Rdp Numero 1

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La Resistenza Della Poesia anno I

aprile 2012

NO.1

Homo Oeconomicus vs Homo Poeticus

Quadrimestrale di Cultura e Poesia



La Resistenza Della Poesia DIRETTORE RESPONSABILE Giuseppe Ghini COMITATO DI REDAZIONE Sara Balleroni Monica Bravi Umberto Brunetti Alberto Fraccacreta Matteo Giunta Alessandro Zaffini HANNO COLLABORATO Paolo Musano VIGNETTE ED ILLUSTRAZIONI Alessandro Zaffini Filippo Fabi FOTOGRAFIE Guido Dall’Olio Pag. 6, 12, 16, 21, 27, 35 Letizia Zaffini Pag. 23 Claudia Sogus Pag. 30 PROGETTO GRAFICO La Resistenza della Poesia ABBONAMENTO ANNUALE Versamento di euro 15,00 IBAN IT82Z0200868703000102089414 intestato a La Resistenza della Poesia periodico quadrimestrale REDAZIONE Piazza Rinascimento, 7 - 61029 Urbino email: laresistenzadellapoesia@gmail.com AUTORIZZAZIONE Tribunale di Urbino, N. 2/2012 STAMPA Litocolor S.n.c. Via Terni, 30 - 61122 Pesaro


La Resistenza della Poesia Homo Oeconomicus vs Homo Poeticus

AL LETTORE

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Lo slancio verso l’alto di Giuseppe Ghini

EDITORIALE

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Se Virgilio avesse avuto lo ‘stipendio’… di Alberto Fraccacreta

ZAMPILLI LETTERARI

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Raffaello o il petrolio? di Umberto Brunetti

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Per il bene della scienza di Matteo Giunta

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L’anti-economia del beneficium di Seneca di Monica Bravi

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Il poeta artigiano di Alessandro Zaffini

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Tutta la filosofia racchiusa in un barattolo di Sara Balleroni

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Note sull’omerismo di Alberto Fraccacreta

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La poetica del libro digitale di Paolo Musano


Anno I / Numero I / Aprile 2012 Homo Oeconomicus vs Homo Poeticus

IL CALAMAIO SCALOGNATO

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Il corpo di Alessandro Zaffini

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Il processo ‘economico’ di Alberto Fraccacreta

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Il suono della spiaggia di Umberto Brunetti

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Una vita o più di Matteo Giunta

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Il ciclope di Caterina Pentericci


HOMO OECONOMICUS VS HOMO POETICUS

Al lettore

Lo slancio verso l’alto di Giuseppe Ghini

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er quanto possa sembrare strano, questa rivista nasce avendo già un passato: alcuni numeri in fogli bianchi A4 stampati fronte e retro e piegati due volte, poi impaginati con una copertina verde smeraldo. Numeri venduti per le aule e le strade di Urbino e che ormai sono una rarità bibliografica. Ma il passato, che è anche il presente e il futuro, è rappresentato soprattutto dalle riunioni degli autori intorno a una pizza a discutere dei temi che poi entreranno nella rivista e di molto altro: esami di laurea, Dostoevskij, filologia, Nietzsche, Tolkien, qualche imitazione di prof... Insomma, chiamatelo lunch seminar o pizza filosofica si tratta pur sempre della meravigliosa universitas magistrorum et scholarium, quello per cui l’università vale ancora la pena di esistere. È questo, probabilmente, che giustifica più di ogni altra cosa l’idea di dar vita, oggi, a una nuova rivista letteraria universitaria. Ora, due parole sul numero inaugurale. In un testo citato da Umberto Brunetti, Padri e figli di Turgenev, c’è un personaggio secondario che pronuncia una frase semplice eppure straordinaria. Il personaggio è Arkadij, l’amico di Bazarov, del positivista Bazarov, quello che con il suo arrivo sconvolge la quieta vita della famiglia nel cuore della provincia russa. «Bisognerebbe costruire la vita in modo tale che ogni momento avesse un significato», dice appunto Arkadij pensosamente. Con questa frase Arkadij sembra additare la problematica via capace di conciliare lo «slancio verso l’alto» che caratterizza i due romantici del romanzo – il romantico umanista Pavel Petrovič, e il romantico della scienza Bazarov – con il faticoso impegno quotidiano di chi deve mandare avanti l’azienda, il padre di Arkadij, Nikolaj Petrovič. La domanda, infatti, è sempre quella: i puri slanci verso l’alto, la nobile tensione verso l’ideale, tutto ciò che sinteticamente definiamo ‘poesia’ si possono conciliare con la vita quotidiana, la soluzione dei problemi contingenti, la sua prosa inevitabilmente umile, pratica, imperfetta? L’homo poeticus (quello coltivato negli anni universitari) dovrà sempre combattere e, se mai, soccombere davanti all’homo œconomicus (quello a cui chiama la vita post-universitaria)? Non esiste davvero da nessuna parte la pietra filosofale capace di trasformare la prosa quotidiana in endecasillabi? Di questo parla Monica Bravi quando dice che Seneca «solleva l’urgente bisogno per l’uomo di arricchire la propria quotidianità di quello speciale sufflato che è la riflessione filosofica, dalla quale bisogna lasciarsi guidare in un cammino che è sempre lo stesso, ma in sé arricchito di un sapore del tutto nuovo». Di questo conflitto, di questa ricerca parlano direttamente, pur in modi diversi, tutti i contributi di questo numero. Di questa ricerca, lettore, ti terremo aggiornato.

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EDITORIALE

Se Virgilio non avesse avuto lo ‘stipendio’… di Alberto Fraccacreta

Parcere subiectis et debellare superbos. Verg., Aen. VI 853 La poesia è un modo di prendere la vita alla gola. Robert Frost, Comment

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e Virgilio non avesse avuto lo ‘stipendio’, non avrebbe scritto l’Eneide. Se Virgilio non fosse stato un ‘mantenuto’, un ‘poeta di corte’, non avremmo versi come «adnosco veteris vestigia flammae» (ripreso da Dante nel XXX Canto del Purgatorio1), o «vitaque cum gemitu fugit indignata sub umbras» (assurto quasi a modo di dire2). Se Virgilio non avesse avuto agio e tranquillità, non avremmo in bella vista, sugli scaffali il nostro ‘poema eroico’. Poiché, lo sa anche l’ultimo dei mocciosi, «non si possono fare panini alla cultura». Anche per mostri di pragmatica quali erano gli Antichi Romani, dopotutto, sarebbe stato inconcepibile un ‘panino all’Enea o all’Anchise’, al posto di

un ‘panino al salame o alla mortazza’. E noi che, saggiamente, deriviamo da loro, alla loro consuetudo dichiariamo, non senza boria, di rifarci punto dopo punto. Che, poi, tra le schiere degli attuali versificatori italici, non ci sia un novello Virgilio degno di un novello Mecenate è un fatto. Come è un fatto che si consideri meritevole di stipendium soltanto un crapulone (giacché tale è il ‘letterato’, secondo l’opinione della ricerca scientifica) talmente famoso da riuscire a sfondare l’esperie porte dell’Ignoto e svernare nel cuore dell’Europa, facendo naturalmente leva più sul ritorno di fiamma dovuto al plauso estero, che sulla spontanea valorizzazione da parte delle istituzioni patrie. Insomma, per farla

1 Pur. XXX, 46-48: « Men che dramma / di sangue m’è rimaso che non tremi: / conosco i segni dell’antica fiamma.» 2 Si pensi, ad esempio, al celebre sonetto La vita fugge di Francesco Petrarca.

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HOMO OECONOMICUS VS HOMO POETICUS breve, la poesia in Italia è un ripiego, un hobby; qualcosa che si fa alla buona nei ritagli di tempo o, negli uffici, fingendo di lavorare al computer. La poesia è una faccenda da sbrigare nel minor tempo possibile, magari la sera, tra il dopocena e l’insonnia. Si ha sempre una sorta di ansia e vergogna nello scrivere versi: “Bisogna far presto che sennò il mio capo, l’amico

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o la mamma mi scopre… in treno sbirciano o guardano di traverso, e d’altra parte solo qui posso dar sfogo alla mia turpe voglia dato che, tra un’ora, ho un inderogabile incontro con l’editore…” Immaginate ad esempio Eugenio Montale che, nella redazione del Corriere della Sera, abbozza le poesie de La bufera e altro, dandola a bere al suo compagno di stanza Indro


EDITORIALE Montanelli. Mai un attimo di tranquillità, mai un momento di riflessione, d’immersione nelle nature e nei paesaggi che alloggiano senza compenso la nostra breve esistenza, perché c’è chi pungola al ‘fare’, all’un due hop della produzione su scala – produzione di cenere e bare, a ben vedere. E quando si trascorre un’intera, fausta giornata a scrivere, confessiamo al primo venuto, carichi di amarezza: “Bah, oggi non ho concluso niente!”, perché niente è il rapimento estatico; meno della catalessi vale la strana sensazione di sentirsi ispirati da chissà quale demone.“Avanti, marsch!” ci intima l’homo oeconomicus, il nuovo vate – novello Virgilio – dalla lingua algebrica, che sputa sulla putredine – a suo dire – del parlar latino. “Voi siete fautori di lingue morte ed esercitate un mestiere, quello del poeta, che non giova a nessuno!” E poi dang! (una randellata) sul fatto che, in poesia, si parli sempre delle stesse cose affettate (sole, cuore, amore) e mai si affrontino temi d’ultima uscita in edicola, mentre la Ricerca – ah, la Ricerca! – corre verso l’Incognito, affronta a viso aperto l’Imminente. Saremmo davvero degli illusi, se c’impegnassimo a redigere su due piedi un’apologia del Poema, quando proprio ora, nel mezzo di una crisi economica transcontinentale, le uniche misure atte a far ‘rientrare’ l’emergenza sono di natura eminentemente finanziaria: Mario Monti, ecco dunque il salvator patrio, l’homo oeconomicus per eccellenza, l’Augusto dei nostri giorni. Egli

ha riportato la pax (‘pax’ ‘mariana’ più che ‘augusta’), dopo che il Cesare era stato battuto alla Camera dai Bruti, notevoli facce di Cassio. Egli si occuperà di riesumare il Mos Maiorum, attorniato non dal prode circolo dei Virgili e degli Orazi, restauratori dell’ethos prima che della téchne, ma appunto da ‘tecnici’, gente che sa come funziona la Borsa e i bund, lo spread e il gulp. Rassegniamoci dunque alla nuova lingua anglomonosillabica: goal, ok, ko, spread, tonf, sigh, sob, bund, bond, bang, sberequack. È il tramonto definitivo dell’homo poëticus. Diciamolo francamente: non si possono scrivere poesie con l’acqua (e la corda) alla gola, perché «la poesia è già un modo di prendere la vita alla gola». Finiamola con gli scribacchini da tram, i versificatori metropolitani, i profeti d’ufficio! Se non abbiamo tempo per la poesia, perché, nel gran ballo mascherato della Storia, nessuno osa travestirsi da Mecenate, attacchiamo pure il notebook al chiodo! Se Virgilio non avesse avuto lo ‘stipendio’, non avrebbe scritto l’Eneide. Nessuno filologo divinante, nessun chiromante della scrittura carolina potrebbe negarlo. E, per la verità, non sembra più il tempo di ‘cantare’. Ormai anche gli usignoli ruttano. La dicotomia tra i due tipi di homines (quello oeconomicus e quello poëticus) si rivela tragica solo per il secondo. Ci toccano le briciole del sentimento, gli avanzi di un pulsare cosmico che, col trascorrere delle stagioni, non ci toccherà più, per sem-

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HOMO OECONOMICUS VS HOMO POETICUS pre. È finita l’ora del cincischio e dell’imbambolamento. Ora tutti a lavorare! E questo in forza di una presunta salvezza della nostra società in disarmo. Sicché non scriveremo Eneidi (necessità o virtù, non le avremmo scritte lo stesso probabilmente), né emuleremo i savi della lirica breve… Ma la poesia non è, in definitiva, solo quella che si conserva su di una stampa

ingiallita. La poesia è una strada, caro homo oeconomicus, e l’homo poëticus è un amante delle passeggiate nei boschi... la poesia è come quella strada non presa da un Virgilio spiazzato, qualora non avesse avuto la possibilità di guadagnarsi il pane con gli esametri. La strada che egli avrebbe intrapreso lo stesso – noi speriamo – benché fosse quella... meno battuta.

Two roads diverged in a yellow wood And sorry I could not travel both And be one traveler, long I stood And looked down one as far as I could To where it bent in the under growth; Then took the other, as just as fair, And having perhaps the better claim, Because it was grassy and wanted wear; Though as for that the passing there Had worn them really about the same, And both that morning equally lay In leaves no step had trodden black. Oh, I kept the first for another day! Yet knowing how way leads on to way, I doubted if I should ever come back. I shall be telling this with a sigh Somewhere ages and ages hence: Two roads diverged in a wood, and I I took the one less traveled by, And that has made all the difference. [Robert Frost, The Road Not Taken]

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ZAMPILLI LETTERARI

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HOMO OECONOMICUS VS HOMO POETICUS

Raffaello o il petrolio? L’«utile» e la «bellezza» in Turgenev e Dostoevskij di Umberto Brunetti

«L’altro ieri l’ho visto che leggeva Pùškin», continuava intanto Bazàrov. «Spiegagli, per favore, che non va bene per niente. Non è mica più un ragazzo: è ora di buttare quelle fesserie. E che fantasia poi essere romantico al giorno d’oggi! Dagli qualcosa di utile da leggere.» [...] «Un buon chimico è venti volte più utile di un qualsiasi poeta.»1 Ivan Turgenev, Padri e figli «Tutto il problema sta solo nel decidere che cosa sia più bello; Shakespeare o un paio di stivali, Raffaello o il petrolio?» [...] «E io dichiaro» gridò Stepan Trofimovič all’ultimo grado di furore «io dichiaro che Shakespeare e Raffaello sono al di sopra della liberazione dei contadini, al di sopra dello spirito popolare, al di sopra del socialismo, al di sopra della giovane generazione, al di sopra della chimica, quasi al di sopra di tutta l’umanità, perché essi sono il frutto, il vero frutto di tutta l’umanità e, forse, il frutto più alto che essa può dare! [...] Ma lo sapete, lo sapete voi che senza l’Inghilterra l’umanità potrebbe ancora vivere, senza la Germania pure, senza l’uomo russo potrebbe vivere e vivrebbe anche troppo bene; potrebbe vivere senza la scienza, senza il pane…; solo senza la bellezza non potrebbe vivere, perché non ci sarebbe nulla da fare al mondo? Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui!» Fëdor Dostoevskij, I demonî

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azàrov e Stepan Trofimovič, il giovane dottore nichilista del romanzo di Turgenev Padri e figli (1862) e l’anziano intellettuale liberale ed esteta de

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I demonî di Dostoevskij (18711872): personaggi di due romanzi differenti, ma protagonisti di un’unica storia, quella che racconta lo scontro generazionale che segna il

1 Da consulenti informati vengo a sapere, solo quando il testo è già impaginato, che la citazione è resa ancor più sapida dall’etimologia. Quello che il traduttore rende con ‘fesserie’ è il russo erundà. Termine che proviene dal latino tardo gerundium, entrò nella lingua russa tramite i seminari ecclesiastici per indicare qualcosa di totalmente incomprensibile ed estraneo al sistema dei verbi slavi: in pratica, una fesseria latina (analogo al latinorum manzoniano). Quello che è tradotto con ‘utile’, invece, [‘dagli qualcosa di utile


ZAMPILLI LETTERARI clima sociale e intellettuale della Russia di metà Ottocento. La «giovane generazione» di cui parla Stepan Trofimovič nel passo sopra citato è quella dei «nichilisti», termine che diviene popolare proprio con il romanzo Padri e figli. Ma chi è un nichilista? «Una persona che non s’inchina di fronte a nessuna autorità, che non accetta nessun principio indimostrato»,2 ci risponde il Bazàrov turgeneviano: egli nega tutto, e così facendo si libera dell’eredità dei padri. Anche Stavrogin e Pëtr Verchovenskij de I demonî sono dei nichilisti, e appaiono evidentemente imparentati col personaggio di Padri e figli, sebbene una differenza sostanziale sussista tra di loro. Bazàrov viene descritto sotto una luce positiva dall’autore e in lui il personaggio del nichilista appare solamente ‘accennato’ (egli non porta a nessuna realizzazione i suoi approdi filosofici); Stavrogin e Verchovenskij, invece, rappresentano del nichilismo l’espressione più compiuta e spaventosa e sono descritti da Dostoevskij sotto una luce assai fosca: sono loro i demonî a cui si riferisce il titolo del romanzo.3 Ispirandosi ai movimenti terroristici e anarchici che scuotevano in quegli anni la Russia zarista, Dostoevskij fa dei suoi nichilisti dei rivoluzionari sobillatori: scevri da ogni fede, essi utilizzano la violenza senza alcun rimorso pur di realizzare il loro scopo, che è quello di una «palingenesi» della società, ovvero la creazione di una nuova Russia e del nuovo uomo russo

dalle ceneri della società corrotta del loro tempo, che va distrutta. Il loro ideale è quello di realizzare il ‘Paradiso in terra’, attraverso l’uguaglianza di tutti gli esseri umani. Accecati dal loro progetto, si macchiano però di azioni aberranti, e da paladini dell’umanità si trasformano in biechi terroristi. I nichilisti di Turgenev e di Dostoevskij sono accomunati nella loro negazione di ogni ideale dei padri anche dal rifiuto della «bellezza»: di contro a quest’ultima essi innalzano lo stendardo dell’utile e della giustizia sociale. È facile comprendere, dunque, il loro totale rigetto delle idee portate avanti da uno Stepan Trofimovič, l’intellettuale sospinto da un approccio estetico alla vita e rappresentante della vecchia generazione, a cui Dostoevskij fa affermare che Shakespeare rimarrà sempre più importante di un paio di stivali e Raffaello del petrolio, in completa opposizione alla logica utilitaristica. Il contraltare di Stepan Trofimovič in Padri e figli è rappresentato principalmente dai personaggi di Nikolàj e Pavel Petròvič, rispettivamente il padre e lo zio di Arkàdij, amico di Bazàrov e seguace delle sue idee filosofiche. Anche in Turgenev nella descrizione delle discussioni tra «nuova» e «vecchia» generazione assume un carattere centrale il dibattito sul valore dell’arte e della bellezza. Bazàrov afferma che «un buon chimico è venti volte più utile di un qualsiasi poeta» ed esorta l’amico Arkadij a distogliere suo padre dalla lettura di Pùškin e a indirizzarlo verso

da leggere’] è l’aggettivo del’nyj, che deriva da delo – opera, attività, affare e delat’ – fare. Etimologicamente l’opposizione è dunque tra i gerundi e il fare (o gli affari). I. Turgenev, Padri e figli, trad. it. di M. Gallenzi, Milano 2009, p. 26. 2 I. Turgenev, Padri e figli, trad. it. di M. Gallenzi, Milano 2009, p. 26. 3 Non a caso si parla di ‘romanzi antinichilisti’ nella letteratura russa (cfr. C.A. Moser, Antinihilism in the Russian Novel of the 1860’s, London, Mouton, 1964).

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HOMO OECONOMICUS VS HOMO POETICUS qualcosa di più «utile», come ad esempio il trattato filosofico Forza e materia di Büchner.4 Per i nichilisti non c’è più spazio per l’arte e la poesia: l’ideale della bellezza non è che una «fantasia da romantici» che non si addice a persone adulte. La polemica utile-bello, d’altronde, aveva dato vita a una profonda riflessione in ambito intellettuale negli anni in cui erano attivi i due scrittori. Nelle parole del ‘giovane’ nichilista Bazàrov e nel discorso appassionato del ‘vecchio’ idealista Stepan Trofimovič ritroviamo entrambe le posizioni che infiammavano il dibattito. Il

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discorso del personaggio dostoevskiano, tuttavia, si caratterizza per il fatto che l’opposizione tra utile e bello venga descritta non come antitesi tra due idee ben distinte, bensì tra due diverse forme di bellezza: «Tutto il problema sta solo nel decidere che cosa sia più bello; Shakespeare o un paio di stivali, Raffaello o il petrolio?» (qui e in seguito, corsivo mio). In questo modo, dunque, il «bello» rimane un elemento sempre presente, a prescindere da quale delle due posizioni si scelga. E, infatti, spiega Trofimovič, «l’entusiasmo della gioventù contemporanea è così puro e sereno, come era ai nostri

4 Vd. Turgenev, Padri e figli…, pp. 53-54.


ZAMPILLI LETTERARI tempi. È successa una cosa sola: la trasposizione d’una bellezza all’altra!».5 Nelle idee della giovane generazione, che rispecchiano la cultura positivista del tempo, il valore assoluto dato alla bellezza, alla poesia, all’arte nella cultura romantica è stato soppresso, ma al suo posto sono stati assurti a nuovi ideali assoluti la scienza e il progresso. Da questa trasvalutazione di valori, che nasce come opposizione al Romanticismo, emerge paradossalmente un nuovo «romanticismo della scienza»,6 in cui una bellezza è stata trasposta all’altra. Per questo Trofimovič chiede cos’è più bello. Per il nichilista Pëtr Verchovenskij un barile di petrolio, l’utile, l’economico, è più «bello» della Madonna Sistina di Raffaello. Per l’anziano idealista invece, Shakespeare e Raffaello sono al di sopra dell’«utile» («al di sopra della giovane generazione, al di sopra della chimica, quasi al di sopra di tutta l’umanità»), in quanto essi soltanto rappresentano quella bellezza senza la quale non si potrebbe più vivere, perché «non ci sarebbe più nulla da fare a questo mondo». Siamo di fronte a due estremismi, due visioni opposte che si equivalgono, essendo figlie di una stessa assolutizzazione ‘romantica’. La posizione di Trofimovič, sebbene in buona parte condivisa da Dostoevskij, è presentata come paradossale ed esagerata, non meno di quanto sia cieca e refrattaria l’idea di ‘rinunciare a Pùškin’ del Bazàrov turgeneviano. Nell’ottica del romanzo, infatti, Stepan è un

anti-eroe, così come lo sono i nichilisti: inetto e incapace di vivere in un mondo in evoluzione, intellettuale ‘fallito’, non è risparmiato dal ridicolo dalla penna dello scrittore. I demonî è un romanzo senza ‘vincitori’: sia l’ideologia nichilista e socialista, che lede la dignità umana in quanto pronta a macchiarsi di qualsiasi crimine in vista di un bene futuro condiviso, sia l’estetismo sterile e chiuso in sé stesso, che non ha alcuna portata effettiva sul reale, sono condannati da Dostoevskij in nome di un rigore etico assoluto. L’ideale di una società migliore deve essere perseguito, ma non con i mezzi dei nichilisti. E se è vero che solo la bellezza potrà salvare il mondo, il grande scrittore ci lascia un interrogativo irrisolto: quale bellezza?7

5 F. Dostoevskij, I demoni, trad. it. di Rinaldo Küfferle, Milano 2010, p. 495. 6 Vd. N. Abbagnano, Storia della filosofia, 3 vol., Torino 1946-50, vol. III, p. 26. 7 Vd. F. Dostoevskij, L’idiota, trad. it., in Romanzi e taccuini, vol. II, Firenze 1961, p. 470.

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HOMO OECONOMICUS VS HOMO POETICUS

Per il bene della scienza Una riflessione etica sopra il progresso di Matteo Giunta

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etica e la scienza, l’humanitas ed il progresso: sono, questi, binomi che oggi creano grande dibattito e spesso ‘infeconde’ speculazioni. Da una parte possiamo vedere scienziati negare l’etica come fosse un ‘elemento estraneo’, una componente metafisica da respingere alla pari di tutti quegli aspetti del mondo non muniti di una base empirica, dal momento che essa, la scienza, si sviluppa in base a propri criteri e proprie leggi. E da questo lato possiamo vedere proposti esperimenti sulla clonazione i quali danno vita ad ‘esseri viventi’ che lasciano non pochi dubbi sulla necessità, e sulla individualità di tali ‘creazioni’. Inoltre (fuori da ogni fantascienza) possiamo immaginare che, grazie al ‘progresso’ precipitoso nel settore della genetica, le future coppie potranno intervenire dall’esterno sull’aspetto fisico dei propri figli, potranno seguire la ‘moda’ del momento; questo con la possibili-

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tà da parte dei genitori di scegliere in ‘anticipo’, come su un catalogo, l’aspetto della propria creatura. Dall’altro lato della medaglia possiamo vedere posizioni altrettanto miopi e limitanti; ci possiamo accorgere di come un’offensiva cieca a qualsiasi ricerca, in difesa di una ‘morale’ alle volte un po’ stretta, come nel caso di certi attacchi alla fecondazione assistita o allo sviluppo di metodi contraccettivi, sia d’intralcio per un possibile sviluppo della civiltà. Di certo la questione sarebbe alquanto controversa e in questa sede non si vuole affrontare nessuna problematica specifica riguardante la bioetica, si vorrebbe soltanto, sulla scorta di alcuni ‘detti’ aristotelici, riflettere sull’etica oggi, e sulla scienza oggi, e sulla necessità che entrambe si riconoscano come attributi umani e dialoghino tra loro come il ‘petto’ e la ‘mente’. «Il bene è ciò a cui ogni cosa tende»1. In questa espressione si racchiude il principio aristotelico

1 Aristotele, Etica Nicomachea, I, 2, 194a.


ZAMPILLI LETTERARI dell’etica: appunto, la ricerca del bene, e questo non inteso soltanto in senso individuale di soddisfazione personale dei propri desideri, ma come conoscere il proprio ‘posto’, il proprio ruolo nella società e nella vita. Secondo tale passo, dunque, l’uomo – diversamente dal machiavellico ‘cattivo per natura’ – ha insita nella propria humanitas la tendenza al bene e alla sua ricerca. E che cos’è la ricerca del bene, in fondo se non un tendere verso quella cosa che chiamiamo ‘felicità’? La ricerca della ‘felicità’ (concetto, certo, d’ineffabile sostanza) dovrebbe essere il fondamento di ogni ‘agire’; pur tuttavia oggi questo fine irrinunciabile viene dimenticato, in vista di un più cristallizzato e rassegnato benessere, portato in seno dal progresso inarrestabile che stiamo vivendo. E allora la scienza, in quanto nuova ed ‘esatta’ religione si impone come ‘paradigma’ della civiltà del progresso e tutto, la ricerca, la storia, la vita umana, si trovano a convergere entropicamente verso l’unico obbiettivo totale e totalizzante che si chiede oggi di perseguire all’homo tecnicus: il progresso. Ma non si vuole qui ciecamente demonizzare questo progresso: esso non è soltanto un allontanamento dell’homo ethicus dal proprio fine, e in fondo, è potenzialmente riconducibile a ‘mezzo’ necessario al suo perseguimento. «Tutti gli uomini per natura tendono al sapere»2. Ecco infatti un altro famoso luogo aristotelico che all’interno del pensiero del

filosofo non contraddice affatto il primo, anzi, lo amplia e chiarifica. L’uomo, nell’apprendere, è felice, poiché impara a conoscere ciò che lo circonda e soprattutto riconosce il proprio ‘posto’. Dunque, se l’etica è la continua ricerca in potenza del bene, e la conoscenza è il mezzo che permette all’uomo di migliorarsi e migliorare, non esistono paradossi che mettano in conflitto questi due detti. La ricerca della verità dunque come ricerca del sommo bene, ma una ricerca che assume valore in quanto tale, non cristallizzabile in norme rigide e in basi sistematiche e in eventuali ebbrezze di raggiungimenti, il tutto attraversato dal contatto con la felicità della conoscenza e della consapevolezza di aver operato secondo l’idea di ‘bene’. La scienza è un mezzo sì, utile al fine della conoscenza, della ricerca della verità, ma non è l’unico e soprattutto, come ogni conoscenza, deve assumere consapevolezza della propria fallibilità: cosa che a livello teoretico avviene, come dimostrano i grandi dibattiti tra i filosofi della scienza, ma che viene dimenticato soprattutto nelle più specifiche articolazioni della scienza: le discipline tecniche. Ciò è più che mai evidente oggi, nell’epoca della tecnica: le due affermazioni aristoteliche sopra citate potrebbero sembrare addirittura antitetiche l’una con l’altra. Così come le morali troppo rigidamente paradigmatiche, cristallizzano l’etica rendendola frivola e immobilizzandola in una sorta di sistema di leggi, così la conoscen-

2 Aristotele, Metafisica, I, 2, 982b.

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HOMO OECONOMICUS VS HOMO POETICUS za, nel momento in cui diventa fiducia totale nelle leggi ‘date’ della scienza ecco che diviene tecnica, ossia assoggettamento cieco ai paradigmi della scienza che assurti ad a priori indiscutibili e infallibili fermano il progresso in un continuo riprendere se stessi3. Ma oltre l’immobilismo paradigmatico su cui stagna la teoria scientifica in sé, un più grave male affligge questa civiltà nel suo insano rap-

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porto con la scienza, o meglio (alla luce di quanto espresso in precedenza) con la tecnica, ossia, la discordanza tra il progresso e l’etica. Se infatti, riprendendo i luoghi aristotelici citati, pensiamo che l’uomo tende al bene e allo stesso tempo alla conoscenza, perché – possiamo chiederci – il progresso scientifico non sempre si rivolge al bene dell’uomo? Perché molte volte, al contrario, si dirige nella dire-

3 Per approfondire questi problemi riguardanti specificamente questioni di filosofia della scienza si rimanda a T. S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, 1979.


ZAMPILLI LETTERARI zione opposta? Non è raro sentire giustificati atti di violenza contro l’uomo e/o la natura con parole come ‘è per il bene della scienza, del progresso!’ Stiamo assistendo ad un’epoca in cui il progresso non è più un mezzo dell’uomo per l’uomo, ma è divenuto una res a se stante, un gigante che sembra possedere una propria volontà, vivo e che procede per la sua strada dimentico del proprio fine benefico e del proprio assoggettamento all’uomo. Oggi è l’uomo ad essere strumento del progresso. Le grandi scoperte della civiltà della tecnica, dopo l’ubriacatura positivistica, si susseguono l’una all’altra per conseguenza: una sorta di processo a catena inesauribile di cui l’uomo ha perduto il controllo. Ciò che conta per la scienza d’oggi non è migliorare la vita dell’uomo, niente affatto: è invece progredire, progredire senza mai fermarsi per il puro e semplice desiderio di progresso. Nulla importa se questo inarrestabile cammino schiaccia vite umane, mette in ginocchio intere nazioni come è il caso oggi, in questo periodo storico di crisi economica (e non solo), di certe realtà europee di paesi che, per saldare un debito virtuale contratto con le banche, sono costretti a genuflettersi di fronte a sistemi tecnici e aleatori come la borsa e il mercato. Per citare un esempio letterario di difesa del ‘bene della scienza’ contro qualsiasi etica umana estraggo un passo dall’opera Juliette di De Sade4, nel quale Rodin, aristocratico di nascita e chirurgo per di-

letto, decide di effettuare alcuni esperimenti sulla propria figlia quindicenne assieme ad un collega, giustificando tale azione con queste parole: «È odioso che futili considerazioni fermino il progresso delle scienze; i grandi uomini si sono forse lasciati imprigionare da miserabili catene? Quando Michelangelo volle rendere un Cristo al naturale non si fece scrupolo di crocifiggere un giovane e di ritrarlo nei tormenti. Per il progresso della nostra arte, simili mezzi sono assolutamente necessari. Un soggetto è sacrificato per salvarne milioni: come esitare davanti a questo prezzo?»5 Un messaggio tremendo trapela da questo breve passo: una realtà di pura ragione che dimentica totalmente qualsiasi tensione umana verso l’altro, verso il bene, come fosse, quest’ultimo, una questione di numeri. Un discorso di questo tipo, totalmente razionale, privo di qualsiasi etica, di qualsiasi vicinanza con le cose e le persone, sarebbe persino capace di rendere l’assurdo una vera e propria logica, di rendere il male una virtù.

4 Per approfondire il discorso su de Sade come limite estremo della pura ragione si rimanda a T. Adorno, M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, Torino, 1966. 5 de Sade, Justine, trad. di Giovanni Mariotti, Milano, 1994.

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HOMO OECONOMICUS VS HOMO POETICUS

L’anti-economia del beneficium in Seneca Uno spunto di humanitas nella rete dei rapporti sociali di Monica Bravi

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a riflessione di Seneca, con i suoi duemila anni di età, esplora fino in fondo ogni ramo del vivere umano, dalle relazioni interpersonali al sentimento religioso, dalle ombre della società del tempo al vivere civile ed economico, tanto che non manca chi ha definito lo scrittore e pensatore latino un ‘sociologo ante litteram’.1 In realtà l’osservazione di Seneca è molto più che una descrizione o un’analisi critica del proprio tempo: è piuttosto una riflessione onnicomprensiva sull’essere uomo nel miglior modo possibile, in ogni istante, in ogni luogo, in ogni circostanza della vita. Pur abbracciando la filosofia stoica, che esorta a tenersi lontani dalle passioni troppo intense per raggiungere uno stato ideale di apatia, Seneca non invita il cittadino romano, e quindi l’uomo in generale, ad estraniarsi dal suo tempo e a rifiutare i meccanismi del vivere sociale o economico, ma solleva l’urgente bisogno per l’uo-

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mo di arricchire la propria quotidianità di quello speciale sufflato che è la riflessione filosofica, dalla quale bisogna lasciarsi guidare in un cammino che è sempre lo stesso, ma in sé arricchito di un sapore del tutto nuovo. In questa ottica si colloca anche una delle sue opere più (apparentemente) pratiche, il De beneficiis,2 in cui l’autore discute la pratica del beneficium, il dono spontaneo, in rapporto con quella del creditum, il vero e proprio prestito.3 Anche in questo caso egli non si limita a registrare una pratica molto in uso nel suo tempo e a confermarne la validità in quel dato momento e in quella data cultura, ma la rilegge e, in qualche modo, la riscrive, alla luce della sua filosofia, valorizzando il fondamento di humanitas che tale pratica contiene in sé, ma che nella prassi spesso tende ad essere dimenticato. L’invito di Seneca è a non considerare il beneficium in relazione alla sua entità materiale,

1 Cfr. ad esempio M. Griffin, Seneca as a Sociologist: De beneficiis, in A. De Vivo, E. Lo Cascio, Seneca uomo politico e l’età di Claudio e di Nerone. Atti del Convegno internazionale (Capri 25-27 marzo 1999), Bari 2003, pp. 89-122. 2 Cfr. Seneca, De beneficiis, ed. by F. Préchac, Paris 1926-27. 3 Cfr. P. Li Causi, Fra creditum e beneficium. La pratica difficile del ‘dono’ nel De beneficiis di Seneca, «I Quaderni del Ramo d’oro on-line» 2, 2009, pp. 226252.


ZAMPILLI LETTERARI ma alla luce del particolare rapporto umano che con esso si viene ad instaurare tra colui che dona e colui che riceve. Il beneficium consiste infatti in un dono, inteso anche come un servizio o un favore, che esula (o dovrebbe esulare) da una mentalità e da una finalità di tipo pragmatico, dai principi utilitaristici del do ut des: dovrebbe fondarsi su un sentimento di rispetto nei confronti della persona che abbiamo dinnanzi, che va considerata nella sua dignità umana e che proprio in virtù di tale dignità viene scelta come destinataria del dono. Deve esserci insomma, alla base di questo scambio apparentemente materiale, un preciso bisogno di instaurare un rapporto umano, che si esplicherà attraverso una sincera volontà di donare. Ecco che in questo modo il donare diventa un ‘donarsi’, e come tale necessita di un profondo rispetto della propria e dell’altrui persona. «Che cos’è dunque il beneficio? Un’azione benevola che procura un intimo senso di gioia e a sua volta gioisce nel procurarla, una predisposizione a donare e un senso di spontaneità nel farlo. Perciò non ha alcuna importanza ciò che si fa o si dà, bensì con quale intenzione, perché il beneficio consiste non in ciò che si fa o si dà, ma proprio nella disposizione d’animo di colui che dà o che fa. È la disposizione d’animo che innalza le piccole cose, nobilita quelle umili, smaschera quelle ritenute grandi e preziose; persino i nostri più comuni desideri hanno

una natura neutra, né di bene né di male: ciò che realmente conta è dove li orienta colui che imprime loro movimento e forma. La vera essenza del beneficio non consiste in ciò che si possiede e che passa da una persona all’altra, così come la devozione verso gli dèi non consiste affatto nell’entità delle vittime: siano pure grasse e coperte d’oro scintillante, ciò che conta è il sentire pio e sincero di chi venera. Pertanto i buoni saranno devoti anche con un po’ di farro e farina; i malvagi, invece, non sfuggiranno l’empietà, pur macchiando di sangue interi altari.» [De beneficiis 1,6, trad. it. mia] Seneca insiste a più riprese sul fatto che occorre assumere una giusta disposizione d’animo nell’offrire un dono, e in ciò mostra chiaramente come il De beneficiis non sia affatto un trattato di carattere socio-economico su una pratica in uso all’epoca in cui egli scrive, quanto piuttosto un’opera di ampio respiro che si propone di indicare e di insegnare il modo e il senso con cui tale pratica deve essere esercitata e recepita. L’approccio ‘correttivo’ usato da Seneca rivela che egli sta senz’altro criticando, neppure troppo velatamente, l’uso inappropriato che di tale pratica si faceva all’epoca soprattutto negli ambienti di potere, dove verosimilmente veniva sfruttata con fini pratici come scambio di favori per acquisire prestigio o per ottenere qualcosa di ambito. In alternativa a ciò Seneca propone un atteggiamento totalmente

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HOMO OECONOMICUS VS HOMO POETICUS disinteressato, insensibile all’ipotesi di un eventuale profitto, sostanzialmente anti-economico. Il beneficium, se generato da un sentimento di filantropia, deve costituire un valore di per se stesso e non contemplare nessuna aspettativa di un eventuale rendiconto, e in ciò risiede la grande differenza rispetto al creditum, il vero e proprio prestito. «Proponiamoci di offrire benefici, non di accordare prestiti. Merita di finire deluso chi, mentre donava, già sperava in un tornaconto personale. Poniamo pure che l’esito non sia quello che avevamo previsto: anche i figli e la moglie hanno deluso le nostre aspettative, eppure si educano ancora i figli e ci si continua a sposare; siamo a tal punto ostinati di fronte ai nostri fallimenti che riprendiamo la guerra dopo una sconfitta, e scampati ad un naufragio ci rimettiamo in mare. Quanto più vale la pena persistere nel beneficare! [...] Questo è tipico di un animo grande e buono: non aspirare ad un guadagno a partire dai benefici offerti, ma il beneficio in se stesso, e anche dopo aver incontrato l’ingratitudine, continuare a cercare qualcosa che sia ancora buono. Cosa ci sarebbe di nobile in questo gesto, se nessuno ci avesse deluso? Proprio in ciò risiede la grandezza d’animo, nell’offrire benefici che con ogni probabilità non torneranno mai indietro, ma dei quali l’uomo magnanimo coglierà immediatamente il frutto.» [De beneficiis 1,1]

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Ma in cosa consistono questi beneficia che, se offerti con tale disposizione d’animo, sono indice di magnanimità? Non si tratta necessariamente di donativi in denaro, ma di forme di aiuto materiale o immateriale offerte spontaneamente in specifiche situazioni a persone che ne hanno bisogno, per un naturale sentimento di filantropia. Questo gesto, afferma Seneca, è qualcosa di semplice e dovuto, ed è tipico dell’uomo onesto, il quale persiste nel donare anche di fronte all’ingratitudine: «Non demordere: persisti nel tuo compito e fai la tua parte di uomo onesto. Aiuta l’uno con il denaro, un altro con la lealtà, un altro con il perdono, un altro con il buon senso, un altro con sani precetti.» [De beneficiis 1,2] In ogni caso, di qualunque cosa si tratti, la vera natura del beneficium è svincolata dal suo valore concreto e dalla contingenza e possiede invece una qualità di tipo spirituale, che risiede nell’atteggiamento umano di chi lo compie e si riflette su chi lo riceve, procurando ad entrambi un effetto benefico sul piano umano, non materiale. Nell’ottica senecana, che vede nell’atto semplice e spontaneo del dono un grande segno di humanitas, il creditum rappresenterà invece la fase in cui l’oggetto e il suo valore hanno preso il sopravvento sull’individuo, e soprattutto sul rapporto fra gli individui, che proprio nel momento formativo dello scambio disinteressato trovava la sua compiuta dignità e realizzazione.


ZAMPILLI LETTERARI Seneca non vuole certo criticare l’intero sistema economico romano in sé e proporre una rivoluzione basata sull’alternativa del puro donare, il che sarebbe un’utopia. Come già detto, infatti, lo scopo del filosofo non è quello di demolire l’insieme dei meccanismi del vivere quotidiano, quanto piuttosto proporre una ri-significazione del modus vivendi. Nell’ambito di un sistema socio-economico ampiamente consolidato egli non intende indicare un’alternativa, quanto piuttosto suggerire un’ulteriore possibilità da affiancare all’insieme delle comuni pratiche quotidiane, che dia un valore aggiunto e arricchisca lo stesso sistema di uno spunto di sana

humanitas, allontanando così la tentazione di attribuire all’oggetto del meccanismo economico un valore assoluto, indipendente cioè dagli individui che partecipano di questo processo. Che la proposta senecana sia tutt’altro che utopica o superata lo dimostra tutta la riflessione sul no profit e sull’economia non utilitaristica sviluppatasi soprattutto negli ultimi anni, per esempio in relazione alle pratiche di solidarietà sociale e ai riti oblativi su cui si basano certe società africane. Serge La Touche, nel libro L’altra Africa,4 ha osservato come, nell’ambito di molte civiltà africane, un’enorme quantità di tempo ed energia venga investita

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HOMO OECONOMICUS VS HOMO POETICUS quotidianamente nello scambio e nella condivisione fra individui, tra incontri, visite, feste. In una civiltà vernacolare come quella africana anche l’economia viene re-incorporata nel sociale, e la logica dominante è quella del dono. Ma anche in ambito occidentale non mancano tentativi di rifarsi a forme economiche tipiche di una civiltà primaria: basti pensare ai sistemi di scambio locale (come il Local Exchange Trade System in Gran Bretagna o il Système d’échange local in Francia) i cui membri scambiano reciprocamente beni e servizi di ogni tipo al di fuori dei meccanismi del mercato. Si tratta evidentemente della ricerca di un’alternativa all’economia di mercato con lo scopo di recuperare forme di solidarietà e di contatto più profonde. Ciò che naturalmente non possiamo ancora trovare in Seneca rispetto al moderno dibattito su questo tema è una netta differenziazione fra due possibili modelli di economia, quella di mercato e quella di scambio, e la tendenza a considerare la seconda tipologia come un ritorno ad una forma ‘originaria’ di intrattenere rapporti economici. A Seneca non interessa affatto proporre un sistema economico alternativo: il filosofo, indifferente agli aspetti prettamente socio-economici della questione, sembra semplicemente invitarci a vivere dentro la rete dei rapporti economici mantenendo la cognizione del valore rivestito dai soggetti di tali rapporti, più che dagli oggetti.

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Figlio naturale del pensiero stoico, Seneca ci ammonisce insomma ad assegnare il giusto valore alle cose sulle quali pretendiamo di vantare un dominio e un possesso ma che, se considerate nella loro reale essenza, rivelano il proprio carattere futile, fragile, temporaneo, risibile: è soltanto in virtù del loro essere coinvolte nella rete dei rapporti fra le persone che esse acquistano un valore. All’interno di questa rete, regolata da meccanismi pienamente riconosciuti ed accettati, è importante distinguere la presenza di gesti del tutto disinteressati, che hanno lo scopo di ricordarci il carattere effimero delle cose, le quali non dovrebbero mai prendere il sopravvento sulle persone. L’atto spontaneo del dono che non si aspetta nulla in cambio costituisce qualcosa di estremamente alto, perché sancisce attraverso un gesto di estrema semplicità un rapporto umano stabile e duraturo, e tale rapporto, che non è altro che un donarsi l’uno all’altro, costituisce l’unico vero valore. Tutto il resto è solo cosa. «Perché risparmi come se fosse un tuo possesso? Tu non ne sei che l’amministratore. Tutte queste cose che, rendendovi tronfi e innalzandovi al di sopra dell’umano, vi istigano a dimenticare la vostra fragilità, tutte queste cose che voi con le armi in pugno custodite con catenacci di ferro, che, sottratte ad altri versandone il sangue, difendete a rischio del vostro, queste cose per le quali armate flotte destinate ad insanguinare i mari, per

4 Cfr. S. La Touche, L’altra Africa. Tra dono e mercato, trad. it. Torino 1997.


ZAMPILLI LETTERARI le quali radete al suolo intere città ignari di quanti dardi la sorte stia preparando alle vostre spalle, per le quali infine, infranti tante volte i legami di parentela, di amicizia, di comunanza, il mondo è stato schiacciato fra due contendenti, tutte queste cose non sono affatto vostre; sono solo in consegna presso di voi, già in attesa di rivolgersi ad un altro padrone; ben presto vi metterà mano un nemico o un erede dall’animo ostile. Mi chiedi come tu possa renderle tue? Dandole in dono. Abbi cura delle

tue cose e conquista su di esse un possesso sicuro e inespugnabile, perché siano più dignitose, non solo più sicure. Queste cose che tu contempli, grazie alle quali ti illudi di essere ricco e potente, finché sono in tuo possesso, giacciono oppresse da nomi volgari: non sono altro che una casa, uno schiavo, del denaro; ma quando ne avrai fatto dono, il loro nome sarà beneficio.» [De beneficiis 6,3]

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HOMO OECONOMICUS VS HOMO POETICUS

Il poeta artigiano L’esperienza di Giampiero Neri di Alessandro Zaffini

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aspetto occidentale del vestito, ovvero la prima raccolta di Giampiero Neri (pseudonimo di Giampietro Pontiggia – Erba, 1927) esce nel 1976, quando l’autore – fate una botta di conti – è quasi cinquantenne; l’atto conclusivo del suo impegno lirico, Paesaggi inospiti, è dato alle stampe nel 2009. Nell’arco di più di trent’anni il poeta pubblica una quantità contenuta di sillogi, composte di frammenti che spesso lasciano spazio alla pagina bianca, titoli che si ripetono, immagini e situazioni evocate anche due o tre volte. Uno sguardo frettoloso sull’opera può far pensare a una scrittura monotona e poco versatile, affetta da una radicale pigrizia nel rinnovare la propria ispirazione; eppure nemmeno un lettore che si accosti superficialmente a Neri potrà vedere nell’intrico continuo di rimandi e allegorismi il frutto di una stesura svogliata e puramente istintiva. La predilezione per la

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prosa poetica, parallela a quella per i versi dall’andatura ‘prosastica’ – quell’estremismo espressivo di ascendenza lombarda che spesso e volentieri si spinge ben oltre i limiti del parlato e sconfina in una discorsività emotivamente neutra – quei palesi ammiccamenti che fanno emergere frammenti sintattici tratti dalla tradizione storiografica, memorialistica, o addirittura scientifica – tutto ciò tradisce un pazientissimo e consapevole labor limae, improntato alla ricerca di un metodo espressivo scevro dai consueti (e consunti) lirismi. Un togliere, una ‘spersonalizzazione’ che non porta alla freddezza né pregiudica il fascino della poesia, ma anzi, conferisce al dire della pagina un’asciuttezza e un’evocatività rara. Pazienza e consapevolezza ancora più degne di essere ricordate se prendiamo in considerazione i motivi biografici che hanno portato Giampietro Pontiggia a seguire la vocazione letteraria: morto il padre qual-


ZAMPILLI LETTERARI che anno prima in un tentato rapimento, nel 1947 è costretto ad abbandonare gli studi di Storia Naturale a Milano per problemi economici; viene allora assunto nella banca dove lavorava il genitore, e ci rimane fino al pensionamento. Come abbiamo modo di notare dall’intervista rilasciata a Massimiliano Martolini nel 20091, l’impiego, pur dignitoso, a cui era destinato non lo soddisfaceva: «Alle mie poche o nulle conoscenze pratiche e di economia, si univa il mio disinteresse per la materia e una riluttanza a imparare piuttosto singolare. Eppure, non mancavano i motivi per riflettere, ma di questo mi sarei reso conto più tardi. Alla banca, d’altronde, bastava svolgessi i compiti che mi erano affidati, non pretendeva una dedizione intellettuale. Perciò, che io capissi o meno i compiti che mi venivano assegnati non era affatto importante. (...) Infatti ho iniziato a scrivere proprio perché non mi bastava solo il lavoro o la vita affettiva. Il lavoro non era un’attività dello spirito e rimaneva solo lavoro in quanto tale. Con le sue modalità sempre uguali e di nessuna o poca soddisfazione intellettuale. Non c’era una sfida da intraprendere, se non di tipo pratico, ma questo aspetto non mi interessava, anche perché il lavoro in banca o in assicurazione o alle poste ti attribuisce un numero e tu finisci per diventare quel numero».2 All’alienazione dell’impiegatomacchina, obbligato ad assecondare gli automatismi di un sistema

che può tranquillamente fare a meno del suo entusiasmo, Giampiero risponde con una ricerca intellettuale e spirituale molto più umana, quella di chi consapevolmente – e senza risparmiarsi una certa preoccupata meraviglia – osserva la realtà per penetrarne il senso recondito, e da essa, a sua volta, farsi osservare. In breve: la ricerca poetica. Nelle atmosfere richiamate da Neri poco o nulla ricorda il ‘giogo’ della banca: le scene quotidiane come le straordinarie, ruotano attorno ai due fuochi ‘sovrapponibili’ della natura e dell’uomo, e l’opacità con cui spesso sono ritratte non si tramuta mai in grigiore: se nel caso degli avvenimenti naturali il riserbo descrittivo prepara la scena ai suoi attori (animali e piante colti in improvvise e quasi soprannaturali apparizioni: «L’inquilina l’aveva visto posarsi su un ramo poi volare via pigramente. Era una civetta, era un gufo? L’apparizione unica nel suo genere non si sarebbe più ripetuta e la questione rimase in sospeso, come tante altre»3), contenutezza stilistica e discorsività allestiscono invece il dramma tutto umano dell’individuo nella Storia («Sulla targa di marmo/ all’ingresso della villetta/ il nome si legge ancora bene,/ Famiglia Rodini./ La macchia rossa di vernice/ che lo sfigurava/ si distingue appena,/ come una traccia/ fra le altre della guerra»4). Ogni cosa è illuminata da un inquieto stupore, come di fronte a un’imminente e spettacolare catastrofe. La dimensione in cui si dispiega l’apparire

1 Giampiero Neri, Il mestiere del poeta, librointervista a cura di Massimiliano Martolini, Ancona 2009. 2 Ibidem, pp. 15-16. 3 Giampiero Neri, Liceo, in Poesie 1960-2005, Milano 2007, p.86. 4 Giampiero Neri, Paesaggi inospiti, Milano 2009, p. 54.

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HOMO OECONOMICUS VS HOMO POETICUS del mondo è quella della memoria, resa con l’uso del presente storico, dell’imperfetto e del passato prossimo. L’intera opera si configura quindi come uno sguardo prolungato sul magma confuso delle realtà già state, un palcoscenico dove si susseguono luoghi, eventi, personaggi, dove ogni elemento dialoga con l’altro nel suo presentarsi e ripresentarsi al lettore in un ordito non districabile. Una narrazione sconnessa, forse portata avanti dalle trame di un destino appena intellegibile e in continua fuga. Ma non per scordarsi del presente, né mosso da vuoti sentimentalismi l’occhio di Neri fissa il passato. Il ritorno dello stesso, il dejà vu, non è mai un riconoscimento nostalgico – e sereno ancor meno – di ciò che è familiare: anche in esso c’è un’ambivalenza inquietante, un variare che angoscia e disorienta: «si era fermato e lasciato cadere la bicicletta/ sulla strada, l’amico di mio padre/ «se tutto doveva finire...» mi aveva detto abbracciandomi,/ era stato il suo com-mento.»5, «In quelle nebbie, una mattina di novembre/ aveva visto l’amico di suo padre/ davanti alla scalinata di Terragni./ Nell’abbracciarlo, la bicicletta era caduta a terra,/ «doveva essere l’ultimo»/ era stato il suo necrologio»6. Questa impressione di cupo straniamento non si produce soltanto davanti a componimenti che descrivono la stessa situazione, ma persino tra poesie di ‘argomento’ diverso, dove a turbarci è l’insistenza della voce narrante su precisi particolari. Ci accorgia-

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mo, ad esempio, che, sparsi tra le varie raccolte, uomini, animali ed oggetti sono accomunati da una sorte infelice: case abbandonate, edifici in rovina, vite stroncate, bestie inseguite o prese in trappola sono i commedianti di questo teatro universale dove s’inscenano progetti per sempre sospesi, attese e ricerche deluse, abitudini perse. Il pericolo è sempre dietro l’angolo: tutto muore, sia perché corrotto dal naturale scorrere del tempo, sia perché sopraffatto da violenza e brutalità. A questo punto il ripresentarsi dello stesso non può essere soltanto una bizzarra trovata dell’autore, né si esaurisce in una ‘imitazione’ del dejà vu, ma rappresenta il soffermarsi del poeta sull’unica costante osservabile in natura e storia: l’irriducibilità del Male, in entrambi onnipresente, necessario o gratuito che sia. Ci si guardi, però, dall’intendere questa presa di posizione come una glorificazione del negativo, e non la si confonda con uno sterile e decadente piangersi addosso: attraverso il suo stile per lo più neutro e ‘oggettivo’, Neri si propone di riesumare le esistenze passate per lasciare che parlino da sole, denunciando le ingiustizie e gli abusi di cui tutto cade vittima. In questo senso non sono rare le poesie e le prose che consistono in veri e propri inventari di oggetti ‘superstiti’, scampati al tempo e ritrovati dalla penna del poeta. Capiamo ora che il ‘ricordare’ di Neri deve essere necessariamente inteso come un ‘testimoniare’, un dar voce a ciò che non c’è più,

5 Giampiero Neri, Altri viaggi, in Poesie 1960-2005, cit., p. 134. 6 Giampiero Neri, Armi e mestieri, in Poesie 19602005, cit., p.198. Sia questo componimento che il suo ‘doppio’ citato nella nota precedente si rifanno a un episodio legato alla morte del padre di Giampiero.


ZAMPILLI LETTERARI evocare di nuovo qualcuno o qualcosa in presenza dell’ineluttabile, trasformando il poetare in una vera e propria lotta contro il tempo divoratore, contro tutto ciò che di negativo s’insinua nell’esistenza. Questo additare il Male coincide col mettere in guardia il lettore, avvertirlo del pericolo, segnalare

non soltanto la finitezza del tutto, la violenza delle dinamiche naturali, ma anche l’ingiustificata barbarie che ancora sopravvive nella civiltà. La testimonianza del poeta, per quanto cruda e scomoda, dà valore e cittadinanza alle cose, le strappa alla ‘frivolezza’ immemore del naturale passare degli

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HOMO OECONOMICUS VS HOMO POETICUS anni che finisce per sovrastarle, conferendo loro il diritto di esistere ed essere ricordate pure nel fosco mondo in cui abitiamo: niente di più lontano dal modus vivendi dell’individuo contemporaneo nei panni di passivo esecutore di input – il primo, in fin dei conti, ad essere sostituibile all’interno del complesso di produzione a cui appartiene. Allargando il discorso alla problematica generale dell’opera d’arte di fronte alla logica di domanda e offerta, val la pena ricordare un’ultima consuetudine di scrittura che discosta nettamente l’operare di Neri dalle usanze che i dictat del profitto impongono (anche se molto più pacatamente in poesia rispetto a quanto avviene con altri generi editoriali) al processo creativo, ovvero la lentezza con cui l’ispirazione si è concretizzata nella pubblicazione, a partire dal tardivo esordio e proseguendo attraverso lunghe pause per le varie raccolte. Il poeta lombardo è perfettamente conscio dell’essenziale fraintendibilità del linguaggio: nel capitolo iniziale de L’aspetto occidentale del vestito – la prolusione all’intera sua opera – la voce narrante si interrompe o introduce il discorso con espressioni quali «ora non ricordo tutti i particolari», oppure «non voglio dire una cosa per un’altra»; troviamo poi elementi che esprimono scetticismo riguardo alla coincidenza tra parola e cosa designata, qualsiasi essa sia: i «piccoli segni neri, immagine e somiglianza di un impegno con-

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tinuo» che «dimorano a forma di malinconici simboli, privi di vita» sono metafora di questa mancata identità. Ma proprio a causa della loro sostanziale e rischiosa debolezza il poeta non gioca mai con le parole: le dosa e le soppesa accuratamente perché possano svolgere al meglio la loro missione di testimonianza, senza che la scrittura ceda mai al disfattismo né alla tentazione di comporre ‘facili’ versi di immediata fruibilità. È chiaro adesso come una straordinaria tensione etica unisca i tasselli di una narrazione che ci appariva casuale e gratuita, e comprendiamo il vero senso della paziente vocazione di un poetaartigiano come Giampiero Neri.


ZAMPILLI LETTERARI

Tutta la filosofia racchiusa in un barattolo di Sara Balleroni

« [...] il denaro esiste, eccome! Anzi il denaro è tutto. Che cos’è la ditta, non è forse prima di tutto denaro? Ma il denaro ha un padrone, caro mio. E questo padrone sa chi è? » « No » « Il cuore » Goffredo Parise, Il padrone

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l padrone di Goffredo Parise è un romanzo ambientato in una non meglio specificata «ditta commerciale», in un’anonima metropoli dalle cui fattezze riconosciamo una Milano grigia e opprimente, quasi Kafka ne fosse stato architetto: racconta la storia di un ragazzo di provincia che, assunto nella ditta, si fa assorbire completamente (e perversamente) dai meccanismi economici e di proprietà. A capo della ditta c’è il dottor Max, un giovane «dal volto fine e pallido, strizzato, rimpicciolito da qualcosa di doloroso e di ineluttabile come una malattia inguaribile», la secrezione biancastra che gli si accumula agli angoli

della bocca è «simile a quella di un grosso insetto ferito»1; il dottor Max è il padrone: è ricco, è potente, è – in un’ottica economica – una persona di successo. Ma non è felice, e le sue motivazioni sono tutte morali: la proprietà, egli dice, è ingiusta; è ingiusto dare ordini ad un dipendente pagato, che fa il proprio lavoro per avere, alla fine del mese, uno stipendio. È immorale che il dipendente in questione lo assecondi, sempre, solo perché è il suo lavoro; perché quello è il suo compito sociale. Il dottor Max dice, esplicitamente, che – se solo potesse! – non farebbe il padrone, l’homo oeconomicus per eccellenza, la realizzazione più vicina e

1 Goffredo Parise, Il padrone, Milano 2011., p. 30-32.

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HOMO OECONOMICUS VS HOMO POETICUS fedele al modello; se solo potesse sarebbe un filosofo: «La filosofia è la sola cosa che conti al giorno d’oggi. Scusi, mi sono espresso male. La filosofia non conta niente, a cosa serve? Ma per me, voglio dire. Se io fossi libero mi ritirerei in campagna a studiare i grandi filosofi del passato. Credo che sarei un grande pensatore. Grande, no, affatto, un piccolo, piccolissimo pensatore, anzi voglio dire un lettore [...]. Eppure tutto ciò è necessario, anzi più che necessario è un dovere o per meglio dire corrisponde ad una morale negativa»2. Il dottor Max (così dice) non potrebbe mai lasciare la ditta: lavorare lì è, per lui, una necessità, un obbligo morale. Se solo potesse! Ma non prendiamoci in giro: il

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dottor Max potrebbe, in ogni momento, abdicare dal suo ruolo, così vicino al modello supremo di homo oeconomicus, per fare qualche passo verso il decantato modello poetico; potrebbe e, allo stesso tempo, sa che non sfuggirebbe al modello economico, che è pervasivo. Allora a cosa serve, scendere dalla gerarchia, se comunque non c’è fuga dal sistema? A niente, e l’uomo economico non fa niente per niente. Inoltre, davvero, al dottor Max piace pensarla così: è bello pensare che, se solo decidesse di farlo, potrebbe diventare un filosofo. La questione è: bastano i libri di filosofia a fare un filosofo? Il dottor Max si risponde da solo, non sarebbe un homo poeticus, sarebbe un lettore. Il filosofo, così come lo

2 Ibidem, p.37; corsivo mio. 3 Non dico che non succede, dico che non è così che funziona.



HOMO OECONOMICUS VS HOMO POETICUS

Note sull’omerismo L’incontro tra Odisseo e Penelope di A. F.

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l fondamento della grecità prima risiede, senz’altro, nel detto omerico, inteso come generatore culturale dei vari modi dell’esser-greco. I poemi omerici traggono la loro poeticità anche nel fungere da enciclopedie da cui attingere nozioni teoriche e pratiche. La civiltà omerica, in questo senso, è all’inverso di quella attuale, dominata dalla tecnica scientifica. L’essenza della civiltà omerica, volta all’omerismo, è nell’epicità. 1Epoj, ‘parola, ciò che si dice’, deriva dalla radice indoeuropea ‘vak-’ con il significato, appunto, di ‘parlare, dire’. Una civiltà che ha il suo perno nell’epica è sostanzialmente una civiltà orante, la cui essenza è radicalmente opposta alla tecnicità. La parola te/xnh , ‘arte come mestiere’, ha invece origine nella radice indoeuropea ‘tak-’ con il significato generico di ‘fare, produrre’. La nostra civiltà è tecnica in quanto facente. L’antagonismo tra l’orante e il facente scaturisce dalle differen-

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ti finalità delle due azioni: l’una è volta alla relazione tra gli esseri, l’altra al dominio su di essi. La parola, nella forma della colloquialità, pone i parlanti nella situazione di poter discorrere in maniera chiara o intima, a seconda della conoscenza che vi è tra di essi. La maniera del parlare dipende, allora, dalla relazione tra i parlanti. Se tra di loro vi è un rapporto di subordinazione, è probabile che il colloquio sia soltanto chiaro, cioè rivolto esclusivamente al metter le cose in chiaro nelle disposizioni (le cosiddette ‘comunicazioni di servizio’), senza che il pensiero del sé si riveli. Qualora, invece, ci fosse un rapporto di amicizia, o addirittura d’affetto, alla chiarezza si affiancherebbe l’intimità, cioè l’intenzionalità del sé che scopre i suoi propositi. La società orante, avendo come fine il colloquio, che è relazione tra gli esseri, è proiettata nella dimensione relazionale intima assai più di quella tecnica, la quale discorre in vista del fare,


ZAMPILLI LETTERARI e pertanto si serve del colloquio quasi esclusivamente nel suo potenziale chiarificatore. La civiltà facente è disinteressata al contatto intimo con l’individuo, giacché il suo fine è il dominio; un’eventuale intimità sarebbe, al vero, mera accortezza del parlante, il quale, volendo imporre il proprio dominio, cerca comunque di non irrigidire troppo l’esser-umano dell’uomo. L’epicità, cioè la sostanza dell’epica, è poi nel racconto rammemorante di un fatto storico, che non pretende di porsi nella sua effettiva storicità, bensì nella salvezza dal turbine storico1. È il pensiero poetante che sceglie di salvare il fatto in sé, cogliendolo intatto nel caotico divenire di ciò che avviene. L’importanza primaria di una società fondata sull’epica è, pertanto, nel suo senso storico: il parlare poeticamente regola ciò che è sostanziale, ciò che va ricordato, comprendendo esattamente, senza possibilità di sbaglio l’esser(-storicamente)-notabile. L’epica emerge come quid storico evidente per mezzo dell’epicità che la sostanzia attraverso il rammemorare. La civiltà orante possiede, quindi, una visione storica oltremodo sviluppata, e ciò fa sì che essa coltivi poeti capaci di profezie di lunga gittata: la sola comprensività del passato, difatti, può permettere un’apparizione anticipatrice del futuro. Con tali considerazioni non si vuole stilare una classifica di preferenza tra le varie civiltà, dimodoché la nostra, in piena consonanza con il pessimismo generale, risulti impietosa-

mente l’ultima: il confronto con la società omerica serve a comprendere ciò che si è guadagnato nel cambio, e ciò che si è perso. Lo sviluppo della tecnica, nella modernità, ha comportato almeno tre défaillance rispetto all’omerismo: 1) perdita del senso storico; 2) perdita del colloquio sociale intimo; 3) perdita della rammemorazione. La nostra è una società smemorata ed estranea a sé, tutta incurvata nel fare, mentre quella omerica era sì intima, in quanto poetica, ma priva di governo nel farsi, e perciò carente di autorevolezza nella chiarità di qualsiasi altro colloquio non-poetico. All’alba e al tramonto dell’Occidente si sono insediate due civiltà radicali e irriducibili, che non hanno alcuna intenzione di conciliarsi. Eppure la civiltà orante, per quanto si celi dinanzi al dilagare della tecnica, ha ancora qualcosa di sé da rivelare, quel qualcosa per cui è manifesta l’oranticità dell’esser-orante. Ma cosa?

1 In questo senso l’epica è forse lo status originario della poesia nell’europeità. 2 Od. XXIII, 109110: «ci conosceremo anche meglio; vi sono dei segni/ che noi soli sappiamo, a tutti celati».

gnwso/meq’a)llh/lw kai\ lw&i+on: e1sti ga_r h3min sh/maq’, a$ dh_ kai\ nw=i+ kekrumme/na i1dmen a0p’a!pallwn.2

La «saggia» Penelope rivela al figlio Telemaco l’esistenza di sh/ma-qa che i soli due coniugi conoscono, e che fungono da cartina al tornasole per il riconoscimento di Odisseo. Il sh=ma è letteralmente la traccia, il segno di conoscenza; difatti il verbo principale dell’azione è gignw&skein, ‘conoscere’. Tale predicato, unito al genitivo

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HOMO OECONOMICUS VS HOMO POETICUS reciproco, vale per ‘riconoscersi l’un l’altro’; e questo sembra il significato della frase, e il senso generale della diffidenza di Penelope. Ella vuole che marito e moglie si riconoscano per mezzo di sh/maqa, di cui soltanto loro sono a conoscenza. La cagione della sua pretesa risiede nell’esser e/qhpen di Penelope (v. 105), cioè nello stato di sbigottimento in cui si trova da quando ha saputo del ritorno di Odisseo. L’aggettivo ha una limpida derivazione da qa/mboj, ‘stupore’. La meraviglia di Penelope è nel presenziare alla vista dell’essere: con il suo incanto ella è testimone dell’essere che si staglia dinanzi a sé, e che rimpatria. Per tale ragione i coniugi non devono ri-conoscersi, cioè ritornare all’intimità che l’assenza di vent’anni ha sfibrato, bensì conoscersi per la prima volta. Simile congettura è confermata dal valore del comparativo lw&i+on, ‘migliore’: cosa mai può significare ‘ri-conoscersi meglio, in modo migliore’? Non c’è alcuna maniera ‘migliore’ per ri-conoscersi, giacché il ritorno all’antica conoscenza è nell’uguale. Se incontro per strada una persona che non vedevo da anni, e affermo di ri-conoscerla, intendo con ciò che la ricordo per come essa era quando l’ho conosciuta e serbata nella mente, ravvisando l’uguale, ciò che il tempo disgregatore non ha cambiato, per cui posso appunto ri-conoscerla; ma al fine di esperire la ri-conoscenza non c’è, né ci può essere un modo migliore di un altro: essa avviene. Invece, il conoscersi meglio è

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un atto che presuppone la reale conoscenza, ossia la conoscenza di un individuo nel suo quid vitale, ‘chiaro’, e non come lo si è conosciuto superficialmente. Il conoscere meglio è dunque il conoscere la verità su chi si è individuato con genericità; è un processo che concerne l’identità stessa dell’individuo, il suo autentico esser-ci. Tuttavia, Penelope sostiene che essi si conosceranno ‘l’un l’altro meglio’; ciò significa che l’indagine sull’identità verte non solo sull’altro, ma anche sul sé – è un ritorno all’identità dell’io con l’aiuto dell’alterità, e viceversa. Tutto il viaggio di Odisseo può, allora, esser inteso come un forte ritorno alla patria vera del sé, alla terra privilegiata dell’io, per comprender-si3. Ciò di cui si parla è, pertanto, una conoscenza originaria, e non una semplice schermaglia amorosa. Odisseo deve ripopolare il suo giusto posto ontico in modo da tornare alla società che lo ha estraniato, per mezzo dell’autenticità coniugale. Egli dovrà mostrare i sh/maqa, occulti agli altri, in modo da emergere nella loro verità di segni personali, profondi: li deve ostentare, portare alla luce. Ma cosa sono, concretamente, i sh/maqa? Essi sono la traccia inestinguibile del rapporto tra coniugi, ovvero sono ciò per cui l’esser-coniuge è così, e non in altro modo. Il coniunx è colui che si lega all’altro, e che si trova legato dai sh/maqa; essi conducono alla nudità integrale del sé, al ciò per cui l’esser-umano è, mediante l’auto-documentarsi. Il sh=ma prin-

3 Il no/stoj è appunto il ‘viaggio di ritorno’ fisico e spirituale della persona. Tra i vari no/stoi del ciclo omerico, quello di Odisseo è il principale, probabilmente per una questione di paradigmaticità di contenuto: il dolo del cavallo di Troia lo ha automaticamente escluso dal suo posto ontico nel sociale, per cui egli deve poeticamente riparare mediante una faticosa serie di ‘eventi’ (nel senso heideggeriano), la cui akmh/ è proprio nel riconoscimento di Penelope.


ZAMPILLI LETTERARI cipale per i coniugi è, dunque, il letto, cioè il luogo ontico in cui si mostrano le nudità del corpo e dello spirito. Per tale ragione Penelope, ai vv. 177-180, ingiunge alla nutrice Euriclea di porre fuori del talamo il «letto ben costruito», per ‘provare’ appunto Odisseo, il quale, anni or sono, lo aveva tratto dal tronco di un ulivo, affinché fosse impossibile sradicarlo, senza tagliarne il basamento. E, dopo aver esposto le ragioni dell’inattuabilità del comando prescritto dalla moglie, dopo aver rievocato, rammemorato la storia della costruzione del talamo, Odisseo asserisce (v. 202): ou#tw toi to/de sh=ma pifau&skomai: […]4

Il verbo al medio significa letteralmente ‘far risplendere, illuminarsi’. L’eroe porta alla luce il segreto del loro amore radicato nella pianta; ha rischiarato ciò che egli è in forza della traccia recondita. Attraverso il sh=ma coniugale, Odisseo, esiliato dal suo posto nell’ente, guadagna di nuovo e contemporaneamente per la prima volta, la sua identità all’interno del mondo: l’esser-coniuge di Penelope. Egli ha dovuto dichiarare, cioè rendere manifesto con la parola, il sh=ma attecchito alla coscienza, ma tuttavia ancora in-essente perché taciuto nella sua essenza. Il colloquio si presenta, dunque, come un rischiaremento di sé, cioè sulla propria identità. Odisseo è colui che è in quanto ha dichiarato il segno segreto della sua qualifi-

4 «ti rivelo questo segno».

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HOMO OECONOMICUS VS HOMO POETICUS cazione principale nella società, l’esser-coniuge. La colloquialità tra i parlanti ha raggiunto il grado di chiarezza estrema, nel tentativo del conoscibile reale (v. 109), e al contempo quello di intimità estrema nell’esposizione verbale del segreto, finora taciuto, che li lega. La relazione tra marito e moglie è somma, per cui si può dire con cognizione che essi si conoscono. Al culmine della commozione per l’identità esperita, il poeta interviene con una similitudine molto significativa (vv. 233-239): come è accolta con gioia la terra per coloro che sono stati sorpresi dai marosi, così a Penelope era caro lo sposo nel guardarlo. Ciò significa che Odisseo è come la terra per lei; anzi, se si accentua il grado di similarità dell’accostamento, in virtù della constatazione che in poesia ciò che è simile, è nella realtà delle cose, egli è a tutti gli effetti la sua terra, la sua patria. Dopo il mostrarsi del sh=ma, Penelope ha potuto calpestare il terreno di suo marito, è entrata nel suo esser-ci più riposto: ormai ognuno vive nell’altro. La legittimità ontica nel privato apre al ri-trovarsi del sé pubblico, che sarà tema dell’ultimo libro, mediante la lotta con i parenti dei Proci. Ciò che conta, comunque, è che lo spirito omerico dischiude la grecità, e dunque si pone come pre-grecità, poiché, con l’e1poj, cioè sostanzialmente con la parola, irradia l’essere, che è pur sempre un qualcosa di temporale. Come ha giustamente rilevato Heidegger5, la verità (a0lh/qeia) per i Greci è qualco-

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sa che deve mostrarsi, è un velamento disvelantesi. La presenza dell’alfa privativo nella compagine della parola denota un’opposizione al nascosto, e di conseguenza una mediazione. La verità, essendo il non-nascosto, deriva da ciò che si cela; non è pertanto in sé, ma è mediata, e per tale ragione bisogna ricercarla. Il fatto che l’uomo cerchi la verità non presuppone, però, che essa non sia se non nella rivelazione di sé (questo contra ciò che asseriva il filosofo tedesco). Il costante passare dalle tenebre alla luce, e quindi l’esser(-inizialmente)-nelbuio, di cui persino l’omerismo è testimone, traendolo ovviamente dalla concezione cosmologica, è un dato che, alla luce del nichilismo dilagante, ci inquieta, poiché certifica l’origine occulta all’alba dell’Occidente di ciò che si credeva fosse una tendenza moderna.

5 M. Heidegger, L’essenza della verità, Milano 1997.


ZAMPILLI LETTERARI

La poetica del libro digitale Franzen e le solite vecchie storie di Paolo Musano

L

a mia posizione è molto particolare: sono un ‘umanista tecnomane’. La mia formazione e il mio percorso sono umanistici, ma allo stesso tempo sono cresciuto usando i computer, internet e tutti i nuovi media fin dall’inizio. Sono quasi un feticista del libro cartaceo ma compro e leggo anche ebook, perchè mi hanno sempre affascinato le possibilità offerte dalla tecnologia digitale. Sono perplesso come tutti riguardo al futuro dell’editoria. Come lettore sono molto affezionato al libro di carta, ma mi sono accorto che sto leggendo sempre più spesso libri in formato elettronico. Gli ultimi che ho comprato sull’iBook Store del mio iPad sono stati la biografia ufficiale di Steve Jobs, una biografia di Allen Ginsberg e la raccolta di aforismi di Oscar Wilde. Sto pensando di comprare Alla ricerca del tempo perduto di Proust. Ho già acquistato orgogliosamente, diversi anni or sono, la saga completa in formato

cartaceo, ma l’idea di averlo sul tablet e poterlo rileggere quando voglio senza farmi venire i crampi alle mani, per l’enormità e il peso dei tomi dell’edizione di carta, mi stuzzica molto. Trovo molto interessante il mercato che gli ebook hanno aperto ai racconti singoli. Prima dell’editoria digitale era impossibile leggere e/o comprare un singolo racconto contenuto in una raccolta senza comprare il libro intero. Adesso gli editori stanno cominciando a venderli come se fossero singoli di un album musicale, e sempre più utenti digitali stanno cominciando a comprarli. Una possibilità in più anche per gli scrittori che adesso possono vendere agli editori un solo racconto, a un prezzo minimo, senza necessariamente aver scritto e messo insieme una raccolta di più racconti. Proprio l’altro giorno ho notato che persino uno scrittore italiano di una certa fama ed età come Erri De Luca ha cominciato a vendere sull’iBook

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HOMO OECONOMICUS VS HOMO POETICUS Store racconti singoli. Per chi scrive e sta dall’altra parte non ci potrebbe essere periodo migliore di questo. Nonostante gli allarmismi sulla crisi che ha investito anche l’editoria. Sia per la vendibilità dei racconti di cui sopra, sia per la facilità con cui chiunque può autopubblicarsi oggi, supportato da piattaforme digitali come quella di Lulu.com. Ci vuole solo un po’ di intraprendenza e competenza. Se, ad esempio, ho scritto un libro, adesso posso pubblicarlo come ebook nel negozio della Apple grazie a iBooks Author. Funziona così: una volta confezionato il libro digitale con contenuti, copertina e layout personalizzati, decido il prezzo e lo metto in vendita. E il 100% dei diritti restano all’autore. La promozione, classicamente prerogativa dell’editore, la si fa con un uso sapiente e combinato di blog, YouTube (sempre più frequente l’uso dei book-trailer, brevi video basati sulla trama del libro) e social network (spesso la versione digitale del popolare ‘passaparola’ si rivela un mezzo più efficace del marketing tradizionale). Si tratta di una grande rivoluzione di cui ancora non ci si rende conto. Ci sono però scrittori contemporanei come Jonathan Franzen (autore de Le correzioni, 2002) che si sono schierati apertamente contro il libro digitale. Parlando all’Hay Festival a Cartagena, Colombia, Franzen ha sostenuto che gli ebook, e gli ebook reader come il Kindle di Amazon, non potranno mai avere la magia della pagina stampata. Franzen ha aggiun-

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to: «La tecnologia che mi piace è quella dell’edizione tascabile di Freedom. Anche se la bagno, funziona lo stesso. E continuerà a farlo anche tra dieci anni. Quindi non c’è da meravigliarsi se i capitalisti la odiano. Si tratta di un cattivo modello di business.»1 Franzen è arrivato ad affermare che gli ebook reader sono un serio pericolo per la democrazia e la libertà delle persone. Le sue parole hanno generato un coro quasi unanime di critiche, per lo più provenienti dal popolo della Rete e da quei giornalisti e scrittori che hanno sposato da tempo, con grande soddisfazione, le tecnologie digitali. Il Guardian in un recente articolo ha detto: «Jonathan Franzen ha torto: l’era digitale ci rende più intelligenti. Se Dickens fosse vivo oggi, scommetto che avrebbe un suo blog, ogni tanto scriverebbe un tweet, curerebbe siti letterari e andrebbe a pescare alcuni dei suoi vecchi lavori per ripubblicarli come ebooks. Dickens detestava molti dei suoi editori, che considerava pigri, ladri e parassiti, e sarebbe stato entusiasta delle opportunità che abbiamo oggi di una relazione non mediata tra scrittore e lettore.»2 Al di là di tutto, posso capire che, se fossi uno scrittore, anch’io mi sentirei piuttosto ambiguo e strano a pubblicare esclusivamente in formato elettronico. Anche se avessi successo. Nonostante la mia tecnomania. Forse perché è proprio un’esigenza della natura umana toccare e sentire ciò che è frutto del nostro genio e del nostro

1 Anita Singh, Jonathan Franzen: e-books are damaging society, in «The Telegraph», 29 Gennaio 2012, <http://www. telegraph.co.uk/ culture/hayfestival/9047981/ Jonathan-Franzen-e-booksare-damagingsociety.html> (2 marzo 2012). 2 Henry Porter, Jonathan Franzen is wrong: the digital age is making us smarter, in «The Observer», 5 Febbraio 2012, <http://www. guardian.co.uk/ commentisfree/2012/ feb/05/franzendickens-hockney-ebooks> (2 marzo 2012).


ZAMPILLI LETTERARI lavoro in generale. Ma è vero anche che le mie preferenze o quelle degli altri non riusciranno a cambiare l’inevitabile. La tecnologia contemporanea ci offre degli strumenti formidabili. E noi abbiamo cominciato già a usarli da tempo, spesso senza averne coscienza. Ci sono neuroscienziati che affermano che i nostri cervelli, con l’uso dei nuovi strumenti tecnologici, sono già cambiati a livello neurofisiologico rispetto a quelli dei nostri nonni che vivevano negli anni ‘50. E allora? Allora non bisogna cadere nella banale retorica che demonizza un nuovo strumento perché qualcuno non lo sa usare o l’ha usato male. È successo quando hanno inventato la corrente elettrica. E anche quando hanno introdotto le trasmissioni televisive a colori. Si facevano gli stessi discorsi allarmistici sulle conseguenze nefaste di queste novità tecnologiche. E i partiti dei nostalgici che lottano per fermare l’evoluzione della tecnica hanno sempre avuto un gran parlare. Ma alla fine di tutto la differenza fondamentale l’hanno fatta sempre le persone, quelli che oggi si chiamano gli ‘utenti finali’: se intelligenti e consapevoli (meglio ancora se in più saranno colti ed esperti), usando le nuove tecnologie e i nuovi media potranno fare delle grandi cose e mettere in moto circoli virtuosi, coltivando serendipity (cioè catalizzeranno scoperte di valore inaspettate); viceversa se gretti e ciechi faranno dei gran disastri, come sempre ci

ha testimoniato la storia dell’umanità. Ma non per questo bisogna criminalizzare gli strumenti tecnologici perché, almeno per il momento, non sono ancora dotati di volontà propria. Cercare di sminuire il digitale, pensando che la soluzione sarà semplicemente reinventare i ‘vecchi’ media è un passatempo pericoloso che sfiora il ridicolo. Giuseppe Granieri3 è un giornalista che si interroga spesso sul presente e sul futuro dell’editoria. In un recente post del suo blog4 cita Jordan Kurzweil: «Cosa deve fare la ‘vecchia carta’ per salvarsi? Deve smettere di pensare che si possono sistemare le cose semplicemente con un nuovo arredamento del Titanic»5. Che tanto affonda comunque. Granieri in un altro suo post allega il video di una bambina che sfoglia un giornale come se fosse un iPad: «Per mia figlia di un anno», dice l’autore del video, «un giornale di carta è solo un iPad che non funziona. E sarà sempre così nella sua vita». E poi scherza: «Steve Jobs ha codificato parte del sistema operativo di mia figlia». [...] Così io magari sbaglio, ma sospetto sempre che se vogliamo immaginare il futuro dell’editoria, dobbiamo cominciare a pensare al mondo che vivranno loro (che non capiranno mai la carta). E quel mondo, credo, bisogna cominciare a immaginarlo oggi. [...] Ma sono loro (bambini e nuovi strumenti) a darci una direzione.»6 E ancora: «C’è poco da fare. Facendo le cose in modo diverso, e trovan-

3 Saggista e direttore editoriale della casa editrice 40K (www.40kbooks. com) che pubblica esclusivamente ebooks, in italiano e altre lingue. E’ una delle voci italiane più autorevoli in tema di editoria digitale, argomento di cui scrive sul suo blog: www. bookcafe.net. 4 Riarredare il Titanic, 26 Febbraio 2012, <http:// www.bookcafe. net/blog/blog. cfm?id=1518>. 5 J. Kurzweil, Print is Dead! Long Live Print?, in «Techcrunch», 25 Febbraio 2012, <http:// techcrunch. com/2012/02/25/ print-is-deadlong-live-print>. 6 Il Futuro dell’Editoria, 14 Ottobre 2011, <http:// www.bookcafe. net/blog/blog. cfm?id=1478>.

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HOMO OECONOMICUS VS HOMO POETICUS doci bene, cambia il nostro rapporto con gli oggetti. E quelli che usavamo prima ci sembrano poi improvvisamente desueti. [...] Le nostre abitudini cambiano in fretta. E c’è sempre un momento in cui oggetti, anche quelli di culto, diventano ‘vintage’. O forse non sono loro a cambiare, ma siamo noi. E le nostre aspettative.»7 Quindi l’editoria elettronica e tablet come l’iPad hanno già cambiato visibilmente le abitudini di molti lettori (e scrittori) contemporanei. E non in peggio. Di questo non bisogna scandalizzarsi, né avere paura. Anzi pare che adesso,

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secondo diverse statistiche, la gente complessivamente (tra cartaceo e digitale) legga di più. Non solo i ‘lettori forti’ (cioè coloro che già leggevano più di 6 libri all’anno), ma anche chi prima della diffusione dei tablet e degli e-reader era un ‘non-lettore’. In conclusione, noi siamo liberi di fermarci o andare indietro quando vogliamo, ma è quasi impossibile arrestare la corsa della tecnica. Ci sono scoperte che segnano una svolta e sono irreversibili. Che si tratti del fuoco, della corrente elettrica o della tecnologia digitale è solo una sottigliezza semantica.

7 Della forma delle abitudini, 20 Marzo 2011, <http:// www.bookcafe. net/blog/blog. cfm?id=1450>.


IL CALAMAIO SCALOGNATO

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HOMO OECONOMICUS VS HOMO POETICUS

Il corpo di A. Z.

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rrore del concepimento. Qualcosa come un guizzo – l’impulso sacro e incontrollabile tra gli spazi sinaptici – vedendosi scoperto sgrana le pupille e contrae il respiro, fa gridare i tessuti mentre infuriato li percorre a dar prova inconfutabile della loro evidenza. Tragedia dell’esistere, e questa volta non c’è nessuna ironia, nessuna scusa. Tutto ciò che è nato sta per morire. Cataro – gli davano del Gatto, cioè del Demonio, senza capire che nel colloquio con l’anima il diavolo sta davvero da questo capo del ricevitore. Il Male è co-originario al battito del cuore; sta nell’innocenza dei movimenti involontari e pervade del suo cancro persino il più puro e quotidiano dei respiri, la tensione franca dei muscoli, la meraviglia passiva dell’occhio e della pelle nel riverbero del fenomeno, la vitalità insensata e senza speranza dell’Essere materico, meccanico. Il viavai senza scopo del giovedì universitario: trame di antichità congelate in porfido e argilla – lanterne giallo-arancio straziano vie troppo scoscese e mediterranee per la città che percorriamo quasi fossimo mosche impazzite. In cima a una di queste – la prospettiva fantastica del vicolo pensile costellato di lampioni – riverso tra la sporcizia in un angolo, un grumo di materia carnosa sottile si copre ubriaco delle nostre risa. Lo indico schernendolo come fossi davanti a un mostro grottesco, lo chiamo feto abortito, e scorgo il volto di Lei biondo che mi precede voltarsi in un sibilo maledicente. Il volto di Lei, che con ridente indifferenza parlava del suo ventre fattosi oceano, contratto ora in un sibilo oviparo mi maledice. È troppo tardi per chiedere scusa. Padre e figlio nel quieto ingannevole pungente tepore dei pomeriggi di novembre escono di casa sul vialetto percorso da alberi smilzi a ciuffi rossastri. Grande il vuoto, lo spazio e la luce. Il vecchio stressato e baffuto deve trascinare in banca il giovane che tanto somiglia a lui ventenne: mingherlino, spettinato, la barba color rame spelacchiata, reduce dalla consueta settimana di allucinazioni letterarie e teorizzazioni extracorporee in piazze di mattoncini rinascimentali a spese della famiglia. Interno automobile. - Ragionavo sull’incorporeo materialismo della nostra epoca… - Che intendi dire? - Una volta uscito da quella banca sarò munito di un’agile carta di credito, potrò portarmi appresso qualsiasi somma di denaro senza tuttavia avere un centesimo nel portafogli. Si tratta di una forma di possesso meramente virtuale, illusoria. Se poi penso al disegno ormai non più tanto utopistico di digitalizzare la cultura, comincio ad avere nostalgia del contatto tattile e olfattivo col foglio stampato, forse l’unica vera ebbrezza

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IL CALAMAIO SCALOGNATO che sia mai stato in grado di provare attraverso la materia... - Non hai tutti i torti. Siamo giunti all’attuale crisi economica anche per questo: le banche garantiscono la presenza di una data somma di denaro e invece questo denaro non c’è. - Abbiamo eliminato l’anima e adesso si sta facendo da parte il corpo. Stiamo andando verso il Nulla completo e nessuno sa immaginarne le conseguenze… Interessante. L’auto giunge a destinazione e i due troncano la reciproca uguale confessione per gettarsi nell’Inferno allucinato dell’oggettivazione autunnale, il Samsara, la Morte Eterna. È sempre più difficile illudersi e sorridere di tanta squallida pochezza. Ancora per poco, stupidamente, abbraccio l’intimità e l’orrore subliminale del concepimento.

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HOMO OECONOMICUS VS HOMO POETICUS

Il processo ‘economico’ di Camus

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ria di stantio. Ghirigori e scempiaggini lungo il cordone delle grandi aule rivestite di noce. Mogano e rinsacchi ove parlare e bere un tè. Tribunale brodskijano. Luccichii.

Giudice: Lei chi è e cosa vuole? Poeta: Sono poeta. E non voglio niente. Giudice: Essere poeta non è una giustificazione. Poeta: Di fatti, attendo con ansia la mia condanna. Giudice: E chi l’ha coronato ‘poeta’? Poeta: Non sono gli uomini a dirlo. Ma i tempi. Giudice: E quale tempo le pare mai questo? Poeta: Un tempo senza poeti, né poesia. Giudice: Da dove viene la poesia, allora, se non dai tempi? Poeta: La Poesia viene da Dio. Giudice: Quale dio? Zeus, Elì, Allah, Anubi, Sòter, Thor, Baal, Buddha, Siddharta, Sitting-Bull, Muflone? Poeta: Sa bene di quale dio parlo. Silenzio. Giudice: Come si permette di giungere fin qui, nell’orbis oeconomicus, a parlare di Poesia e a sdegnare i diritti d’autore? Poeta: Non conosco altro di cui valga la pena parlare. Giudice: Parlare di poesia è, forse, cosa utile? Poeta: No, lo è parlare di Dio. La Poesia è un mezzo. Giudice: Lei è solo un millantatore. Poeta: Se credere in Cristo è millanteria, io sono millantatore. Giudice: Lei canta a voce alta di speranze bugiarde e deleterie. Poeta: Se cantare di Cristo è menzogna, io sono bugiardo e deleterio. Giudice: Lei è fuori dal tempo, ostacola il progresso, infanga la scienza, deturpa l’economia. Poeta: Se discorrere di Cristo è fuori dal tempo, io ostacolo il progresso, infango la scienza, deturpo l’economia. Giudice: Sarà castigato a dovere per queste bestemmie contro la società.

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IL CALAMAIO SCALOGNATO Poeta: Se fare il nome di Cristo è bestemmia contro la società, io sono il grande bestemmiatore. Silenzio. Giudice: Per il male che fa al mondo intero, la condanneremo al silenzio. Poeta: Sarà la vostra stessa condanna. Giudice: Perché? Poeta: Perché la Poesia è dentro di ognuno. Giudice: E cosa dovremmo fare per evitarla? Poeta: Dovrete torcervi le orecchie, rigarvi gli occhi, serrare la bocca per non ascoltare. Giudice: La sua parola graffiante? Poeta: No. Giudice: Il suo timbro assordante? Poeta: No. Giudice: E cosa? Poeta: Il silenzio di Dio.

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Il suono della spiaggia di U. B.

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e grida del bambino che gioca sulla battima s’involano verso il mio orecchio assorto: dietro muove lenta tra gli ombrelloni la voce rauca e mesta di una vecchia; ma è al suono del vento, all’onda spumeggiante e al suo scroscio che io porgo ascolto – mi godo ogni verso. Sono un tipo infingardo, un po’ fiacco: non amo lo sforzo, né gli schiamazzi. Sto all’ombra, incurante di una pelle di bronzo, perché dei raggi infuocati del giorno non sopporto l’affronto; ma mi piace ascoltare il suono che nasce tra il bailamme. Così anche il Verso nasce incurante del rumore che gli è attorno. Sorge impetuoso in un voilà in mezzo al caos di parole consumate, per dar voce a un incessante bisogno di musica, di un palpito di vita, di un urrà.

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IL CALAMAIO SCALOGNATO

Una vita o più di M. G.

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el silenzio, lo ammetto, ho paura, ma non a sera, quando più chiara è la voglia e la luce più pura, e tra querce d’autunno risuona d’altrove la mesta fanfara; e d’anni passati la danza nervosa mi riporta di volti l’amara, ritrosa calura e di nomi mai scorti il gusto dolciastro di scialba sciantosa. Il segreto è non guardare, i nodi non scioglierli mai; provarci però: lacci lanciare e deduzioni, contare le spighe di grano e sull’acqua tracciare il profilo di dio; dirò soltanto con vane parole di carta ciò che a parole dire, lo sai, non si può. Io parlo e son muto, tu non senti non ascolti: non puoi farlo e non sai la ragione: non hai sentimenti non sono tuoi, hai torto, vedrai! son soltanto vaghi tormenti ricolmi di gremiti sistemi, folli formicai. Come ogni sera le parole più dolci declamate a gran voce non sono mai tue, lo senti, appartengono ad altri tanti poeti finiti a tacere, erano migliori più grandi di te, ora non sono che echi ricordi e calore fittizio, cinte d’allori pagine gialle di polvere, di tarli e silenzi. Non resta di loro quasi nulla forse un nome un male o appena un frutto o forse di loro, senza loro resta, in qualche modo, proprio tutto.

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HOMO OECONOMICUS VS HOMO POETICUS

Il ciclope di Caterina Pentericci

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issi all’ombra del sole in ciò che dicono oscuro vissi in solitaria compagnia di divine figliuole credenti che un mondo venturo potesse offrirci miglior via. Illusi la mia mente, sana follia accecato da Nessuno invano gridai, avvertito dal dolore capii la menzogna: la vita non il palo rovente l’apria ma la stessa umana sorte, che mai accolse creatura alcuna senza agonia. Come ultimo Nessuno spietato guardai pugnare contro l’Oceano. Lo ringraziai.

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