Rdp Numero 13

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La Resistenza Della Poesia anno V

giugno 2016

N.13

Dopo la sconďŹ tta

Semestrale di Cultura e Poesia



La Resistenza Della Poesia DIRETTORE RESPONSABILE Giuseppe Ghini COMITATO DI REDAZIONE Monica Bravi Umberto Brunetti Lorenzo Carnevali Alberto Fraccacreta Matteo Giunta Riccardo Marchionni Alessandro Zaffini IMMAGINE DI COPERTINA Alessandro Zaffini ILLUSTRAZIONI Davide Giovannini FOTOGRAFIE Guido Dall'Olio, p. 9 - 15 - 20. PROGETTO GRAFICO La Resistenza della Poesia Logo: Beatrice Schena COPIA CARTACEA ON DEMAND disponibile previa prenotazione via email (vd. sotto) REDAZIONE Piazza Rinascimento, 7 - 61029 Urbino email: laresistenzadellapoesia@gmail.com www.laresistenzadellapoesia.com AUTORIZZAZIONE Tribunale di Urbino, N. 2/2012



La Resistenza della Poesia Dopo la sconfitta

EDITORIALE

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Dopo la sconfitta di Umberto Brunetti

IL CALAMAIO IN PROSA

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Giorgia Bandini

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Giulio Iovine

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Igor Celi

IL CALAMAIO IN VERSI

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Valerio Magrelli

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Daniele Piccini

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Stefano Iucci

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Valerio Orlandini

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Paolo Musano

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Alessandro Zaffini

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Andrea Milano


Anno V / Numero 13 / 2016 Dopo la sconfitta

CONSIGLI PER LA LETTURA

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Spaziotempi minori di Mario Laghi Pasini di Monica Bravi


EDITORIALE

Dopo la sconfitta di Umberto Brunetti

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el celebre film Il settimo sigillo di Bergman il nobile cavaliere Antonius Block gioca a scacchi con la Morte: anche noi come lui siamo inciampati nell’incresciosa partita in questa estate scottante. Calcolare la prossima mossa dell’Avversario incappucciato è impossibile: la sua falce piomba addosso senza avvisaglia. È un’estate difficile, che a metà del suo corso già porta inesorabilmente il marchio del lutto. Estate di sconfitta. Si inseguono vorticosamente i giorni nefasti nel lunario della stagione: 12 e 28 giugno, primo e 14 luglio. La morte scende a colpi di kalashnikov nei quattro angoli del mondo: Orlando, Istanbul, Dacca, Nizza. I luoghi più disparati sono impassibile scenario di Terrore: un night club, un aeroporto, un ristorante, una promenade. Siamo come paralizzati: viviamo nell’immobilità del dipinto Strage degli innocenti di Bruegel. Oltre gli attentati terroristici, ultimi di una serie ininterrotta che prosegue dagli anni zero del Duemila, un altro evento ha funestato quest’estate 2016: il disastro ferroviario del 12 luglio in Puglia. Fatale scontro su un binario unico: quel maledetto binario, cicatrice di ferro, è forse il simbolo della strada marchiata dalla Sconfitta su cui è in cammino la cultura d’Europa? Lo stimma politico più eclatante di questo tracollo è stato siglato il 23 giugno in un consulto di mezza estate dal titolo Brexit. «God Save the Queen and farewell!». Mondo in sussulto, Europa ferita: in questo pauroso subbuglio persiste un’esigenza di poesia? Qual è lo spazio che essa può occupare? La massima di Adorno «Dopo Auschwitz non si possono più scrivere poesie» ci risuona amaramente all’orecchio in questi anni bui. Quanti olocausti saremo ancora costretti a sopportare? In un mondo che ci fa sbattere di continuo contro il dato reale, contro la tragicità del concreto cosa può offrir-

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Dopo la sconfitta

ci la poesia con la sua immaterialità e impalpabilità, col suo linguaggio dell’interiorità? Un utile spunto di riflessione ci è offerto dal poeta polacco Adam Zagajewski, che proprio questo 25 giugno è stato ospite dell’Università di Urbino, da cui ha ricevuto il Sigillo d’Ateneo. Durante la cerimonia abbiamo avuto la possibilità (e l’onore) di leggere alcuni componimenti del poeta, ormai amico della Resistenza (il prossimo numero ospiterà alcuni suoi inediti). I versi della sua lirica La sconfitta si rivelano sorprendentemente adeguati ai nostri giorni: Davvero sappiamo vivere solo dopo la sconfitta, le amicizie si fanno più profonde, l’amore solleva attento il capo. Perfino le cose diventano pure. [...] Le sagome cupe dei nemici si stagliano sullo sfondo chiaro della speranza. Cresce il coraggio. Loro, diciamo parlando di loro, noi, di noi, tu, di me. È vero, siamo immersi nella sconfitta. Ma forse realmente è nostro destino, come scrive Zagajewski, saper vivere solo «dopo la sconfitta». Essa ci impone di unirci, di stringere i legami: la sconfitta apre uno spazio di immobilità che consente di vedere le cose con più attenzione, nella loro purezza. Tale immobilità non è però identica alla paralisi della paura: a differenza di quest’ultima, essa è immediato preludio di un nuovo movimento. Grande espressione della vita è dunque la «poesia nell’immobilità», propria, come scrive Carnevali, anche di uno dei nostri maggiori poeti contemporanei, Valerio Magrelli, di cui ospitiamo in questo numero un inedito. Dove trovare però il «coraggio» che cresce dopo la sconfitta? Nell’umanità, e la poesia è il luogo in cui approfondiamo il nostro essere umani e riscopriamo l’altro: il tu e l’io si confondono nello spazio dell’interiorità. «Solo nella bellezza altrui vi è consolazione» recita un altro verso memorabile di Zagajewski. Le sue liriche sono dotate di una palpabile concretezza. La sconfitta è una poesia attuale e rivelatoria per noi uomini della crisi. In essa si manifesta il legame tra storia e interiorità, tra l’hic et nunc e l’altrove, tra vita e poesia, che può suggerirci un viottolo, un sentiero da imboccare, una nuova carreggiata per fuoriuscire dal solco fatale.

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IL CALAMAIO IN PROSA

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Dopo la sconfitta

Giorgia Bandini A Modena, tra i portici

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idi il mio cane. Il mio cane trascinato al guinzaglio di uno sconosciuto, una mattina come tante sulla via del lavoro. Le case e le persone ci passano accanto. Dappertutto una nostalgia ed una fretta sconsiderata. I volti per la strada non hanno alcun bordo. L’animale annusa meticolosamente i muri, gli alberi, gli uomini. Dapprima mi colpisce l’incredibile somiglianza poi, in uno sbadiglio, lo stupore di un ricordo lontano, scompare. Continuo a camminare attraverso lo schermo di pensieri e distrazioni che si pone tra noi, il letto e l’ufficio. Spingo i miei passi vuoti, un passo lungo e uno corto. La strada davanti a me, distorta e fatta labile. La prima luce in fondo alla strada tremola. Conta l’andare e io vado sempre più rapidamente. Vivevo di pensieri di fuga. Volevo saltare i fossi e rincorrere i campi finché la terra non diventasse straniera. All’arrivo delle mie scarpe, i topi tra l’erba sarebbero scappati. Avevo camminato sotto quei portici, accanto a quel cane tutte le mattine. Ed una sera avevo acceso una sigaretta in modo da non dover sentire tra le mani, al ritorno, che stavo rientrando a casa da solo. L’animale alza le orecchie, scodinzola freneticamente, si agita, guaisce, tira con forza il guinzaglio: sembra proprio il mio cane nel suo riluttante color sciampagna. Ecco siamo di fronte, è indubbiamente il mio cane! Spingo i miei passi vuoti, un passo lungo e uno corto. Il respiro si fa corto. Nelle orecchie il battito del mio cuore. Il cane mi riconosce! La speranza di pure rivederti, che apparisse il tuo volto, che l’amore fos-

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IL CALAMAIO IN PROSA

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Dopo la sconfitta

se una guancia o una fronte. Generosa illusione: tu alla finestra di camera nostra, trasparente. C’era ordine nei tuoi pensieri. Voglio abitare il cielo e coltivare il campo, avevi scritto nel suo diario. E dimenticavo che il tuo volto non lo potevo più accarezzare, che a me si era chiuso ogni senso di te. Mi salta addosso e mi imbratta come al solito i pantaloni. La gioia dell’animale e dell’uomo: mi sento per un istante bambino. Felice gli tengo la testa tra le mani umide di saliva, le passo tra il pelo. Poi, accertandomi della mia salute mentale, un controllo fugace alla medaglietta. Ti consiglio un filtro senza erbe, né veleni: se vuoi essere amato, ama, diceva mia nonna. Tu amavi i rimedi della nonna e mitigavi con l’olio le vampate della testa. Soffrivi di tremende emicranie che cercavi nelle mie scarpe sporche, nel disordine in bagno e nelle camice stropicciate. Nella luce che entrava dalla finestra il turbinio del pulviscolo e la polvere che giaceva sul tavolo era un campo grigio di cenere ed ombra, ma quel campo non si poteva coltivare e quella stanza non la volevi più abitare. Anche il nostro cane, quella bestiola che amavi perchè la dicevi buffa, ti procurava tremendi capogiri con i suoi peli sul divano. Eravamo complici io e lui, ma lui sapeva bene quale belva sonnecchiasse nel cuore della sua padrona. Lo sconosciuto incredulo si scusa per il comportamento dell’animale. Si scusa e respira tra i denti. Un uomo uguale a me, in giacca e camicia: di te le guance di carne sul suo volto rasato e di te le mani bianchissime e sottili nel nodo della cravatta. Lo guardo velocemente negli occhi: «Vedo che alla mattina anche a te fa portare a spasso il cane». E a lui, che non capisce, aggiungo semplicemente: «Sono il marito di Maria». E con un ultimo guaito, pure il nostro cane mi abbandona.

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IL CALAMAIO IN PROSA

Giulio Iovine Le avventure di Eugenia disturbata. La notte

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on c’era nulla che Eugenia amasse, più del silenzio. Dovunque andasse, qualunque cosa facesse, lo cercava. Con gli anni aveva imparato a dilazionare quel godimento, a rimandarlo – a nasconderlo. Quella sera d’estate si mosse, lenta ma sicura, per la casa buia, fino alla grande finestra del bagno. Lì, rannicchiata in un angolo, Eugenia tirò il collo verso l’alto e sgranò gli occhi, come faceva da bimba, per guardare le fronde dell’albero che si allungavano fuori dalla finestra. Il cielo era nero, ma chiaro nella sua vastità. Eugenia si abbracciò le ginocchia mentre guardava la magnolia del suo giardino, nel silenzio della notte. I suoi fiori bianchi velavano pezzi di nero e di stelle. Dalla città poco distante veniva uno sbadiglio metallico. Un fruscio corposo, come di un gigante che rimettesse in ordine le sue riviste, accompagnava le fronde della magnolia, che ondeggiavano senza peso nell’aria tersa, e questo era tutto. Il nulla sorrideva ad Eugenia e lei gli rispondeva, come una neonata, senza stare a pensarci troppo. Si scopriva ad ondeggiare, con il busto raggomitolato contro la lavatrice, allo stesso ritmo delle foglie, senza regola, con brevi scosse. Ma quella notte l’avrebbe passata sveglia. Nella sua cucina si accese una luce rossa talmente intensa, che poté notarla dal bagno. Si alzò di scatto, si buttò addosso qualche vestito, ma non trovò il camice. Imprecò due minuti perché lo sparafuoco non era nella sua cesta, attaccato alla spina; o meglio, imprecò perché dopo le missioni non lo rimetteva mai a posto, e aveva dovuto convincere sua sorella Matilde, per evitare di scoprirsi, che

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si trattava di un aspirapolvere. Lo afferrò senza un attimo di esitazione, riattraversò casa sua correndo, si chiuse nella sua camera da letto, si infilò nell’armadio – vuoto, naturalmente – e premette il pulsante, che nel buio trovava ormai a memoria. Un potente risucchio, seguito dal guizzo di una caldaia vibrante, la scaraventò chissà dove sottoterra, e le porte dell’armadio si riaprirono su un laboratorio che se possibile era ancora più buio di casa sua. Ma anche lì, sapeva orientarsi benissimo a memoria. Apprezzò il fatto che le sue colleghe non fossero nei loro piccoli uffici; il silenzio era rotto solo dai suoi tacchi. Raggiunse il suo ufficio e accese la luce; tutto era come al solito, e la donna delle pulizie era passata il giorno prima; un alambicco borbottava sulla sua scrivania sopra un becco di Bunsen su cui c’era scritto non spegnere, ed Eugenia si concesse tre secondi per guardare la soluzione che stava sviluppando, e che sperava di non dover mai usare. I suoi appunti erano stati riordinati e rimessi in ordine per l’ennesima volta in una carpetta di plastica col suo nome; sopra la carpetta c’era un biglietto con le sue iniziali, E. D. Lo afferrò e lo lesse. Eugenia, c’è qualcosa a sud, nella periferia; non si sa esattamente cosa, ma certo non deve oltrepassare il canale meridionale, o arriverà nei quartieri abitati. Te ne occupi tu. La macchina è già sulla piattaforma, ci ho stipato dentro i tuoi aggeggi. So che ci sei affezionata, ma ti prego, stavolta non portarti a casa lo sparafuoco dopo la missione. Non m’importa se con tua sorella lo spacci per un aspirapolvere. Non è comunque rispettoso nei confronti dell’Intendenza. A domani – il Dr A. Hawkins. Come dovette sentirsi sola Eugenia dopo quelle poche righe, il lettore non potrà capirlo subito; gli servirà di conoscerla meglio, per decrittare certi sottintesi. I vestiti le si erano incollati addosso per il caldo: se li tolse, e dopo averli buttati sulla sedia – c’era tempo per lavarli, magari l’indomani – andò nel suo bagno personale, si ficcò sotto un getto d’acqua, si lavò, si asciugò convulsamente – poi, inforcato il camice da lavoro, corse nuovamente verso il corridoio principale. Una scritta sul muro, che Eugenia non vedeva ma che conosceva benissimo, indicava, davanti a lei, le piattaforme d’uscita. Si ritrovò in un hangar; accese la luce; la sua macchina, una cinquecento color dell'oceano, con le ruote infangate e un’ammaccatura sul bagagliaio, se ne stava addossata al muro, sopra una piattaforma mobile.

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IL CALAMAIO IN PROSA

Eugenia si fiondò in macchina, buttò lo sparafuoco sul sedile posteriore, e tirò la leva dietro al freno a mano. La luce dell’hangar si spense; la macchina, sollevata dalla piattaforma, si innalzò rapidamente, tremando come un tubo per cui all’improvviso passi dell’acqua incandescente a gran velocità. Eugenia ebbe appena il tempo di mettersi la cintura, ed ecco che era all’aperto, di nuovo, in uno spiazzo erboso circondato da edifici. Davanti a lei, la superstrada di Lungam. Accese il motore e pigiò il pedale con ansia e rabbia; come un proiettile la sua auto partì e inforcò la superstrada. Gli edifici le saettavano dietro, le curve la facevano ogni volta sbandare. Eugenia non aveva un rapporto sereno con i freni. Non sapeva esattamente in che parte della periferia meridionale doveva recarsi, ma una luce scarlatta, che lampeggiava in lontananza al di là di una schiera di condominii, le fece da guida. Puntò il volante verso la luce e accelerò. Non c’era nessuno in giro. Dio, la calma solenne di questa nottata, si permise di pensare Eugenia. Solo io scorrazzo per strada con questo catorcio a snidare – snidare chissà che cosa. La luce veniva da un bosco, una di quelle piccole foreste che sorgevano a ridosso dei campi coltivati e delle fattorie che costellavano la periferia della città. Il canale meridionale, non troppo distante, Eugenia se l’era già lasciato alle spalle da un pezzo. Quando apparve il bosco, la luce rossa si spense d’un tratto ed Eugenia tirò i freni, facendo fare alla macchina una giravolta e andando a sbattere contro un palo, che venne giù accartocciato come un filo d’erba. Proprio nell’erba si era andata a fermare Eugenia, ed uscendo dalla macchina sentì l’odore di piante bruciate dall’attrito. Per prudenza lasciò lo sparafuoco in macchina – guai mai che qualcuno lo vedesse. E difatti, sul limitare del bosco, una dietro l'altra sul marciapiede, tre ragazzini camminavano con calma, parlando tra loro a voce nemmeno tanto alta. Li educano bene, qui, pensò Eugenia inarcando un sopracciglio. Al liceo giravo con gente che, se poco poco ci si trovava in quattro, di notte, in periferia, si cominciava a cantare come imbecilli. Questi invece non – — ehi, aspetta. Erano tre. Il quarto da dove sbuca? Eugenia pensò questo nello stesso momento in cui il quarto ragazzino, o quello che era, svanì dalla strada e dal suo campo visivo. Gli altri tre svoltarono dietro un cascinale ed Eugenia li perse di vista; ma una serie di tonfi e di rami spezzati, che veniva da dentro la foresta, le impedì di seguirli. Cambia forma, pensò Eugenia. Pericolosissimo. Ogni due o tre

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secondi, dall’intrico dei rami e dei tronchi, come il battito del cuore di una creatura morente, un debole lampo scarlatto appariva e spariva. I lampioni erano troppo lontani ed Eugenia, da dov’era, non poteva distinguere nulla. Si sforzò di pensare, aggrappandosi alla portiera aperta della macchina – e senza farci caso, si mise dietro di lei, per usarla come scudo. Va bene, cambia forma. Ma appena mi ha visto non ne è più stato capace. È teso. E non controlla la sua radioattività, constatò Eugenia. Non dev’essere una cima. Un rimedio casalingo andrà bene. Diede un occhio ai suoi aggeggi stipati nei sedili posteriori dal Dr Hawkins. Un sonnifero, decise. Un sonnifero a sfera. Controllò che le sfere di sonnifero fossero tutte al loro posto, come uova nella loro confezione di plastica. Il fucile chimico era appoggiato al sedile. Eugenia fece per chinarsi e raccoglierlo, e solo allora le venne da pensare, Ehi, ma la luce rossa? Non c’è più? Cos’è questa cosa che striscia davanti al cofano? Ma che fa, respira? E con questo pensiero la creatura le fu addosso. Ma gli era sfuggita la portiera. Andò a sbatterci contro e le sue mascelle si chiusero sulle lamiere, spaccando il finestrino che gli esplose in bocca. Eugenia era rotolata per terra dallo spavento, ma restò attaccata al sedile anteriore, e sbatté la testa contro il cerchione della ruota posteriore. Il campo visivo le divenne rosso. Ma non era sangue, e non era di Eugenia. Nel dolore folle di ritrovarsi dei vetri ficcati nelle gengive, la creatura non controllava davvero più la sua radioattività. Eugenia dal canto suo non ci vedeva come avrebbe voluto. La mano sinistra cercò affannosamente nell’erba intorno gli occhiali. E mentre li rinforcava, la mano destra, attaccata alla macchina, tastò sotto il sedile — e sentì il metallo dello sparafuoco. Sì, pensò Eugenia. Lo afferrò, si rimise in piedi, imbracciò l’arma – un serbatoio da appendere al braccio e una lunga e grossa canna con un interruttore sull’estremità, che appoggiò sulla portiera, per mirare. Eccolo là, pensò mentre mirava. Non si vedeva quasi niente, ma la creatura lampeggiava come se dentro avesse avuto una lampada in cortocircuito. Distinguere dove finisse la coda, dove cominciasse il collo, e se i muscoli delle gambe fossero davvero così grossi, e se davvero quelli erano i denti, fece stare Eugenia immobile per qualche secondo. Peggio per te che te ne sei uscito dalle tue foreste, disse Eugenia senza quasi muovere la bocca. In quell’istante la creatura si alzava, dominava il dolore, sputava il sangue, apriva la bocca, abbassava la coda e si stirava sulle gambe, e come una torre coprì Eugenia di onde scarlatte, di sangue e luce, di luce e sangue, e la

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IL CALAMAIO IN PROSA

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fissò, con un occhio tondo, nero, grosso come un brillante, inconsapevole – ma no, lo sa che è la fine, pensò Eugenia, e premette l’interruttore. Lo sparafuoco era una di quelle cose che piacevano solo a lei. Faceva scena. Il flusso disgregatore, vermiglio come lava o plasma che schizzassero fuori da un’arteria – o come una cascata che per sfregio alla gravità risalisse – per cinque secondi cacciò via la notte. Un boato, un ruggito, e poi, a parte per l’erba in fiamme qui e lì, Eugenia riprese possesso del silenzio. Nei due minuti che impiegò per riabituare gli occhi all’oscurità, il cadavere, come previsto, non si mosse. Questo era nei paraggi da un bel po’ di tempo, osservò Eugenia sistemandosi gli occhiali che per il sudore le cadevano sul naso. Aveva l’aria di conoscere bene la zona. Chissà quanta gente ha ucciso prima che il Dr Hawkins – già, il Dr Hawkins. Non so proprio cosa scrivere nel rapporto. Ma vediamo cosa è rimasto del cadavere. Eugenia si avvicinò, a sparafuoco puntato. A parte qualche fiammella, erano rimasti dei pezzi di cranio, ridotto a ossa – e i denti, quaranta lunghi denti. Poggiò lo sparafuoco, andò a prendere una busta asettica, mise dentro tutti i resti – le ossa le caddero di mano con un grido – Brucia! – sono così stanca che ho scordato con cosa l’ho ucciso, pensò Eugenia, e stavolta dall’occhio sinistro le scese una lacrima, mentre, in ginocchio, si teneva il palmo della mano ustionata. Lentamente, con l’altra mano ed un guanto, mise tutti i resti nella busta, la sistemò in macchina, rimise al suo posto lo sparafuoco sotto il sedile, e si guardò intorno. Le luci alle finestre delle fattorie erano spente; nessuno era in giro; il vento aveva smesso di soffiare sulla foresta e i lampioni calavano lentamente di intensità. Eugenia tremò al pensiero di cosa avrebbe visto se avesse preso la macchina e fosse corsa sulle colline – l’orizzonte che da nero mutava in blu. Non voleva, ma un po’ lo voleva, perché con lei si era sempre incerti su cosa volesse o non volesse. Se accendo il motore, chiudo la portiera, prendo la Lungam – pensava – che c’è che non va? Risalgo il colle e poi... – ma alla fine accese il motore, chiuse la portiera, e prese la Lungam, nella direzione opposta a quella da cui era venuta – verso il centro. Qualcuno, chissà perché, girava nel parco accanto alla Lungam. Probabilmente gente che portava in giro il cane. Ma non fecero caso alla macchina che frenava roteando sullo spiazzo erboso vicino all’altalena, e che sprofondava nel sottosuolo come su una piattaforma. Eugenia si sistemò per l’ennesima volta gli occhiali che scivolavano. Ho bisogno di una doccia e di star ferma un minuto, pensò. Il finestrino lo riparerò appena posso. Il

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IL CALAMAIO IN PROSA

rapporto domani, tanto è domenica e ho tempo. Intanto gli scrivo la cosa fondamentale. E scrisse su un biglietto, che lasciò sulla scrivania: Fatto. Non era ancora alba piena quando la dottoressa Eugenia Disturbata uscì dal suo armadio-ascensore e si ritrovò nella sua stanza. Perché mi ostino a mettere i tacchi quando sono in missione?, si domandava mentre si massaggiava la caviglia destra e notava che il tacco dell’altro piede era ormai lì lì per rompersi. Si accasciò sul divano, esausta, e prese a passarsi sul palmo il lenitivo per le ustioni che aveva in casa. Tutta la paura della nottata tornò fuori, e mentre Eugenia pensava alla spesa dell’indomani o al fatto che aveva molto sonno, le lacrime le bruciavano gli occhi. Lo sparafuoco giaceva in un angolo, ancora e sempre. Ma Eugenia non poté farci caso più di tanto, perché quando arrivò il mattino, dormiva.

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Igor Celi Prelievo

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martedì. Tutti gli anziani si recherebbero al distretto sanitario del paese a farsi prelevare il sangue per le analisi, se non fosse per un fatto curioso. Proprio qualche settimana fa è successo qualcosa che ha dismesso il servizio. Le voci per il paese dicono che una signora ha perso la pazienza e ha schiaffeggiato la commessa del distretto, così lei si è offesa e non è più voluta venire a lavorare. Niente commessa niente servizio. Sembrerebbe un ragionamento lineare se non fosse per il fatto che nel nostro paese la sanità è pubblica. Ma da noi le cose si prendono così, ciò che sarebbe dato per diritto è invece un piacere che ci viene offerto, un privilegio dato dalla straordinaria umanità dei dipendentucci, quasi filantropica oserei dire, ma sempre con la bustina dello stipendio bene al calduccio nel taschino, sia beninteso. Così, appena alzato, il buon Remo, uomo eroico, si reca nella vicina Urbino per farsi prendere il sangue. Tremante affronta il forte vento tenendosi il cappello e bestemmiando avanza a piccoli passetti verso l’ospedale. Dentro è pieno di vecchietti. Occhiate d’intesa, ad alcuni gli brillano gli occhi. Il buon uomo riconosce tanti compaesani. Un cenno della testa per saluto e qualche parola sconnessa per manifestare il disappunto. Non per questa particolare situazione, sia chiaro, ma in generale, perché gli anziani avranno sempre qualcosa da ridire. «Remulìn cóm gim?» tuona un agile settantenne dalla criniera bianchissima. «Ehh» gli risponde il buon uomo.

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IL CALAMAIO IN PROSA

Mi permettano i lettori di specificare questa risposta all’apparenza monosillabica, ma che in realtà contiene ben più di quello che lascia intendere. Mi addentrerò in una rapida traduzione di questa risposta che solitamente gli anziani amano ripetere: «Ehh», ovvero «Va mèl mèl. Fà frédd e me sò ròtt i cojoni, ma sa vu fè? Questa è la vitta becamòrt, prim ó pói ce tòca morì mà tutti». Raramente recitano la formula lunga e la maggioranza preferisce la forma contratta. È quasi una risposta standardizzata, uguale per tutti i vecchietti. Se si potesse fare un vocabolario “monosillabo-dialetto senile” ci sarebbe questa traduzione qui. Soprattutto stamattina che fa particolarmente freddo, i vecchietti non sono di buon umore, e preferiscono aspettare senza parlare, scambiandosi rapide occhiate d’intesa e qualche monosillabo significativo. Se poi c’è qualche chiacchierone che si è alzato bene allora potrete sentire una infinita catena di ragionamenti sconnessi, che hanno per tema il mal di schiena, la sciatica e la gotta. Stanno disordinati, tutti vicini. Prendono un pezzettino di carta con un numerino che stabilisce l’ordine della fila e si mettono a sbuffare straordinariamente, con tutta la forza che hanno, per manifestare il loro disappunto. «Me sa che maché Remulìn ce tòcca stè fin’a merzgiorne» dice un vecchio occhialuto, fingendo una scocciatura che non ha, e lo potrete vedere benissimo che in realtà gode come un riccio a stare lì, in quella fila, tutta la mattina a parlottare con gli altri di cose di nessuna importanza. Immancabilmente poi, ogni vecchietto, ad ogni cambio della cifra sul tabellone che regola l’ordine della fila, si curverà con tutta la testolina a rivedere il proprio numerino che già sa a memoria; anche se sanno che ce ne sono altri venti davanti a loro ogni volta potrete vedere tutte queste teste che si abbassano all’unanimità, e li sentirete ripetere con rassegnazione il loro numerino, che tengono stretto stretto fra le manine contratte dall’emozione. Un vociare cupo e tremebondo di numerini allora vi invaderà, ovunque voi siate: «Ehh, ì c’ho il trentùn, ancora ne manca n’bel po’». «Ehh, te sè fortunèt, ì c’ho il cinquanta, me tocarà pransè mà le quattre, st’a veda». Ci saranno poi come stamattina, come ogni volta, le infermiere che rimproverano i vecchietti, che tendono ad accalcarsi al gabbiotto delle commesse, desiderosi che arrivi il loro turno. Li vedrete tutti ammassati al gabbiotto, anche se c’è appena appena spazio per una persona sola.

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Dopo la sconfitta

«Remulìn maché en s’passa», ma niente da fare: appena ricevuto il richiamo dalle acide infermiere, rielaborato un po’ il dolore del rimprovero, ritorneranno tutti lì dov’erano prima, spasmodici per l’attesa, attraversati da un un’emozione che è un miscuglio fra la gaiezza e la rassegnazione. Agli anziani non piace tanto farsi prendere il sangue, lo fanno perché lo devono fare, penserete voi, per monitorare la propria salute. Macché; prendete l’anzianotto più allegro e resistente di questa terra, e lo troverete lì. Non che sia una pratica piacevole quella del prelievo, tutt’altro, solo che qualsiasi occasione è buona per riunirsi e borbottare insieme il proprio disappunto. La comunità dei vecchietti sarà sempre lì, al martedì mattina, a brontolare frasi sconnesse aspettando il pranzo. Se doveste cercare qualche ottantenne che non si trova, provate lì e lo troverete. Il buon Remo aspetta il proprio turno in fila, provando a mantenersi calmo e a rispettare l’ordine. Ah, questi eroi! Questi nobili vecchietti! Se vedeste la loro faccia, i loro occhi: quanta emozione scorre sui loro sguardi, quanta animosità, non vedono l’ora di entrare dall’infermiere. Qualcuno che non ce l’ha fatta a sopportare quella interminabile coda viene porta-

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IL CALAMAIO IN PROSA

to a spalla dai commilitoni suoi coetanei verso l’uscita e fatto rinvenire. L’emozione è forte. Si stringono fra di loro per farsi coraggio, cercando di dissimulare l’inquietudine. Ah, questi partigiani della vecchiaia! A testa alta e con lo sguardo più fiero che possono guardano là, lontano, verso la porta che ne mangia uno alla volta e che li risputa col braccio fasciato. «Dai Remulìn, pasarà anca questa». «Ehh». Man mano che la colonna avanza, il buon Remo coi suoi commilitoni trova spazio nel salottino adiacente alla stanzetta dei prelievi. Lì riposeranno le loro stanche membra seduti. Quelli che hanno raggiunto finalmente il loro turno e lasciano la sedia per recarsi là, oltre la porta, scambiano un’occhiata significativa con l’altro che lo va a sostituire. Rimangono fissi a guardarsi, quasi lacrimano: sembra un giuramento. Implicitamente si stanno giurando di essere sempre fedeli l’un l’altro, nobili compagni di “sangue”. Nel salottino iniziano a crearsi dei gruppetti con l’obiettivo di narrare nobili gesta del recente passato. Si sente un signorotto distinto dire chiaramente: «La smèna scórsa c’era mén gent, pensa ch’ho fat sol diec minuti d’fila e in un quattr’e quattr’òtt avev fatt». A questa affermazione tutti i vecchietti rispondono con ampi sospiri di incredulità. La maggior parte gli crede, ma c’è un piccolo gruppetto di scettici che pensa che si è inventato tutto. «Da véra!» ripete cercando di specificare in italiano, «dieci minuti e in un quattro e quattr’otto ero fuori» dice scandendo bene la frase. «Ennè pusìbil» si sente gridare da dietro. «En dì le casèt» grida un altro scettico cercando di frenare gli entusiasmi. «Vél giur, eravèm in tre». A quest’ultima frase tre signori se ne vanno indispettiti, non disposti a credere al millantatore. Abbandonano la fila che occupavano già da un’ora, spinti dall’onore ferito. Alcune signore non riescono a tenere l’emozione che gli ha provocato il racconto e svengono. Solo un vecchietto reagisce male: cerca di avvicinarsi al narratore per picchiarlo ma lo frenano in tempo. Lo tengono a forza due signori che assieme fanno appena appena centocinquant’anni. Vogliono portarlo fuori, ma lui cerca di resistere sbracciandosi e urlando: «Sei un terrorista, semini terrore... vergognati!»

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Dopo la sconfitta

Una volta riportato l’ordine e calmati gli entusiasmi ritorna la tensione dell’attesa nei loro cuori inquieti, mentre il ritmo incalzante dei prelievi decima uno ad uno quei nobili signori. È arrivato il turno del buon Remo. A schiena dritta, per quel che può, entra dall’infermiere che lo fa sedere. Dopo che gli ha trovato la vena gli infila la siringa e gli prende il sangue. Dieci secondi in tutto. Soddisfatto per la prova superata esce dalla porta trionfante, con la faccia contratta in un’espressione di spavalderia e sicurezza. Si ferma sull’uscio e guarda tutti, uno ad uno, negli occhi. Gli altri rispondono allo sguardo, estasiati, con gli occhi luminosi e pieni di rispetto. Prima di fare un solo passo alza solennemente il braccio fasciato, che si tiene con la sinistra, e lo mostra a tutti. I più forti, quelli che sapevano di riuscire a stare in piedi, si alzarono e andarono a complimentarsi. Una lunga cerimonia occupò il buon uomo per una decina di minuti. Baci sulle guance e strette di mano commosse: «Bravo Remulìn, anca questa è fatta». «Ehh». Così, alle undici, dopo ben tre ore di attesa, Remo se ne può andare felice. Si rimette il cappotto, il cappello e si prende i complimenti dei suoi commilitoni. «T’ha fat mèl Remulìn?» gli chiede uno dei pochi rimasti. «Ehh». Mi permetta il lettore di specificare quest’ultimo monosillabo, uguale, sì, al primo che ho già spiegato, ma con tutt’altro significato. Eh già, perché questo “ehh” è profondamente polisemico, ed è impossibile non comprenderne la differenza. Mentre il primo ha un’intonazione bassa, tendente ad assopirsi appena lo si è pronunciato, questo va intonato in tutt’altro modo: un primo suono tenue che finisce per ingigantirsi ed ampliarsi, fino a superare di un’ottava quello precedente, e può assumere significato di affermazione. C’è poi anche quello di negazione, che si pronuncia in modo perentorio e deciso, ma non è questo caso. Poi, a volte addirittura, affermazione e negazione possono confondersi in altre intraducibili risposte. Dunque la traduzione sarebbe pressappoco così: «Sé, m’ha fat mèl. Fóra fà frédd e me sò ròtt i cojoni, ma sa vu fè? Questa è la vitta becamòrt, prim ó pói ce tòca morì mà tutti».

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IL CALAMAIO IN VERSI

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Dopo la sconfitta

Valerio Magrelli Ego humus

Ogni tanto mi telefona il mio amico malato. Dovrei dire piuttosto “un” mio amico malato, visto che non è il solo. Ma lui è diverso dagli altri, è “il mio amico malato”. Da quanto lo conosco? Non ne ho idea. È un poeta, e abbiamo letto spesso insieme. Quando? Venti anni fa? Facciamo pure trenta - mezza vita. E lui, nel frattempo, ammalatosi, ha cominciato a chiamarmi, ogni tanto. Rispondo sempre, ovunque. Resto a sentirlo a lungo; resto a sentirmi a lungo. Se lui è malato, io che cosa sono? Perché mi cerchi? Per ricordarmi che anch’io sono malato? Non come te, ma quasi, dolce mia ombra sfregiata. In Ego humus si percepisce un riverbero di letteratura classica, un riverbero nobile, aggiungo. Nei temi (l’amicizia, l’amicizia in poesia, la meditatio mortis), nell’andamento narrativo venato di domande, non tutte retoriche, nella passione e nella commozione che frenate e tenute in equilibrio si rompono nel passaggio finale dal “lui” al “tu”, e infine nel titolo, che evoca al contempo il classicissimo tema della sepoltura e della fecondità. Poi, come accade spesso nelle poesie di Valerio Magrelli, troviamo un punto morto, una sorta di momento di sospensione, un intervallo, una sfasatura dove il poeta colloca il centro concettuale della lirica. Qui i due versi quasi avvoltolati su se stessi

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IL CALAMAIO IN VERSI

Resto a sentirlo a lungo; resto a sentirmi a lungo interrompono un flusso narrativo prosastico e quotidiano, se non banale: ma ecco è il momento in cui tutto si ferma e nel silenzio metafisico le cose (non importa se un sasso, un vecchio termosifone o l’io del poeta) cominciano a irradiare significato. Se in altri poeti si può parlare di poesia in movimento, per Magrelli parlerei di poesia dell’immobilità, anzi di poesia nell’immobilità: è nell’immobilità che il poeta in ascolto ci indica la freccia di Zenone in volo e di guardare meglio, di pensarci bene. Lorenzo Carnevali

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Dopo la sconfitta

Daniele Piccini “Aveste... un lampo... di felicità...?”. Fanno un sorriso, non di scherno, anzi: sorridono di quel sorriso antico trapassato da spini, da sconforti. “Ancora non lo vedi?” voglion dire, ma come con dolcezza, una dolcezza fatta eterna per essere sicura. “Di nuovo ci domandi?” – mi direbbero, ma miti mi sorridono in attesa di me, come di tutti quelli spersi. “Aveste... avete avuto mai... un lampo... anche una volta... di felicità...?” Trepidi fanno forse per risposta un pigolio divino, in un manto di notte che ci unisce al fiato delle bestie. La poetica di Daniele Piccini si rivolge al quotidiano affilandolo con lo sguardo benevolo della trascendenza. L’obiettività del dire non si perde nella pascoliana effusione dell’io, ma persegue, per così dire, un’epistemologia poetica in grado di svelare una verità più ampia (seppure non escludente) di quella contenuta nelle scienze empiriche. L’urgenza di chiarificazione esterna si lega allo spirito del poeta nella ricerca del costante affratellamento degli esseri nella e con la creazione. Le cose, gli amici, gli affetti, il rapporto con il padre sono permeati dal sentimento dell’ulteriore che tenta di inquadrali nel qui, riconoscendone contemporaneamente la prova dell’altrove. Per dirla con Heaney, tutto ciò che si può conoscere è una porta sul buio, uno spazio sospeso di condivisione e mistero, che per l’idea lirica di Piccini diviene l'estrema conseguenza di ogni sentire umano. Alberto Fraccacreta

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IL CALAMAIO IN VERSI

Stefano Iucci Mark Strand scrive nessuno sa cosa canterà nel momento della fine. Anche dell'inizio nessuno sa cosa è stato, se già vivevo uscito dal grembo o se era un'altra morte quella della nascita perché il canto di sirena della fine comincia dal suo inizio e non se ne accorge. Allora metti il tuo abito migliore e scendi con me verso il mare. Tira fuori il filo di perle lucida smalto e rossetto e indossa il vecchio vestito arancione. Vedrai che i saggi lampioni s'accendono anche d'estate a ricordare la fine del giorno e qualche goccia ancora riverbera tra le pozzanghere di rena quasi asciutte. Quest'acqua che non passa anche col caldo è il segno, è tutto liscio e non scorre niente: ovunque è fermo. Tracce liquide corrodono l'asfalto del lungomare che si consuma del giorno, noi le seguiamo come fanno i bambini a occhi chiusi nei percorsi immaginari che si perdono tra le ortogonali delle piastrelle e i sogni della notte. E forse siamo in pace.

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Dopo la sconfitta

Valerio Orlandini Ciclicamente le pietre avanzano sopra i bordi scoperti del tempo, e dentro involucri si agitano rimasugli e ultime mete. Le sentinelle si avvicendano oltre le zattere che segnano il confine, a volte affogano con allegria tra i riflessi del sole di settembre. *** La sciarpa di alpaca si è confusa con lentezza nel nulla di urla bianche: nemmeno si è sciolta insieme alla neve nell’ignavia del sole di febbraio, è ancora qui. Sa del vino aperto lasciato mesi in dispensa e dei giorni della vigilia concessi a parenti fittizi. Perde fili ad ogni avvento, non li recupera tra la fatica ostentata nei giorni dell’attesa. Va su binari non più paralleli il treno nel paese delle nevi. ***

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IL CALAMAIO IN VERSI

L'eco è una rispondenza che dimentica la sua sorgente, la trasforma contro la volontà del fabbro. Controllare le parole è difficile, impossibile trattenere le redini dei loro effetti. Ogni impronta è un marchio a fuoco che traccia i suoi contorni su una pelle che gli altri vedono liscia. Come ombra svanita al sole fievole di luce elettrica, si pensa basti accendere solo una lampadina per elidere ogni errore, dimentichi degli echi. Le rispondenze perfette non sono rivolte ai nostri destini, una barca che naufraga improvvisa in mezzo ai flutti. Temiamo gli echi più delle parole stesse: essi hanno l'indifferenza che le parole non possono avere.

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Dopo la sconfitta

Paolo Musano Come se fossi nuda. Poesie d’amore

1 Ti sei detta e tradita nel silenzio che possiede, rapita da quello che non capivi perchÊ troppo vero. 2 Nascosta in un riflesso, appena sfiorata, diventavi un presagio: Non esisteva modo di trovarti senza dimenticare. 3 Eri anti-materia: mutavi nel tuo contrario, appena mi avvicinavo. Cercavo il tuo sguardo, ma non c’eri.

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IL CALAMAIO IN VERSI

4 Non sempre le tenebre sono l’anticamera del vuoto. A volte la luce è molto più sottile di quello che non c’è. Tutto quello che si specchia appartiene all’uomo (la perfezione non si interroga). 5 Come la luce di una finestra in piena notte, sei stata l’illusione che il buio non avesse bisogno di ombre per celare i contorni mutevoli delle cose. 6 Da quando non ci sei lo sguardo vaga inquieto e non può posarsi.

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Dopo la sconfitta

7 Il desiderio logora l’avvenire: nel non detto l’amore si consuma. 8 Nel tramonto che si ripete tragico c’è un sole impossibile che sorge con te. 9 Ridicolo l’uomo che, aperto l’orizzonte, mima il moto delle stelle. 10 Dell'involto nulla è perduto. 11 Laddove si era perso Dante, non riuscendo ad arrampicarsi per la mani troppo unte di unguento o vasellina (il suo segreto era sopra un marciapiede), Courbet aveva trovato, senza sforzo (aprendo gli occhi) l’origine (e la fine) del nostro mondo, incomprensibile nella sua apparente dualità.

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IL CALAMAIO IN VERSI

C’è ancora chi crede che il problema fondamentale dell’esistenza sia la persistenza dell’attrito. 12 Non posso più cercarti e allora mi accontento di serbarti come un sogno quasi dimenticato. 13 Nella trama dell’ombra sempre un motivo che ci appartiene. Quando ho scritto questi versi credevo di essere innamorato. A essere sincero, in quegli anni urbinati, come Paolo Volponi, mi capitava di innamorarmi piuttosto spesso. In realtà non era amore. Raccoglievo i pezzi. Non mi conoscevo. Cercavo risposte. Soprattutto andando alla deriva. Col tempo ho capito che l’amore, quello vero, è fatto di assenze e presenze. All’epoca mi nutrivo soprattutto delle prime. Dice Eugenio Montale: “Ma è possibile, lo sai, amare un’ombra, ombre noi stessi.” Avevo bisogno di idealizzare, perché, come scrive Roland Barthes: L’innamorato appagato non ha alcun bisogno di scrivere, di trasmettere, di riprodurre. Sfogliando alcuni vecchi taccuini, ho trovato quest’annotazione (con parole non so se mie o di Barthes, visto che spesso cercavo consolazione nei Frammenti di un discorso amoroso) che racchiude bene l’intento di queste poesie: Se il mio vuoto sarà colmato, se la mia attesa sarà risolta, se il mio dubbio sarà sciolto, di che cosa potrò mai scrivere? Il mio essere nella concretezza non ne avrà bisogno (non avrà bisogno di essere scritto, perchè sarà già determinato), ma quando comincerà a svuotarsi di nuovo, la sua affermazione, ancora una volta, sarà la mia necessità. Paolo Musano

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Dopo la sconfitta

Alessandro Zaffini Poesie dall’al di là

tutto si è compiuto, la strada tagliata dai fantasmi di scelte scartate, gli atolli sprofondati lasciano straniero l’amore di una volta mostro della domenica, terrore onirico le mani, stoiche nel tratto vagolano adesso, pulviscolo tutto è stato detto, la cassa batte a lutto nelle batterie, le vie storiche, le catapecchie e i bar con le sconosciute, le luci basse – tutto odora di noto, la profezia si avvera ad ogni incrocio fornisce dati deprimenti lo scrupolo empirico e sono davvero troppo poche le parole e incapaci di mettersi in fila per il romanzo del mondo le persone, oh, tanto banali da fornire ispirazione giusto per la propaganda cattolica o grillina ma fosse un problema d’ubicazione non è solo la Chiesa, il borghesume, la plebe, la musica o i giovani: io stesso sono in ritardo su me stesso, tanto da non ammettere più desideri, nemmeno gastronomici le storie di tutti presagiscono il ronfare disturbato di chi si ingozza nelle pause e tira la carretta senza romance poesia strangolata, eccomi nell’al-di-là eppure respiro

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IL CALAMAIO IN VERSI

è morto un altro barbone al parco, l’alba e un passante l’hanno colto con la faccia piantata nella volta siderale che andava ormai imbiancandosi senza scampo per altre diuturne miserie sì, ma lui è diverso era giovane laureato in filosofia insegnava (anni fa), congelato coi negri trattati ad ostriche e sciampagne a due isolati gli italiani questo devono aspettarsi ma no, aveva casa poteva tornarci quando voleva, soltanto non credeva più in se stesso era solo era molto depresso la sofferenza negli occhi nessuno se ne accorge senta, era molto amato, nessuno lo abbandonava ma è difficile se ci si vuol male se si è determinati a dormir fuori, anche se si ha casa, anche sottozero si fermava a parlare coi ragazzi del marxismo, della strada scontroso, sempre ubriaco ma apprezzava la mia mente ha detto di conservarla non sono andato al funerale, però una volta ha interrotto le riprese lì al parco tirando giù i calzoni ha detto che aveva una ragazza

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Dopo la sconfitta

fa la ceramista, chissà se è vero o se l’ha lasciato, non so perché aver pietà di questa vita se non si esime dal commentare nemmeno i propri decessi?

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IL CALAMAIO IN VERSI

Andrea Milano Al Battista

Uomo con ali e riso d’uccello che t’è stata data facoltà di volare e di cantare vola sul mio deserto, vienimi a battezzare. Fammi il bagno, come allegramente faceva mia madre cantando che in una biblica ispirazione sgorgava dal suo palmo concavo limpide gocce sulla mia fronte. Lascia divenir mio nido il tuo palmo, fonte che eterna disseta fammi il bagno e non lasciarmi solo. Allora non più mangerò locuste non sarà più prigione quest’infinito spazio aperto e non sarò più voce che grida nel deserto.

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Dopo la sconfitta

Non avremo più canzoni

Non avremo più canzoni, i fuochi taceranno nei falò e attorno ai monti, se ancor faremo strage ancora i morti. Non avranno più corde le chitarre noi non avremo più voce – nemmeno il coraggio avremo –, non avremo più canzoni quando la terza guerra mondiale che aleggia nell’aria in settembre che piove, goccia pesante che cade ed esplode, come le bombe. Mi manca il banco dei pesci stasera; poi la riviera, mia madre che dice: tutto tornerà, tornerà com’era.

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CONSIGLI PER LA LETTURA

Spaziotempi minori di Mario Laghi Pasini di Monica Bravi

Il tempo che ora trascorre sibilando via contro balconi inaccessibili lungo profonde valli inattese non mi appartiene più e mentre tu silenziosa ti affatichi per le sue scale dove già il primo passo definitivamente separa chi sale e chi resta io non posso seguirti e nell’ombra svanisco

I

I quadri di Edward Hopper, di recente ospiti di Palazzo Fava a Bologna, hanno una speciale caratteristica: restituiscono una suggestione filtrata, a tratti onirica, pur attraverso un’immagine vivida e una pennellata quasi tangibile, tanto che l’osservatore ha l’impressione di trovarsi dentro un sogno dalla parvenza reale o all’interno di una pellicola cinematografica. Una sensazione molto simile pervade il lettore che si avvicini ai versi di Spaziotempi minori, raccolta poetica di Mario Laghi Pasini edita da Interlinea, con prefazione di Alessandro Fo. «Macchia sperduta / delle colline senesi / verso il mare / viaggio nella luce / immaginata / al cadere del sonno / ed ora sepolto / chissà dove / nella memoria / Ero solo / ricordo nei pressi / di Castiglione / che Dio sol sa». Nella poesia di Pasini il paesaggio toscano si trasfigura, diventa luogo sospeso, al contempo scenario di vita quotidiana, mutevole e transitorio, e luogo della memoria, stabile, seppure sfumato. Anche la presenza umana si trasfigura, trascinata con sé e resa indistinta dalla vita che avanza senza sosta lasciando indietro il poeta, in una rilettura rovesciata, originalissima, del mito di Orfeo ed Euridice, che attraversa alcune delle migliori poesie della raccolta. La paura di rimanere indietro, che altrove è ossessione della perdita, lascia qui il posto alla consapevolezza – se non addirittura all’accettazione - di non poter scavalcare i «balconi inaccessibili» del tempo e di non riuscire più ad affaticarsi lungo le scale che, montalianamente, separano «chi sale e chi resta». Il ritmo frammentario, intermittente del verso da un lato sem-

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Dopo la sconfitta

bra vicino alla comunicazione matematica ed informatica, coerentemente con la formazione dell’autore, dall’altro sembra voler tradurre proprio lo scorrere incerto e zoppicante del tempo. La sintassi segue il ritmo del pensiero, che si fa strada fra suggestioni mitiche, reminiscenze letterarie, flash di vita quotidiana, echi del cinema bergmaniano. Con Spaziotempi minori non siamo di fronte ad un poeta ‘laureato’, ma neppure ad un giovane dilettante. Si tratta piuttosto dell’esperienza di vita di un uomo non più giovane prestata alla poesia, con atto generoso ed umile, ma consapevole. La poesia viene scelta come specchio attraverso cui ‘vedersi vivere’, come strumento ermeneutico, di lettura e di conoscenza di se stesso – un «gioco del sé», come suggerisce il titolo della prima sezione. Di fronte al fluire delle contingenze, la parola poetica registra con precisione matematica, apponendo «provvisori sigilli», il rincorrersi incessante di momenti e luoghi apparentemente ‘minori’ di cui si ignora il significato, ma che non escludono ipotesi di senso. Il gioco del sé può diventare allora, forse, un gioco del se.

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