Rdp Numero 5

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La Resistenza Della Poesia DIRETTORE RESPONSABILE Giuseppe Ghini COMITATO DI REDAZIONE Monica Bravi Umberto Brunetti Alberto Fraccacreta Matteo Giunta Riccardo Marchionni Alessandro Zaffini HANNO COLLABORATO Sara Buonsanti Lorenzo Carnevali Roberto M. Danese VIGNETTE ED ILLUSTRAZIONI Alessandro Zaffini FOTOGRAFIE Leda Bartolucci Pag. 9 Alessandra Maci Pag. 13, 27 Brunetto Umbertide Pag. 20 PROGETTO GRAFICO La Resistenza della Poesia Logo di Beatrice Schena ABBONAMENTO ANNUALE Versamento di euro 15,00 IBAN IT82Z0200868703000102089414 intestato a La Resistenza della Poesia periodico quadrimestrale REDAZIONE Piazza Rinascimento, 7 - 61029 Urbino email: laresistenzadellapoesia@gmail.com www.laresistenzadellapoesia.it AUTORIZZAZIONE Tribunale di Urbino, N. 2/2012



La Resistenza della Poesia Crisi

EDITORIALE

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La crisi: una diatriba da Intercity di Umberto Brunetti

ZAMPILLI LETTERARI

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Ci sono un Ateniese, un Tebano e un Troiano… di Lorenzo Carnevali

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Spiriti critici di Riccardo Marchionni

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Nel nome di Paolo Rosa di Roberto M. Danese

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Kapuściński, un Erodoto polacco fra le sabbie del Sahara di Monica Bravi

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La rimozione di Matteo Giunta

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L’intervallo tra sguardo e realtà di Sara Buonsanti

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L’addio a Heaney di Alberto Fraccacreta

IL CALAMAIO SCALOGNATO

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Sopra un vento di Salvatore Ritrovato


Anno II / Numero V/ Agosto 2013 Crisi

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Incontro di Alex Vecchio

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Tutti i giorni di Olmo Calzolari

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Na誰f di Letizia Zaffini

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Settembre di Alessandro Zaffini

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Governo di Alberto Fraccacreta

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Le lune di Athayde Grassi

CONSIGLI PER LA LETTURA

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Almanacco dei poeti e della poesia contemporanea di Alessandro Zaffini


EDITORIALE

La crisi: una diatriba da Intercity di Umberto Brunetti

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i ritorno da due settimane di full immersion nel teatro ho abboccato questo agosto a un’a dir poco interessante conversazione con i miei compagni di carrozza del famigerato Intercity Bologna-Bari. Era testé sceso alla stazione di Pescara il mio amico e collega Alberto Fraccacreta, col quale avevo animosamente parlato per tutto il viaggio di pregi e pecche dei nostri Menecmi, quando il signore sulla cinquantina del posto accanto al finestrino richiama la mia attenzione dichiarando che non ha potuto fare a meno di sentire che mi occupo di teatro e con gioviale curiosità m’interroga sulla mia esperienza. Ben attento a non menar vanto, ma con l’inevitabile tono fiero di chi ama ciò che fa, mi accingo a raccontargli de La Resistenza della Poesia e della nostra doppia attività, teatrale e redazionale. Ero appena giunto a parlare degli spettacoli estivi da cui ero reduce, quand’ecco che la taciturna signora sulla sessantina, occhio scrutatore e capel biondo smunto, assisa di fronte a me mi sferza con tagliente domanda: «Ci guadagnate qualcosa?». S’interrompe così bruscamente l’idillio del mio racconto appassionato e come nuvola a ciel sereno mi piomba addosso la consueta pillola amara della retribuzione insussistente. Ammetto allora, senza perdermi d’animo, che ci copriamo a stento le spese, «sebbene nell’ultimo spettacolo gli spettatori siano stati insperabilmente prodighi nel riempire il cappello!». Ma il mio fare allegro – vezzo di natura – non piace alla guardinga matrona, che rincara la dose non appena sente che sono neolaureato in Lettere e, ovviamente, ancora senza lavoro e mi ammonisce: «Di questo non si campa, cosa lo fai a fare?». Vanamente cerco di difendere il mio operato mentre lei, che non so perché si è convinta che io abbia venticinque anni (all’anagrafe solo ventitré), ribatte stizzita che è meglio che

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CRISI mi dia da fare a cercare un lavoro ‘vero’, ad esempio qualcosa che c’entri con l’economia, che di questo c’è bisogno oggi, senza perdere tempo in facezie che non portano il pane a tavola. Facendo ricorso a tutto il mio congenito buonumore per restar calmo, cerco di spiegarle allora che, accanto ai vari amici economisti, c’è bisogno oggi più che ieri di intellettuali, pensatori e uomini di lettere che sappiano indicare una nuova via, che risveglino gli animi dal torpore esecrabile che ci ha spinti in questa nefasta crisi, per colpa della quale, poi, oggi trovare lavoro per un neolaureato in Economia non è assolutamente più semplice che per uno in Lettere. «Quale crisi? Non c’è nessuna crisi» m’interrompe perentoria la signora lasciandomi esterrefatto di fronte a cotanto negazionismo. Per fortuna, anche il simpatico signore del posto accanto al finestrino esprime il suo disaccordo nei confronti di un’affermazione che pare a tutti gli effetti arbitraria. «Comunque sia, se anche ci fosse (la crisi), di certo non si può credere di poter cambiare le cose con la poesia o la cultura». Bang! Ecco il colpo fatale della dirimpettaia passeggera che mi trapassa la milza. «Signora» le rispondo, «quale più lampante prova della crisi, se un ragazzo di ventitré anni oggi su un treno, deve sentirsi esortare dai ‘grandi’ a voltare le spalle ai propri ideali, a lasciar correre tutto com’è senza coltivare la speranza, non dico di cambiare il mondo, ma almeno di poter dare una scossa alla società?». Sì, la crisi c’è davvero, checché se ne dica. Quanto all’interessante conversazione sul treno, purtroppo non sono riuscito a convincere la disillusa passeggera con i miei entusiasmi da ventitreenne. Possa riuscire un giorno a smentire coi fatti la mia compagna di carrozza in quella giornata di agosto sull’Intercity Bologna-Bari. Per adesso continuiamo a fare quello che sappiamo far meglio: scrivere. E tu, seguici lettore! Chi l’ha detto che non c’è al mondo chi possa vivere di letteratura? Seguici, lettore nostro... abbonati anche tu a La Resistenza della Poesia!

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CRISI

Ci sono un Ateniese, un Tebano e un Troiano… di Lorenzo Carnevali

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iviamo tempi di crisi, la crisi è dappertutto. Questa e altre simili affermazioni suonano ormai tanto ovvie e tanto prevedibili da disinnescare sul nascere ogni tentativo di ragionamento: l’evidenza non ammette discussioni. Ma avete mai riflettuto su quanto diffuso e omnipervasivo sia il termine ‘crisi’, e sulla quantità di occasioni in cui un uomo comune viene a contatto con esso? Prendete ad esempio un giovane adulto, un diciottenne di oggi: al termine del suo ultimo anno di scuola (per ipotesi, il Liceo Classico) avrà studiato – e sarà esaminato su – la crisi del ’29 (storia), la crisi del romanzo (italiano), la crisi dell’oratoria (latino), la crisi della polis (greco), la crisi dei valori al termine dell’età vittoriana (inglese), la crisi dei modelli di rappresentazione (fisica); si salvano – forse - la matematica (ma i teoremi di incompletezza di Gödel?) e le scienze naturali (ma Husserl e la crisi delle scien-

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ze europee?), speriamo che si salvi almeno l’educazione fisica. Sempre il nostro liceale avrà sentito il parroco lamentarsi della crisi delle vocazioni, al bar si sarà imbattuto, sfogliando la Gazzetta dello Sport, in un titolo a nove colonne sulla crisi di risultati del Milan o un’analisi sulla crisi dell’ippica in Italia. Senza parlare poi di zia Marta in crisi con il suo Guerrino, della crisi isterica di papà di fronte alle dodici insufficienze in pagella, di mamma con la crisi di mezza età. E lasciamo stare la crisi vera, quella su cui inesorabilmente vanno a cadere tutti i discorsi da qualche anno a questa parte, nella sala d’aspetto del dentista come sul New York Times: insomma, se la parola ‘crisi’ emanasse radiazioni nessuna forma di vita potrebbe sopravvivere ad una esposizione tanto prolungata senza riportare danni permanenti. La parola crisi, per parte sua, non è affatto logora e a differenza di molte altre parole non sembra sia stata resa inservi-


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bile dall’uso continuo e ininterrotto che se ne fa: potrebbe dipendere dalla sua relativa giovinezza – da voce colta della tarda latinità a termine del lessico medico del sec. XVII – o da una ricchezza di significati così rigogliosa da renderla pressoché inesauribile. Ma non voglio procedere con un’analisi semantica: spiegare che «crisi viene dal gr. κρίνω: decidere, scegliere, giudicare», o che «l’ideogramma con cui i cinesi indicano crisi (Wej-ji) è composto dal segno che significa ‘pericolo’ e quello che significa ‘opportunità’» è un esercizio che lascio volentieri agli utenti dei social network, insieme alle citazioni sparse di Einstein, di Bukowski, di Baricco, dei Club Dogo.

E visto che non pare esserci attività umana o campo dell’esistenza immuni da una forma qualunque di crisi1 il panorama può diventare davvero desolante. «Ma allora – ribatte esasperato il giovane liceale – dalla crisi non si uscirà mai!» Storicamente, no: la storia ci insegna che si esce da una crisi per entrare in un’altra.2 La scienza lasciamola perdere. Forse la letteratura, magari i classici: «Ci sono un Ateniese, un Tebano e un Troiano...». Non è una barzelletta: si tratta di Socrate, di Edipo, di Enea; andiamo ad osservarli nel momento più acuto della loro crisi: Socrate è in carcere, condannato a morte. Riceve gli amici, quei discepoli che a quan-

1 In un seminario a Stanford (Autunno 2006) Martin Evans e Marsh McCall proposero la seguente tassonomia: “personal crisis, family crisis, political crisis”, ovvero “crisis as universal human condition”. 2 Nel saggio Leopardi, Belli, Manzoni e la situazione italiana Andrea Zanzotto suggerisce implicitamente, ma in modo acuto ed

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CRISI to pare non hanno imparato nulla vogliono persuadere il Maestro a fuggire contravvenendo alle leggi. Al povero Socrate non resta altro che far parlare loro, le Leggi Della Città: «Pensi che possa sopravvivere e non essere sovvertita una città in cui le sentenze pronunciate non hanno efficacia e possono essere invalidate e annullate da privati cittadini? [...] O Socrate, da’ ascolto a noi che ti abbiamo allevato, non dare ai figli, alla vita o a qualunque altra cosa un valore più grande che alla giustizia».3 Edipo è intrappolato in un videogioco: il castello delle sue certezze gli si sta sgretolando alle spalle. Ad ogni passo, un crollo. Tutti lo scongiurano di fermarsi per il suo bene, persino la sua sposa (la mamma!): «Non darti pensiero, non cercare invano di sapere / ciò che è stato detto».4 «Non mi lascerò persuadere a non andare fino in fondo».5 Edipo ha capito che la verità sarà la sua rovina, ma sa anche che la verità è l’unica condizione che lo renderà per la prima volta non eroe, non re salvatore e guaritore, ma uomo. La Sibilla Cumana accoglie Enea profugo in Italia. L’eroe, pio, le rivolge una preghiera: «Sibilla, dimmi che questa è la Terra Promessa e che io ed i miei abbiamo trovato il termine del nostro errare». La risposta della Sibilla è rassicurante e tremenda: «O tu, infine scampato ai pericoli grandi del mare / (ma sulla terra ne restan di più gravi), verranno i Dardanidi / ai regni di Lavinio, quest’ansia allontana dal cuore, / ma non es-

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ser venuti vorranno: guerre, orride guerre / vedo, e il Tevere tutto schiumare di sangue abbondante. / Non Simoenta né Xanto ti mancheranno, né il dorico/ campo; già generato è un nuovo Achille nel Lazio, / nato anch’egli da dea».6 Insomma, Enea, in cambio della Terra Promessa dovrai affrontare un’altra Guerra di Troia e vivere una seconda volta il tuo passato. Ma Enea sa che le uniche armi di chi deve andare avanti senza poter tornare indietro sono il coraggio e la pietà, e come colui che non può permettersi neppure la nostalgia, agisce di conseguenza. La crisi di un condannato a morte ingiustamente (ma esistono condanne a morte giuste?) ci insegna a rispettare la legge, quella di un re che cade ci insegna il prezzo della verità, quella di un profugo ci insegna il coraggio e la pietà. Non sono prescrizioni, ma esempi, una cornice in cui sistemare la nostra crisi e poterla inquadrare meglio: in un angolo del quadro forse c’è una via d’uscita. Una via d’uscita: non è abbastanza per la vita di un uomo?

efficace, che l’inizio della storia umana è di fatto l’inizio del suo stesso sfacelo. Forse si potrebbe risalire indietro fino al Big Bang. 3 Platone, Critone 50b; 54b, trad. it. mia. 4 Sofocle, Edipo Re 1056-7, trad. it. mia. 5 Sofocle, Edipo Re 1065, trad. it. mia. 6 Virgilio, Eneide VI, 83-90, trad. it. A. Fo, Einaudi, Torino 2012.


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Spiriti critici Dubbio e genio in riferimento alla poetica di Mario Luzi di Riccardo Marchionni

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niziare una riflessione su Mario Luzi partendo dal termine ‘genio’ potrebbe sembrare uno sterile esercizio di adulazione postuma. Tuttavia le osservazioni che seguono si muovono sul solco tracciato da alcuni caratteri che hanno contribuito costantemente, nella storia della letteratura, a definire la genialità; caratteri che Luzi medesimo ha riproposto come distintivi e determinanti per indagare il concetto in questione, e che mi sembra si adattino a delineare anche la sua figura letteraria. È presente nell’opera del poeta toscano1 un continuo mettere – e mettersi – in dubbio; un ‘atto critico’, intendendo la ‘critica’ come una suddivisione atta a valutare e soppesare le cose. Qui l’etimologia ci viene incontro; ‘criticare’, dal verbo greco κρίνω, significa appunto ‘distinguere’, ‘giudicare’. La stessa radice si ripropone in ‘crisi’ e ‘criterio’. Il senso profondo della parola suggerisce dun-

que una ‘frazione’ fra più termini. Soffermandosi sulla matematica spicciola che quest’ultimo vocabolo ci propone, la frazione altro non è che una divisione in potenza, incompleta, ‘in tensione’; è in attesa di un’operazione che la riduca, dal duo numeratore/denominatore (o dividendo/divisore), a un unico termine. Una volta completata, essa darà un risultato, frutto della divisione: il cosiddetto quoto o quoziente. Per non rischiare di perdersi in qualche regione di confine tra etimologia, matematica e chissà che altro, conviene qui riallacciarsi, con gli opportuni contributi dell’etimo, al senso che Mario Luzi attribuisce all’atto critico. Nel suo saggio Del progresso spirituale l’autore, indagando la natura degli ‘spiriti acuminati’ – e dunque, del genio –, rende perfettamente l’idea del processo interiore che, accennato dalla precedente definizione matematica di ‘frazione’, si cela dietro l’atto critico:

1 Qui si prenderà in esame soprattutto quella saggistica.

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CRISI «una riduzione a se stessi è questo l’aspetto che assume il cammino degli spiriti acuminati, un cammino di tanta difficoltà e di tanta energia quanto è più vero che uno spirito acuminato è anche uno spirito inquieto, soggetto a smarrirsi nella rete delle emozioni».2 Uno spirito in crisi, mi verrebbe da dire. Nonostante non abbia l’intenzione di instaurare un sistema di ricerca e di analisi dell’arte e dell’artista a partire da questa considerazione, Mario Luzi mette splendidamente in evidenza quella che credo sia una radice fondamentale dell’idea che bisognerebbe intrattenere di genio artistico e poetico. La crisi è profondamente radicata nella storia della letteratura, ed è un momento fondamentale nella formazione di una personalità letteraria.3 La si ritrova nel percorso di Dante nella Commedia, rappresentata dall’atto iniziale di ‘entrare nella selva’. Il passaggio attraverso l’Inferno è una rincorsa necessaria e inevitabile; anche se i ‘muscoli’ della ricerca spirituale si sfaldano nel processo, ne escono comunque liberi, snelli, pronti a quel salto volto a «riveder le stelle», quel balzo che avviene solamente dopo l’abbraccio con la Bestia. L’atto critico scaturisce dal dubbio, e si realizza nel viaggio infernale, nella sofferenza e nel conflitto interiore che sono caratteristici di Dante e, per Luzi, di ogni ‘uomo attivo’. Questa ‘attività’ spirituale dell’essere umano, appunto, ci rammenta un altro episodio della Commedia molto vicino al concetto

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di ‘naturalezza del poeta’, condizione primaria del genio poetico nel pensiero luziano: mi riferisco all’incontro di Dante con Matelda, la ‘donna soletta’ che coglie fiori cantando nel giardino dell’Eden. Ed è interessante, riguardo questo passo, l’osservazione di Pascoli secondo cui Matelda sarebbe significante appunto della ‘vita attiva’, in particolare artisticamente. Il suo cogliere fiori e il suo canto costituirebbero la perfetta riconciliazione della voce umana del poeta con quella della natura. E l’attività artistica e spirituale così intesa da Pascoli pare vicina all’intuizione che Luzi esterna ne La naturalezza del poeta: “«la voce del vero poeta dà sempre l’impressione d’una voce perpetua che ricomincia miracolosamente a parlare in quel punto».4 Si badi bene che, come precisa Luzi stesso, questa riconciliazione o reintegrazione non ci si deve presentare con le credenziali del fanciullino «alla cui innocenza tutto si rivela dalle origini».5 Ciò sarebbe limitante, in quanto lo stadio del fanciullino ha tutte le caratteristiche di una ‘meta finale’, quasi un nirvana dello spirito poetico; e, per quanto sia anch’esso frutto di una riduzione critica e di un frazionamento di se stessi, rischia, con quel suo sentore di ‘fine ultimo’ dello sviluppo spirituale, di privare il poeta di quella libertà che gli permette di avvertire la sua opera e la sua voce come «una pura determinazione del tempo e della lingua, un’operazione logica o [...] matematica inevitabile e che

2 M. Luzi, Del progresso spirituale in La naturalezza del poeta, Garzanti, Milano, 1995, p. 54. 3 Si potrebbe benissimo affermare che essa sia un momento fondamentale nella formazione della personalità in generale, ma si entrerebbe in un discorso molto più ampio. 4 M. Luzi, La naturalezza del poeta in La naturalezza del poeta, Garzanti, Milano 1995, p. 79. 5 Ibid., p. 77.


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possa sembrare fatta da chiunque altro e anzi, per meglio dire, neppure fatta, ma esistente in natura».6 Una libertà, dunque, che non è del fanciullino, ma della Natura stessa. Il poeta la trova nella sua de-terminazione; come in natura, egli realizza processi e leggi interne che sono conosciute solo a lui, e tuttavia non vorrebbe avere e non vorrebbe sentire,7 il bisogno di spiegare e quindi ‘terminare’ – ossia nominare, attribuire ter-

mini – questi movimenti del suo spirito. E questo proprio perché il primo dei pensieri del vero poeta è davvero quell’opera ‘esistente in natura’, quindi manifestazione dell’Inspiegabile – che cos’è la Natura, se non la manifestazione di forze che non comprendiamo? Le parole di Luzi sono foriere di verità, poiché è davvero in questo solco che si ritrova l’idea di genio più riconoscibile e che più ci attrae: nel ridursi e svelarsi pro-

6 Ibid., p.79. 7 E si potrebbe aggiungere: ma sente tale bisogno, tuttavia, in quanto essere umano e sensibile.

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CRISI gressivamente attraverso il dubbio, la critica interna, il lento svolgimento di un destino individuale inspiegabile che il genio sente solo suo. Facendo prima riferimento alla Commedia, si è però toccata solo una zona, benché vastissima, del tema preso in esame. Si pensi, ad esempio, all’origine della grandezza e del genio di Dostoevskij. Chi meglio di un uomo la cui fede passava ogni giorno attraverso ‘il crogiuolo del dubbio’ può corrispondere a quella definizione di spirito inquieto e smarrito che Luzi fa coincidere con la genialità? Tra le pagine del grande scrittore russo vediamo come i suoi dubbi si traducano nei personaggi a cui dà vita; basti pensare a I fratelli Karamazov, un’opera in cui questa trasfusione di idee dall’autore ai personaggi risulta estremamente netta, forse per l’iconologica – ma non troppo, e non sempre – rappresentazione di questi ultimi. E senza dubbio il conflitto interiore di Dostoevskij si riversa maggiormente nel personaggio di Ivan Karamazov. Personaggio estremamente caro all’autore, Ivan ‘l’enigma’, come lo chiama il fratello Alёša, rappresenta la grande sofferenza derivante da quel grande problema che assilla sia lui che Dostoevskij stesso: l’esistenza di Dio. Attorno a questo dilemma sorge il carattere geniale di Ivan Karamazov: geniale perché è lui che pone la terribile questione attraverso la sensibilità del ragionamento e dell’arte; poiché è Ivan che com-

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pone quel poemetto che dà vita a uno dei più grandi episodi della letteratura mondiale, Il Grande Inquisitore. Il pensiero sofferto di Ivan, quel bacio di Cristo che ‘brucia in cuore’ all’Inquisitore è dimostrazione che il giovane Karamazov non è semplice personificazione di un nichilismo sterile e assoluto, un’entità marmorea rappresentante una sorta di ‘antiteismo morale’. È piuttosto uno spirito in movimento e in crisi, voce dello stesso dubbio di Dostoevskij. L’autore ha preso in mano la penna per indagare quel dubbio, non per spiegarlo ai lettori, esaminandolo da tutti i vari punti di vista facenti parte della sua personalità, soppesando se stesso in un continuo atto critico. Solo una grande personalità scissa come lo era quella dello scrittore russo può riuscire nell’intento. Dostoevskij: anche lui fautore e vittima di quel frazionamento, di quello ‘scomponimento dubitante’ che Luzi attesta come origine del genio. I segni particolari che riscontriamo nei grandi della letteratura si trovano, dunque, anche in Luzi medesimo, nelle trame di un ‘pensare-poetare’ che trova il suo centro nell’atto critico. La crisi è inevitabilmente un elemento connaturato alla genialità poetica, senza il quale non è possibile riconoscere un percorso e uno sviluppo dell’essere umano e, di conseguenza, nemmeno una qualsivoglia ricchezza nella poesia stessa.


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Nel nome di Paolo Rosa Appunti sulla crisi (forse non irrevocabile) della cultura italiana di Roberto M. Danese

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iamo tutti stratificati nella nostra gloriosa storia, la portiamo nel nostro DNA, ma negli ultimi anni è stata molto svilita. Dobbiamo ritrovare questo filo conduttore perché sarà, probabilmente, la nostra salvezza. È l’unico punto da cui possiamo chiamare una certa capacità di emergere rispetto al mondo e valorizzare la nostra unicità». Paolo Rosa, uno degli artefici di quella grande avanguardia culturale che stata ed è Studio Azzurro, è morto improvvisamente il 20 agosto 2013: il vuoto che ha lasciato è simbolo del vuoto nel quale rischia di piombare la nostra grande cultura. Perciò mi piace cominciare un pezzo sulla crisi di letteratura, poesia, teatro, arte, musica con queste sue parole, forti e vere, prese da un’intervista rilasciata a Il Sole 24Ore il 19 gennaio 2012. Dal pensiero di Rosa spiccano alcuni concetti: storia, unicità, svilimento, salvezza. Se li colleghiamo diegeti-

camente possiamo forse ricostruire il percorso che ci ha condotti, noi italiani, sull’orlo dell’abisso. Abbiamo una grande storia sedimentata sul nostro presente, fatta soprattutto di libri, di opere d’arte, di grande musica e di un teatro di tradizione secolare: vive ancora in noi quell’umanesimo che ha fatto sì che nel Quattrocento l’Italia, almeno un secolo prima degli altri, aprisse la strada verso la cultura moderna, insegnando a pensare al mondo occidentale. Questo fa del nostro Paese un’entità geoculturale (non politica) di enorme rilevanza, anche perché tiene in sé i germi di quella civiltà latina che ha resistito nei secoli, come vedremo, proprio grazie ad una grande poesia e una grande lingua. Questo è il bagaglio storico-culturale che ci rende unici, questo è il motivo per cui nella nostra penisola ci sono i depositi più preziosi della cultura mondiale. La Biblioteca Apostolica Vaticana con i suoi tesori sta da noi, nel cuore

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CRISI

di Roma, perché lì c’era la Roma antica, la capitale di quell’impero che la Chiesa ha saputo ereditare e perpetuare, impossessandosi soprattutto della lingua latina e continuando ad usarla come strumento di ecumenismo ben oltre i limiti della sua esistenza: e questo attardare la lingua è comunque il salutare cascame del far letteratura, del far poesia. Firenze ha gli Uffizi, il più importante museo del mondo, perché la dinastia medicea ha voluto fare di questa città la nuova Atene, guardando decisamente al futuro, ma tenendosi ben aggrappata alle civiltà che il futuro avrebbero potuto nutrire. Abbiamo coscienza e rispetto di queste cose? Possiamo cercare di risolvere il quesito ponendoci qualche domanda sull’esempio illustre di Pompei, l’unicum archeologico che il mondo ci invidia. Quanti italiani sanno esattamente cosa c’è a Pompei? Quanti sono in grado di apprezzarne veramente, oltre i

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depliant patinati, i valori artistici e antropologici? Quanti possono capire e leggere i meravigliosi graffiti che ridanno voce a quella civiltà sepolta? Le risposte vengono o dal degrado organizzato che le nostre Istituzioni hanno scientemente imposto, qui come altrove quando si tratta di beni culturali, senza che un moto di civile indignazione scotesse gli Italiani (a parte il solito sdegno composto di pochi noiosi ‘intellettuali’) o da populistici impianti critici di tipo ‘aziendalistico’ come quello della trasmissione Petrolio del 16 agosto 2013. Questo è solo uno dei tanti flussi del processo lento e inesorabile con cui si svilisce ciò che invece dovrebbe onorarci. Ed è uno svilimento programmato, fintamente rispettoso dei nostri patrimoni culturali, ossequioso a regole di un mercato del lavoro che non ha più posto per ciò che non attiri investimenti. Perciò un fondamentale lavoro critico su un po-


ZAMPILLI LETTERARI eta del Cinquecento non merita interesse perché Fazio non ne parlerà mai in televisione, come non ha senso tenere aperto un museo che non vende bene le cravatte con la Venere di Botticelli, come è da ritenersi assurdo continuare a finanziare gloriose istituzioni culturali che non attirano soldi e non interessano la casalinga di Voghera, scuole e università che non siano carnai informi di migliaia e migliaia di studenti sempre peggio preparati, perché la qualità scientifico/culturale non può che equivalere ad una saggia razionalizzazione dei costi. Questi sono solo alcuni dei tratti cerei della crisi che sta attanagliando la nostra cultura, al prezzo sanguinoso della perdita di coordinate storiche e culturali che rendevano fino a poco fa eccellenti, seppur ingabbiate da un deficit di internazionalizzazione, anche le nostre strutture formative. Un ottimo ingegnere italiano un tempo sapeva leggere Gadda o Dante, tra non molto un ottimo ingegnere italiano forse non saprà nemmeno chi sono questi due (e sarà più tecnico, ma meno cittadino). I giovani, anche i più bravi e motivati, faticano sempre di più a trattenere quei fili che li legano ad un passato fondamentale, che, purtroppo, il mondo occidentale intero, salvo clamorosi pentimenti, sta inesorabilmente recidendo. Noi italiani arriviamo sempre in ritardo e lo siamo anche in questo: per fortuna. Abbiamo forse ancora qualche possibilità oltre Quark, Voyager, Sgarbi et similia. Nelle scuole troviamo anco-

ra insegnanti che hanno le chiavi della nostra storia culturale; nelle strade incontriamo ancora giovani che vogliono leggere ‘gratis’ Virgilio e Montale, magari senza rinunciare a Dan Brown. Abbiamo poche università, pochi professori e ricercatori, una formazione finanziata con numeri terzomondisti eppure riusciamo a stupire il mondo per la qualità del nostro lavoro a livello scientifico (guardate i dati veri e non ascoltate le elucubrazioni di chi pensa solo a sottrarre risorse alla creazione di italiani più intelligenti e consapevoli). Considerare questi fatti, queste persone, le loro idee e i loro talenti un valore per il quale bisogna combattere e resistere, un valore ben più grande del giornaliero segno positivo in Borsa è forse la nostra unica salvezza. E questo non significa fare passatismo, ma far cultura, nel modo più limpido e tradizionale che ci sia. Paolo Rosa era un mago dei linguaggi audiovisivi, del teatro interattivo, delle nuove tecnologie usate per creare una poetica del nostro tempo, insomma un uomo profondamente radicato nella contemporaneità, un artista capace di guardare avanti senza paura, un uomo che non aveva tuttavia remore a dire che ritrovare il filo conduttore con il nostro passato è forse l’unico modo per salvarci da una crisi che sta per sprofondare nel buio la nostra creatività e la nostra capacità di immaginare nuovi mondi, uccidendo dunque l’arte del dubbio e della critica. Ma forse non è ancora troppo tardi...

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CRISI

Kapuściński, un Erodoto polacco fra le sabbie del Sahara Varcare la frontiera della dittatura di Monica Bravi

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arsavia 1955 – Nunc demum redit animus: finalmente si torna a respirare. Stalin è morto da due anni, i negozi, ancora semivuoti, riaprono, i libri cominciano timidamente a riapparire sugli scaffali, e il giornale Sztandar Mlodych, ‘La Bandiera dei Giovani’, invia il suo giovane reporter ai villaggi di frontiera per raccogliere le testimonianze sui soprusi del dittatore. È proprio lì, ai confini estremi della Polonia, che un bisogno nuovo di varcare la frontiera, di vedere cosa c’è al di là di quei confini, invade il giovane neolaureato Ryszard Kapuściński, che di lì a pochi anni diventerà uno dei più noti reporters d’Europa, e che raccoglierà i ricordi di anni e anni di peregrinazioni nel suggestivo In viaggio con Erodoto.1 Senza quasi conoscere l’inglese, senza aver mai messo piede fuori dalla Polonia, Kapuściński, un giorno, esprime alla sua caporedattrice il desiderio di andare

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all’estero. «Cosa c’era dall’altra parte? Senza dubbio qualcosa di diverso. Ma diverso in che senso? Che aspetto aveva? A che cosa somigliava? Forse non somigliava a niente di ciò che conoscevo e per ciò stesso era inconcepibile, inimmaginabile? In fin dei conti il mio massimo desiderio, quello che più mi turbava, tentava e attraeva, era di per sé estremamente modesto: la pura e semplice azione di varcare la frontiera». Detto fatto: la caporedattrice, sulle prime esterrefatta di fronte ad una richiesta tanto inusuale, lo spedisce in India, regalandogli per il viaggio un’opera che lo accompagnerà in tutte le successive peregrinazioni, e che si rivelerà profetica: le Storie di Erodoto. Proprio da Erodoto, lo storicoviaggiatore, il primo vero reporter, Kapuściński apprende i ferri del mestiere, sperimentando ben presto che l’incontro con l’alterità è un ‘trauma’ irrinunciabile, che genera anche una certa dipendenza.

1 R. Kapuściński, In viaggio con Erodoto, trad. it. V. Verdiani, Feltrinelli, Milano 2005.


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Partito senza alcuna conoscenza del paese d’arrivo, sprovvisto di ogni possibile appiglio così come di ogni eventuale preconcetto, decide di affidarsi totalmente alla gente del luogo, lasciandosi guidare dagli eventi, dalle abitudini e dai ritmi di quelle terre per penetrarne a fondo i segreti. A Roma, in India, in Cina, in Africa e in Iran Kapuściński fa i conti sempre di più con se stesso, con la propria identità di ‘straniero nel mondo’, proveniente da un paese che è già di per sé una terra di frontiera, situata al confine fra un Occidente all’avanguardia e incomprensibile, «quell’Occidente che mi avevano insegnato a temere come la peste», fatto di vestiti all’ultima moda e caffè rigurgitanti di gente, e l’estremo Oriente, quello dei cadaveri cremati sul Gange, delle rovine di Persepoli, della Grande Muraglia cinese. Ma la vera muraglia il reporter la incontra in ogni soggiorno, ed è la lingua, il solo strumento che possa penetrare un popolo: eccolo allora intento a studiare l’inglese, decifrare ideogrammi, tentare di tradurre opere locali, per poi rinunciare e tornare indietro ancora più incuriosito di prima. Ben presto l’incomunicabilità verbale lo spinge a rivolgersi alle potenzialità del linguaggio non verbale, come impara in Etiopia con il suo autista Negusi, il quale comunica perfettamente con lui servendosi delle sole parole inglesi che conosce, problem e no problem, e con un’infinità di piccoli gesti, espres-

sioni del volto, toni di voce. Compagno di viaggio e di ritorni, Erodoto è una presenza costante, una fonte nella quale Kapuściński ama ritemprarsi, perché lo immagina proprio come se stesso: «un greco di confine» e dunque un «cittadino del mondo, un irrequieto che non riesce a stare fermo», succube come lui del «virus del viaggio, malattia sostanzialmente incurabile».2 Il reporter polacco, tra un arrivo e una nuova partenza, oppure in qualche albergo di Calcutta piuttosto che de Il Cairo, si diverte a vagheggiare il suo antenato greco, a immaginarlo intento nei preparativi del viaggio, oppure a vagare per l’Asia in compagnia di un immancabile servo, come un Don Chisciotte con il suo Sancho Panza ante litteram. Sente che ad animare entrambi i viaggiatori, l’antico e il moderno, è la stessa consapevolezza che la conoscenza non è nient’altro se non un deposito di esperienze e di racconti, basato sull’osservazione diretta, sul contatto con le persone e sulla memoria. Il racconto procede, come quello erodoteo, per quadri di immagini, digressioni etnicoreligiose, episodi storici frammisti ad aneddoti di vita quotidiana, e la storia scorre dietro questo flusso indistinto e sterminato di materia da narrare dando l’impressione che le vicende di cronaca, che lui vive di persona e documenta negli anni della decolonizzazione, della propaganda di Mao Tze Tung, delle rivoluzioni islamiche, non potrebbero essere comunicate

2 Ibid., p. 80.

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se non attraverso lo sguardo stupito, spaventato o commosso di chi quei posti li vive sulla propria pelle: il concerto di Armstrong in Sudan, il furto subìto su un minareto de Il Cairo, la giungla spettrale del Congo attraversata dai profughi, l’alba nel deserto del Sahara. Si tratta di suggestioni diverse, talvolta confuse e disordinate che riproducono in diretta lo sguardo straniato dell’europeo che improvvisamente scopre altre realtà ‘non europee’, che vivono, prolificano e si mescolano in paesi lontani. Eppure mai così lontani da non poter offrire esperienze tristemente familiari, come lo spettro sempre costante della dittatura. Il potere assoluto di un governante che

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si serve di una massa inerme e informe come strumento del potere, Kapuściński lo ritrova in Cina, in Egitto, così come nel racconto erodoteo della follia omicida di Cambise, o dello sterminio del proprio esercito voluto da Dario per conquistare Babilonia. La logica lucida e spietata dei totalitarismi, del conformismo esasperato, della propaganda, della violenza gratuita autorizzata, finiscono per essere la cifra unificante delle epoche e dei popoli, dalla dinastia achemenide fino alla contemporaneità. Ecco che le vicende, i popoli e i piani temporali si susseguono e si intersecano, creando un groviglio difficile da districare: tanto vale abbandonarsi al racconto del reporter e alle suggestioni erodotee,


ZAMPILLI LETTERARI che si compenetrano con una tale forza che, ben presto, non è più possibile capire dove finisca l’uno e comincino le altre. È facile allora intravvedere, dietro la descrizione dell’assemblea tenuta da Serse alla vigilia della spedizione in Grecia, echi di quell’atmosfera di terrore, di quel ‘clima di supina acquiescenza’ che doveva regnare, in un tempo molto più vicino al reporter polacco, nelle sedute dell’Ufficio politico di Stalin, il quale sembra essere tanto presente pur non essendo nominato che una o due volte. Kapuściński si chiede continuamente cosa possano aver provato le persone mandate al macello per un capriccio del dittatore, ed è ossessionato da quel «carattere imprevedibile e squilibrato», da quell’«insieme di contraddizio-

ni» che sembrano comuni a tanti potenti della storia. Lo sguardo soggettivo del viaggiatore, partito dalla sua Polonia dopo la fine della paura e del silenzio, finisce per dar voce ad un dolore universale che si ripete sempre identico nella storia. Per quanto individuali, sconnesse e talvolta persino ingenue, le sue testimonianze tradiscono una tensione continua, un’esigenza profonda di individuare un filo comune, che possa illuminare, unificare e dotare di senso (o di non senso) le vicende. Questo fa di Kapuściński un esploratore, oltre che di luoghi e di epoche, dell’infinito spazio del racconto, «dove la realtà si mescola alla fantasia, i tempi e i luoghi si confondono, nascono le leggende e sorgono i miti».3

3 Ibid., pp. 171-2.

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La rimozione La crisi secondo un poeta della generazione ‘di mezzo’ di Matteo Giunta

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risi. Parola tanto adoperata ed abusata a tal segno da essere divenuta ormai la cifra di un’intera epoca (la nostra). Ma oltre al suo significante, a quel suono così eufonico che tanto comodamente si sistema nelle nostre conversazioni quotidiane, sappiamo davvero di cosa stiamo parlando? Secondo l’opinione attuale sembra che un ‘momento di crisi’ sia un brutto momento, tutto qui. Un periodo di tempo in cui lo status quo si trova in difficoltà, ‘in crisi’ appunto, e ciò è esatto. Ma sempre secondo la concezione attuale sembra che tale stato sia marcatamente negativo, e ciò è sbagliato. Crisi economica, crisi dei valori, crisi del romanzo, crisi della cultura, della poesia, ecc. Si parla di crisi come di un mostro che minaccia l’ordine costituito, e ciò è esatto. E se ne ha paura: ciò è sbagliato. Perché nel termine stesso è racchiuso sì un significato negativo, che minaccia (si pone un ostacolo all’ordine) un sistema,

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ma consente pure che un ‘nuovo’ stato di cose nasca sulle ceneri del vecchio, sul cadavere del passato. Quell’ordine che viene minacciato si appresta ad essere sostituito, o nel più ordinario dei casi, ristabilito. Davide Nota è un giovane poeta che nella crisi ci è cresciuto. E non parlo solo della crisi della poesia e del suo pubblico (e dei poeti stessi, perché no), e neppure della tanto temuta crisi economica; parlo della ‘Crisi’ vera e propria, quella sociale. Usando una metafora gramsciana:1 vi è crisi sociale quando il vecchio muore e il nuovo non può nascere. In questa situazione, come tanti giovani degli anni ottanta, è vissuto Davide Nota, appartenente a quella che può essere definita una generazione ‘di mezzo’, una generazione per la quale pare non esserci posto nel mondo. La sua carriera poetica e militante inizia nel 2005 quando con alcuni amici fonda la rivista culturale La Gru, ed è nello

1 Cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere, cur. Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1975. Quad. 3 Par. 34, Vol. 1 p. 311.


ZAMPILLI LETTERARI stesso anno che pubblica il suo libro di esordio: Battesimo, con una introduzione di Gianni D’Elia. Fin dalla prima pubblicazione è chiaro come l’ispirazione del poeta sia di carattere critico e come uno degli interrogativi principali della sua poesia si fondi proprio sulla riflessione gramsciana sopra la crisi italiana degli anni ’20 e il suo ripresentarsi oggi, anche se diverse sono le dinamiche dell’oppressione del vecchio (che agonizza) sul nuovo (che non ha spazio per nascere). Era dispotismo e sete di potere ieri, oggi è stanchezza e assenza di valori. Il libro su cui si concentra la mia riflessione è l’ultimo pubblicato dall’autore, uscito nel 2011 con la casa editrice Sigismundus (di cui è anche il direttore): La Rimozione. La silloge si apre con quello che assomiglia ad un dipinto, una galleria di immagini naturalistico-decadenti che rappresentano la realtà sociale abitata dal poeta e dalla sua generazione. «Cenere» e «neve» compaiono come sudari sopra il verde che non trova spazio per nascere, e anche quando uno spiraglio sembra aprirsi non sono che sterpi a mostrarsi. Ci troviamo proiettati, tramite questi componimenti, in un ambiente naturale, boschivo, ma dove la vegetazione non si staglia, piuttosto si nasconde dietro un velo di foschia, come un ‘rimosso’: «Qui dove sola e quasi sconosciuta / fu l’eco del sentiero felce ignota / la muta della serpe secca i rovi, / il nome esattamente di mio padre».2 Con questa quartina (La muta è

il titolo della poesia) Davide Nota apre la raccolta, e subito ci proietta in questo ambiente naturale, (che pure conserva un sapore di artificio), ma dove ogni elemento si carica di un senso che oltrepassa la descrizione e si fa simbolo. Cos’è la ‘muta’? La muta è la pelle che il serpente abbandona a terra affinché nuova pelle possa nascere a sostituirla. E non a caso, accanto alla terra in cui secca la ‘muta’ (ma per ipallage anche la terra sembra seccarsi, e così è), compare ‘il nome del padre’. I padri: ecco lo status quo ch’è in crisi. Eccolo questo vecchio che, ormai morto, non lascia spazio al nuovo (ai figli) di nascere, di sbocciare. C’è qualcosa che grida il suo diritto di nascere, ma macerie, materia inerme ormai, lo blocca, lo intrappola. Sì, perché il nemico che impedisce al germoglio di fiorire non è mai qualcosa di attivo, e che agisca con una volontà forte, è, anzi, materia informe, oscura, in via di decomposizione o in agonia. Nella quartina appena citata era la pelle della serpe, ma non mancano altre immagini. E il secondo componimento della sezione La muta mostra quasi un elenco (una galleria) di immagini tutte a significare appunto questo esilio nell’ignoto, questa chiusura, questa impossibilità di nascere, di uscire allo scoperto. «L’oggetto rimosso che vivo non vede», oppure «Deserto il sentiero, / il bisogno del ramo coperto. Ma dove / la neve un germoglio che non conosceremo».3 E per la prima volta in questi versi compare una parola

2 Tutte le citazioni sono tratte da D. Nota, La rimozione, Sigismundus, Ascoli Piceno 2011. 3 I corsivi nelle citazioni sono miei.

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CRISI chiave, di matrice freudiana, che dà il nome all’intera raccolta: ossia Rimozione. Rimossa è la storia (un’intera sezione di sapore pasoliniano, Il fiore del fascismo universale, è dedicata a questo argomento), la sessualità e la vita carnale (La gravità), l’esistenza è rimossa, rimossa è persino la natura e l’origine: «Il mio corpo ricusato dalla storia satura / su una sedia che aspetta la secca sera, / ricusato trascina una lettiera / ad un angolo oscurato della cucina infetta. / L’informe speranza di servire un giorno / alle carezze sotto il mento di una, / ma ricusato è il ritorno nella secca natura satura / di monossido di carbonio e di parole…». Non c’è dunque più spazio. Non per il poeta, non per il ragazzo, non per il suo corpo. E non c’è per la sua generazione. A conclusione si apre un bilancio drammatico e catastrofico: un mondo distrutto,

una storia satura, una natura ancor più satura. E ancora più terribile è la visione del mondo che il poeta descrive nei versi di Rappresentazione, dove non solo ‘il vecchio’ ha trasformato il mondo in un feticcio e l’esistenza in una vuota rappresentazione di sé stessa: ma anche ‘il nuovo’, quella stessa giovane generazione tanto pianta appare come degenerata, «sballata di pasticche e psicofarmaci». Una generazione che, dunque, privata della luce «del sole» e del nutrimento «di fontana» non riesce a edificare nulla sopra questa assurda rappresentazione. Ma al di là di tutto una qualche speranza, timida, sembra echeggiare in questi versi così cupi, e forse è proprio nella poesia che si rifugia la salvezza, nella comunione di un sentire, nel vedersi uniti, parte di un gruppo, nello stare insieme di fronte allo sfacelo.

E quella notte apparvero infuocate croci. Un cimitero di bottiglie incomprensibile ai più. Paesaggio verde e nero di infrarossi e fanale. In fila pisciavamo contro il mare. “Starò con i miei amici fino alla fine del mondo”.

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L’intervallo tra sguardo e realtà Dalla parzialità dello sguardo nel cinema moderno al suo collasso nella post-modernità di Sara Buonsanti

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n un’epoca in cui ognuno di noi vive quotidianamente immerso nella tecnologia digitalizzata risulta necessaria una riflessione sull’evoluzione del linguaggio cinematografico per comprendere quanto sia vicino il rischio di un ‘collasso’ dello sguardo, dovuto alla perdita della propria parzialità a vantaggio di una completa (ed illusoria) adesione di esso alla realtà. Connotato prevalentemente dalla polisensorialità, il cinema postmoderno1 risulta essere un cinema in cui la musica (e l’invenzione del dolby surround), la velocità (e l’invenzione del montaggio digitale) e l’effetto speciale (la nascita della computer grafica e degli effetti digitali) conducono, come afferma Laurent Jullier, verso uno spettacolo teso alla completa ‘immersione’ dello spettatore nella dimensione fittizia/cinematografica.2 Invece il cinema classico era fondato sul più importante tra i quattro principi: l’illusione di realtà che mira-

va a dare allo spettatore la possibilità di uno scivolamento nella finzione, la sensazione di immedesimarsi nei personaggi e nella vicenda narrata, dimenticando l’esistenza del mezzo cinematografico e la presenza di un narratoreregista che guidasse il loro sguardo nell’illusione cinematografica. Lo spettatore, infatti, attraverso l’uso di alcune tecniche adoperate per conferire l’illusione, come il montaggio narrativo (il quale crea una illusoria continuità temporale e spaziale con inquadrature girate in tempi e luoghi diversi), si dimentica di essere in sala e inconsciamente si sente protagonista. Concetti base dell’illusione di realtà sono, quindi, assieme alla continuità narrativa, anche le tecniche cinematografiche tese a nascondere tutti quegli elementi che renderebbero palese allo spettatore il fittizio del film; lo spazio continuo e prospettico (poiché lo spettatore va posto al centro di uno spazio illusorio che lo renda capace di co-

1 Si farà qui riferimento, in particolare, ad uno specifico tipo di cinema postmoderno, ovvero quello Hollywoodiano, seguito all’era della New Hollywood. Tuttavia, rispetto al contesto appena citato, va segnalata l’originalità di alcuni registi americani tra cui si possono citare, ad esempio, David Lynch e Abel Ferrara. 2 L. Jullier, Il cinema postmoderno, Torino, Edizioni Kaplan 2006, passim .

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CRISI noscere, prevedere e immaginare) e la linearità temporale. Di questi concetti, pochi sono rimasti a sorreggere il principio della illusione di realtà nel cinema postmoderno, che si fonda maggiormente sull’immersione, restituendoci ormai solo l’impotenza del nostro guardare. Difatti, caratteristiche primarie del cinema postmoderno sono l’uso di un metalinguaggio che porta il film a ‘divorare’ se stesso e la cancellazione della prospettiva spazio-temporale che porta alla immersività dello spettatore, invitato a partecipare alla confusione fra reale e virtuale. Il fatto che i testi filmici contemporanei siano il risultato di pratiche produttive dispendiose e sofisticate ha portato alcuni studiosi, come Jullier, ad interrogarsi sulla reale possibilità di pensare mentre si visiona un film di questo genere, inducendo costoro a ritenere il prodotto postmoderno principalmente ludico. Infatti, la fruizione dei film spettacolari si pone come un’esperienza ludico-estetica dai connotati tipici dell’ambiente in cui viviamo: come affermato da Jullier, i testi cinematografici postmoderni giocano meno con le tecniche cinematografiche tese all’«immedesimazione» dello spettatore nella vicenda narrata e maggiormente con la polisensorialità, per garantire l’«immersione» del fruitore nel film.3 Ad esempio, in Casablanca4 – film che risponde a tutte le caratteristiche del cinema classico – è lo spettatore ad immedesimarsi negli eroi della vicenda narrata; al contra-

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rio, in un film come Avatar,5 sono i personaggi stessi ad andare incontro allo spettatore, ‘avvolgendolo’ nella dimensione filmica attraverso spettacolari effetti digitali. Quindi, il linguaggio che caratterizza questi film, connotato da velocità, in alcuni casi aggressività ed eccesso, a mio parere risulta efficace poiché fornisce al fruitore l’illusione di poter dominare la nostra epoca e il nostro spazio: il nuovo linguaggio cinematografico (si pensi, per esempio, al 3D) garantisce l’immersione nell’azione e l’esplorazione dello spazio scenico completamente a carico del fruitore. Vi è, dunque il desiderio, da parte dello spettatore, di sprofondare all’interno del testo filmico postmoderno, con l’intento di raggiungere una momentanea interconnessione con la macchina da presa, di ridurre ed annullare la distanza tra sguardo e realtà. Questo tipo di fruizione suggerita dai film postmoderni garantisce il successo a numerosi film della terza era Hollywoodiana, poiché è perfettamente attuabile anche nell’inevitabile stato di distrazione che caratterizza il soggetto contemporaneo, che è chiamato a proteggersi dall’iperstimolazione continua cui è sottoposto. Se tale distrazione stabilisce un muro tra noi e le cose, ne deriva che, in gran parte del cinema contemporaneo, la narrazione e la riflessione sul mezzo cinematografico diviene subordinata alle attrazioni. Con il virtuale sparisce il concetto di sguardo, ci sono solo le immagini autonome, soggettivo

3 Ivi, p.68. 4 Il celebre film di Michael Curtiz, Casablanca, USA 1942, 102’. 5 Ci si riferisce al film (diffuso in 2D e 3D) di James Cameron, Avatar, USA 2009, 162’


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ed oggettivo coincidono. Scompare anche il concetto di inquadratura: l’immagine virtuale si forma non per ritaglio, ma per riempimento del quadro. Il fuori campo non ha più senso, così come lo sguardo. Con l’eliminazione dello sguardo, il virtuale propone l’utopia di una produzione di immagini a mezzo di sole immagini che non hanno limiti. Nasce, così, una forma di rappresentazione e percezione nuova. Siamo all’opposto del cinema moderno, il cinema dello sguardo. Quel cinema nato negli anni ’50 in Francia, Italia e Germania, sentito come strumento di ricerca, come sperimentazione di un nuovo linguaggio, come riflessione metalinguistica e in cui è centrale lo sguardo cinematografico, non più la narrazione. Il cinema mo-

derno si fondava, quindi, proprio sull’antitesi dell’illusione di realtà, ovvero sull’impressione di realtà: l’uso di un montaggio discontinuo, la prevalenza della profondità di campo e del piano sequenza, sono solo alcuni tra gli elementi che la nuova generazione di registi adoperò per negare apertamente i modelli della continuità narrativa tipica del cinema narrativo classico. La destrutturazione della narrazione, infatti, era tesa a sradicare l’illusione di realtà e a sollecitare continuamente una riflessione sul cinema stesso, anche da parte dello spettatore, il quale doveva essere continuamente sottoposto a piccoli shock (detti «cinepugni») che ne impedissero l’immedesimazione acritica. I nuovi movimenti artistici, fra cui soprattutto il Neorealismo in Ita-

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CRISI lia e la Nouvelle Vague in Francia, misero in evidenza la parzialità dello sguardo cinematografico, dichiararono il suo limite, ben consapevoli dell’ inafferrabilità del reale, di quanto il compito del cinema fosse la ricostruzione del mondo, non quello di spacciarsi come realtà. Esiste però un altro aspetto del cinema postmoderno, in Europa. Nel nostro continente, alcuni registi-autori propongono di andare oltre il cinema in cui sguardo e realtà coincidono: si pensi, ad esempio, a Lars von Trier che spinge all’estremo le tendenze del cinema moderno, rifiuta montaggio e trucchi a favore di un cinema in presa diretta; ad un regista ancora più estremo, figlio dello stile moderno, come Aleksandr Sokurov con cui il cinema diventa una vera e propria apoteosi dello sguardo (si pensi alla cinepre-

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sa che segue i suoi personaggi sia con amore materno che con razionalità scientifica ed, attraverso gli uomini, guarda il tempo che passa6); oppure ad Abbas Kiarostami, profondamente stimato persino da un maestro del cinema moderno come Godard,7 il quale sembra pedinare la realtà al fine di evidenziarne la distanza, lo stacco, dalla cinepresa. In conclusione, forse bisognerebbe ricordare quanto la messa in evidenza dell’intervallo tra lo sguardo e il reale, nonché la messa in discussione del rapporto tra finzione e realtà, tra il cinema e la vita, non dovrebbe essere un tabù per il cinema o, quantomeno, non essere sentita esclusivamente come una ‘trasgressione’ rispetto al contesto. Forse, è proprio nello spazio fra realtà e finzione, che risiede la forza del cinema.

6 Si fa qui riferimento al film di Aleksandr Sokurov, Arca Russa (Russkij kovcheg ) , Russia/Germania 2002, 96’. 7 «Il cinema inizia con D. W Griffith e finisce con Abbas Kiarostami», ha dichiarato Godard, a proposito di Kiarostami, in un’intervista del 2004 per il «New York Times».


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L’addio a Heaney di Alberto Fraccacreta

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ualche settimana fa, in un ospedale di Dublino, è morto il premio Nobel Seamus Heaney. L’ho conosciuto personalmente in due circostanze: a Mantova per la consegna del Premio Virgilio (2011) e a Bologna in occasione del centenario della morte di Giovanni Pascoli (2012), sempre grazie al prezioso e generoso aiuto della professoressa Gabriella Morisco, tra i primi traduttori del poeta irlandese in Italia. Di quegli incontri affrettati, sbarrati da palizzate linguistiche che ancora non ero in grado di sfondare, ricordo la grande umiltà e il senso di partecipazione umana che contrassegnavano i modi affettuosi di quel vichingo incanutito, in smoking grigio fumo, sorridente e ‘poetico’ per un afflato lirico che aveva l’indizio dell’estasi. Quando, nell’albergo bolognese L’orologio, beccato da una pioggia a forma di lama, gli diedi con una certa vergogna il mio picco-

lo libro di poesie, da poco pubblicato, all’interno del quale figuravano poveri versi a lui dedicati, arrivò a chiedermi l’autografo – pardon, la dedica. Se non sono ipocrita, posso dire che l’uomo non tradiva per nulla il mito letterario. E in questo modo ai miei occhi appariva e appare tuttora come la vera incarnazione di Virgilio, il cantore che più ha eletto a modello nelle ultime sillogi (Electric Light, District and Circle, Human Chain): il Virgilio delle terre del Nord, che combatte gli stravolgimenti politici con egloghe sparate a mezz’aria nei campi da arare. Il suo classicismo stricto sensu, lungi dall’esser bollato come vuoto Parnaso, appare in realtà vivo, adeguato in maniera perfetta alla Storia di cui è attore e al Paese che, lacerato, canta. Per tali ragioni, oltre che ‘ripresa’, ‘adattamento’, ‘traduzione’ del classico, si può chiamare in causa qualcosa di più essenziale: una

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CRISI specie di tensione poetica sacra e inalienabile. La ricchezza e la misura della sua opera sono nella singolare commistione di «bellezza lirica e profondità morale» (come recita la motivazione al conferimento del Nobel nel ’95), uno zigzagare frenetico tra etica ed estetica, valori da molto tempo dissociati nella resa filosofica dell’ispirazione. L’artista è chiamato a ‘scavare’ con la penna della creatività nel passato e nei recessi della sua terra per richiamare al ricordo quegli avvenimenti incancellabili, i quali pure costituiscono l’humus fertile, il background culturale da cui è impossibile separarsi, perché assetati di una giustizia esacerbata, non ancora cristallizzata nel mondo. A questo proposito, sulla falsariga di William Bulter Yeats, suo predecessore e ‘padre letterario’, Heaney ha affermato con risolutezza, in una recentissima intervista alla Rai, che «il compito del poeta è quello di condensare in un unico pensiero realtà e giustizia». Senza dimenticare però che, come diceva il poeta russo Josif Brodksij, «se l’arte ci insegna qualcosa è che la condizione umana è privata».1 Heaney non è stato, dunque, un poeta ordinario per la nostra epoca, ma un Bardo che ha fatto e farà scuola. L’innovazione del suo canto – se in letteratura di Progresso si può parlare – risiede senz’altro nell’accurata visione trascendente delle cose quotidiane, nella mancanza cioè di vera contraddizione tra mondo ideale e mondo sensibile: quella che potremmo defini-

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re come la trascendenza dentro il reale. Esemplare, a tale proposito, è La ‘Sedia del Poeta’,2 una sequenza che spezza i legami del platonismo poetico per ricreare la potenza dell’assoluto secondo un profilo inedito, ma profondamente attuale e tangibile: «Mio padre sta arando uno, due, tre quattro lati / del prato dove sto seduto, onniveggente / nel mezzo, la schiena tagliata al biancospino / che non fu mai tagliato. I cavalli sono tutti zoccoli/ e fianchi bronzei, io sono tutto preveggenza. / Della poesia come un vomere che ruota il tempo / e lo capovolge. Della sedia con foglie/ che la spina fatata sta iscrivendo al futuro. / Di essere qui, per sempre, in ogni senso». Heaney, soprattutto in opere come North e Station Island, veri capolavori del contemporaneo, ha affrontato le disgrazie del suo Paese, la guerra civile, i lutti personali organizzando la memoria storica dei fatti in una poesia che non giudica, né condanna, ma che, attraverso l’esperienza metafisica del dolore, comprende le cause, dà la parola di riscatto agli afflitti e trova una via di salvezza. In questo arrischiato, eppure coraggioso oscillare tra l’impegno sociale e la pura osservazione (tra «la contemplazione di un punto e l’imperativo di partecipare attivamente alla storia») si scorge il suo messaggio di speranza irrinunciabile, che ci commuove e ad un tempo ci esalta. In Human Chain, suo ultimo libro, Heaney prende in considerazio-

1 È possibile leggere/vedere l’intervista completa all’indirizzo Internet: http://poesia. blog.rainews24. it/2013/09/02/ seamus-heaneyli-fui-io-nelluogo-e-il-luogoin-me/. 2 S. Heaney, The Spirit Level, trad. it. R. Mussapi, Mondadori, Milano 2000, pp. 98-101.


ne il tema della morte e dell’aldilà con la seria e matura Weltanschauung di chi assomma in sé la profonda riflessione sull’oltretomba di tre culture: quella celtica, latina e cristiana. I monaci irlandesi medievali divengono un esempio

umanissimo di preghiera; i luoghi nativi, contrassegnati dalla lingua gaelica, e l’Averno si mescolano in visioni incorporee, ma presentissime che prefigurano una continuità della vita che merita il nome di eternità.

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CRISI «Nulla ha superato / quel rapido sgravio di fatica, più vera ricompensa, / un lasciare andare che mai più tornerà. / O forse sì. Una sola volta. La volta buona».3 Tali versi possono far da corollario all’intera produzione del Bardo irlandese, stilettate poetiche fulminee che simboleggiano gli istanti finali dell’esistenza, nell’ora in cui la coscienza, arresa, lascia andare e si apre alle porte di un mondo non conosciuto. In questa saggia accettazione senile della condizione liminare dell’uomo si può scorgere non solo la calibrata perizia letteraria – e semplicemente formale – del brano (una sorta di testamento letterario), ma anche quel processo spirituale avanzato, quel cammino veritativo che rende necessariamente il poeta voce di un’epoca

e maestro di vita. Indimenticabili sono, infine, le lezioni oxoniensi raccolte nel volume La Riparazione della Poesia, nelle quali espone la concezione teorica dei suoi scritti, volti a quella fiducia umana che non mente e non si illude, sempre muovendosi con destrezza assieme a Czesław Miłosz e a Osip Mandel’štam nella certa cognizione che le brutalità della Storia passano e affogano nell’oblio, mentre «i manoscritti non bruciano», per riprendere un noto aforisma di Bulgakov. Di fronte a tanti meriti e a tanti insegnamenti, è impossibile non provare un sentimento di sconforto per la perdita dell’uomo, prima che del poeta. Ma in questo momento – ne sono certo – Heaney passeggia con Virgilio, là da qualche parte.

Componi al buio e aspetta L’aurora boreale nel lungo tentativo, Ma non aspettarti mai Cascate di luce. Tieni gli occhi aperti Come la bolla d’aria nel ghiacciolo, Confida in quel tesoro sporgente Che le tue mani hanno conosciuto.

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3 S. Heaney, Catena Umana, trad. it. R. Mussapi, Mondadori, Milano 2011, p. 45.


IL CALAMAIO SCALOGNATO

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CRISI

Sopra un vento di Salvatore Ritrovato

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cco, l’hai trovata”, dice il vento. Eccola, sognata pazientemente e attesa come l’onda che svanisce sulla soglia di una precedente, fantasma su fantasma. Ma quando appoggio l’orecchio sul suo petto è un’isola dove tutto tace e spente voci si alzano dal molo, gemono d’asma è la resa ogni notte, la pace, slabbrate fra le correnti che una brezza dal passato ha lasciato sulla pelle come un velo. E nessuno le riconosce. II Accende una sigaretta e lascia cenere intorno. Un gesto esatto, rapido, la cicca vola ingiallita come una foglia dal suo ramo mentre si avvolge mescolandosi ogni spirale di fumo a una carezza o a una parola. Qua e là il mare apre un discorso ma respira a fatica, non parla più di soffi implacabili e bagliori lontanissimi di vita. Forse da anni attendo un suo segnale fra l’eternità e un giorno, come un insonne attende il sogno e non ricorda altro o quasi che il gocciolio di una grondaia, una piuma che sfruscia mollemente o una campana che sbanda oltre le mura. Piano il vento scende all’isola dove sfollano e rincasano le ombre.

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IL CALAMAIO SCALOGNATO III “Vieni via”, torna a soffiare il vento forte, scompigliando i suoi capelli sulla fronte china a leggere nel fondo di un caffè ogni silenzio come una reliquia. “Via presto...”, è un chiodo fisso arrugginito all’orizzonte, non ha verbo ma una scheggia di vetro che allontana a folate impazienti il disegno della sorte. Ma “Cercavo un’isola, ho trovato te…”. In un’appendice polverosa frana – quando niente resterà di questo (non un addio, neanche un che) – anche il presente.

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CRISI

Incontro di Alex Vecchio

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antieri di una città ormeggiata alle sue povere stelle Ho sigillato l’acqua bianca della notte Sono tra i mobili tra le macerie del paradiso Suddivido una ad una le pieghe della mia vita Le consacro al mio incontro.

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IL CALAMAIO SCALOGNATO

Tutti i giorni di Olmo Calzolari

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amminava senza stanchezza, che stupore. Passava come una perlina, un rosario tra le dita passa, e sempre andava fuori a fumare perché dentro non può. Cosa potevo farci? Il segreto è forse che sono nato su altre costellazioni, e solo i pronostici faccio io migliori, le domande per lui.

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CRISI

Naïf di Letizia Zaffini

C

ome è bella la di Lei fotografia! Quadrata, ideale, massima definizione! Così... tascabile, ferma e fissa, così ... prêt à porter! Oh, anche lei, a Montpellier?

Mia patina carissima, mia lamina finissima! È un piacere e un onore rimanere invischiata nel di Lei sguardo. Perché lei è il Blu, perché lei è il Tu, gelido e innocente, all’oscuro del verso. L’urlerò senza riguardo: lei mi turba, signorina, lei mi incanta e mi ossessiona, lei è la Posa che assassina, vanitosa mia rovina! Interprete inconsapevole di questo iconografico, plastico desiderio d’annientamento da terzo millennio, Lei è Moda, accessorio e tendenza, lei è il bello irrisorio di cui sono pazzamente, platonicamente innamorata. Lei è il whiskey and soda che tracanno a grandi sorsi, per elidere l’inganno del suo viso – il vino immaginario che non compro per la salute e i gaudi amorosi di fegato e portafoglio – mia fissa, mia fossa. Fessa al mondo, non ricordo più neanche se ha anche vere, se ha parole, un volere all’infuori del muto, un conto in banca, carezze invisibili, una vita oltre la copertina. Stanca di sogni e di sterilità, gli occhi rigonfi di Nulla e di vanità – voglio avere un figlio da lei. E il figlio che voglio altro non è che l’aborto imbellettato d’un Nulla che vegeta sul mondo e lo dirige, con le sue redini di diamante, con le sue dita d’amante sensuale e inutile. Il vacuo, l’ossesso, la moda, la bellezza vile. [...]

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IL CALAMAIO SCALOGNATO Traboccherà la nostra bile dagli occhiali da sole, colerà dalle labbra il rossetto come sangue, saremo feriti per sempre – in vita, catenoni d’oro ci reggeranno le calze – saliremo sul palco, alte, rabbiose e carine. Posate eroine. Bruceremo il Manifesto, ne offriremo le ceneri all’altare Lei suo. Roghi! Visione divina! Assoluto! (E)statica beltà! Come giornali, ci sfoglieremo. Fotografico istante – poi niente. Le case di moda saranno le nuove cappelle sacre, sul simulacro di Alexander McQuenn e Vitton, pianteremo una croce, il Cristo, un modello Versace – Dio e la Madonna e le Sorelle in mini gonna – fotocamera verace. Questo è il mondo perfetto, questo è il paradiso che piace! Un sorriso … * Mentre Beatrice il transessuale a mezzogiorno muore, viola e regale, sul marciapiede della città, tutto è normale. * Androgino sesso, riluce la piazza, svincolata da tutto. THAT’S THE WORLD, THAT’S BEAUTY. THE REST IS POETRY.

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CRISI

Settembre di Alessandro Zaffini

C

i sono strade aguzze vicoli appena accennati, che basta un po’ di pioggia a dileguare

ancora tavole imbandite dietro il verde dei portoni. Nel vociare di altre volte, corse per vie sempre uguali, lungo porticati immobili, dove, identiche, tramontano piazze tutte intere si ode intatto, distinto dagli altri quel secco nudo pensiero. Lo spettacolo è finito Passeresti il centro senza pena se la gente anche lei, si fermasse. Ognuno ora è un gorgo irrequieto. Ci sono tempi che i poeti non servono, notti passate a guardarsi le mani, non capire come hai fatto anni di pietra appesi a un corsivo troppo sottile, malfermo... Un respiro interrotto discorso stentato, s’invola oltre i tetti. Poco a lato, una grondaia germoglia zampilla d’un canto bluastro. Ugualmente ignorato.

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CRISI

Governo di Alberto Fraccacreta

*

S

cendemmo in giardino, quella notte. - È un merlo, assicurò qualcuno nel vocio. Sopra lo Scricchiare delle ciabatte [di plastica Sgranate dalla rena non pulita si sentiva Un rumore a strascico dalla siepe, Come se la sciabica trascinasse qui Fin dentro le mattonelle i frutti di mare. * Mattonelle rettangolari, verdi o rosse irruvidite Da raschio, grattata e cigolio, macchinazione - Ladri, dunque, non merli… Ma, rovistato il piccolo cerchio di quercia, [coi piedi Seccati dall’afa, non vedemmo nulla. * Soltanto, salendo, quando ancora La pesca miracolosa, la paranza invisibile Si riversava baggiana [e irosa, quasi ironica Volava nel nostro giardino, il merlo Finalmente indovinato zampettò fuori, Ma con aria irresponsabile. * Nonno, che sgambetti a X nel mio Giardino estivo, è te che cercavo. Ora che hai fatto la tana, molto pigramente

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IL CALAMAIO SCALOGNATO Hai beccato sul mio cuscino Nel prisma del sogno a te dovuto, Nonno, merlo, stregone che appari [non chiesto, Cos’è questo signore della pesca, – questo governo?

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CRISI

Le lune di Athayde Grassi

C’

è il randagio fiuto di un cane lungo i cassonetti della casa perduta.

C’erano le more intrecciate nei luoghi del ferro spinato. Lontano celle di cielo acchiappavano uccelli sordi, ingordi di molliche fredde, senza più gli orli del giorno. Questa zolla di terra sudata dal contadino è marcita oggi, sotto i tarocchi nero petrolio della sdrolica di borgo, nel paese dove i vizi sono ancora tre per ciascuno.

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CONSIGLI PER LA LETTURA

Almanacco dei poeti e della poesia contemporanea di Alessandro Zaffini

I

l progetto che raccoglie i quarantanove nomi dell’Almanacco dei poeti e della poesia contemporanea n. 1, edito a Maggio di quest’anno da Raffaelli Editore, si fonda su un interrogativo divenuto frequente nel mondo della cultura – un dilemma tutto sommato ‘eterno’, ma al quale urge dar risposta dati tempi, le condizioni storico-economiche e le conseguenti perplessità che anche l’analisi più superficiale dovrà oggi legittimamente prendere in considerazione: è possibile, e se sì in che misura, credere nella poesia? La prefazione dei curatori (Gianfranco Lauretano e Francesco Napoli) non cede a esitazioni, la risposta, in tutte le sue sfumature, è affermativa; per capire le ragioni di questo ottimismo si deve individuare che cosa sia la vera poesia, saper riconoscere il suo linguaggio «inconfondibile e insostituibile» nel caos della dittatura della comunicazione, o ancora meglio, chiedersi quale sia la sua funzione, in cosa consista il suo valore. Puntare su essa significa credere «nella sua capacità interpretativa dell’Essere e del mondo, quanto d’altronde alla poesia non è semplicemente concesso ma richiesto»; un ruolo fondamentale di risoluta opposizione all’avvilimento spirituale e morale che tiene le redini delle società odierne; una pienezza vitale di cui soltanto essa – paria paradossalmente pura, «per lo più incontaminata dal regime del Mercato» – può farsi voce. Il primo numero dell’Almanacco si struttura così in cinque quaderni dedicati rispettivamente a: Sotirios Pastakas e Izet Sarajlić (L’europa vista dai balcani); poeti italiani e stranieri noti (Lavori); poeti emergenti (Segnalazioni); poeti siciliani (Sicilia, a cura di Giuseppe Condorelli); poesia anglofona (Intercontinentale, a cura di Maria Cristina Biggio). La selezione, data la premessa filosoficamente forte, vagamente heideggeriana, privilegia spesso un tipo di scrittura che si accompagna in diverse gradazioni alla speculazione intellettuale, senza tuttavia escludere lo slancio verso l’alterità e il mito (Mussapi, Aguirre), la fidatezza dei luoghi e l’urto del reale (Broggiato, Kinsella), il cinismo, la vanità del tutto (Santagostini, Mestre), la critica sociale (Djafer, Mullen), la preghiera, l’anelito di redenzione (Lauretano), fino alla poetica di semplicità e stupore, completamente disinteressata ad ogni metafisica, di tono sentimentale e gnoseologicamente debole (secondo il commento dello stesso Lauretano) di Izet Sarajlić. La scelta

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CRISI dell’Almanacco non pretende di scovare grandi poeti, ma non per questo vien meno il carattere ‘militante’ che ne lega i testi, come nota la chiusa della prefazione: «Più modestamente abbiamo cercato di focalizzare lo sguardo sulla poesia contemporanea, anche perché siamo convinti che di fatto l’attenzione alla poesia tuttora persistente derivi dall’idea che questa espressione dell’uomo, nell’attuale civiltà delle parole che sta lentamente corrodendo e portando alla disumanizzazione del linguaggio e al trionfo del rumore, possa rivelare a noi stessi, in modo inconfondibile e insostituibile, il nostro quotidiano Essere e costituire un salvagente nel mare sempre più freddo di un umanesimo dimenticato».

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Finito di stampare nel mese di ottobre 2013 presso Litocolor S.n.c. Via Terni, 30 - 61122 Pesaro




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