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La Resistenza Della Poesia anno IV

2015

N.10-11-12 La disďŹ da del digitale



La Resistenza Della Poesia DIRETTORE RESPONSABILE Giuseppe Ghini COMITATO DI REDAZIONE Monica Bravi Umberto Brunetti Alberto Fraccacreta Matteo Giunta Riccardo Marchionni Alessandro Zaffini IMMAGINE DI COPERTINA Stella Losasso VIGNETTE ED ILLUSTRAZIONI Stella Losasso, pp. 7; 25. Alessandro Zaffini, pp. 9; 27; 28; 35. FOTOGRAFIE InĂŠs Esnal, Prism (installazione), Brooklyn, p. 17. Lucas Cranach, Adamo ed Eva nell'Eden (part.), 1530, Kunsthistorisches Museum, Vienna, p. 21. Guido Dall'Olio, Viola, p. 31. PROGETTO GRAFICO La Resistenza della Poesia Logo: Beatrice Schena COPIA CARTACEA ON DEMAND disponibile previa prenotazione via email (vd. sotto) REDAZIONE Piazza Rinascimento, 7 - 61029 Urbino email: laresistenzadellapoesia@gmail.com www.laresistenzadellapoesia.it AUTORIZZAZIONE Tribunale di Urbino, N. 2/2012



La Resistenza della Poesia La disfida del digitale

EDITORIALE

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Merli d’assalto di Alberto Fraccacreta

IL CALAMAIO SCALOGNATO IN PROSA

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Licenziamento di Andrea Carraro

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Il tumulto di Michele Pagliaroni

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L'infinito prima di noi di Vincenzo Fano

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Dio, Adamo e il cane di Guido Dall'Olio

IL CALAMAIO SCALOGNATO IN VERSI

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Minimi incontri di Alessandro Fo

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Stazione di Pesaro di Mariachiara Rafaiani

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Nel '92 di Andrea Barone

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Due tempi dell'Ellade di Matteo Amadei


Anno IV / Numero 10-11-12 / 2015 La disfida del digitale

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Niente si perde per davvero di Massimo Morasso

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Per Firenze di Giuseppe Nibali

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Come una faccia di Bernardo Pacini


EDITORIALE

Merli dʼassalto di Alberto Fraccacreta

U

n due marsch, il colonnello Resistenza intima di trasferire il malloppo, divaricare le schiere gallonate, stendere i vestimenti ferrati sul digitale. E noi, non proferendo ciglio e né battendo parola, lo facciamo. Ma a modo nostro, seguendo le tracce della disfida di Barletta e del mitico condottiero Ettore Fieramosca, il quale, in un’area recintata nei pressi di Andria, assieme a Guglielmo Albimonte, Mariano Albignente, Fanfulla da Lodi, Romanello da Forlì e altri prodi cavalieri, tenne un duello da mille e una notte, che vide la formazione francese catturata o ferita senza pietà. Tredici a zero per l’Italia, secondo il referto del vescovo Paolo Giovio. Poi una messa di ringraziamento alla Madonna nella Cattedrale di Barletta. Le nostre armi sono urbinati, i nostri cavalleggeri sono i versi. Dopo lunghe ponderazioni e perorazioni che hanno cagionato siffatto ritardo (numero di aprile 2015, idiosincrasia dei mesi), il nuovo progetto editoriale si prefigge due obiettivi: innalzare la qualità dei testi e diffondere capillarmente la rivista. D’ora in poi saranno chiamati in causa a collaborare, Dio piacendo, le maggiori voci del panorama letterario italiano, senza dimenticare i vagiti dell’orgoglio giovanile. Per questo numero l’attenzione volge su un racconto molto significativo di Andrea Carraro, su una memoria poetica di Alessandro Fo e su due liriche di Massimo Morasso, ad oggi inedite (di prossima pubblicazione per Passigli). A loro si aggiungono scrittori e poeti finora mai inseriti, il cui timbro varia e, spesso, rompe volontariamente la cantilena dello stile unico e grigio, proprio di molte antologie, cercando di creare una proficua disarmonia e un frazionamento di temi.

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La carta piange, ma la diramazione a mezzo dei social-network aumenta e gongola. E acquista anche in bellezza: finalmente la rivista sarà variopinta, e i vostri bimbi non dovranno affaticarsi coi pennarelli di «Qui Quo Qua a colori». La differenza sostanziale de La Resistenza della Poesia credo risieda nel suo tentativo di forgiare un’opera interamente creativa: come già inaugurato nel numero precedente, non ci saranno più articoli di critica, ma soltanto due sezioni d’invenzione, Il calamaio scalognato in prosa e Il calamaio scalognato in versi, pensate apposta per snellire il corpo del libro e aumentarne l’interesse. Addio agli Zampilli letterari. Siete stati bravi ragazzi, ma il Fieramosca ha bisogno di guerrieri che sappiamo disarcionare i cavalli dell’editoria economica, spezzare le spade e le scuri dell’assenza di valori. A queste sezioni si aggiungerà in tempi più calmi, ad acque più chiare, lampeggiando, una pagina di traduzioni d’autore, denominata per il nostro greve compiacimento Traduzioni malnate. Ci prefiguriamo, con la promessa di un’umiltà non menzognera, di essere dei merli da giardino ordinati e sereni, merli talvolta inquieti che zampettano senza, all’apparenza, colpo ferire. Merli silenziosi ma beccheggianti.

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IL CALAMAIO SCALOGNATO IN PROSA

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Licenziamento di Andrea Carraro

L’

uomo guardava assai poco incuriosito, accidioso, quella lista stampata che volteggiava fra i colleghi passando di mano in mano. Dev’essere qualche inutile comunicato interno, si disse, e la rifiutò passandola oltre. Non poteva sapere che su quella lista c’era il nuovo organigramma orfano del suo nome e del nome di altri dipendenti. Lo avevano licenziato ma lui ancora non lo sapeva. Lo seppe poco dopo, del resto, quando sulla lavagna magnetica fu scritto per intero il vecchio organigramma dal quale il relatore aveva cancellato i nomi e i ruoli del licenziati scandendoli con precisione notarile. Allora ebbe per un attimo la esatta percezione della sua rovina. Uscì dall’ufficio con il cuore martellante e un vertiginoso senso di scacco. Pensò al modo come dirlo alla figlia e alla moglie, e poi al suocero, che ci avrebbe inzuppato il pane, figurati, l’aveva sempre considerato un fallito ed ora ne aveva la definitiva e irrevocabile conferma. Ma sapeva che non ne avrebbe mai avuto il coraggio. Camminò a lungo, entrò in una chiesa barocca di cui ignorava il nome per riflettere in silenzio. Si inginocchiò su una panca, si prese la testa fra le mani e si sforzò di piangere. La gloria di un qualche santo, di rosso porpora mantellato, nella pala d’altare offuscato dalle lacrime. Poi si soffiò forte il naso in un fazzoletto di carta e uscì ancora con in testa quell’immagine retorica e irrealistica del santo in gloria fra le nuvole. Guardò per alcuni minuti il traffico denso che scorreva lentamente davanti a lui come una grossa bestia malata. Adesso non piangeva più. Una frase gli premeva nel cervello: «E se togliessi il disturbo?, e se togliessi il disturbo?...».

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IL CALAMAIO SCALOGNATO IN PROSA

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Pensò a sua figlia adolescente, a sua moglie, a un paio di amici. Avrebbero sofferto? Sì, forse, si disse riprendendo a camminare verso piazza Santa Susanna che si stagliava lontana nei suoi marmi barocchi e nelle luci irreali del crepuscolo, ma almeno sua moglie avrebbe avuto una sola bocca da sfamare e lui avrebbe evitato l’onta di comunicarle il suo licenziamento. A piazza Indipendenza scese gli scalini per il metrò e raggiunse lentamente la banchina. C’era molta gente che aspettava il treno, e lui si ritagliò un piccolo spazio presso il bordo della piattaforma. Pensò confusamente a molte cose, pure alla frase, probabilmente fatale, che aveva detto la settimana scorsa al capo del Personale: «Dietro ogni questione politica, sindacale, c’è una questione morale!», all’espressione che aveva fatto quello, di sorpresa e come di allarme. Ecco dove è sbocciato il mio licenziamento, si disse. Poi pensò nuovamente alla moglie e alla figlia e ascoltò il fragore del metrò che arrivava e fra poco sarebbe sbucato dalla galleria col suo muso d’acciaio. Stava per buttarsi di sotto ma qualcuno, una donna stagionata – poteva vederne solo il braccio e un pezzo di mano ingioiellata – lo trattenne esclamando: «Che cazzo fai, a pazzo?». Allora per un bel po’ lui non pensò che gli aveva salvato la vita, quella tardona, ma che era stata volgare nell’esprimersi, in quel dargli del tu privo di riguardi, in quell’insistita cacofonia. «Ma te stavi a butta’ per il lavoro? – disse la donna davanti a un boccale di birra al tavolino di un bar della stazione. – Così ti andavi ad aggiungere alla lista macabra di tutti i suicidi degli imprenditori al Nord!» «Lista macabra... Questa l’ha sentita in televisione?» La donna alzò le spalle. «Grazie dell’invito, era un po’ che qualcuno non mi invitava a bere!» Osservò la donna ch’era meno anziana di quanto sembrasse – una donna del popolo rotonda di fianchi e abbondante di petto con dei magnifici occhi color mandorla e qualche ruga nel decolleté. Indossava un vestito di flanella che le mortificava le forme. Si alzarono dal tavolino, uscirono dal bar e si salutarono brevemente. L’uomo tornò presso la banchina del metrò e stavolta riuscì a buttarsi sotto il convoglio. L’ultima cosa che vide fu un pezzo di muro dipinto di aggressivi murales e un ritaglio di rotaia lucida.

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Il tumulto di Michele Pagliaroni

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on sarò certo io a dirvi che quella notte venne un lampo e di seguito uno scoppio. E non sarò certo io a raccontarvi del Tumulto che ne seguì. Saprete del lampo da Isobel, dello scoppio da Garret e dall’unico cristiano che scampò alla morte sentirete del Tumulto. Saprà essere discreto nel raccontarvelo. Quel buon cristiano che di fronte all’orrore fuggì, dimenticando il suo dio. Ogni sera era ora di cena e il cibo non mancava nelle casa di nessuno. I bambini non crescevano, si gonfiavano, ingozzati da madri proteiche e padri fieri del figlio tredicenne al suo primo quintale. Lavoro ce n’era per tutti, le fabbriche lavoravano continuamente e le discariche, che impiegavano gran parte delle braccia, nascevano in continuazione in quel sottoscala della civiltà che era Monday City. Garret Pascosky ci lavorava da tutta la vita in una discarica di Monday. La K-84 per quelli di voi che abbiano voglia di cercarne la macchia sulle mappe. Garret odiava la spazzatura e ancora dopo trentotto anni non era riuscito ad abituarsi al tanfo. Un odore di cose, di troppo maturo, una puzza sintetica. Ogni cosa a Monday City puzzava. Anche le ragazze. Anche Isobel. Era così bella Isobel, così delicata. I capelli erano come fili di rame spessi e lucidi che le incorniciavano un viso bianco di ceramica. Ma l’odore di scolo da cui non si spogliava mai la rendeva indesiderabile e ogni volta per Garret farci l’amore era doloroso e inutile. Non esisteva il piacere in quella città miasmatica, era finito il tempo dei rossi e dei toni pastello. Una coltre di fumi e di colori sottobosco copriva le vite di tutti. La noia e la rassegnazione erano i motori di quell’ingranaggio di colpe. Niente era rimasto di quello

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che era stato prima del Tumulto. Non fu l’Apocalisse; questo fu subito chiaro a tutti. Non ci fu nulla di biblico, di spirituale, di celeste. Nessuno teneva gli occhi al cielo e a nessuno venne in mente di pregare. Il Tumulto venne dalla materia. Le scorie dei secoli nuovi pesarono nei giorni di tutti e le viscere degli uomini non poterono più trattenere il dissesto. Non rapido, non fatale ma protratto, generoso di sé e per questo più doloroso. Quel giorno, come ogni giorno, mescolavo il mio mazzo di santi, sempre gli stessi, che da secoli ormai non ne nasceva uno nuovo - di certo non mancavano frecce per trafiggerli o roghi per bruciarli. Vicedomini in terra, anziane bitorzolute mi cercavano per scatarrarmi addosso i loro peccati della noia e si battevano il petto con le nocche per il loro pentimento abitudinario. I peccatori, quelli veri, quelli folli, non passavano mai a farmi visita e le mie giornate passavano con i pensieri stretti al collo di quelle megere suburbane. Fu Isobel a scuotermi. Fu lei la messaggera del Tumulto. Ricordo che la vidi salire lungo la navata con le mani giunte in un rosario azzurro, leggera, smarrita cercando con lo sguardo i miei servizi compassionevoli. Un rapido gesto della mano sulla fronte per omaggiare il passato glorioso di quel luogo di silenzi e quasi con un balzo, si sedette sulle mie ginocchia chiedendomi di assolverla dalle sue mancanze. Aveva bestemmiato il nome di dio quando il Lampo le aveva bucato gli occhi. Lei che aveva passato la vita nella fede si ritrovava ora con una colpa che sentiva di non poter espiare. Avrei voluto dirle di stare tranquilla che il nostro creatore sarebbe stato misericordioso e l’avrebbe perdonata ma sapevo che non erano rassicurazioni che la bella Isobel andava cercando ma solo un rapido colpo di rasoio che le togliesse il peso dei giorni. E io la desideravo. Ora non ho più timore di dirlo. La bramavo con tutto il mio essere. Sentirla così vicina, in quel momento, mi rese temerario. Solo il sottile lembo della stoffa della mia veste separava la mia pelle dalla sua. Un barriera che prima del Lampo sarebbe stata invalicabile ma che in quel momento non era che una tela di ragno. Non mi guardai nemmeno intorno prima di cedere alla mia voglia, non temevo sguardi, scandali o lapidazioni. Volevo solo affondare i miei denti in quella sua bianca carne e riempirmi le mani di lei. Così feci e lei si abbandonò a quel momento tragico. Garret aveva ancora lo scoppio nelle orecchie quando si accorse che non ci sarebbe più stato posto per lui nel regno dei cieli. Avanzava barcollando ormai da lunghi giorni e quando quel pomeriggio era rientrato nel puzzo della sua casa traspirante ammoniaca, gli era parso che le pareti ansimassero come per scacciarlo. “Non resistere Garret” sembrava

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gli dicessero, “lasciaci crollare su di voi”. Ah, come avrebbe voluto che quelle polveri dure e taglienti si fossero chiuse su di lui e sulla sua bambolina dai capelli rossi e gli avessero chiuso il naso per sempre. Ma lei non c’era, non era rimasta lì ad aspettarlo cucinando la merda di ogni giorno. E lo Scoppio lo crocifisse lì, in quel momento, ai suo pensieri crudeli, stanca ormai la sua volontà di “resistere”. Un vecchio fucile sarebbe stato un ottimo pendente per il suo rosario. E passò il tempo che ci mise per raggiungere la chiesa cercando di allacciarselo bene al collo, che restasse diritto, la canna dritta a puntargli il mento e il calcio che ad ogni passo gli rompeva le ginocchia. Riuscì ad aggiustarselo proprio appena arrivò davanti al grande portone scuro; lo spinse senza annusare la nebbia di incenso che gli offuscava la vista. Un filo d’aria soffiò da dietro e l’atmosfera si fece di colpo tersa. Penso che ci abbia visto subito, guidato dai nostri gemiti. Un sorriso e nient’altro. Nessun pensiero, credo, nessuna incertezza. Le sue ultime energie Garret le spese per imbracciare il fucile che gli pendeva dal collo, la testa costretta dal rosario contro la canna e, da quella posizione mitologica, lo Scoppio. Migliaia di fili di rame mi esplosero sul petto; e quella faccia di bambola ebbe di colpo un colorito più umano. Respiri veloci, ginocchia rotte, un nuovo santo nel mazzo e nessun odore. Debussy, La fille aux cheveaux den lin Bernini, Il ratto di Proserpina

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Lʼinfinito prima di noi di Vincenzo Fano

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ra una mite giornata di primavera del marzo del 1565 quella in cui Federico Commandino, al seguito del suo giovane protettore Ranuccio Farnese, si mosse per trasferirsi a Bologna da Urbino. Quest’ultimo, infatti, era stato nominato cardinale di quella città. Federico soffriva talvolta di depressione e non era più giovane; aveva infatti 59 anni. Da parecchio tempo era tormentato da un problema difficile di matematica e di studi umanistici legato al sommo Archimede. Federico nel 1558 aveva pubblicato da Paolo Manuzio a Venezia la traduzione dal greco di Archimedis opera nonnulla. In quell’edizione però non c’era Sui galleggianti, il capolavoro del più grande dei matematici. Commandino a Venezia aveva potuto vedere i codici raccolti dal principe degli umanisti, il cardinale Bessarione. Aveva inoltre tra le mani la traduzione latina de I galleggianti realizzata da Guglielmo di Moerbeke nel 1269. Era una copia che gli aveva regalato l’amico e protettore Marcello Cervini – papa Marcello II per qualche settimana, prima che un’improvvisa malattia lo portasse via. In particolare Federico non capiva come Archimede avesse potuto dimostrare la proposizione otto del secondo libro. La dimostrazione non c’era, come spesso capitava in Archimede. Ma non solo, essa presupponeva il calcolo del baricentro di un segmento di paraboloide, cioè un solido. Commandino conosceva bene il trattato del Siracusano I piani bilanciati, che spiegava come appendere un qualsiasi poligono a un filo in un solo punto in modo che restasse in equilibrio parallelo al suolo. Ma nella sua raccol-

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ta del 1558 non aveva tradotto I piani, perché doveva essere una trattazione incompleta. E il baricentro dei solidi? Archimede sapeva senz’altro calcolare il baricentro dei solidi, ma in nessuna delle sue opere tramandate ne parlava. Lo sapeva, proprio perché, per dimostrare la proposizione otto del secondo libro de I galleggianti, occorre trovare il baricentro di un solido. Federico, quando non era melanconico, provava a cercare questa dimostrazione. Ci riuscirà, tanto che a Bologna alla fine del 1565 non solo pubblicherà una splendida edizione de I galleggianti, molto migliore di quella precedente di Tartaglia, ma anche il suo personale capolavoro fisico-matematico, cioè il Liber de centro gravitatis solidorum. Non tradurrà mai, invece, I piani bilanciati, che invece verranno resi in latino dal suo grande allievo Guidobaldo dal Monte nel 1588. Si vede che gli mancava qualcosa. Il lungo viaggio prevedeva una tappa a Cesena, per visitare la splendida Libraria domini, voluta da Novello Malatesta a imitazione di quella di Michelozzo a Firenze. Era la metà del Quattrocento. Cento anni prima di Federico. Era quell’epoca che aveva preparato gli strumenti del suo lavoro. Quegli umanisti avevano raccolto i manoscritti conservati a Costantinopoli. Uomini straordinari, letterati e matematici, come Giorgio Valla, Bessarione e il grande Federico da Montefeltro – la biblioteca di Urbino, che splendore – avevano cominciato quella semina che oggi cominciava a dare i suoi frutti. Federico sapeva che Bessarione era stato a Bologna e nelle Romagne proprio in quegli anni, magari aveva lasciato lì il manoscritto di Archimede perduto, magari era uno di quelli che Novello aveva comprato a Costantinopoli per arricchire la sua neonata creatura e adesso lo aspettava a Cesena. Federico dimenticava la sua melanconia al pensiero di ritrovare quelle pagine del sommo matematico. Stabilitosi a Cesena, Federico si recò a visitare la splendida aula progettata da Nuti, allievo di Leon Battista Alberti. Alle porte del convento trovò ad accoglierlo Frate Paolino, il custode della libraria, che era già stato informato del suo arrivo. Luminosa e bellissima la sala lo attendeva con i suoi seggi e i plutei colmi di codici legati ai leggii da una catenella per impedirne l’asportazione. Un clima di pace e di studio avvolse Federico, che si sentì per un momento sollevato dai suoi pensieri. Da Frate Paolino venne a sapere che Bessarione in quegli anni Cinquanta del Quattrocento, quando era fra Bologna e le Romagne, aveva fatto preparare diciotto corali da mandare a Costantinopoli, per promuovere quell’u-

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nità fra le due Chiese che tanto auspicava. Ma nel maggio 1453 Costantinopoli cadde nelle mani dei turchi. La notizia arrivò a Bologna a luglio e Bessarione inviò i diciotto corali al nascente Convento dell’Osservanza a Cesena. Come mai, si chiese Federico, i corali non erano nella libraria domini? Commandino, ben sapendo l’amore di Bessarione per Archimede, si recò in cima alla collina, all’Osservanza. Non fu facile ritrovare i diciotto corali, che nessuno più utilizzava. Avuto dai frati l’accesso alla stanza dove erano stati abbandonati, ne trovò solo diciassette. Uno era andato perso o rubato. I documenti, a ogni modo, non sembravano interessanti per il matematico. Il giorno successivo tornò alla libraria a parlarne con Frate Paolino, che si lamentò dei frati dell’Osservanza e della loro incuria. Quest’ultimo imprecò anche contro il primo custode della libraria, Frate Francesco Bartolomeo da Figline, che non aveva preteso quei corali destinati a Costantinopoli. Forse, pensò Federico, Paolino era invidioso della grande arte amanuense di Frate Francesco, lui, che passava le giornate a riordinare i codici e i documenti a stampa, ma che non sapeva produrli, come il suo illustre predecessore. Commandino riprese i suoi studi nella bella sala di lettura sotto l’elefante dei Malatesta. Federico pensò a papa Niccolò V, Tommaso Parentucelli, amico caro di Bessarione, amante della matematica e degli studi umanistici, che commissionò a Giacomo da Verona la traduzione di Archimede in latino. Commandino la conosceva, ma aveva la sensazione che la sua del ’58 fosse parecchio migliore. Niccolò V morì improvvisamente nel ’55 e Bessarione fu richiamato a Roma, dove rischiò addirittura di essere eletto papa. Ma qualcosa si inceppò e il conclave gli preferì Callisto III. Che cosa c’entra tutto questo con i diciotto, anzi diciassette, corali? Commandino si concesse una breve passeggiata fra i banchi della bella sala illuminata dalle finestre ad arco. Gli cadde lo sguardo su una delle catenelle che legava i libri ai plutei. Notò che il punto di attacco era parecchio rovinato, come se fosse stato forzato o addirittura staccato e riattaccato. Federico allora si chiese che cosa fosse legato a quel laccio. Seguì con le dita la catena fino ad arrivare a un voluminoso codice. Sembrava il diciottesimo corale di Bessarione, almeno così diceva il frontespizio. Commandino però si accorse subito che non era un codice, ma un palinsesto. Era grande la metà. Qualcuno aveva scucito il vecchio in folio, cancellato il testo, tagliato le facciate, ricucito e scritto di nuovo. Non era il corale, ma una serie di

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preghiere. Spesso capitava a Costantinopoli che i codici preparati durante la rinascita di Leone il Geometra del IX e X secolo, quando ormai nessuno più li capiva, nel XIII secolo, venissero utilizzati come pergamena per libri di preghiere. Federico Non disse nulla a Frate Paolino. Era ormai sera, c’era poca luce. Si riprometteva il giorno dopo di provare a capire quale fosse stato il testo originale di quel palinsesto. La mattina di buon’ora Federico si recò nuovamente alla libraria. Pioveva forte, come accade talvolta in primavera. Ripreso in mano lo strano palinsesto, il suo occhio esperto si rese presto conto che il testo cancellato era di matematica. Il cuore, ormai stanco, cominciò a battergli vorticosamente nel petto. Girò i fogli, ma era difficile capirci qualcosa, sia perché il testo era stato cancellato, sia perché i fogli erano stati rimessi assieme in ordine casuale rispetto all’opera originaria. Però si intravedevano anche i diagrammi. Ecco, Federico si illuminò. Il disegno del segmento di paraboloide, quello che serviva ne I galleggianti. Ma non si leggeva nulla. Però questa era la prova che Archimede aveva scritto anche sul centro di gravità dei solidi. Commandino, nei giorni successivi, continuò a compulsare il libro di preghiere, tanto che Frate Paolino restò edificato dal fervore religioso del famoso matematico, di solito dedito agli studi profani. Ranuccio spingeva per partire. Occorreva proseguire per Bologna. Federico non riusciva a staccarsi dal suo tesoro. Qua e là raccoglieva faticosamente qualche frammento di proposizione e qualche brano di dimostrazione. Una mattina Fra Paolino si avvicinò a Federico un po’ sospettoso, allora Commandino, per essere ancor più credibile nella finzione, lesse effettivamente le vecchie preghiere bizantine. Non aveva problemi con il greco né con quella scrittura abbastanza recente, ma, sorpresa nella sorpresa, mancava un folio! Era chiaro che il palinsesto era stato nuovamente scucito, un folio era stato sottratto e poi il tutto nuovamente ricucito. Federico cercava di riordinare le idee. Diciassette dei diciotto corali ordinati da Bessarione erano lassù all’Osservanza, abbandonati quasi ai topi. Il diciottesimo era qui nell’antica libraria, ma in realtà non era un corale, bensì un palinsesto; un libro di preghiere che originariamente conteneva un trattato di Archimede. Questo codice era stato sottratto alla libraria – come si vedeva dall’aggancio forzato della catenella. Questa sottrazione non era stata indolore, poiché mancava un folio del palinsesto. Federico il mattino seguente si recò nuovamente all’Osservanza. I frati lo

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accolsero ancor più scorbutici e sospettosi della volta precedente. Lo studioso voleva visitare di nuovo la stanza con i corali di Bessarione. Commandino restò nella penombra di quel bugigattolo, fino a quando a lume di candela si accorse di una teca in legno massiccio, chiusa ermeticamente a chiave. Avvicinò la luce e lesse un’iscrizione sbiadita: “Dixit insipiens in corde suo: non est Deus!”. Era il fulminante inizio del tredicesimo Salmo di Davide. Federico lo conosceva bene. Il matematico urbinate continuava a scartabellare fra i diciassette corali, senza trovare il folio mancante. Restava la possibilità che fosse nella teca, ma perché nasconderlo? Uscendo incontrò Fra Gherardino, uno dei più anziani e più loquaci fra i frati dell’Osservanza. Gherardino spiegò a Federico che si diceva che quella stanza contenesse qualcosa di diabolico che risaliva a Bessarione. Il cardinale stesso volle che i corali stessero lì e in particolare una pagina la fece nascondere nella teca, perché quella era stata la causa della sua non-elezione al soglio pontificio nel conclave del 1455. Gherardino sconsigliava Federico di proseguire le sue ricerche profane e invece lo esortava a tornare a leggere le antiche preghiere. Il giorno dopo Federico tornò con il fabbro e, aperta la teca, trovò il folio mancante. Nel pomeriggio egli era già nella libraria per studiare la preziosa reliquia. Diversi giorni di lotta, sotto l’occhio vigile e non convinto di Fra Paolino, lo portarono alla conclusione che quella era la proposizione quattordici del trattato di Archimede: diciassette corali e quello era il diciottesimo; il tredicesimo Salmo e quella era la quattordicesima proposizione. Si parlava di un prisma, di un rettangolo e delle loro sezioni. E poi ...isos plethei... e ancora ...megethe... La stessa quantità di grandezze... Federico cominciò a tremare. “Quantità di grandezze?” Ma quante sono le sezioni di un prisma? Infinite! E infinito non è una quantità, né tantomeno una quantità misurabile; addirittura “la stessa quantità”. Archimede dunque stava lavorando con l’infinito in atto! A Federico cominciò a girare la testa e fu costretto ad allontanarsi dal leggio. Passeggiò lento nella libraria guardando le splendide finestre illuminate. Si immaginò infiniti triangoli uno accanto all’altro, che andavano a costituire un prisma. Pensò che l’infinito non era solo il non-finito, cioè qualcosa che andrebbe al di là del finito, ma era esso stesso qualcosa, qui dentro ai nostri corpi e l’incipit del tredicesimo Salmo gli risuonò nelle orecchie: “Dixit insipiens in corde suo: non est Deus”. La luce del sole lambiva appena le sue spalle.

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Dio, Adamo e il cane di Guido Dall'Olio

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na bella giornata di sole, con un cielo azzurro intenso, una lieve brezza e una temperatura primaverile. Una pianura leggermente ondulata, verdissima e solcata da ruscelli di acqua chiara; ci sono animali e piante di ogni specie e tutto sembra in perfetta armonia. Un uomo sta giocando con un cucciolo di cane: si stanno contendendo un bastoncello che il cucciolo ha tra i denti e che, scodinzolando e ringhiando allegramente, cerca di tirare a sé. A un tratto, si ode una voce dall’alto. Dio: Adamo! Adamo [girandosi verso l’alto]: Eh? Dio [a voce più alta]: Adamo!! Quando dio chiama, non si risponde: “Eh?” Adamo: Ah, sì, certo [pausa]. Ehm... Eccomi, mio signore [tiene fermo con una mano il cane, che vorrebbe continuare a giocare]. Dio: Così va meglio. Dunque, Adamo, dimmi. Come va? Adamo: Benissimo! Dio: Davvero non ti stai annoiando? Adamo: Non capisco: cosa vuol dire? Dio: Hai ragione, lascia stare. Quello verrà dopo. Adamo: Questo è un posto bellissimo, non mi manca niente. Dio: Sei proprio sicuro sicuro? Adamo: Sicurissimo. C’è un unica cosa che ogni tanto mi chiedo. Dio: Aha! Vedi che avevo ragione? Dimmi... Adamo: Perché mi hai creato, e cosa ci faccio qui?

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Dio [tra sé e sé]: Ohibò, questo non era previsto. Non così presto, almeno. [Rivolto a Adamo]: Come sarebbe a dire? Adamo: Beh, ecco... Io sono – o forse mi sento – diverso da tutto il resto. Tutto questo potrebbe esistere ed essere perfetto anche senza di me, anzi... senza offesa, ma ho la sensazione che senza di me sarebbe anche più perfetto. Dio: Allora, andiamo con ordine. Cominciamo dal perché ti ho creato. Sono sicuro che da qualche parte nella tua mente lo sai già. Il tuo unico scopo è quello di glorificarmi. Adamo: Glorificarti? Tutto qui? Dio: E ti pare poco? Adamo: Scusa, ma proprio non capisco perché l’essere perfettissimo, on-

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nipotente, onnisciente, eccetera eccetera, abbia bisogno di essere glorificato, oltretutto da qualcosa che si è fabbricato da solo. E poi non basta la natura? Gli animali, le piante, tutto questo meraviglioso giardino? E poi le stelle, i pianeti e tutto il resto? Dio: Questo ci porta alla seconda domanda. Tu sei effettivamente diverso. Le stelle, i pianeti, gli animali... mi glorificano con la loro semplice esistenza. Non possono fare altro. Tu invece hai il libero arbitrio. Adamo: Il che? Dio: Lascia stare, è troppo difficile per te adesso. [Tra sé e sé:] E poi in realtà non è così tanto libero, ma vagliela a spiegare, questa... [Rivolto a Adamo:]: Sì, insomma, vorrei essere glorificato da qualcuno che un po’ mi assomigli. Che me ne faccio dell’inno di lode di un piccione o di uno scarafaggio? Adamo: Mah, io continuo a non capire. Dio [Tra sé e sé]: Lo sapevo. Mi è venuto tonto. E adesso, cosa faccio? Tornare indietro non si può: ho già creato il secondo principio della termodinamica. E allora andiamo avanti... [Rivolto a Adamo]: Senti, Adamo. Ho pensato una cosa. Adamo: Dimmi, mio signore. Dio: Non hai voglia di compagnia? Adamo: Compagnia? Ma ne ho già tanta, qui. Te l’ho detto, sto benissimo. Dio: Dai retta al tuo vecchio, che sa meglio di te quello che tu stesso in realtà vuoi e non sai. Adamo: Se lo dici tu... Dio: Certo che lo dico io. E tutte le cose che io dico o immagino diventano vere, mica come te che pensi, pensi e non combini niente. Fai i giochetti col cane... Adamo: Ma a me piace giocare con gli animali! Dio: Ascolta! Adesso ti darò qualcosa di meglio. Devi solo darmi una delle tue costole. Adamo: Sei impazzito? Dio: Non ti preoccupare: ti addormenterò prima. E quando ti sveglierai, avrai una bella sorpresa. Adamo: Ma io non voglio sorprese! Ti ho già detto mille volte che sto bene così... [Le ultime parole di questa frase muoiono in bocca a Adamo, che si addormenta profondamente]. Dio [rivolto al pubblico]: Lo so, è uno sporco trucco. Ma mettetevi un po’

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nei miei panni. Avrei forse dovuto rivelargli che come primo esperimento lui non è forse da buttar via, ma che ho bisogno di qualcosa di diverso? Qualcosa di più bello, di più intelligente; qualcuno che capisca al volo, mica uno gnucco come lui. Magari se gli metto a fianco qualcuno più in gamba va a finire che migliora anche un po’. [Adamo dorme. Accanto a lui, addormentata anch’essa, c’è una donna bellissima. Adamo comincia a muoversi e pian piano si sveglia. Apre gli occhi e guarda Eva, incantato] Dio: Allora? Adamo [con un sorriso ebete]: Gh... Dio: È la tua compagna. Si chiama Eva. Avevo ragione o no? Adamo: S-ssì... Dio [tra sé e sé]: Non avrò mica esagerato? [Eva apre gli occhi, guarda Adamo e gli sorride. Adamo ha una vistosa erezione] Dio [tra sé e sé]: Lo sapevo. Addio glorificazione. La solita vecchia storia: la cura è peggio della malattia. E adesso? [Rivolto a Adamo ed Eva]: E va bene... crescete e moltiplicatevi! [È passato qualche giorno. Adamo cammina solo, con l’aria sconsolata e le spalle un po’ curve. Si ferma a sedere su una roccia. Poi guarda in alto] Adamo: Dio! Dio: Eh? Adamo: Ah, ma allora tu ti puoi permettere di rispondermi: “Eh?”. E perché mai? Dio: Cosa credi, che il nostro sia un rapporto tra pari? Te lo scordi! E comunque arriverà un giorno, prima di quanto tu pensi, in cui gli uomini rimpiangeranno l’epoca in cui Dio risponde: “Eh?” quando lo si chiama. E adesso dimmi cosa vuoi. Adamo: Sono triste e angustiato. Dio: Oh bella! E perché? Adamo: Si tratta di Eva. Dio: Lo sapevo! Adamo: Sai sempre tutto, tu.

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Dio: Quanto sei noioso! Adamo: Anche tu! È la stessa cosa che mi dice sempre lei! Dio: È questo dunque? Adamo: Dice che sono pesante, che prendo tutto sul serio e che non la faccio divertire. E poi io non ci capisco più niente. Quando dice sì, vuol dire no; quando dice no, vuol dire sì. Era meglio il cane! Dio: Effettivamente il cane è più alla tua portata. E ora lasciami pensare. Abbi fede: troverò una soluzione. [Adamo torna a vagare per il giardino] Dio [tra sé e sé]: E ora che faccio? Devo trovare un modo per risolvere questo pasticcio. Lo sapevo che il libero arbitrio (anzi: il quasi-libero arbitrio) avrebbe combinato dei guai. Tutti gli altri animali, dopo che si sono annusati una volta... zàcchete! Questi qui invece no. Sembra che ci sia qualcosa di storto in tutti e due. Tentare di correggere? Mmh... l’ho già fatto una volta e non sono sicuro che sia stata la cosa migliore. E se facessi il contrario? Perseverare negli errori, portarli fino in fondo. Incasinare tutto. E poi allontanarli da qui, in un universo disarmonico come loro. Uno di quelli in cui le storie e le parole non diventano vere. [Pausa]. Ci sono!!! Meno male che ho creato anche quel debosciato di Lucifero. Sarà presuntuoso, irascibile, inaffidabile, ma almeno farà fare scintille a tutti e due. Altro che quegli insulsi angioletti con arco e freccia! Ci vuole solo un buon pretesto. Vediamo...: “C’era una volta un uomo che mangiava una mela...”. No, meglio: “C’era una volta una donna che offrì una mela a un uomo...”. No, neanche questo. “C’era una volta un serpente che aveva voglia di fare un po’ il bischero...”. Ecco, così va bene. [Pausa] Dio: Senti, Adamo. Adamo: Dimmi, mio signore. (Vedi che ho imparato?) Dio: Ho un progetto per voi due. Adamo: Noi due chi? Dio: Non tu e il cane! Ti piacciono le mele?

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Minimi incontri di Alessandro Fo (piano, con venerazione)

Nella casa in cui vivevo dopo, schiudendo la persiana davanti alle sue stanze, mi apparve lì di fronte alla finestra, non conosciuta ancora, molto bella. L’antica situazione di Silvia (e dell’amore mio di ragazzo con la chitarra ogni sera in balcone, sperando di mirare o esser mirato, per Angela), e di infinite persone che un caso ha posto di fronte allo splendore, ferendole per sempre. La scorgevo di rado. Ma sapevo che soffriva. Negli anni, a un bel momento, l’evidenza che si trasferiva. La incontrai rifiorita. Parlammo. Era serena, delicata, stupenda, per la via che per caso di nuovo ci riuniva. Qualche sua notizia costellava talvolta la mia vita. Poi, abbagliante candore, Annamaria in abito da sposa brillò, a una cena, da una fotografia. «Già... E (come splende qui)... tua sorella?» «Eh..., sai, da un anno è ripresa la lotta

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contro la malattia» «Speranze?» («...non tanto per i capelli, freschi di chemio, e dunque ormai caduti, ma per le ossa rotte e il dolore senza posa... Mi muovo come se avessi cent’anni, e non sono nemmeno la metà. Mi fa piacere leggerti, e ricambio l’abbraccio... Però piano, eh?» «Sì, piano, ma con la stessa venerazione di sempre») Tarda notte. La posta. Trovo scritto «Ale, dal momento che ne abbiamo parlato e che le hai scritto: mia sorella è morta questa notte».

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Stazione di Pesaro di Mariachiara Rafaiani

Le strutture erano accantonate depositi in mattoni rossi e cemento lanciati dal sole oltre le rotaie Si va sempre verso qualcosa i caravan, i furgoni, i vagoni in disuso spiaggiati come malinconie Credimi conta soltanto ciò che sopravvive alla moria del tempo null’altro su questa terra sdrucciola null’altro in questo specchio di contingenze Ma sono posata su un sedile e questo treno è brutale

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Nel 9̒ 2 di Andrea Barone Nel 1992 assassinai tre uomini con la pistola che tremava e il cuore che godeva. Nel 1995 corsi per tutta Roma prima di voltarmi, guardarti, baciarti. Nel '99 conficcai la mia vecchia lama, quella che usavo per andare a funghi, nel petto di Mario Vicari detto “er saggio”. Nel 2000 dicevano che sarebbe stata la fine del mondo. Ti sposai. E lo fu. Nel 2011 mi ricoverarono per la prima volta. Si sbagliavano; prima di morire avevo un ultima cosa da fare. 5 mesi dopo tentai il suicidio ed ora in questo letto, non aspetto altro che tu stacchi la spina. Pigiama a righe verdi e porpora, proteggimi dai brutti sogni, proteggimi dalla notte, proteggimi dagli anni che sopraggiungono. Proteggimi. A 49 anni ho scoperto che l’uomo nero sono io.

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Due tempi dellʼEllade di Matteo Amadei

Farfalla di sogno, luce rosea di un’alba cicladica densa di sale, i tuoi occhi neri risplendono tra le insenature del mare. Taci, distante, ma parli col tuo silenzio cristallino e selvaggio come le rocce greche. Assomigli alla mia anima: e sono felice di perdermi nel tuo sorriso malinconico. * Ti creò il sole che fa sorridere il mare, quello che incurva le alghe a mezzogiorno sulla sabbia riarsa. Sottile come il grano nudo, pregiata come l’avorio africano, la tua pelle è la mia estate dorata nell’inverno di un cuore illuso. Occhi di luce nera, hai linee di luna, strade di perla, sei l’ubriachezza dell’onda, la libertà di una farfalla bianca: ti addentri nel sotterraneo del mondo con la dolcezza di un papavero. Timida e confusa, la mia anima ti cerca.

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Niente si perde per davvero di Massimo Morasso

Ora, qui, in camera dove ho vissuto da giovane, con il Subbùteo i libri i dischi e i miei fantasmi, mi incita il cuore ad aderire al presente, a questa gioia discorde della rimembranza. Niente si perde per davvero, mi sussurra, tutto ritorna, tutto canta all’unisono, zittito il raglio della tracotanza che vuole aver ragione delle cose, ingorda di realtà, cieca d’orgoglio, obnubilata dalla sua apparenza. Ma nelle pieghe della mente restano incise le opere. * Giardino, casa. E intorno, e dappertutto, un’ecatombe, la lotta quotidiana per il cibo, e il ruminare a vuoto dei dolenti per strada o lungo le corsie, inavvertito, senza voce. Giardino, casa. Dove il fanciullo destinato-a-scrivere

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sa che l’attesa è misura dei morenti, e i vivi, anch’essi, li antevede disfatti in una fiamma, neppure più cadaveri, non qui, fra gli invisibili.

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Per Firenze di Giuseppe Nibali Sul muro una vecchia. Firenze. Sulla meraviglia delle case gli uomini In congrega, i crocefissi vuoti. Ti rovina la pioggia amore, è appena risorta Sulle foto di famiglia con madonna Smerlate dalle tarme. Viene sulle strade Su piazza della Repubblica e si sgrana. Per questo smuove il fondo delle grotte Per questo risale al cielo la condanna: Siamo nati sulle strade, rovine Vivendo come da opposti acrostoli, Da rosoni di pietra i primi amori. Nessuno parla. Firenze. Nessuno risponde. Ma disabita Fiesole Questa carcassa Sei serrata, Ballerina Si aprirà sul costato la tua verginità La vagina con cui vivi da quando l’Arno non zitta il suo sanguinamento. Ti troveranno nuda, e Santa Croce, nella piena Del tuo volto. Scopriranno parole nuove Per il martello del tuo cuore.

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Come una faccia di Bernardo Pacini

come una faccia dietro la faccia che − liscio lo sbigottimento della guancia prema e sfondi, faccia da àncora all’occhio così che lo sguardo scaldi ancora il muro, il mento slacci le ortiche del non saper più dire del non saper più sfilare le corde della viola dal telaio prologo di notte che ora, proprio ora, o ieri mi sfogliava le gambe ed ero solo feccia intermediario, non io sui colli con Firenze tra indice e pollice

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