scuola superiore, dove ancora oggi la poesia italiana e straniera del secondo Novecento e del Duemila fatica a trovare spazio. Gli studenti si sono così fronteggiati con alcune liriche di Heaney, analizzate in lingua origina-

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le e in traduzione, arrivando a formulare giudizi e interpretazioni. Questi ultimi (di cui presentiamo qui una selezione per motivi di spazio), spontanei ma per nulla scontati, sorprendono positivamente, mostrando quanto anche un poeta complesso e denso di riferimenti culturali come Heaney possa interessare e stimolare l’intelligenza, la creatività e l’amore per la bellezza negli studenti di oggi, penalizzati da un sistema scolastico non sempre attento a curare l’amore e il dialogo vivo con la letteratura.

A chiudere il nostro omaggio a Heaney vi sono una traduzione inedita della celebre poesia Digging realizzata da alcune studentesse della Scuola di Lingue e due liriche tradotte da Marco Sonzogni, curatore del Meridiano, ma non incluse nel volume mondadoriano.

La seconda sezione della rivista presenta, invece, il consueto Calamaio, nel quale si affiancano oltre agli inediti di autori da noi già pubblicati, alcune voci nuove. Tra queste siamo particolarmente onorati di accogliere un componimento in traduzione italiana del maggiore poeta polacco vivente, Adam Zagajewski, tratto dalla raccolta La mano invisibile (2009), non ancora tradotta in Italia (il testo è già stato edito in «Poesia», 331, Novembre 2017).

Ha scritto Heaney nella sua ultima lirica: «ho paura / che cessino le poesie». Ma autori come lui, come Zagajewski, ci fanno ben sperare che ciò non accadrà. Finché avremo bisogno di ascoltare parole che sanno cogliere con nitidezza sconcertante i preziosi momenti d’illuminazione, le epifanie che balenano talvolta nella nostra quotidianità. Leggeremo Heaney sperando anche noi, come il poeta nei versi di Nonce words, di poter «benedire» noi stessi, «in nome di quell’unica occasione» che, siamo certi, la poesia ci aiuterà a cogliere.

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OMAGGIO A HEANEY

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Forse c’era di Alessandra Calanchi

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idea di organizzare un evento in ricordo di Seamus Heaney ci è venuta una sera d’estate. Eravamo nel giardino pensile di casa Morisco, con vista sui tetti e sui colli di Urbino: una cornice davvero adeguata all’occasione. Un amico aveva portato la chitarra; un altro, del vino buono. È sempre così che nascono i progetti migliori.

Pochi mesi dopo, ecco concretizzato il “Ricordo di Seamus Heaney”: due giornate di conferenze, musica e letture dedicate al grande poeta premio Nobel nel 1995 e insignito a Urbino della laurea honoris causa nel 2001.

Peccato che non potesse esserci Seamus: la consideriamo un’assenza grave, ma giustificata. Peccato che nemmeno sua moglie abbia potuto venire, ma ci ha scritto una lettera molto commovente e affettuosa. Giustifichiamo, naturalmente, anche lei. E giustifichiamo anche il Rettore, Vilberto Stocchi, che aveva caldeggiato l’iniziativa e avrebbe voluto essere presente, ma è stato trattenuto a Roma in un improrogabile incontro della CRUI. Erano presenti invece, e hanno partecipato con entusiasmo, il Direttore del Dipartimento di Scienze della comunicazione, studi umanistici e internazionali, Piero Toffano; il Presidente della Scuola di Lingue, Claus Ehrhardt; alcuni colleghi (Roberto Danese, Giovanni Darconza, Massimiliano Morini); numerosi studenti universitari; e ancor più numerosi studenti del liceo Raffaello con due loro docenti, Lorenzo Carnevali e Giuseppe Puntarello. Quanto al curatore del “Meridiano Heaney” (uscito in sordina nel mese di agosto), Marco Sonzogni, è arrivato per presen-

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tarlo fin dalla Nuova Zelanda, che non è proprio dietro l’angolo. E naturalmente c’erano i due protagonisti principali: Gabriella Morisco, ex docente dell’Ateneo e ideatrice dell’evento, e Alberto Fraccacreta, giovane e brillante poeta, dottorando e curatore, assieme a Umberto Brunetti, di questo numero speciale de La Resistenza della Poesia. Più che un evento, è stato un happening, una festa. Vedere tanti giovani (sale strapiene, ragazzi arrampicati sulle scale di sicurezza) interessati alla poesia è stato uno spettacolo da far venire le lacrime agli occhi.

Seamus non c’era, ma ci sorrideva benevolo e divertito dal telone su cui abbiamo proiettato le slides. E se anche non c’era, sono sicura che ascoltava con profonda attenzione le conferenze, i dialoghi, le domande e le risposte, gli applausi, la musica irlandese suonata dal nostro mitico bibliotecario-violinista Michele Bartolucci, e soprattutto i giovani, che hanno partecipato attivamente con letture, proposte di traduzione e commenti.

Io non sono una studiosa di poesia. Ma ho avuto la fortuna di conoscere Seamus Heaney. Gli ho stretto la mano, ho letto le sue poesie, ho ascoltato la sua voce, ho apprezzato la sua modestia, la sua cortesia, la sua timida grandezza.

E penso che anche questa volta, che Seamus non c’era, forse c’era.

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Una persona umile Ricordo di Seamus Heaney di Alberto Fraccacreta

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eamus Heaney aveva un bel viso. Nel senso che era eticamente bello. Lo conobbi, la prima volta, a Mantova nel 2011, in occasione del premio Virgilio. Durante quella giornata in cui riconobbi in lui non solo un grandissimo poeta, ma anche un ottimo performer delle sue stesse liriche, fu insignito della cittadinanza onoraria. Era il giusto tributo della città del suo migliore amico di poesia: quel Virgilio col quale ha passeggiato spesso nei versi, riconoscendo in lui non tanto il poeta vate della corte augustea, l’augure ufficiale della propaganda, quanto il solitario cantore bucolico che, in umili vesti, solca le campagne in contemplazione della natura e delle possibili connessioni. Lo vidi, l’anno seguente, a Bologna per il centenario della morte di Giovanni Pascoli. La professoressa Morisco mi diede, molto generosamente, la possibilità di parlarci (con lei come intermediaria, perché l’inglese non è il mio forte). Eravamo all’hotel Dell’orologio a Bologna. La giornata era grigia, pioveva. Si presentò esattamente come era nelle sue poesie: una persona umile, generosa, con una percezione delle cose nettamente amplificata. D’accordo, questa non è un’agiografia. Anche Seamus Heaney avrà avuto i suoi difetti; io, però, non ho avuto il tempo per conoscerli. Ricordo solo che aveva un bel viso, era spesso sorridente, disteso. Sapeva ascoltare. Anzi, era una persona in ascolto. Che significa essere in ascolto? Beh, ce lo potrebbe spiegare la Vergine Maria cosa significhi ascoltare, in verità ci potrebbe spiegare anche che cos’è umiltà, e lo farebbe in misura somma, ma tralasciando le dispute tra cattolici e protestanti, di una cosa sono certo: Heaney apprez-

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zava il cristianesimo delle origini, il suo messaggio di ascolto e di umiltà, di semplicità e di umanità. Messaggio che oggi, in un clima da «Impero romano alla fine della decadenza», per citare Verlaine, egli, perfetto lettore dei tempi e dei segni, ci ha riproposto con estrema energia e spietata saggezza. Per questo motivo era affezionato a Virgilio, che fu il precursore inconscio di quel messaggio, per questo motivo spesso ricorrono episodi evangelici nelle sue poesie, la cui freschezza rimane esemplare. Mi viene in mente Miracolo, dall’ultima silloge, Catena umana. Heaney racconta di come il suo corpo abbia improvvisamente ceduto e di come i suoi amici, «quelli che lo conoscevano da sempre», formando appunto una catena umana, siano riusciti a salvarlo dalla morte. Il mondo è un luogo di solitudine, freddo e inospitale. Ma talvolta esistono attimi di assoluta cooperazione, momenti di vero, disinteressato sostegno che nobilitano l’essere umano e gli conferiscono dignità. Heaney ha avuto buoni amici, evidentemente. Come li ebbe il paralitico del passo del Vangelo da cui è tratto il parallelo letterario.

«Ed ecco, alcuni uomini, – dice il Vangelo di Luca – portando su un letto un uomo che era paralizzato, cercavano di farlo entrare e di metterlo davanti a lui. Non trovando da quale parte farlo entrare a causa della folla, salirono sul tetto e, attraverso le tegole, lo calarono con il lettuccio davanti a Gesù nel mezzo della stanza. Vedendo la loro fede, disse: “Uomo, ti sono perdonati i tuoi peccati”». La loro fede, cioè la cooperazione dei barellieri è la salvezza del paralitico.

Heaney era una persona in ascolto. Quel pomeriggio piovoso di maggio, nei pochi minuti che ebbi a disposizione, sapevo di avere dinanzi a me un grandissimo poeta che mi ascoltava. Avrei dovuto solo tacere, ma l’emozione mi rendeva loquace (in italiano, naturalmente) e lui sembrava interessarsi ai deliri pseudoromantici di un ventitreenne esaltato. In quel momento non era il Premio Nobel, non era il poeta celebrato, non era il professore di Retorica, era semplicemente Seamus, l’uomo. E un uomo molto comprensivo.

Heaney ci ha insegnato che, al di là di tutte le scuole e di tutte le avanguardie, la poesia è essenzialmente umiltà. Poesia è tendere l’orecchio verso connessioni più grandi, che ci sovrastano e ci trascendono, ed è assentire a questo ordine delle cose, rimanere, o meglio sostare nella luce della volontà di amore, a cui questo ordine, silentemente, remissivamente, ma coscienziosamente chiama. La tecnica delle liriche heaniane è de-

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stinata a rimanere: i suoi versi hanno un centro propulsore da cui si dirama tutta la pregnanza linguistica, metaforica, concettuale del testo, sino a consentire al lettore di uscire come “chiarificato” dell’argomento della poesia. Non è sempre così la letteratura inglese, anzi spesso grandissimi poeti come Eliot, Auden e compagnia hanno sviluppato una strategia lirica che privilegia le parti periferiche della poesia senza intersecarle in un centro saldo e compatto. Heaney ha insegnato agli autori di lingua inglese a perdersi di meno nei meandri delle metafore, ad essere più concreti e, per così dire, petrarcheschi. «Componi al buio/ e aspetta l’aurora boreale/ nel lungo tentativo./ Ma non aspettarti mai cascate di luce». Tutta la poetica dell’autore di Anahorish può essere riassunta in questi versi fiduciosi di un futuro parusiaco, compiuto e concentrato, spoglio di leopardiane illusioni, dunque vero, e tuttavia proiettato nel bene e nella bellezza di una nuova aurora. In queste righe leggo in filigrana la speranza intera di un popolo, quello irlandese, che ha sofferto molto nel secolo scorso e del quale Heaney è stato autentico cantore, fino a rappresentarne la coscienza nazionale. L’Irlanda ci ricorda quanto importante possa essere per una nazione la voce di un poeta che incarni i valori e dia una dirittura morale ed estetica al Paese. In Italia questo, dolorosamente, manca. La poesia non salva in sé: ma, come gli amici del paralitico, coopera alla fede, al riconoscimento di una possibile salvezza alla quale qualcosa di più grande acconsente.

Dopo più di un anno, dal nostro incontro, anzi con maggiore verosimiglianza dal mio incontro, perché comprensibilmente per Heaney non fu lo stesso, nell’estate del 2013, nella famigerata estate del 2013, incontrai la professoressa Morisco in via Mazzini, qui a Urbino. Era un giorno particolarmente caldo, come a Urbino se ne vedono pochi. Mi disse che Heaney, a ottobre, sarebbe tornato in Italia per un convegno a Firenze, e che era il caso che andassi pure io a salutarlo. Ne fui lieto. La ringraziai e ci salutammo con la promessa di vederci lì, di nuovo, noi tre. Tornando a casa in Puglia, qualche giorno dopo, – con la consueta asimmetria delle mie emozioni, che non mi consente di reagire e gioire immediatamente alle buone notizie, ma di avere un tempo molto più lungo nel quale restare come confuso e inebetito – pensavo in treno che non ero più nella pelle, che sarebbe stato magnifico andare a Firenze, rincontrarlo nella città di Dante, il poeta che più di tutti ha ispirato quel capolavoro della letteratura mondiale, oserei dire, che è Station Island. Ogni tanto, ricordo ancora,

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davo un’occhiata al calendario. Luglio non era distante da ottobre. Eppure, il tempo sembrava non passare più. Finché, per ragioni completamente diverse, il tempo si fermò del tutto. E sono ancora qui, ancora oggi, ad attendere che il tempo apra la sua cruna magnanima e, meno crudele di quei giorni, si faccia ottobre.

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Perché tradurre Intervista a Gabriella Morisco di Giuseppe Marchegiani

D: Perché tradurre. Cosa ti ha spinto ad avvicinarti al mondo della traduzione?

R: Mi è sempre piaciuto tradurre. L’ho sentito dapprima come esigenza per una lettura più approfondita. La lettura implica uno sforzo nell’interpretazione e comprensione, ciò diventa ancora più vero se si tratta di un testo in una lingua straniera, specialmente se è un testo di poesia. La poesia è costruita con una struttura linguistica molto precisa per cui non basta conoscere la singola parola. Per comprendere il significato del verso o della strofa occorre capire come quella singola parola è inserita all’interno del verso e come il verso si muove e si struttura all’interno della strofa e come tutto ciò diventa immagine, diventa metafora e acquista doppio significato. La mia esigenza è stata di andare a ricomporre nella mia lingua quello che il poeta stava facendo nella sua. Mi sono accorta che la traduzione diventa una lettura intensificata al massimo grado e che mi procura una soddisfazione incredibile quando, anche solo di poco, riesco ad avvicinarmi a ciò che il poeta ha compiuto. Entro nel meccanismo dell’organizzazione e della creazione poetica, tanto che mi sembra di fare una cosa quasi sleale perché mi accorgo che sto per carpire un segreto, cioè di cogliere l’attimo stesso della creazione poetica nel suo compiersi.. Lui vede una immagine, gioca con le parole in modo tale che l’immagine iniziale si trasformi in qualcos’altro e che al tempo stesso si apre ad un mondo di possibili nuove visioni. Tu entri in quel mondo e il poeta ti aiuta a “vedere” ciò che è “imprevisto”. Ormai sono quasi deviata dal mio

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modo di lavorare. Se leggo una poesia in inglese una volta e mi piace capisco che non colgo tutto, allora mi sento insoddisfatta. A quel punto mi devo sedere e mettermi a tradurre.

D: Quindi tradurre per leggere? Soprattutto poesia.

R: Sì, al di là di tutte le teorie sulla tecnica della traduzione, quando si è al dunque bisogna che si instauri un rapporto diretto, empatico oserei dire, con l’autore. Ho sempre letto tanto, da onnivora, fin da giovanissima. Mi piace muovermi nel mondo creato dallo scrittore. Ho cominciato a dodici anni, con un romanzetto scritto in francese di cui non ricordo neppure il titolo. Ho preso un quaderno e ho incominciato. La sua traduzione mi ha divertito moltissimo.

A tradurre poesia in modo serio ho cominciato negli Stati Uniti, mentre frequentavo il Master in Letteratura Anglo-Americana all’Università del Connecticut, UCONN. Ho iniziato con Elizabeth Bishop, una poetessa apparentemente facile perché il suo soggetto principale è la natura: descrizioni naturali di un angolo di campagna, un tratto di costa sull’oceano, un giardino in fiore. Poi mi sono accorta che il suo intreccio di metafore era un modo per nascondere ciò che invece l’angosciava nel profondo e che solo leggendola attentamente si riesciva a scoprire.

La sua prima poesia che ho tradotto è stata “The fish”. E’ lei che prende un pesce all’amo e fa una estrema, dettagliata descrizione di questo animale partendo dalla superficie: la sua pelle , le squame, l’iride degli occhi, fino all’interno, le spine, la compattezza della sua carne… Presto mi resi conto però che tutti gli aggettivi che connotano il suo essere di pesce sofferente e agonizzante diventano un riflesso della condizione umana. Questa penetrazione nel corpo del pesce è penetrazione nella vita dell’uomo.

E tutto questo mi si è rivelato in modo estremamente chiaro solo traducendo verso dopo verso.

D: Ma per comprendere la poetica, sei andata a studiare la vita e le opere di Elizabeth Bishop?

R: All’inizio no. Ho solo fatto un lungo lavoro di traduzione correggendo più volte la mia versione italiana. Poi mi sono messa a studiare la sua vita e quindi la sua poetica, tanto che alla fine ho scritto un libro su di lei (La reticenza e lo sguardo. Patron 1990) Infine sono andata a vedere dove abitava, sono andata in pellegrinaggio nei suoi luoghi, tre punti geografi-

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ci importanti, Boston, Il Brasile (Ouro Prieto), e il Canada (Nova Scotia).

Ho capito infine perché la sua poesia sia divenuta un punto di riferimento per molti altri poeti a lei contemporanei, compreso Seamus Heaney che ha anche scritto su di lei. Elizabeth Bishop era diventata “the poets’poet” un punto cardine della poesia inglese del Novecento.

Dopo le mie traduzioni di E.B. la Mondadori mi ha chiesto di tradurre Sylvia Plath. Ho curato e tradotto la raccolta “Le muse inquietanti” per la collana dello Specchio. Parliamo di una poetessa dalla vita molto sofferta, con tanti tentativi di suicidio, ricoveri in ospedali psichiatrici ed infine la morte col gas. Spesso si parla di “transfert” tra autore e traduttore per spiegare il tipo di empatia che si stabilisce fra i due. Nel mio caso mi sono ritrovata a lavorare a queste traduzioni in un momento molto felice della mia vita , perché ero in cinta di mia figlia. Ciò, se da una parte mi ha reso molto difficile il transfert, perché fortissimi sono i segni di sofferenza e di morte che pervadono la sua poesia, dall’altra ha costituito una sorta di difesa e di barriera protettiva dalla sua negatività che rischiava di invadermi.

D: Allora prima hai letto la sua poesia e poi hai trovato i riscontri nella sua vita o viceversa?

R: Come al solito ho prima tradotto perché per me l’impatto iniziale con un poeta è la cosa essenziale. Così è successo anche con Seamus Heaney.

Anche questa è stata una richiesta della Mondadori, nel 1982, quindi sono stata la prima traduttrice di Heaney in Italia. Questa volta però ho avuto anche la fortuna di conoscere il poeta personalmente. Spesso sono stata in Irlanda e spesso è venuto lui in Italia anche perché ha avuto molti premi nel nostro paese, anche prima di vincere il Nobel: Il Campiello, il Flaiano, e il Lerici… e poi la laurea Honoris Causa a Urbino, unica laurea che ha accettato in Italia, nonostante le numerose offerte. In quell’occasione ho avuto l’onore di servire da tramite fra lui e un nostro grande poeta italiano. A Urbino, oltre al Palazzo Ducale, gli ho fatto visitare il Colle dei Cappuccini spiegandogli che proprio in quel luogo Pascoli si è ispirato per il suo “Aquilone”. Questa e altre poesie l’hanno molto interessato tanto che mi ha chiesto di fargli una traduzione molto letterale del testo per ricavarne poi una sua personale traduzione. Grazie a questo episodio del tutto casuale adesso abbiamo una splendida traduzione in inglese dell’”Aquilone “ di Giovanni Pascoli.

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D: Il fatto che hai conosciuto bene Seamus Heaney ha migliorato il testo delle tue traduzioni, nel senso che hai cominciato a fargli domande che potessero esserti d’aiuto?

R: In realtà si. Gli ho sempre chiesto una serie di delucidazioni perché la sua è una poesia particolarmente difficile, ricca di intertestualità. Come l’ho chiamato in un mio lavoro Seamus Heaney è un “poeta dotto”, ha letto Dante e Virgilio, data la sua ottima conoscenza del latino. Lui stesso si considera un Giano bifronte poiché è parte integrante sia della cultura gaelica e sia della cultura classica.

D: Heaney ha tradotto Dante e anche Pascoli, ma conosce pochissimo l’italiano. Come fa?

R: Heaney è un grande traduttore e lo fa da “poeta”. Sappiamo tutti che nella traduzione il dilemma principale è essere o no fedeli al testo. Ora è evidente che la fedeltà alla lingua è molto difficile, specialmente da parte di uno che parla una lingua in prevalenza monosillabica, come l’inglese, nei confronti della lingua italiana che ha tanti termini bi e trisillabici.

L’altra infedeltà al testo è: se privilegi il significato vai a danneggiare l’effetto estetico. E questo accade tanto più nella traduzione poetica dove c’è un ritmo, ci sono gli accenti, le rime e le assonanze da rispettare. Una volta accettata l’idea dell’impossibilità di tradurre come atto che porti ad una coincidenza speculare dei due testi, rimane aperta la via dell’interpretazione basata comunque sulla consapevolezza della differenza originaria e praticata con un atteggiamento più etico che estetico. Heaney è attentissimo alla lingua che deve tradurre. L’inglese ha molte radici di origine latina e quindi lui riesce a trovare quelle parole che lo guidano, e poi ha un senso del ritmo e del suono che solo un poeta può avere. In tal modo ha tradotto egregiamente dal greco e dall’inglese antico, Beowolf, e ha tradotto anche dal russo.

D: Hai mai discusso su un suo passaggio poetico pensando che avrebbe potuto scriverlo in modo diverso?

R: E’ impossibile farlo perché la poesia è quella che è, ed io non sono così presuntuosa da potermi sostituire al poeta. Ho discusso con lui solo per chiedere chiarimenti su alcuni punti che mi risultavano più oscuri. Ci sono passaggi che non sarei mai riuscita a tradurre senza il suo aiuto. Invece succedeva che a volte lui stesso non si ricordava o non sapeva bene

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perché avesse scritto quel verso, e se provavo a chiedergli: “ma non volevi dire questa cosa?”, rispondeva che la mia versione era molto interessante!

Questo non deve stupire, anzi è molto tipico della poesia. La poesia è una sospensione di senso, vale a dire che ha diversi significati contemporaneamente, gioca sul doppio e anche sul multiplo significato di una parola, ma anche di un’immagine, per cui è per forza aperta ad interpretazioni. Quindi il poeta può trovare interessante l’interpretazione del traduttore. Può dire “Non ci avevo pensato!”, come a volte mi ha risposto Heaney, ma francamente non so se lo dicesse per una estrema gentilezza nei miei confronti o perché realmente ne fosse convinto. Mi ricordo la prima volta che l’ho incontrato, a Roma, ed io avevo un pacco enorme di note perché stavo traducendo Station Island. A quella vista Heaney si è sentito male, ma poi si è dimostrato estremamente generoso e ha cercato di rispondere a tutti i miei quesiti.

D: A proposito quando si pubblica una traduzione come sono i rapporti con il revisore? Ti arrivano richieste di modifiche da parte sua o della casa editrice?

R: E’ un rapporto in ogni caso difficile; è un’altra mente che si inserisce nel tuo lavoro, anche se dovrebbe limitarsi a controllare che tu non commetta degli errori. A volte capita però che voglia intervenire in modo più invasivo con l’ossessione della resa fedele al testo e questo rischia di nuocere al reale equilibrio del verso su cui hai lavorato. Diciamolo, a volte bisogna discutere molto ed è una tortura.

D: Eppure molti sostengono che la poesia andrebbe tradotta a quattro mani per mettere a confronto sensibilità diverse che possono integrarsi.

R: Altra cosa dalla revisione è la traduzione a quattro mani come abbiamo fatto Anthony Oldcorn ed io per Station Island, che forse è l’opera più importante di Heaney. Ma Anthony è un valente dantista ed io avevo bisogno della sua competenza. Lui sapeva muoversi all’interno dell’opera dantesca, ritrovava tutti i riferimenti e le citazioni indirette, e inoltre aveva l’orecchio per l’inglese, io potevo invece mettere a disposizione l’orecchio per la lingua italiana e per la struttura del verso. Insomma è stata un’esperienza positiva in cui siamo andati molto d’accordo. Ma è talmente raro. Il revisore invece è riuscito ad urtare tutti e due.

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D: Pensi che come traduttore hai contribuito in parte al suo successo?

R: Nel senso che chi non sa l’inglese non potrebbe mai arrivare a leggere la poesia di Heaney, si. Del resto non sono certo stata l’unica sua traduttrice in Italia. Comunque il traduttore sta al poeta come la luna sta al sole. Noi viviamo di luce riflessa. Tradurre poesia vuol dire cercare di ricreare la poesia in un’altra lingua, ma “ricreare” non è “creare”. Si tratta sempre di un’arte minore.

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OMAGGIO A HEANEY

La poesia di Seamus Heaney è un compito di realtà di Giuseppe Puntarello Restituire a un autore un po’ di quella gioia, di quella forza, di quella vita politica e di amore che lui ha saputo donare, inventare.

Gilles Deleuze, Dialogues 1977

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arlare di poesia a scuola non è facile e, sebbene la poesia riesca spesso a far breccia nei cuori degli studenti, lo fa sempre meno quando si parla di autori del passato. Quindi la proposta ricevuta dalla Prof.ssa Alessandra Calanchi di far convergere in una giornata di studio su Heaney studenti di differenti età ci è sembrata un’occasione straordinaria di scambio e condivisione di esperienze di studio realizzate a diversi livelli di profondità e di ampiezza. Un’esperienza che ha a che fare con la realtà quotidiana di molte persone che si occupano di cultura: accademici, traduttori, editori, insegnanti e studenti universitari e delle scuole superiori.

La proposta avanzata agli allievi della 2 F del Liceo Linguistico Raffaello di Urbino di un’attività un po’ fuori dal comune, che implicasse lo studio di un autore contemporaneo di cui non avevano mai sentito parlare, un impegno laboratoriale e un evento di chiusura in pubblico, ha reso la partecipazione della classe senz’altro più motivata. Si è riusciti a realizzare quello che, con terminologia didattica più appropriata oggi, si chiamerebbe un compito di realtà.

Aver realizzato un compito di realtà con la poesia di Seamus Heaney è qualcosa che ha messo in gioco tante competenze, tanta curiosità su un uomo, un poeta, una nazione, una lingua, anzi due: quella di partenza e quella di arrivo. Lavorare su testi poetici in lingua originale con traduzione a fronte ha reso senz’altro più intrigante per dei giovani studenti di lingue straniere la lettura, la comprensione e la possibilità di interrogarsi sulle sfumature di significato.

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Dovuto a Heaney

L’adolescenza forse è l’epoca in cui è più facile sentire la poesia, soprattutto se questa è in grado di farsi strumento di comprensione del mondo e della storia come quella di Heaney. Riflettere su un poeta significa parlare della sua vita, della sua storia, dei suoi luoghi, del suo modo di sentire le emozioni e di comunicarle. Averlo fatto su Heaney e con Heaney è stato facile: la sua biografia e l’epoca in cui ha vissuto, l’Irlanda con i suoi conflitti politico-religiosi, la relazione con Urbino. L’intelligenza dell’uomo e la sensibilità del poeta hanno reso quest’attività didattica molto interessante per tutti coloro che hanno partecipato. La capacità del poeta irlandese di farsi minore (per dirlo deleuzianamente) e di parlare con voce autentica e cristallina ha suscitato negli studenti la giusta voglia di conoscerlo e sentirlo vicino. Scandagliando poi Internet sono emerse delle curiose notizie di cronaca culturale che lo hanno avvicinato ancor di più alla sensibilità degli studenti. Scoprire che la poesia di Heaney fosse amata da Bono, la rockstar degli U2, o che Heaney stesso abbia apprezzato in dichiarazioni pubbliche il rapper americano Eminem ha riportato il poeta ad una dimensione di realtà che attraverso i libri è difficile sentire.1 L’attività didattica preparatoria si è svolta in diverse fasi: lo studio dei materiali, la selezione delle poesie, lo studio della biografia e del contesto storico, la lettura dei testi, il confronto tra le varie raccolte poetiche, la riflessione sul lessico, sulla traduzione e sui significati, la produzione dei commenti. Altro momento emozionante è stato la preparazione nell’imminenza dell’evento dell’esposizione in pubblico. La qual cosa ha certamente implicato la messa in gioco del corpo, della voce, della gestione emotiva della performance. La poesia che si fa corpo attraverso la voce che risuona in un’aula con un pubblico che ascolta è poesia che si fa realtà, che vive di battiti del cuore, di gioie e sofferenze. Questo è ciò che hanno vissuto i miei “cuccioli di Heaney”, come ho voluto chiamare i miei studenti che hanno lavorato su questo progetto.

La scuola ha bisogno di questi momenti di vita reale e di uscire dalle sue aule anguste e costrittive per immergersi nel cuore pulsante delle cose che accadono. Che possano ripetersi periodicamente eventi di questa natura, in cui corpi di età differente si incontrano attraverso lo studio di un 1. Cfr. A. Aquaro in La Repubblica del 05/02/2011, citando le parole di Seamus Heaney: «Eminem ha dimostrato dove può spingersi il verso del possibile». Oppure si veda l’articolo Seamus Heaney praises Eminem pubblicato sul sito della BBC News il 30/06/2003 (http://news.bbc.co.uk/2/hi/entertainment/3033614.stm).

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OMAGGIO A HEANEY

poeta, è ciò che chiediamo e vogliamo.

Di seguito il lavoro e la presentazione degli studenti della classe 2 F, Saiza Venturi, Elisa Landi, Agata Galeotti, Chiara Bussu, Alessandra Tangocci, Martina Alessandroni, Martina Ragni, Chiara Venerucci, che voglio ringraziare per l’entusiasmo, la partecipazione e il loro cuore.

Grazie al lavoro preparato in classe insieme al professore d’italiano, noi “cuccioli di Seamus”, abbiamo potuto far conoscere a studenti più grandi e professori universitari le nostre idee sulla vastità di significati di quattro poesie da noi scelte e successivamente recitate.

Abbiamo analizzato alcune poesie tra quelle contenute nelle raccolte The Haw Lantern, Station Island e The Spirit Level. La prima poesia che abbiamo letto è stata The Disappearing Island, poi The Railway Children, The Strand e infine The Errand. Abbiamo deciso insieme al professore di leggerle inizialmente in lingua originale e poi di tradurle in italiano.

Di ciascuna poesia abbiamo analizzato il contenuto e scritto commenti emersi dalla riflessione collettiva.

Crediamo che attività come queste siano un buon modo per attirare i ragazzi nel mondo della poesia e della magia che essa può creare. Pensando al fatto che al giorno d’oggi sono pochi i giovani interessati alla poesia, il progetto su Seamus Heaney ha avuto successo portando, in un aula di scuola, curiosità, creatività, interesse e impegno.

Per questo progetto abbiamo lavorato in classe parlando della vita del poeta e delle esperienze che hanno spinto a scrivere alcune delle sue poesie. Durante le ore di lezione in cui lavoravamo per questo progetto, abbiamo anche parlato del contatto che Seamus Heaney aveva avuto con Urbino tramite Pascoli. Questo tema è stato poi approfondito dai professori Gabriella Morisco, Gianni Darconza, Marco Sonzogni che ci hanno parlato della poesia di Giovanni Pascoli L’aquilone, che Heaney ha tradotto e riadattato per scrivere la sua poesia A Kite for Aibihn.

Saiza Venturi Elisa Landi

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Dovuto a Heaney

THE DISAPPEARING ISLAND (from The Haw Lantern) Once we presumed to found ourselves for good Between its blue hills and those sandless shores Where we spent our desperate night in prayer and vigil, Once we had gathered driftwood, made a hearth And hung our cauldron like a firmament, The island broke beneath us like a wave.

The land sustaining us seemed to hold firm Only when we embraced it in extremis.

All I believe that happened there was vision.

Con quel «Avevamo» capiamo che si tratta di un Io Collettivo, mentre alla fine troviamo un Io poetante singolare. L’«isola» è un’allusione all’Irlanda, che egli descrive come una terra sempre verde, per i colori nazionali, per la vegetazione che sommerge il territorio, per il sentimento di speranza e leggerezza, che segna la vita di un popolo solo all’apparenza distante, ma caldo e ospitale come dimostrano la sua musica e i suoi balli irresistibili.

Le spiagge senza sabbia potrebbero essere le concrete spiagge dell’Irlanda, dove possiamo osservare il fenomeno dell’alta marea. Le spiagge sono quasi sempre coperte e la sabbia è più grossolana e compatta. Ma essa è anche una terra selvaggia di visioni, di sogni, di racconti e di luoghi tranquilli e delicati, segnata da tempi difficili, causati dal conflitto nordirlandese. Gli «sfasciumi» di mare che son serviti ad alimentare il «focolare» per il «calderone» fanno riferimento alla sua infanzia trascorsa con gli amici e al legame tradito dal tempo inesorabile e dai destini, all’isola che si è spezzata alla rottura del loro legame.

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THE RAILWAY CHILDREN (from Station Island) When we climbed the slopes of the cutting We were eye-level with the white cups Of the telegraph poles and the sizzling wires.

Like lovely freehand they curved for miles East and miles west beyond us, sugging Under their burden of swallows.

We were small and thought we knew nothing Worth knowing. We thought words travelled the wires In the shiny pouches of raindrops, Each one seeded full with the light Of the sky, the gleam of the lines, and ourselves So infinitesimally scaled We could stream through the eye of a needle.

La poesia evoca le sensazioni di un gruppo di ragazzi che si ritrovano accanto ad una ferrovia per giocare. È una poesia che parla di giovinezza, infanzia e paura, che ritrae un mondo visto nella dimensione e nella fantasia di un bambino. L’Io poetico si sofferma in dettagli come: «I fili nei lucenti borselli delle gocce piovane», «Ciascuna completamente inseminata dalla luce del cielo», «Dal luccichio delle rotaie». Ma il cuore della poesia sembra essere «Eravamo piccoli e pensavamo di non sapere niente / degno di essere noto»: quando si è piccoli c’è una sorta di consapevolezza che ci sfugge, che si riconosce solo quando si diventa grandi.

C’è anche un rapporto tra ciò che è piccolo e ciò che è grande circondato da tanta consapevolezza. Ciò che è poetico è vicino allo stupore, infatti il poeta riesce a stupirsi di ogni cosa che abbia a che fare con la vita.

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Dovuto a Heaney

THE STRAND (from The Spirit Level) The dotted line my father’s ashplant made On Sandymount Strand Is something else the tide won’t wash away.

Il poeta vuole condividere emozioni. Il ricordo è talmente profondo e impresso nella memoria che non si può cancellare. La linea punteggiata tracciata dal bastone del padre indica i disegni che il padre incideva sulla sabbia e che l’acqua del mare non potrà mai portare via. Ma è il silenzio a colpire in questo testo. Non un silenzio generico, né fastidioso, ma il silenzio rischiarato dallo sfondo marino in cui riecheggiano le onde del mare e la brezza: l’immagine generata dal testo è solo una figurina animata. È però la forza del luogo e della memoria associata ai momenti trascorsi col padre che rende immortale il sentimento e il legame profondo col padre e la propria origine.

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Attraversare Heaney di Lorenzo Carnevali

U

no dei tanti privilegi di cui gode il lettore di poesia è quello della familiarità: la sfida che ogni volta il poeta ci sottopone, ogni volta è temperata da un senso di solidarietà fraterna, da quella pietas che da sola basta a confortare e risarcire chi si avventuri nei testi di un poeta. Chi legge poesia non è mai “fuori luogo”. Attraversare Heaney, con i suoi territori difficili e rocciosi ha significato dunque ritrovarsi. Quei luoghi, quei volti, le persone, gli oggetti, i paesaggi sono stati anche nostri, e solo laggiù potevamo rinvenirli: con Séamus Heaney, in fondo ai versi di Heaney, nelle parti più oscure ed enigmatiche, con la comune nostalgia come unico segno di riconoscimento.

NONCE WORDS (from District and Circle) The road taken to bypass Cavan took me west, (a sign mistaken) so at Derrylin I turned east.

Sun on ice, white floss on reed and bush, the bridge cast in an advent silence I drove across, then pulled in,

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Dovuto a Heaney

parked and sat breathing mist on the windscreen.

Requiescat…

I got out well happed up, stood at the frozen shore gazing at rimed horizon, my first stop like this in years.

And blessed myself in the name of the nonce and happenstance, the Who knows and What nexts and So be its.

Ho scelto Nonce words perché ne sono stata travolta: l’identificazione col soggetto narrante è stata così immediata, incondizionata ed ha preteso una compartecipazione emotiva talmente intensa da pregiudicare irrimediabilmente ogni mia apatica schermaglia difensiva e indurmi a instaurare con l’uomo della poesia un’empatia indicibilmente profonda che mi ha commossa e fatta sentire meno sola. D’altra parte credo che molti possano riconoscere loro stessi in quest’uomo che, perdutosi in un giorno invernale per le strade irlandesi, si concede un’occasione per respirare e assaporare il privilegio di essere vivo. Mi sembra impossibile non apprezzare Nonce Words, se non altro perché è mozzafiato: a concorrere alla sua bellezza non è soltanto la perizia tecnica e stilistica con cui è stata costruita, ma è soprattutto la lucida, analitica, viva sensibilità con cui vengono tracciati i limiti dell’intelletto umano ed al contempo testati ed esplorati gli abissi dell’Io, il vuoto. Ed è in nome della recondita verità di cui la poesia è permeata che ho ritenuto opportuno tradurre il titolo Nonce Words non con «Parole coniate per l’occasione», come una traduzione letta in classe ci suggeriva, ma con «Le parole del vuoto».

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Infatti, nel XIV secolo, l’espressione «for the nonce» fu adottata a indicare il vuoto che è parte integrante della composizione metrica, il vuoto che nella poesia è poesia. E Seamus Heaney si fa massimo promotore dell’importanza del “vuoto”, giocando in modo straordinariamente delicato ed inspiegabilmente chiaro, con il rapporto tra ciò che è scritto e ciò che non lo è: la poesia scritta si configura, anche graficamente, come un pretesto per comunicare e descrivere il vuoto, gli spazi bianchi, che la circondano.

Rifacendosi ad un topos tipicamente virgiliano, Heaney si serve inoltre della natura, profondendola di una fortissima valenza simbolica, per enfatizzare il significato più profondo che intende conferire alla scena: un uomo è perso, forse per un segnale mal interpretato, ed è immerso in un paesaggio caratterizzato da un bianco asfissiante, che sotto forma di ghiaccio, lanugine, brina, sembra volerlo assediare, pervadere e, infine, portare via, lontano dalla dimensione terrena a cui egli non può più fingere di appartenere, per lo meno non in modo esclusivo. Non a caso Heaney ha scelto il bianco come riflesso del proprio stato d’animo: il bianco è il colore che meglio di ogni altro manifesta e suscita irrequietezza perché è il colore dell’Eternità, dell’ineffabile, dell’ignoto, di tutto ciò che sfugge alla ragione umana ed evoca la trascendenza. Ad esacerbare questo sentimento di malinconica inadeguatezza, di amechanìa nei confronti di tutti i soffocanti «Non so» che il colore bianco ingloba, contribuisce anche l’«Advent silence», il silenzio d’Avvento, che conferisce a quegli istanti saturi di paura e frenesia una sacralità ancora maggiore. L’impatto che il poeta ha con il colore bianco, tanto sconvolgente da costringerlo a fermarsi e ad uscire dalla macchina per poter piantare saldamente i piedi al terreno («stood at the frozen shore»), è la manifestazione esteriore dello scatto fortunoso dell’agnizione che si sta compiendo nel suo animo.

Heaney, abbandonato a se stesso e disorientato, è posto di fronte alla sua natura di uomo, ai suoi limiti, alla sua vulnerabilità e alla sua mortalità. Il poeta riconosce pietosamente l’uomo che è in lui e il vuoto immanente che quell’uomo, come chiunque altro, reca con sé e che, come Heaney lascia a intendere, non può e non deve essere colmato con le parole, né relegato all’indifferenza.

Dice poi: «And blessed myself in the name of the nonce, and the happenstance». Egli benedice il vuoto, accetta se stesso, capisce che, se di passato e presente può parlare e scrivere, nella stesura del futuro sono Caso, Fortuna, dèi, Dio ad avere le redini dei giochi: è una dolorosa ma liberatoria presa di

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coscienza che si esaurisce nel «requiescat» emesso con un sospiro di nebbia («breathing mist») ed impresso sul parabrezza dell’auto. Con un semplice sospiro il poeta, pur accettando la propria impotenza, rivendica l’unicità, la bellezza del vivere e asseconda la necessità impellente di lasciare un’impronta della sua esperienza terrena, un gesto simbolico che sancisca una volta per tutte il suo ruolo nella storia, la sua coscienza di aver focalizzato il proprio intelletto nel tentativo di reggere la propria parte del peso del mondo.

Da questo momento inaspettato di ricongiungimento con la sua umanità Heaney deduce che la consapevolezza e l’accettazione del fatto di essere umani, con tutte le implicazioni annesse, sono il presupposto necessario per la vera vita, per la ricerca delle parole proprie, indispensabili per poter creare, in poesia, un ordine fedele all’impatto con la realtà esterna e altrettanto rispondente alle sue leggi interne.

Inoltre, come le precise indicazioni stradali suggeriscono, anche in questa poesia Seamus Heaney fa riferimento alle sue origini irlandesi: il poeta ritiene, infatti, che le radici storico-geografiche siano il principio decodificatore di ciascuna realtà individuale. Tuttavia in Nonce Words egli riscontra l’esistenza di un’essenza comune a tutti gli uomini che prescinde dalla nazionalità e dalle singole esperienze: è l’irrazionalità nella natura umana, che non può che essere mediata attraverso la poesia. Quest’ultima deve quindi saper assecondare i limiti posti alla conoscenza degli uomini e rispettare e amare the Nonce Words, le parole del vuoto, componenti chiave del nostro ancestrale patrimonio genetico, ma a noi eternamente incomprensibili.

Ilaria Ugoccioni

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STATION ISLAND XII (from Station island) Like a convalescent, I took the hand stretched down from the jetty, sensed again an alien comfort as I stepped on ground

to find the helping hand still gripping mine, fish-cold and bony, but whether to guide or to be guided I could not be certain

for the tall man in step at my side seemed blind, though he walked straight as a rush upon his ash plant, his eyes fixed straight ahead.

Then I knew him in the flesh out there on the tarmac among the cars, wintered hard and sharp as a blackthorn bush.

His voice eddying with the vowels of all rivers came back to me, though he did not speak yet, a voice like a prosecutor’s or a singer’s,

Cunning, narcotic, mimic, definite as a steel nib’s downstroke, quick and clean, and suddenly he hit a litter basket

with his stick, saying, ‘Your obligation is not discharged by any common rite.

What you do you must do on your own.

The main thing is to write for the joy of it. Cultivate a work-lust that imagines its haven like your hands at night

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dreaming the sun in the sunspot of a breast.

You are fasted now, light-headed, dangerous.

Take off from here. And don’t be so earnest,

so ready for the sackcloth and the ashes.

Let go, let fly, forget.

You’ve listened long enough. Now strike your note.’

It was as if I had stepped free into space alone with nothing that I had not known already. Raindrops blew in my face as I came to and heard the harangue and jeers going on and on. ‘The English language belongs to us. You are raking at dead fires,

rehearsing the old whinges at your age.

That subject people stuff is a cod’s game, infantile, like this peasant pilgrimage.

You lose more of yourself than you redeem doing the decent thing. Keep at a tangent.

When they make the circle wide, it’s time to swim

out on your own and fill the element with signatures on your own frequency, echo-soundings, searches, probes, allurements,

elver-gleams in the dark of the whole sea.’

The shower broke in a cloudburst, the tarmac fumed and sizzled. As he moved off quickly

the downpour loosed its screens round his straight walk.

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Heaney incontra suo padre: Anchise. L’Anchise di cui parliamo è lo scrittore, poeta e drammaturgo irlandese James Joyce. L’ispirazione poetica di Heaney è particolarmente influenzata da questa figura tanto da decidere di dedicargli la poesia XII dalla raccolta Station Island, scorrendo tra i versi percepiamo inoltre un profondo senso di pietas nei suoi confronti.

La poesia tratta proprio dell’incontro con Joyce nel regno dei morti. Nella trattazione del tema della catabasi (come abbiamo già visto spesso ricorrente) questo incontro ha qualcosa in più. Heaney che incarna la figura di Enea (figlio di Anchise), appena giunto nel mondo dell’oltretomba, sente stringersi la mano e l’ombra che ritrova davanti a sé è quella di un uomo che sembra cieco («seemed blind»).

Qui è chiaro il riferimento a Joyce in quanto lo scrittore durante la sua vita dovette sottoporsi a numerosi interventi oculistici a causa dell’insorgenza di cataratta e glaucoma.

Siamo di fronte ad una scena di difficile interpretazione che ci chiediamo: chi è tra i due personaggi a far da guida? La risposta è che a guidare è proprio Joyce. Heaney, infatti, decide di creare un nesso tra la figura di Joyce e quella di Omero perché la poesia classica associava al poeta cieco il dono della preveggenza (quindi anche il ruolo di guida). Heaney si descrive come un convalescente («like a convalescent») e quello di cui ha bisogno è di ricevere consiglio e conforto (un po’ come quello che Dante trova in Virgilio, la sua guida). Joyce viene descritto «upon his ash plant» ovvero «sopra il suo bastone di frassino». Gli oggetti non vengono inseriti a caso da Heaney infatti il bastone di frassino è visto come simbolo guida tra due mondi: tra i vivi e i morti. Il nuovo Anchise rivolge al figlio parole autorevoli da cui emerge la figura individualistica del poeta: consiglia ad Heaney di scrivere nella più profonda riflessione, in solitudine; stando soli infatti è difficile essere condizionati dal pensiero di altri ed è come se volesse spiegare che la vera poesia nasce dalle esperienze avute in intimità con sé stessi. Il discorso di Joyce non è infondato e al suo centro ha polemica nei confronti della religione: «That subject people stuff is a cod’s game, infantile, like this peasant pilgrimage» («Quella storia del popolo suddito è roba da sciocchi, infantile, come questo pellegrinaggio contadino»). La sua avversione è in realtà nei confronti della chiesa cattolica d’Irlanda troppo provinciale e che esercitava al suo tempo un potere oppressivo sulla mentalità del popolo. Il suo pensiero critico viene espresso anche in una delle sue opere più importanti: Ritratto dell’artista

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da giovane. Stephen Dedalus, il protagonista dell’opera, è costretto sin da piccolo a vivere rinchiuso in un convento di gesuiti, ma in seguito deciderà di ribellarsi al canone di vita troppo rigido. Questo personaggio rappresenta l’alter-ego di Joyce che decide di abbandonare la fede fino alla sua morte. Giunti a destinazione di questo viaggio, Heaney esce rafforzato dall’incontro con Joyce come Enea dall’incontro con suo padre Anchise: un aspetto tipico della catabasi classica.

Margherita Sambuchi

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THE UNDERGROUND (from Station island) There we were in the vaulted tunnel running, You in your going-away coat speeding ahead And me, me then like a fleet god gaining Upon you before you turned to a reed Or some new white flower japped with crimson As the coat flapped wild and button after button Sprang off and fell in a trail Between the Underground and the Albert Hall.

Honeymooning, moonlighting, late for the Proms, Our echoes die in that corridor and now I come as Hansel came on the moonlit stones Retracing the path back, lifting the buttons To end up in a draughty lamplit station After the trains have gone, the wet track Bared and tensed as I am, all attention For your step following and damned if I look back.

The Underground è uno dei componimenti più emblematici della poetica di Heaney, che fonde un episodio autobiografico (la sua luna di miele) con la dimensione mitica. Il modello classico ed epico è presente non soltanto nei contenuti ma anche nello stile. Nella prima strofa il mito di riferimento è quello del dio Pan che insegue la ninfa Syrinx, mentre nell’ultima compare il mito di Orfeo e Euridice: le due citazioni conferiscono alla poesia una struttura circolare.

La stazione mostra poi come la stessa forma mentis del poeta sia quella di un cantore epico: essa è, infatti, oggettivazione e immagine concreta del concetto astratto dell’aldilà, così come i binari, scivolosi, rappresentano il percorso aspro e accidentato della vita.

La catabasi di Heaney, però, si presta anche ad un'interpretazione in chia-

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ve cristiana: il poeta ripercorre il tunnel all'indietro, tornando sui propri passi («retracing the path back»), cosicché il punto di arrivo è lo stesso di partenza.

Ma la vera protagonista del componimento è la moglie del poeta, che assume nei suoi confronti il ruolo virgiliano di guida: come nella prima strofa il poeta è costretto a inseguire la donna fuori dal tunnel, così nell’ultima è ancora il ritmo dei passi di lei a dettare quelli del poeta che la precede e che, non potendo voltarsi, teme di perderla in qualunque momento.

Il poeta-Orfeo di questa poesia, però, non è quello del mito greco, poiché egli rispetta le condizioni imposte dagli dei e non commette l’errore di voltarsi. L’autore lascia quindi intendere di essere riuscito a portare a termine la sua missione: è così che il mito, da modello letterario, diventa modello di vita.

Giuseppe Giannotti

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Digging: una versione collettiva di Roberta Chiuchiolo, Maddalena di Bari, Sara Giorgi, Alessandra Rioldi, Marina Sanguinetti DIGGING (from Death of a Naturalist) Between my finger and my thumb The squat pen rests; snug as a gun.

Under my window, a clean rasping sound When the spade sinks into gravelly ground: My father, digging. I look down Till his straining rump among the flowerbeds Bends low, comes up twenty years away Stooping in rhythm through potato drills Where he was digging.

The coarse boot nestled on the lug, the shaft Against the inside knee was levered firmly.

He rooted out tall tops, buried the bright edge deep To scatter new potatoes that we picked, Loving their cool hardness in our hands.

By God, the old man could handle a spade.

Just like his old man.

My grandfather cut more turf in a day Than any other man on Toner’s bog.

Once I carried him milk in a bottle Corked sloppily with paper. He straightened up To drink it, then fell to right away

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Nicking and slicing neatly, heaving sods Over his shoulder, going down and down For the good turf. Digging.

The cold smell of potato mould, the squelch and slap Of soggy peat, the curt cuts of an edge Through living roots awaken in my head.

But I’ve no spade to follow men like them.

Between my finger and my thumb The squat pen rests.

I’ll dig with it.

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SCAVANDO Tra l’indice e il pollice la penna riposa come una pistola.

Sotto la finestra, uno stridio, una vanga affonda nel terreno ghiaioso: mio padre scava. Guardo giù.

La sua schiena tesa tra le aiuole, come da vent’anni si piega e si rialza chinandosi a ritmo sui solchi di patate dove scavava.

Lo scarpone logoro sul ferro, il ginocchio saldo contro l’asta a far leva.

Sradicava cime, conficcava la lucida lama, per piantare nuove patate da cogliere.

Piacevoli, fredde e dure fra le mani.

Dio se sapeva usare la vanga, proprio come il suo vecchio.

Mio nonno tagliava più torba in un giorno di ogni altro uomo nella palude di Toner.

Una volta gli portai una bottiglia di latte chiusa con un tappo di carta. Si drizzò per bere, poi si rimise subito a incidere e tagliare, buttandosi zolle dietro le spalle, scavando sempre più a fondo dove c’è la torba buona. Scavava.

L’odore freddo del terriccio di patate, il cic ciac nella torba molliccia, i tagli netti della lama nelle vive radici, mi tornano in mente.

Ma io non ho una vanga per seguirli.

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Tra l’indice e il pollice la penna riposa.

Scaverò con questa.

La ragione che ci ha spinto ad avvicinarci al mondo di Seamus Heaney è la nostra passione per la poesia e la traduzione. Il nostro gruppo è formato da cinque studentesse del secondo anno del corso di laurea magistrale in “Lingue per la Didattica, l’Editoria e l’Impresa”. Siamo state invitate dal Professor Massimiliano Morini a partecipare all’evento su Heaney, tenutosi a Urbino il 15 dicembre 2016. Il nostro contributo è stato una proposta di traduzione del capolavoro poetico Digging, affrontato prima come lavoro individuale e poi come lavoro collettivo.

Ci siamo concentrate inizialmente sul titolo: abbiamo deciso di mantenere il gerundio per trasmettere l’idea di continuità dell’azione della forma inglese. Di primo acchito abbiamo adottato un approccio “poetizzante”, invertendo l’ordine delle parole – scelta successivamente abbandonata per ottenere una sintassi più regolare. Ad esempio, al v. 10 abbiamo reso coarse boot con «scarpone logoro», preferendolo a «logoro scarpone».

Varie letture ad alta voce della nostra versione ci hanno suggerito una serie di modifiche a livello prosodico: da un ritmo lento e pesante siamo passate a uno più veloce e incalzante, con versi brevi ed essenziali. Questo cambiamento è motivato anche dallo stile basso e colloquiale, in linea con l’ambiente contadino evocato dal poeta.

Abbiamo cercato di mantenere le assonanze e le allitterazioni usando suoni onomatopeici forti ed efficaci: squelch and slap (v. 25), tradotto in prima istanza come «sguazzare e affondare», è diventato «cic ciac».

La terminologia semplice e “terrosa” ci è sembrata appropriata per ricreare le immagini rurali del testo di partenza.

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Seamus Heaney: due poesie di Marco Sonzogni

Una tra le prime e una tra le ultime poesie di Seamus Heaney (19392013) ad essere pubblicate, nella traduzione di Marco Sonzogni, curatore del Meridiano (Poesie, Mondadori, 2016).

IL SABATO SERA DI MCKENNA La bocca sciolta come la cintura aperta su una pancia da facchino, stasera discute ad alta voce, in mano una pinta lustra.

La birra scura scioglie braccia e gambe per una zuffa e l’odio, innescato tanto tempo fa dalla fredda selce di invidie contadine, brucia il bar e s’infiamma nel cortile.

Dal buio ubriaco una folla guarda bocche schiumose, pugni insanguinati, i duri passi finali sull’acciottolato.

McKenna torna al suo bicchiere, la rissa ha generato una nuova faida.

Si ubriaca; con un alito aspro di Guinness barcolla verso casa da bravo marito.

(1963-1964)

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TRITTICO I Trasportato su un destriero sellato Oisin ritorna in un mondo diverso, più piccolo, bisognoso d’aiuto, inutile.

Con tutta la tua forza d’un tempo, fido cavaliere, non abbassarti. Resta libero e fedele nel mondo del mattino che hai lasciato, messo in guardia solo questa mattina.

Il tuo impulso generoso ti nuocerà.

Lasciali faticare intorno al loro macigno.

Quando si rivolgeranno a te, ignorali.

Non cedere, non preparare la spalla allo sforzo.

II Hai sentito spezzarsi il sottopancia, cedesti a terra e in un attimo invecchiasti. Fu un cervo a deporti la prima volta sul suolo natìo su cui sei stato ora atterrato, sfatto, il tuo patto con la terra magica irreparabile. Vecchio e freddo sei e nessuno con cui giacere.

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OMAGGIO A HEANEY

III Tutti i poeti sono poeti giovani, arroganti e focosi, ben saldi nelle staffe fino alla caduta.

Uno saggio virtuoso l’ha messa così: “Guardati dalle tre illusioni che il Re di questo mondo ha mostrato al discepolo come tentazioni: dopo la prima del desiderio, e la seconda, timor mortis,* quella dei doveri sociali.”

(2011)

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Dovuto a Heaney

*Heaney compose questa poesia in occasione del centenario di nascita del poeta scozzese Sorley MacClean (1911-1996). Ho tradotto «the terror of death», la paura della morte, con l’espressione latina timor mortis, dall’Ufficio dei Morti, in onore di un altro poeta scozzese (makar), William Dunbar (1459-1530), autore di una poesia, Lament for the Makaris, in cui ogni quartina si chiude con il verso Timor Mortis conturbat me.

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Adam Zagajewski La lezione di pianoforte [Ho otto anni] Lezione di musica dai vicini di casa, i signori J. È la prima volta che sono nel loro appartamento, che emana un odore diverso dall’odore del nostro (da noi non c’è odore, così mi sembra). Qui ovunque ci sono tappeti, spessi tappeti persiani. So che queste persone sono Armeni, ma non so cosa significa. Gli Armeni hanno tappeti, nell’aria viaggia un pulviscolo trasportato ancora da Lwów, polvere medievale.

Da noi non ci sono né tappeti né evi medii.

Non so chi siamo noi — forse siamo degli itineranti.

A volte penso che noi non ci siamo affatto. Solo gli altri ci sono, sono.

Ottima acustica nell’appartamento dei nostri vicini.

Silenzio in questo appartamento. Nella stanza sta fermo, ritto, un pianoforte come una pigra, addomesticata belva — e al suo interno, proprio nel suo centro, giace a riposo la nera sfera della musica.

La signora J. mi ha detto subito dopo la prima o la seconda lezione che farei meglio a imparare le lingue, dal momento che non rivelo doti musicali.

Non rivelo doti musicali.

Farei meglio ad imparare le lingue.

La musica sarà sempre altrove, irraggiungibile, sempre in un appartamento altrui.

La sfera nera sarà nascosta altrove, ma forse ci saranno altri incontri, altre scoperte.

Stavo tornando a casa a capo chino,

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IL CALAMAIO

un po’ triste, un po’ contento – a casa, dove non c’era odore di Persia, c’erano quadri amatoriali, acquarelli, e pensavo con amarezza, con piacere, che mi era rimasta solo la lingua, solo il linguaggio, le parole, le immagini, solo il mondo. traduzione di Marco Bruno

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Dovuto a Heaney

Konstanty Wilk Possibilità

Fino a quando? grave… grave dura… dura… …la mano… tua sulla mia spalla benevolmente, amichevolmente e inflessibilmente – Ti levi dietro di me, davanti a me, presso di me, dentro di me Rendi impossibilità la possibilità – Fino a quando? crollerò vuoto cimavòlto senza fede senza illusione nella mia possibilità traduzione di Marco Bruno

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IL CALAMAIO

Majka Sokal Ulteriore saggio scaturito dall’erranza

La città è una rete di strade.

La città sono dei brusii multistrati.

Un formicaio di cielo e l’alveare di vette della mia riflessione.

Possiede una pulsante, multifonte dinamica.

Contiene varie storie.

Contiene la mia e tua narrazione.

Contiene soli frammenti.

I frammenti della mia e tua biografia.

E non consente mai alle totalità di incontrarsi.

Voglio ripescarti dalla folla.

Voglio dedicarti un istante.

Un istante strappato alla mappa della città. Strappato al cuore del giorno.

Voglio passare per questo stesso sentiero.

E perdermi cento metri più avanti.

E tu, nel frattempo, raccogli i miei pensieri dai marciapiedi.

Puoi portarmeli, in seguito, nei pugni, o adagiarli anonimamente sotto la porta.

Le nubi, invece, incombono su tutti allo stesso tempo.

La pioggia non cade tutta intera su nessuno.

Domani puoi guardare coi tuoi occhi questi stessi muri, [queste stesse finestre, che oggi io guardo coi miei.

Domani possono sfiorarti, per strada, queste stesse persone, una parte delle quali camminerà addirittura con uno scopo concreto.

Nel frattempo sei da qualche parte nella rete di strade, [e io sono ferma qui.

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Dovuto a Heaney

Sali sul tram dal quale scendo.

Vai lungo l’altra riva del fiume.

Ognuno di noi due vede ciò che vede l’altro.

Forse un giorno scorgeremo noi stessi. traduzione di Marco Bruno

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IL CALAMAIO

Marco Bruno Riapparizione del respiro [La parola sopravvissuta]

Ci sono momenti in cui le parole non aprono la bocca le emozioni pensano cose irrealizzabili la neve scende tagliando il tempo il collo è inchiodato orizzontale in attesa del boia.

Oggi ho rivisto il sole, il caffè, gli scaffali bianchi donatimi da chi ha la mente limpida.

Oggi ho rivisto la semplicità degli oggetti che non chiedono niente: il sole, il caffè, gli scaffali bianchi.

Ci siamo guardati con stupore – non credevamo che ci saremmo rivisti vivi.

Il dolore conteneva qualcosa che è inafferrabile al telescopio, al grandangolo e al microscopio.

La sua estensione ha bisogno dell’immaginazione.

Come mi sono spaventato per la forza della vita di negarsi.

Allora ho gridato parole a stento scritte.

Soltanto chi mi vuole bene ha raccolto dalla strada quelle ali allora tutti sono venuti a casa mia a volare.

C’è una persona chiamata il Responsabile: sembrerà incredibile, ma la Responsabilità ha una segretaria: così ti ritrovi a parlare di salvezza con chi rimanda per costituzione come se la sopravvivenza potesse svolgersi in un altro attimo.

Chissà se, e quando

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Dovuto a Heaney

riincontrerò il contrario di me stesso.

ChissĂ quando, e perchĂŠ e a che punto del volo della lancia.

Oggi mi fermo ai piedi dei gradini dove un amico sorride nei miei occhi aperti mentre il silenzio timorato e vivo ammanta il limite incontrato dalla fine.

Cracovia marzo – Bari 31 dicembre / 2016

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IL CALAMAIO

Lorenzo Carnevali Ritratto a matita

Seduta composta bella di suo le dita sul polso a ciglia socchiuse sugli occhi di smalto: le scorre sul viso un pensiero improvviso ‌ e qui si rinnova l’azzardo, la pena il sorriso

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Dovuto a Heaney

Costantino Turchi O dolce villanella che dai campi

«Pour moi, le cas d’un poëte, en cette société qui ne lui permet pas de vivre, c’est le cas d’un homme qui s’isole pour sculpter son propre tombeau» Stéphane Mallarmé

O dolce villanella che dai campi aridi giungi: qui giace, in marmorea lapide, l’ultima voce stentorea che t’ha cercato per gli spazi ampi.

O vergine che non fosti mai stata, sarai proprio qui, presso questa grata pietra, il giorno che non è più nefasto?

Non so s’esisti e nulla è casto, men che mai il corpo nell’ora ch’è guasto: mentre ero non potevo che sentirti come una voce strana, come i mirti fruscianti alla buon’ora, e non capirti perché fuori da ciò ch’è sempre certo: eri per me il confine del deserto che si apre al pastore con le vacche all’orizzonte, lì dove le sacche si riempiono a onore del frutteto e abbeverarsi, finalmente, a un greto. È ancora questa vita? Non m’è lieto trascinarmi per case di cemento se non quando ti sento e mi cimento in te: e la sepoltura mi vien lieve vento.

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IL CALAMAIO

Giorgio Franceschelli L’immenso boato dei colori d’estate Mi lascia sospeso su un filo, Un filo di grano; E giochiamo a chi per primo si secca, Se io della vita O lui della morte.

3023 Un numero Ancor prima del tuo volto.

Ma il tuo sorriso È più vivo Dei miei ricordi.

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Dovuto a Heaney

Davide Lucantoni Vocazione

 Per compagnia una frusta di fili di carta e tutti i sinonimi di solitudine.

Il motivo se c'era l'hai dimenticato in un'alzata di spalle, come a dire che il destino infondo lo sceglie la sorte.

GITA Le mie orecchie pensano di nuotare come nelle piscine profonde.

Ma la pendenza e il senso di marcia, Il fischio è lo stesso.

E poi ecco il Gran Sasso, la cima, il capolinea, il fondale della massima salita.

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IL CALAMAIO

Guido Dall’Olio Di un messia sconosciuto

Riemerse nel buio. Forse era sempre stato lì. Recuperò l’orientamento, il senso dello spazio; cercando di mantenere l’equilibrio, andò all’interruttore e accese la luce. Poi si sedette e cominciò a pensare. C’era qualcosa che lo aspettava. Doveva uscire, comprare il giornale, l’acqua minerale, il pane, un po’ di frutta e di verdura, poi andare a un appuntamento – ma non ricordava bene con chi. Allora iniziò un gioco con se stesso, che faceva ogni tanto, per verificare che la sua mente funzionasse ancora. Recitò silenziosamente l’alfabeto e la serie dei numeri fino a venti; poi fece qualche moltiplicazione e recitò due o tre poesie a memoria. Dopo che ebbe finito, sentì suonare il campanello e si alzò di nuovo: era la sua vicina di casa che, non sentendolo da qualche tempo, si era preoccupata. Gli aveva portato della polenta, di un giallo splendente.

Prese il bastone e uscì, senza fretta, passo dopo passo, come gli aveva detto il dottore. Nell’aria c’era ancora l’odore di bagnato lasciato dalla pioggia del giorno prima. Cercava di stare bene attento alle sconnessioni del marciapiede, perciò non si accorse della pozzanghera sulla strada proprio accanto a lui e dell’auto che stava per arrivare alle sue spalle: per fortuna il guidatore frenò un poco, così lo schizzo lo bagnò appena. Gli sguardi fecero in tempo a incrociarsi: attraverso lo specchietto retrovisore, l’automobilista lo stava fissando con un’espressione tra il colpevole e il meravigliato.

Procedeva lentamente: era arrivato circa a metà della strada che portava all’edicola, quando incrociò una signora con un cane, forse un volpino.

Benché avesse gli occhi sempre rivolti verso il basso, l’uomo si rese conto che, prima ancora di vederli, i due erano già entrati nel campo delle sue percezioni, perché il cane non aveva smesso un attimo di abbaiare e di ringhiare furiosamente; si agitava e tirava il guinzaglio, come se volesse strozzarsi o lanciarsi sotto un’automobile. D’istinto, continuando ad appoggiare una mano sul bastone, piegò le gambe e si chinò per accarezzare l’animale. La padrona fu colta alla sprovvista e, spaventata, fece il gesto

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di strattonare il guinzaglio, temendo che l’uomo venisse aggredito e forse anche morso. Ma al contatto della mano, il cane si calmò immediatamente, prese a scodinzolare e proseguì la sua strada trascinandosi dietro la padrona, come se niente fosse accaduto. La signora si girò a guardare l’uomo, forse per ringraziarlo, ma lui si era già voltato e aveva ripreso lentamente il suo tragitto.

All’edicola comprò il giornale; prese il resto e aprì le pagine della cronaca locale mentre era ancora davanti al chiosco. Un titolo a grandi caratteri annunciava che addirittura due dei biglietti vincitori di un’importante lotteria nazionale erano stati venduti in città. “Beati loro!”, disse forte, provocando sorrisi e gesti di approvazione da parte dell’edicolante e di altri due o tre clienti. Proseguì per una cinquantina di metri, poi svoltò a destra, senza attraversare la strada, restando sempre nello stesso isolato e raggiunse il minuscolo supermercato frequentato soprattutto da anziani e studenti. Cos’era che doveva prendere? Aveva in mente il pane e l’acqua, ma al momento di avvicinarsi agli scaffali veniva distratto da un pensiero o da un ricordo e tornava a dimenticarsi di quello che stava facendo. Così arrivò alla cassa ritrovandosi, al posto dell’acqua, una bottiglia di vino rosso e un lungo filone di pane chiuso in un involucro di plastica. Guardandolo bene, si accorse che il pane era pre-affettato. “Meglio”, pensò, “così mi sembrerà che, invece di un pezzo di pane, ne abbia comprati trenta”.

Uscito dal supermercato pensò che, invece di tornare indietro, quella mattina avrebbe compiuto il giro dell’isolato e si sarebbe fermato a fare colazione al bar: magari avrebbe incontrato qualcuno dei pochi amici che gli erano rimasti, che spesso andavano lì a giocare a carte (a lui i giochi di carte non piacevano e anzi spesso lo innervosivano; una volta, esasperato e infuriato, aveva rovesciato il tavolo e insultato tutti). La giornata era fredda e limpida; il sole, da quella parte della via, era quasi abbagliante.

Sul marciapiede davanti a lui c’era un oggetto che dopo qualche istante riconobbe come un gatto. Era disteso su un fianco, immobile, le zampe e la coda dritti come se fossero stati disegnati da un bambino. L’uomo strizzò gli occhi cercando di capire se stesse respirando. Gli parve di no. Allora lo toccò con la punta del bastone, scuotendolo un po’. Il gatto sollevò la testa, aprì gli occhi e, con una calma innaturale, si rialzò, si strusciò un paio di volte contro i pantaloni dell’uomo e se ne andò.

Fece fatica ad aprire la porta del bar. Dentro, come aveva previsto, incon-

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IL CALAMAIO

trò due amici impegnati in una partita di briscola, che lo accolsero con sorpresa e calore. Offrì loro un cappuccino e, dato che nella vetrina delle paste era rimasta una sola brioche, la prese e la spezzò in tre parti. Uno di loro disse disse che, arrivati a quell’età, bisognava essere sempre contenti di vedersi e di mangiare qualcosa assieme, perché ogni volta poteva essere l’ultima. L’uomo disse che, se fosse toccato a lui morire per primo, ogni volta che gli altri due avessero preso una brioche e un cappuccino in un bar, avrebbero dovuto ricordarlo. Parlarono un po’ dei vecchi tempi, poi l’uomo uscì e lasciò gli amici alla loro briscola.

Si avviò per completare il giro dell’isolato. Una donna affacciata a una finestra lo vide da dietro mentre camminava col suo bastone, le gambe un po’ arcuate, e pensò che sembrava Charlie Chaplin. Arrivò al portone del condominio, che trovò aperto. Nel vano dell’ascensore, illuminato da un faretto, stava lavorando un tecnico: questo significava che avrebbe dovuto fare quattro piani di scale. “Mi dispiace”, disse il riparatore, “ma gli ascensori si rompono senza preavviso. A tradimento”. L’uomo ebbe una curiosa visione della cabina dell’ascensore che dondolava appesa a un cavo d’acciaio.

Riuscì ad affrontare bene la prima rampa di scale. Preso coraggio, affrontò la seconda, ma verso la metà il cuore gli cominciò a battere forte.

Fu costretto a fermarsi. Per fortuna stava salendo l’inquilino del quinto piano, che si offrì di aiutarlo, dandogli il braccio e portandogli la spesa.

Arrivato alla porta di casa, ebbe appena il fiato sufficiente per ringraziare il vicino. Con la mano tremante, estrasse le chiavi e aprì.

Sudava e aveva sete. Si ricordò di aver comprato l’acqua, ma quando accostò la bottiglia alle labbra si rese conto che era vino. Lo posò a terra, poi si girò per andare a sedersi sul divano. In quel momento sentì un dolore forte al torace e vide il pavimento alzarsi di scatto. Nel tentativo di parare la caduta, senza rendersene conto aveva allargato entrambe le braccia e ora era lì disteso sul marmo, le braccia aperte e lo sguardo rivolto al soffitto. In un istante venne sorpreso da un’improvvisa, lucida consapevolezza di ogni singolo membro del suo corpo e da una sensazione di abbandono, come se la percezione delle sue ossa, dei suoi tessuti e dei suoi organi fosse una premessa necessaria alla loro distruzione.

Avvertito dalla vicina di casa due giorni dopo, sopraggiunse il figlio, che provvide a tutte le incombenze. Il terzo giorno ci furono il funerale e la sepoltura. Il figlio aveva cercato di avvertire i suoi amici, ma di alcuni di

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loro non aveva i recapiti. Alla fine della cerimonia, quando tutti se n’erano ormai andati, si avviò per uscire dal cimitero, quando con la coda dell’occhio vide un uomo in piedi. Era sicuramente uno degli amici di suo padre, uno di quelli che non era riuscito ad avvertire; stava pregando di fronte a una tomba vuota. Il figlio rise dentro di sé, ma non si fece vedere e non disse nulla.

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CONSIGLI PER LA LETTURA

Nell’insidia della frontiera Recensione a L’intermissione dei cigni di Vannini di Riccardo Bravi

Verso l’interno va la via misteriosa.

In noi, o in nessun luogo v’è l’eternità con i suoi mondi — il passato e il futuro. Il mondo esterno è il mondo dell’ombra — Esso proietta la sua ombra nel regno della luce.

Novalis 2001, 326, frammento n. 17

R

iprendendo il récit en rêve di chiara ispirazione francese, Angelo Vannini scrive un libretto di una trentina di pagine, L’intermissione dei cigni – Cinquantanove giorni alla frontiera della letteratura (Arcipelago Itaca Edizioni, 2017), nel quale sogno e realtà si mescolano dando corpo alla forma d’arte per eccellenza che dei due elementi sopracitati si nutre: la letteratura. Angelo, nato ad Ancona, ma da anni residente a Parigi, medita sul tema della frontiera con un dialogo di voci che fa da eco agli Antichi così come ai Moderni, in un conatus vivendi che solo chi sa “abitare poeticamente la terra” paia sappia al meglio utilizzare; tale frontiera o frontière o ancora Grenzland in tedesco, “che prima di significare il limite di un territorio, la sua fine, indicava la parte frontale di un esercito. La parola frontiera è macchiata, non si scrolla di dosso i segni della guerra, le ferite inferte o patite al cozzo col nemico” (L’intermissione dei cigni, p. 24). Se il modo dell’“inteso” nelle due traduzioni della stessa parola è lo stesso, sosteneva Benjamin nel compito del traduttore, cambia però il modo di “intenderle”, ossia il diverso significato che il vocabolo assume in italiano, francese e tedesco. La frontiera è qui una parola macchiata di sangue, spazio ibrido – dove non si conosce né fine né inizio – e dove indi la double souffrance pervade l’anima di chi si cimenta nella sua esplorazione: quell’esplorazione che avviene dentro lessico e sintassi e grammatica, quando diventa faticoso accorgersi della differenza tra il sogno vero e proprio e il credere che si stia sognando, “entre rêver et croire qu’on rêve, […] quelle est la différence? Un rêveur saurait-il d’ailleurs

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parler de son rêve sans se réveiller ?” (Ib., p. 39). L’autore, in un dialogo immaginario con la Musa ispiratrice Hélène Cixous, fa assumere alla letteratura le parvenze di un’esasperata realtà, di un’adiacenza – in senso proustiano – di sonno e veglia, “ti direi persino che in letteratura il sogno non esiste perché in essa ogni sogno è realtà e ogni realtà è vissuta come in sogno, perché sogno e veglia non si oppongono più di quanto non facciano vita e morte, perché l’io non è più mio di quanto non lo sia l’altro” (Ib., p. 40). È la residenza nella lingua, o in più lingue, che nasce nell’anima di chi si sceglie di appartenere alle parole, di chi, come il poeta egiziano di lingua francese Edmond Jabès, ha scelto la propria demeure nell’ospitalità del testo scritto. Versi che danno voce all’inesprimibile e che celano nel loro calzante dictus una riflessione sulla condizione stessa della poesia, fatta di gioie e sofferenze, di voci dialoganti di scrittori e filosofi di epoche differenti, maestri ed allievi, di una marginalità estrinseca che mette però in luce le questioni più profonde del nostro tempo. Così L’intermissione dei cigni ricalca a mio parere la stessa linea tardo novecentesca che si rifà alle esperienze di scrittori quali Celan e Bonnefoy, nonché il già citato Jabès, nella ricerca che ciascuno ha in sé, dello straniero che abita dentro ciascuno. Del cigno che non trova pace se non in versi altrui.

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