Rdp Numero 3

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La Resistenza Della Poesia DIRETTORE RESPONSABILE Giuseppe Ghini COMITATO DI REDAZIONE Sara Balleroni Monica Bravi Umberto Brunetti Alberto Fraccacreta Matteo Giunta Alessandro Zaffini HANNO COLLABORATO Filippo Camagni Riccardo Marchionni Salvatore Ritrovato VIGNETTE ED ILLUSTRAZIONI Alessandro Zaffini FOTOGRAFIE Guido Dall’Olio Pag. 12, 16, 20, 31 PROGETTO GRAFICO La Resistenza della Poesia Logo di Beatrice Schena ABBONAMENTO ANNUALE Versamento di euro 15,00 IBAN IT82Z0200868703000102089414 intestato a La Resistenza della Poesia periodico quadrimestrale REDAZIONE Piazza Rinascimento, 7 - 61029 Urbino email: laresistenzadellapoesia@gmail.com www.laresistenzadellapoesia.it AUTORIZZAZIONE Tribunale di Urbino, N. 2/2012 STAMPA Litocolor S.n.c. Via Terni, 30 - 61122 Pesaro


La Resistenza della Poesia Redress of poetry EDITORIALE

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La poesia come ‘riparazione’ di Monica Bravi

ZAMPILLI LETTERARI

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La poesia e l’‘irreparabilità’ della storia di Salvatore Ritrovato

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Dalla parte di Carmen di Sara Balleroni

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Gli uomini-libro di Riccardo Marchionni

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Una riparazione al ‘torto subito’ di Alberto Fraccacreta

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Elogio della leggerezza di Filippo Camagni

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Il rito della commedia di Matteo Giunta

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La letteratura come grande atto d’amore di Giuseppe Ghini

IL CALAMAIO SCALOGNATO

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Vacanza toscana di Dina Maria Laurenzi

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Venerdì di Alessandro Zaffini


Anno I / Numero III/ Dicembre 2012 Redress of poetry

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1째 Tentativo di rifacimento di Matteo Giunta

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Il confine di Eden di Giulio Iovine

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Sfinge di Caterina Pentericci

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Non sono stato io di Giacomo Sensolini

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Charms e il pastrano di Camus

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Ri(am)arsi di Riccardo Marchionni

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Things behind blue glass di Letizia Zaffini

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Apatica neve di Umberto Brunetti

CONSIGLI PER LA LETTURA

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Odissea remix di Lorenzo Carnevali

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Un romanzo per saldare i debiti con la mamma di Giuseppe Ghini


REDRESS OF POETRY

La poesia come ‘riparazione’ di Monica Bravi

Dicono gli annali: quando i monaci di Clonmacnoise eran tutti in preghiera dentro l’oratorio, sopra di loro, in aria, apparve una nave. L’ancora arava dietro tanto in basso che si agganciò alla ringhiera dell’altare e poi, mentre il grosso scafo rollando si fermava, uno della ciurma scese a strattoni per la corda e lottò per disimpigliarla. Niente da fare. «Non sopporta la nostra vita quaggiù e annegherà», disse l’abate, «se non l’aiutiamo noi». Detto fatto, la barca libera fece vela, e l’uomo risalì dal meraviglioso come l’aveva visto lui. Seamus Heaney, Quadrature

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a poesia è una visione sfuggente, un tentativo di equilibrare uno squilibrio, di «premere contro la pressione della realtà» di quaggiù attraverso l’immaginazione. Un atto politico, dunque. Politico non già nel senso di militante, come vorrebbero invece i «fischiatori», secondo la definizione provocatoria che Seamus Heaney, il poeta e Premio Nobel irlandese autore del saggio La riparazione della poesia, attribuisce a quanti vorrebbero addossarle una forza sovversiva, un’azione diretta nei confronti di quell’errore che è la realtà. La poesia non agisce sull’errore, ma «al di là dell’errore», non sconvolge la realtà ma costruisce un’alternativa attraverso la lingua che crea, l’immaginazione che salva, la finzione che ripara. Scrive Heaney: «La poesia fornisce un sorso di acqua sorgiva di conoscenza trasformata, e colma il lettore con un senso momentaneo di libertà e integrità.»1 Il sorso d’acqua consiste proprio nella contemplazione dell’alternativa che ci permette di vivere un’esistenza più piena, un’alternativa che è finzione ma non utopia, perché creata in un preciso tempo e luogo,

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1 S. Heaney, La riparazione della poesia. Lezioni di Oxford, a cura di M. Bacigalupo, Fazi Editore, Roma 1999, p. 10.


EDITORIALE

dunque dotata di un suo peso in relazione a quel tempo e quel luogo, perfettamente in grado di rapportarsi con quella specifica realtà. Non potremmo confrontarci con il mondo reale senza la mediazione di questa finzione, che ricorda da vicino le parole di Nietzsche sull’arte: «Ed ecco, in questo estremo pericolo della volontà, si avvicina, come maga che salva e risana, l’arte; soltanto lei è capace di volgere quei pensieri di disgusto per l’atrocità o l’assurdità dell’esistenza in rappresentazioni con cui si possa vivere.»2 Ciò che per Nietzsche è l’orrore del dionisiaco insito nell’esistenza e sublimato dall’arte, per Heaney è lo squilibrio, l’«inquietudine dolente» della realtà, riparata dalla poesia. La riparazione, in quanto gesto di speranza, implica una precisa responsabilità del poeta, il quale è chiamato all’arte dall’esigenza di dare una risposta, che potrà essere contraddittoria, imperfetta o restare inascoltata, ma non per questo sminuirà il significato della promessa. Se il potere della poesia è quello di riparare la realtà, compito del poeta sarà quello di riparare la poesia, di difenderne il valore in quanto poesia, di ‘disimpigliare’ la corda della nave e impedire all’uomo di annegare, come ben comprendono gli ‘uomini-libro’ di Fahrenheit 451, i quali reagiscono ad un regime della produttività che incendia i libri perché vede in essi la causa della malinconia (Gli uomini-libro: salvare la letteratura per salvarsi). Questa la potenza della creazione poetica che, attraverso l’appagamento che scaturisce dalla bellezza della parola, agisce sulla realtà e la ripara, forte di una complicità e ‘interscambiabilità’ con il lettore realizzata sul piano emotivo più che su quello razionale (Dalla parte di Carmen).

2 F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano 2008, p. 52.

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REDRESS OF POETRY Questa, infine, la forza del teatro, ‘uno degli ultimi riti rimasti nella nostra società’, attraverso il quale il pubblico si ritrova a respirare insieme di fronte all’atto rappresentativo, che supera lo squilibrio e l’individualismo in virtù di un’ideale armonia (Intervista a Carlo Boso), di una levitas salvifica e trascendente (Elogio della leggerezza). La poesia vera, la poesia che ripara, riesce a sublimare il torto di un ‘amore faticoso’, il dolore dell’essere ‘stranieri nel mondo’ (Una riparazione al torto subito. La poesia dell’ultimo Piersanti), offrendoci un riparo sicuro e vitale, che è finzione ma non evasione (La poesia e l’‘irreparabilità della storia’).

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ZAMPILLI LETTERARI

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REDRESS OF POETRY

La poesia e l’ ‘irreparabilità’ della storia di Salvatore Ritrovato

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l termine ‘riparazione’ è entrato nel lessico della poesia solo da qualche anno, ma è un concetto antico. Pare che il rempaira del primo verso della famosa canzone di Guido Guinizzelli – «Al cor gentil rempaira sempre amore, / come l’auselletto in selva a la verdura…» – vada interpretato così: ‘[l’uccellino] ritorna [nella selva] come a sua stanza…’,1 cioè vi si rifugia, vi si ripara come in un luogo sicuro, quasi fosse sua ‘patria’ (com’è vero che rempaira, di origine latina, non viene da reparare, bensì da repatriare, ‘ritornare [re-] in patria [patriam]’, tramite il prov. repairar). Rempaira contiene l’idea della ricerca di un riparo, e va oltre: quel riparo è simile a una patria. Mi piace pensare che il lavoro del poeta sia analogo: mettere al sicuro la sua vita, e quella degli altri, con le parole, con le immagini, con i versi che egli sa ‘trovare’ (ancora un concetto antico), onde «procedere – possiamo dire con Seamus Heaney – più avanti

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dentro noi stessi».2 Sul senso di ‘riparazione’, che traduce redress, è tornato Heaney in una raccolta di lezioni tenute a Oxford, The Redress of Poetry, dedicata a scrittori e poeti della letteratura di lingua inglese, in cui difende la poesia da varie infondate richieste (come quella di cercare l’impegno a tutti i costi), e ribadisce il fatto della sua sostanziale autonomia (che non significa autoreferenzialità). La poesia parla di eventi che non producono nuovi eventi, per questo non fonda una ‘prassi’. Se questo può apparire ad alcuni un limite, a dire il vero è una opportunità. La poesia può ‘riparare’ al male, nella misura in cui proietta il suo sguardo, con una prospettiva ‘inclusiva’, non esclusiva, sulle cose. Ma c’è anche un’altra ragione: la poesia non è un’arte applicata. Se lo fosse, io non amerei il silenzio come lo amo quando leggo o scrivo un libro di poesia. La poesia non vuole rompere il silenzio, ma santificarlo: è come una

1 Si veda G. Contini, Poeti del Duecento, Ricciardi, Milano-Napoli, 1960, v. II, t. II (Dolce stil novo), p. 460. Per l’etimologia cfr. M. Cortelazzo e P. Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana. 4/O-R, Zanichelli, Bologna, 1985, s.v. 2 «Il mondo è diverso dopo che è stato letto da uno Shakespeare o una Emily Dickinson o un Samuel Beckett, perché è stato accresciuto dalla loro lettura» (S. Heaney, Gioia o notte. Cose ultime nella poesia di W. B. Yeats e Philip Larkin, in La


ZAMPILLI LETTERARI preghiera che striscia sulla terra simile ad una lingua di parole e si propaga sciogliendo i legami coatti e artificiosi fra gli uomini, esaltando quelli spontanei e autentici, creativi; una preghiera contro i rumori assillanti e frastornanti del mondo. Insomma, la poesia ci chiede di leggere il silenzio, e poiché di silenzio in giro ve n’è sempre meno, di poesia è sempre più difficile parlare. E si intuisce, a questo punto, come la poesia si offra come un ‘riparo’ e insieme come un mezzo per ‘riparare’; e come i poeti non debbano cessare di «riparare la poesia in quanto poesia, di sostenerla come categoria a sé, un’eminenza raggiunta e una pressione esercitata con mezzi propriamente linguistici».3 Non si fraintenda però il significato di redress che Heaney illustra

appoggiandosi all’Oxford English Dictionary, citando un’accezione assai più comune di quella guinizzelliana.4 Da sempre la poesia non si sottrae all’obiettivo di poter ‘risarcire’ un’offesa o un torto subito, magari offrendo al lettore realtà alternative; ma v’è qualcosa di più, che appartiene al suo specifico linguaggio: citando Wallace Stevens, «Le parole di un poeta si riferiscono a cose che non esisterebbero senza le parole».5 Non è un gioco di parole. Forse vuol dire che il poeta inventa la sua realtà come l’uomo, dormendo, il suo sogno? Per essere tale, la poesia non dilegua in scenari metafisici, ma, come il sogno, che è un’attività del corpo, lascia tracce e indizi fisici di una nuova visibilità. E a proposito Heaney cita anche un passo di Jorge Luis Borges, dal Prólogo

riparazione della poesia. Lezioni di Oxford, a cura di M. Bacigalupo, Fazi Editore, Roma 1999, pp. 179-199, p. 194). 3 Heaney, La riparazione della poesia, in La riparazione della poesia, cit., pp. 14-32, 20. 4 Ibid., p. 30. 5 La citazione di Stevens, da L’angelo necessario (Heaney, La riparazione cit., p. 28).

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REDRESS OF POETRY alla sua Obra poética (1964): «L’essenziale è il fatto estetico, il thrill, la modificazione fisica che ogni lettura riesce a suscitare. Questo forse non è una novità. Ma quando si abbiano i miei anni, le novità importano meno della verità».6 La lettura della poesia si ritorce fisicamente sul lettore, entra nel suo sistema percettivo presentandosi come un fatto ‘estetico’ (nel senso originario di aisthesis). Più che richiamare la poesia all’impegno, occorre celebrarne la ‘sensualità’, il suo entrare – improvviso, imprevedibile – nel nostro campo visivo, uditivo, olfattivo, come immaginazione che supera la pressione della realtà, e alla fine preva-

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le sulla realtà nel momento stesso che la osserva.7 Insomma, la poesia non è letteratura d’evasione, ed è più di una risposta immaginaria alla ‘irreparabilità’ della storia. Alla fine del suo saggio, Heaney torna sull’accezione di redress e propone un’altra accezione, propria del lessico venatorio: «ricondurre il segugio o il cervo al percorso prestabilito»; forse, commenta il poeta, si tratta di «trovare un percorso di fuga per una capacità innata» dell’uomo.8 Dove l’uomo può ‘riparare’, cioè rempaira, come in un luogo accogliente e giusto. Come l’auselletto in selva a la verdura.

6 J. L. Borges, Carme presunto e altre poesie, intr. e trad. di U. Cianciòlo, Einaudi, Torino, 1969, p. 47. 7 Cfr. Heaney, La riparazione della poesia, cit., p. 194. 8 Ibid., p. 31.


ZAMPILLI LETTERARI

Dalla parte di Carmen Sequestri cerebrali e ritorni al primitivo di Sara Balleroni

In breve, troppo spesso ci capita di dover affrontare dilemmi postmoderni con un repertorio emozionale adatto alle esigenze del Pleistocene. Daniel Goleman, Intelligenza emotiva

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i è capitato, sere fa, di andare a teatro a vedere la Carmen. Ora, fuori di metafora, la Carmen è una stronza: a quel povero Don José gliene fa vedere di ogni tipo; quello è un poliziotto e lei lo fa mettere in carcere, poi lo convince ad andare a vivere con lei sulla montagna, da contrabbandiere, e alla fine, lo lascia pure per un torero. Incredibile. Incredibile soprattutto che, dopo tutte queste cose, quando alla fine Don José uccide Carmen,1 a noi dispiace un sacco: le volevamo bene, a quella sgualdrina, e viene da chiedersi perché. Così come viene da chiedersi perché, per fare un esempio di un altro tipo, si possa simpatizzare con

il personaggio di Jack Lo Squartatore, ma non con l’uomo, quello senza nome che nel 1888 andava in giro a sventrare le prostitute, anche se lo guardiamo nella luce più umana possibile. Io non credo che la differenza sia tanto nel soggetto che scatena in noi l’emozione (e l’empatia), quanto nella nostra predisposizione verso la situazione. Andiamo con ordine. Emozione deriva dal latino ex-moveo (muovere da, trasportar fuori, far nascere) ed è esattamente un’emozione quella che proviamo quando stringiamo i pugni perché un carabiniere a caso ci ha ucciso la Carmen. L’emozione è la reazione ad una modificazione psico-fisiologica, o stimolo emotigeno, che il

1 Giusto per non svelare il finale.

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REDRESS OF POETRY

nostro cervello gestisce in questo modo: lo stimolo viene recepito dal talamo, da qui mandato alla neocorteccia, che ci permette di comprenderlo in modo razionale, e poi arriva all’amigdala, che scatena la risposta emotiva. Questa, in breve, è la teoria delle emozioni che Walter B. Cannon e Philip Bard, un fisiologo professore ad Harvard e un suo dottorando, hanno elaborato negli anni Venti in risposta alle precedenti ipotesi (quelle di William James e Carl Lange), secondo le quali la risposta emotiva sarebbe stata invece una conseguenza della reazione fisica: la teoria di Cannon-Bard spiega che si trema perché si ha paura, mentre prima si sosteneva che si avesse paura perché si tremava. Joseph LeDoux, neuroscienziato della New York University,2 ha poi scoperto che esiste un collegamento più breve, una specie di scorciatoia, che collega il talamo direttamente all’amigdala,

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in caso di stimoli emotigeni particolarmente forti: in questo modo abbiamo possibilità di reagire ancora prima di capire che cosa stia succedendo, un po’ (anche se pochissimo) prima che il segnale arrivi alla neocorteccia. E questo è circa il motivo per cui, quando sentiamo un rumore all’improvviso, saltiamo sulla sedia ancora prima di sapere se è stato un serial killer o il nostro coinquilino.3 Si tratta di un residuo preistorico: indubbiamente utile, certo, perché spesso ci evita di finire sotto i tram, ma che viene da un passato in cui le frazioni di secondo che separano la risposta allo stimolo dalla sua comprensione razionale potevano effettivamente salvarci la vita. In situazioni di particolare sconvolgimento emotivo, inoltre, è dimostrato che l’insieme delle reazioni che l’amigdala coordina (l’aumento del battito cardiaco, per dirne una), possono interferire

2 Tra l’altro anche cantante e chitarrista dei The Amygdaloids, una «science rock-band» il cui cd di debutto reca il significativo nome di Heavy Mental (2007). 3 E prima ancora di sapere che intenzioni abbia: non è detto che i coinquilini non siano pericolosi.


ZAMPILLI LETTERARI momentaneamente con le nostre capacità razionali. Goleman parla di «sequestro» della mente razionale,4 ma certo non c’è bisogno che nessuno ci dica che, quando ci arrabbiamo, siamo meno lucidi. L’emozione forte ci permette, per un momento, di staccarci dalla razionalità dalla quale altrimenti, in un contesto sociale come il nostro, raramente potremmo astrarci: scoprire interamente le nostre emozioni e permettere che le nostre facoltà razionali siano completamente offuscate ci rende estremamente vulnerabili; difficilmente ci troviamo in situazioni abbastanza familiari da permettercelo. Il «sequestro cerebrale», seppure per pochi istanti, ci porterebbe in uno stato simile a quello che è l’obiettivo della meditazione di tipo recettivo: l’assenza di pensieri; svuotare la mente da contenuti e immagini, allo scopo di raggiungere una maggiore consapevolezza di sé. Allo stesso modo la reazione emotiva permette di sfogare lo stimolo recepito, mentre se questo è bloccato dalla mente razionale, si accumula e genera stress. Recentemente, inoltre, il neuroscienziato portoghese Antonio R. Damásio ha dimostrato altre cose ben interessanti:5 è vero che l’emozione turba la razionalità, ma non è vero che questo influisca necessariamente in negativo sulle nostre capacità cognitive e relazionali. L’intuito, spesso, ne sa di più della ragione e, senza, finiremmo per essere irreparabilmente ottusi. Sempre Damásio ha inoltre

scoperto che la reazione emotiva non ha necessariamente bisogno di una modificazione psicofisica per verificarsi: il nostro corpo può reagire ad un’idea di minaccia esattamente come davanti ad una minaccia concreta, anche quando non ce ne rendiamo conto. Quando leggiamo un romanzo, o guardiamo un film, la nostra amigdala reagisce come se stessimo realmente vivendo quella storia, e la razionalità, quando siamo a tu per tu con un prodotto narrativo, può permettersi di cedere il passo all’emozione, perché non è un campo in cui sia in pericolo la nostra vita. Insomma, possiamo permetterci di abbassare le difese ed entrare in un sistema diverso, quello della storia, di cui ci fidiamo e nel quale su di noi non pesano aspettative sociali. Si attua, su un altro piano, il «sequestro cerebrale» di cui abbiamo parlato e che, come la meditazione, ci permette di prendere consapevolezza dell’emozione, viverla e reintegrarla nella totalità della nostra psiche. Di fronte all’opera d’arte possiamo permetterci di provare le emozioni più forti (e anche le più turpi, le più inaccettabili), senza difendercene o giustificarci; possiamo stare dalla parte di Carmen, di Jack Lo Squartatore, di Iago: possiamo entrare in contatto con una parte antica di noi, e restaurarci dall’interno.

4 D. Goleman, Intelligenza emotiva cit., p. 36. 5 A. R. Damásio, L’errore di Cartesio, Adelphi, Milano 1995.

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REDRESS OF POETRY

Gli uomini-libro Salvare la letteratura per salvarsi di Riccardo Marchionni

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ltre a essere una delle distopie più originali (e di maggior successo) mai ideate, e al di là di essere diventato col tempo un veicolo di protesta contro qualsivoglia forma di oppressione (alla stregua di 1984 o La fattoria degli animali), Fahrenheit 451 di Ray Bradbury è soprattutto una grande storia di salvezza individuale e collettiva. L’individuo, qui, è Guy Montag, che di mestiere fa l’Incendiario; brucia i libri, che, nell’universo tecnocratico nel quale il romanzo è ambientato, sono visti come la causa principale di ogni eversione, squilibrio sociale e, soprattutto, della malinconia in grado di attanagliare l’uomo. E renderlo improduttivo. Uno scenario in cui l’autore delinea un’umanità schiava della tecnologia e della semplificazione brutale della vita che, nell’intento di nascondersi alla tristezza, è riuscita a dimenticare l’introspezione – se vogliamo, quell’amaro ‘dono’

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leopardiano del sentire poetico. Montag verrà poi messo di fronte alla natura distorta del suo lavoro e dell’asfissiante ordine sociale di cui è sostenitore e inconsapevole servo. Grazie a un incontro fulminante con la naturalezza dimenticata delle cose, incarnata nella giovane Clarisse McClellan, in Montag si innesca un processo di riscoperta che lo porterà a svelare le aberrazioni che lo circondano. Basta una sola, semplice domanda, «siete felice?»,1 e la ragazza scuote le fondamenta del vuoto mondo del protagonista. Ritornano dirompenti in Montag quelle domande che l’essere umano non può evitare di porsi; sono le costanti della ricerca filosofica, qui zittite dall’imperante superficialità; nello specifico dallo strapotere della televisione, dallo svago immediato e consumistico, e, sopra ogni cosa, dalla facilitazione della vita attraverso la tecnologia. Nell’esempio estremo di Beatty, il

1 R. Bradbury, Fahrenheit 451, Mondadori, Milano 1989, p. 12. La domanda, venendo posta nella società delineata da Bradbury, perde la sua potenza introspettiva, in quanto non utile.


ZAMPILLI LETTERARI comandante dei Vigili del fuoco: «la chiusura lampo ha spodestato i bottoni e un uomo ha perduto quel po’ di tempo che aveva per pensare, al mattino, vestendosi per andare al lavoro, ha perso un’ora meditativa, filosofica, perciò malinconica». La frenesia della semplificazione tecnologica nega all’uomo la volontà di sondare l’esistenza per cercarne il senso profondo e la voglia di chiedersi i perché, e non solo i come.2 Essa azzera le differenze, appiana le «montagne che ci scoraggiano con la loro altezza da superare»,3 e lo fa non in nome dell’uguaglianza dei diritti, ma di un’asettica quiete (lobotomia) del pensiero. L’atto del pensare, si sa, è potenzialmente un abisso che può condurre l’uomo alla disperazione.4 Avendo perso un mezzo storico e consolidato per essere trasmesse (i libri, in questo caso) le domande sopracitate scompaiono dalla mente di ognuno: in una società che dipende altamente dal supporto fisico e tecnico, se questo viene a mancare (a causa dell’evolversi dell’utilità e dei bisogni), anche il contenuto va in rovina. Ma non si parla solo di libri. Un altro sconcertante esempio di de-naturalizzazione della vita è il rapporto quasi inesistente tra Montag e la moglie Mildred; il protagonista, ormai sulla dolorosa strada della presa di coscienza, chiederà alla moglie di ricordarsi il luogo del loro primo incontro. La risposta sarà un fallimentare e grottesco «Non lo so».5 La dimo-

strazione che non solo i libri, ma anche tutti gli altri luoghi in cui ricercare un vero contatto con la vita, come il dialogo e le relazioni interpersonali, sono stati inceneriti dalle fiamme del progresso sfrenato. Ciò che resta sono risposte vuote e smemorate; dove avrebbero dovuto esserci la passione e la conoscenza, ora c’è uno scarto incombusto di rapporto, volto a perpetuare l’esistere, forse, ma di sicuro non il vivere. Montag si avvicina ai libri in quanto tracce di ciò che è stato dimenticato: essi non sono la fonte di quello che il protagonista cerca, ma ne sono la prova consistente e significativa. Sono l’ultimo appiglio, se la società in cui si vive accantona il significato della vita e la sua ricerca in favore di vuoti significanti. La letteratura, dunque, della vita è lo scriba fedele; ne è testimone di veridicità e valore. Le parole un tempo vive di coloro che hanno scritto costituiscono un esempio di salvezza che, attraverso il ricettacolo del libro, si oppone drasticamente alla rapidità con cui si dimenticano e si fanno morire le cose descritta in Fahrenheit 451. La strenua difesa della letteraturavita porta, di conseguenza, alla salvezza di se stessi e dell’umanità intera; Montag lo scoprirà sul finale del romanzo, fra i più potenti del Novecento, all’incontro con gli uomini-libro (così li chiamò Francois Truffaut nella sua trasposizione cinematografica). In questo processo di integrazione tra vita e letteratura, risiede la genialità di Bradbury: l’ultima

2 In un passaggio, il comandante Beatty riferisce a Montag della ‘scomodità’ delle domande che Clarisse McClellan poneva a scuola (ibid., p. 66): «Non voleva sapere, per esempio, come una cosa fosse fatta, ma perché la si facesse. Cosa che può essere imbarazzante. Ci si domanda il perché di tante cose, ma guai a continuare: si rischia di condannarsi all’infelicità permanente. Per quella povera figliola è stato molto meglio essere morta». 3 Ibid., p. 64. 4 Nelle parole di Beatty (ibid., p. 64): «Ecco perché un libro è un fucile carico nella casa del tuo vicino. Diamolo alle fiamme![…] Castriamo la mente dell’uomo. Chi sa chi potrebbe essere il bersaglio dell’uomo istruito?» 5 Poco dopo, il testo prosegue (ibid., p. 47): «Ma che buffo, Dio, quant’è buffo,

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difesa naturale è il corpo, contenitore primo della scintilla vitale, e dunque di quella culturale. Ognuno degli emarginati incontrati da Montag si è posto un obiettivo solenne: memorizzare, conservare e quindi diventare un libro. Ed è qui che la salvezza individuale del protagonista tende la mano alla collettività; diventando la Repubblica di Platone, o l’Iliade, o I viaggi di Gulliver, ci si porta dentro, salvandole, intere porzioni d’umanità. Per diventare l’Iliade bisogna anche essere Omero. E Achille. Ed anche Ettore e tutti gli altri, allo stesso tempo. Trovano voce in Fahrenheit 451 due concetti salvifici genuinamente ispirati alla letteratura americana. Sul piano dell’individuo, il percorso di ritorno alla naturalezza di Montag ricorda da vicino quello del Walden di Henry David Thoreau; la riscoperta di sé ha culmine nella foresta, dove, non a caso, vivono gli uomini-libro. Insieme col protagonista, tutti si metteranno poi in cammino (Walking…) verso ovest. Il controcanto collettivo pe-

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sca invece a piene mani dalla poetica di Walt Whitman: è proprio quel «I am large. I contain multitudes» della Song of Myself che si coniuga perfettamente nell’atto di farsi libro, perché insieme a un volume si contengono e si salvano tutte le vite ad esso collegate. Chi ricorda, sottrae qualcosa dal disastro frenetico della contemporaneità,6 e dimostra, in primo luogo a se stesso, che per salvarsi bisogna a propria volta lasciarsi dietro una testimonianza. «Ognuno deve lasciarsi qualche cosa dietro quando muore, diceva sempre mio nonno: un bimbo o un libro o una casa o un muro eretto con le proprie mani o un paio di scarpe cucite da noi. O un giardino piantato col nostro sudore. Qualche cosa insomma che la nostra mano abbia toccato in modo che la nostra anima abbia dove andare quando moriamo, e quando la gente guarderà l’albero o il fiore che abbiamo piantato, noi saremo là».7

non ricordare dove o quando si è conosciuto il proprio marito o la propria moglie!». 6 Nel romanzo, ciò è rappresentato, oltre che dalla tecnocrazia, anche dalla costante incombenza della guerra nucleare (le cui cause, come ogni altra coordinata storica e politica precisa, non ci sono date) che scoppia nel finale e dalla quale Montag riesce a sfuggire. 7 Ibid., p. 171.


ZAMPILLI LETTERARI

Una riparazione al ‘torto subito’ La poesia dell’ultimo Piersanti di Alberto Fraccacreta

vola il passero a branchi, scrolla il bianco dalle ali, ci entra dentro, il merlo infagottato sopra il ramo scopre il giallo-marrone della quercia, la sua foglia ostinata nell’inverno, e sono alla finestra vorrei di lì guardare la luce che trasmuta di ora in ora, e dopo che t’incendia la pelle e i rami, fare cena la sera con un resto di sole ancora dentro […] era un tempo gentile, un giorno colmo, le sorelle coi tuorli affaccendate, il padre aggiusta il pino, pareggia i rami, se fuma il cappelletto dentro il brodo la madre che ti chiama pacata e piano, no, non debbo fare niente, solo guardare

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REDRESS OF POETRY cade adesso la neve a tonfi spessi, scopre il frutto del cachi luminoso, è questo un giorno adatto solo a guardare, giorno sciolto dalla catena, sospeso e piano […] e tu non puoi più stare alla finestra, corso via dalla madre s’agita tra la pioggia Jacopo e aspetta vorrei restare al caldo, la neve intorno, qualcuno che mi prepari la minestra, e magari con la piccola Arianna giocare un’ora, tornare poi a quel vetro che m’innamora allaccio gli scarponi rassegnato, con Jacopo m’appresto alla battaglia, la corsa senza requie il gesto assurdo, e una tregua chiedo, una tregua soltanto, amore faticoso che mi schianti Umberto Piersanti, Amore faticoso1

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1 U. Piersanti, L’albero delle nebbie, Einaudi, Torino 2008, pp. 89-91.


ZAMPILLI LETTERARI

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oesie esemplari, per quanto concerne la ‘riparazione’ a un torto subito, sono tutte quelle che compongono la seconda sezione della silloge L’albero delle nebbie di Umberto Piersanti, edito da Einaudi nel 2008. Il poeta urbinate le raggruppa sotto il nome di ‘Jacopo’, il figlio «colpito da un grave disturbo»1 fin dalla precoce età. Nell’intera sezione alligna l’idea d’una guerra immaginaria, scatenata dai movimenti estemporanei ed imprevedibili del ragazzo: le sue corse improvvise e senza meta schiantano lo spirito del padre oramai invecchiato, che lo insegue a fatica. Il grande interrogativo ‘lirico’ del poeta verte tutto sul moto del difficile amore, l’amore faticoso. Piersanti desidera un’edenica tranquillità, la pax naturalis («bramo/ una domenica pigra/ tra i castagni»),2 in modo da poter fermare goethianamente gli attimi di riconciliazione con la natura, come in una ecloga. Ma non può: il dovere di padre lo ingiunge a lasciare il vetro che lo innamora, la riflessività sul mondo pacificato che la sola contemplazione può esibire, per correre nella neve. Ciò che riporta all’attività, al lavoro, che vige nella fatica (da labor, ‘dolore, sforzo’), che allontana l’otium, è dunque l’amore. Labor è il compimento di una attività pesante, a cui bisogna prestare attenzione fisica e psichica; la differenza semantica con il termine dolor sta nella globalità d’intenti che lo sforzo richiede. L’amore non è dolor, bensì labor: è, cioè, un

dolore che esige un impegno fisico oltre che mentale. Il sacrificio del poeta diviene, perciò, più che mai grande: egli rimane tutto proteso al rimirare il paesaggio che ricompone l’antica frattura, ma deve lasciarlo, deve svegliarsi e tornare alla fatica mondana. E lo fa per amore. In questo senso il suo labor coincide con un aver cura dell’amato: è un impegnarsi affinché non ci sia nulla di pericoloso che possa turbarlo. L’aver cura comunica esattamente lo sforzo di uscir da sé, dalle proprie prerogative per ritrovarsi nell’Altro, secondo un istinto atavico.3 Il poeta si rende conto che la sua esistenza è motivata dalla cura verso suo figlio, il quale, senza la sua guardia, potrebbe soccombere nella neve. La contemplazione del mondo, l’anelito alla pace, se totalizzato e totalizzante, diventa una tentazione esistenziale: dietro all’innocenza della pigrizia, dello star quieti, si cela un nichilismo d’azione. La pigra domenica rappresenta il giorno del nulla che si affaccia, quando tutto è fermo, – e niente oscilla. Ciò non significa chiaramente che la battaglia sia un bene, né tanto meno che essa fornisca un motivo per sentirsi vivi. Ma il troppo anelito alla pace, senza che la guerra sia conclusa, cela un’altra insidiosa maschera del niente. La battaglia deve terminare: solo allora si potrà parlare di tregua, non prima. Il gesto assurdo di Jacopo diviene allora il gesto per cui la vita del poeta, nell’even-

1 Come lo stesso Piersanti spiega nelle Note al libro (p. 164). 2 Ibid., p. 88. 3 Cfr. E. Lévinas, Totalità e Infinito, JacaBook, Milano 1995, pp. 31-50.

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tualità dell’esserci, ha significato; esso è motivato dal suo riportare il poeta e il canto all’attività, per mezzo della quale fiorisce la cura. L’apparente assurdità fa sì che tutto il restante all’infuori del gesto sia assurdo, e che quest’ultimo si mostri come il vero. Il poeta rimane schiantato dalla fatica, che lo ha distolto dal nulla. L’amore faticoso di Piersanti rivela che soltanto nell’uscire da sé, nell’abbandonare i tanti gesti assurdi di cui ci nutriamo ogni giorno, per guadagnarne uno che giustifichi la nostra esistenza, vi è l’amore. Il vero amore è sempre faticoso, perché dimostra di essere sempre un fare quello che non si vorrebbe fare. E ciò rende Piersanti poeta di suo figlio, nel mentre che abbandona il pensiero poetico (e comodo) della natura. La figura di Jacopo agisce inconsciamente, nel nodo centrale della raccolta, appunto per distoglierlo

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dallo sguardo vano. La corsa nella neve collima con un entrare nella neve, che in precedenza si era scorta soltanto da quel vetro; Piersanti è costretto a penetrare nel paesaggio per scoprirlo autenticamente nella sua sacralità mitologico-cristiana. Jacopo chiama, con il suo gesto assurdo, il padre nella neve, perché lì solo c’è cura, e dunque c’è vita. Il dramma potrebbe risolversi, se non fosse che Jacopo non comunica: egli chiama al mondo, ma permane nel suo mondo. E nel paesaggio reale il poeta è costretto a camminare in solitaria. La lirica Al cinema con Jacopo, posta dall’autore puntualmente a metà dell’intera raccolta, testimonia questo disagio. Il canto piersantiano, forte di una semplicità disarmante, s’innalza fino al suo termine. L’ordinarietà della situazione (una normale serata trascorsa al cinema) passa da un’asciutta concretezza al grande mistero di


ZAMPILLI LETTERARI Jacopo, che sottende il mistero stesso delle cose, dalla prospettiva familiare dell’autore. Il padre, durante la visione del film, si accorge che, come quando aveva tre anni, il figlio chiede le patatine e l’uovo, urlandone la sorpresa. Il grido del figlio pare destare il poeta dal torpore che annotta nella quotidianità, e lo rende chiaroveggente. Il respiro poetico resta inabissato nella verità del trascendente che spicca, quando ai vv. 23-39 dice: ma non sei come loro, non gli somigli, quel cieco borbottio ti sprofonda in un altrove sordo e smisurato, e poi sei grande paghi il biglietto intero, lo sconto è mio, padre invecchiato, le tue corse improvvise più non raggiungo, ridono gli altri padri, giovani, nei giacconi, io e te forestieri in questa sala, e tu straniero anche dentro il mondo4 Il ma iniziale è spia del carpire lucidamente la situazione esistenziale del figlio: egli non vive come loro; ciò presuppone che il poeta sappia con limpidezza come sia davvero la sua vita. Il cieco borbottio esplica la definizione del mondo in cui Jacopo è rinchiuso, la cortina di nebbia che lo divide dal padre, tornato per lui nel paesaggio. La verità sull’essenza ultima del figlio è intermittente, tardata

da una nuova notazione di realtà, la quale temporeggia fino alla risata degli altri padri. Questi sono giovani, mentre il poeta si sente invecchiato dalla fatica. Ridono perché hanno motivo di ridere nel colloquio con i propri figli. Invece, Piersanti non può che captare il borbottio dell’altrove sordo che imprigiona Jacopo. La risata improvvisa degli altri padri desta nuovamente il poeta che, nella constatazione dell’oppresso, può dire una parola definitiva su di sé e sul figlio. Insieme sono forestieri nella sala, perché non possono godere del riso che accomuna gli altri. L’afflato poetico è aumentato dal fulmineo cambio di rotta del canto, che, senza anticipazioni e senza modalità verbale, espone una parola, forse, vitale: l’io e te che omette l’azione, che annuncia la verità lirica, che si conclude nell’estraneità di Jacopo dal mondo. Non a caso il poeta lo definisce «straniero»: la foresteria è uno status temporaneo, di chi passa per un luogo, ma al più presto dovrà lasciarlo; di fatti essi escono dal cinema e dalla foresteria che esso comporta. La condizione di straniero è invece condicio permanens: un’etichetta che perdura. Jacopo resta da sempre e per sempre «straniero anche dentro il mondo»; e tale verità è quella che davvero schianta il poeta. Quando Piersanti lascia l’otium nichilistico per entrare nella neve del paesaggio, chiamato da Jacopo, deve constatare la sua estraneità, il suo effettivo distacco.

4 Piersanti, L’albero delle nebbie, p. 85-6.

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REDRESS OF POETRY Jacopo diviene allora come l’albero delle nebbie, lo scotano: penetra la nebbia, pur rimanendo nella nebbia. Il poeta trova la strada nel paesaggio offuscato dal mistero e infiammato dai colori dello scotano, ma esso non si rivela. L’essenza ultima di Jacopo sussiste nella sua estraneità, e dunque nell’impossibilità di definirla compiutamente. Egli riporta alla vita, con il duro labor dell’amore, eppure si nega. Questa verità, s’è detto, ferisce il poeta, ma, come per altri poeti, anche lo salva. Grazie alle vampe dell’albero delle nebbie Piersanti vede il paesaggio, e giustifica il gesto assurdo che ha permesso tale visione. L’oppresso ‘ripara’, ritorna cioè sul giusto sentiero guidato da occhi che infrangono la bruma, in modo da ottenere quel poco di consolazione che basta a riscattare il dolore d’una vita. E l’insegnamento di Piersanti sta in questo: noi non sappiamo se verrà il giorno in cui, come dice la religione, un dio prenderà su di sé tutte le mortificazioni a cui siamo

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stati e saremo esposti, e allora finalmente si potrà vivere pacificati per sempre, ma certamente, con tenacia e con poesia, è possibile riuscire a strappare uno sfavillio di Paradiso fin dentro al seme del dolore, qualora si riesca a ‘riparare’, cioè a trovare quel senso che sia in grado di sublimare la dignità delle nostre sofferenze. Piersanti ha trovato il senso della sua opera poetica nel diniego esistenziale del figlio; per tale ragione egli è il poeta di Jacopo, e non il poeta del paesaggio montefeltresco. Insieme con Ted Hughes, Izet Sarajlić, Osip Mandel’štam, Czeslaw Milosz, certifica nei fatti la folgorante intuizione di Seamus Heaney sulla ‘riparazione’ che la letteratura opera nella società, inferendo nuove forze al singolo sociale. «La riparazione della poesia viene a rappresentare un esercizio della virtù della speranza come lo intende Václav Havel».5 Niente di più vicino, aggiungiamo, alle intenzioni del nostro Umberto Piersanti.

5 S. Heaney, La riparazione della poesia. Lezioni di Oxford, Fazi Editore, Roma1999, p. 18.


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Elogio della leggerezza di Filippo Camagni

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ell’opera postuma La pesanteur et la grâce1 Simone Weil paragona la società degli uomini ad una bilancia a bracci disuguali. Sul piatto che si trova all’estremità del primo braccio, lo si potrebbe dedurre dal titolo dell’opera, posa la grazia. Sull’altro, cioè al termine del braccio più lungo della stadera, poggia invece la gravità, la pesantezza. Levitas e gravitas:2 sono queste, spiega Weil, le due forze opposte che regnano sull’universo. La leggerezza ci rende sereni, spensierati: essa libera l’uomo dalle catene che lo imprigionano sulla terra, permettendogli, mediante l’arte, di avvicinarsi al cielo. Anche la risata e la comicità sono espressioni di levitas, nella misura in cui esse fluidificano, addolciscono la realtà quotidiana rendendola, talvolta, più sostenibile. A questa tensione ideale verso l’alto, continua Weil, si oppone la pesantezza. La gravitas esercita la spinta opposta: essa dona all’uomo la serietà, la

responsabilità civile, ed è ‘modello di tutte le costrizioni’. In una condizione di assai precario equilibrio, l’una funge da contrappeso all’altra: se da un lato la leggerezza aiuta l’uomo a stemperare il dolore, ne sublima l’ingegno e lo fa sorridere, dall’altro lato la pesantezza, così come ad ogni mongolfiera è necessaria la zavorra per non scomparire nel cielo, ci rammenta i nostri limiti, la nostra condizione umana. Così come il giorno e la notte, all’ordine delle cose serve sia l’una che l’altra. Per trovare un punto d’equilibrio in una bilancia a bracci disuguali, insegna la meccanica, il carico sul piatto che si trova all’estremità del braccio più corto dev’essere, rispettando certe proporzioni, maggiore di quello all’opposto. Estendendo la metafora di Weil, questo fa sì che sia necessaria un’ingente quantità di leggerezza – viene da pensare a tante, soffici piume d’oca ammucchiate – per contrastare la schiacciante prevalenza

1 Nell’edizione italiana: S. Weil, L’ombra e la grazia, Rusconi, Milano 1985. 2 Qui è necessario escludere le accezioni più tarde dei due termini latini proposti, tra cui: frivolezza, indecisione, stanchezza, malessere, etc.

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REDRESS OF POETRY della gravitas, che tutto attira a sé. Questo equilibrio, assai delicato e necessario all’uomo quanto l’aria che respira, non si raggiunge facilmente. A volte il peso del mondo non è lieve, si può percepire chiaramente: ci abbatte a terra, minaccia di schiacciare ogni nostra possibilità di movimento. Si è oggi testimoni di una società squilibrata (Weil direbbe ‘appesantita’), in cui crisi economica, problemi sociali, indifferenza e sfiducia gravano tanto violentemente sull’uomo. Ne soffre la poesia, ambasciatrice dell’arte, perché trova sempre meno valvole attraverso le quali diffondersi nel mondo. Ne soffre la bellezza, l’amore, ne soffrono tutti le migliori manifestazioni della levitas. Il ‘massimo peccato degli uomini’, secondo Weil, è ‘obbedire’ a questa pesantezza. Sudditi della gravitas sono gli agelasti, come li definì François Rabelais, coloro che non ridono mai. In loro compagnia nemmeno Kundera, che alla leggerezza dava ben altro peso, si sentiva a proprio agio.3 Nella società moderna, scrive Peter Berger, «c’è la convinzione che il serio debba essere sempre distinto e separato dal faceto».4 La seriosità, soprattutto in certi ambienti, rende l’uomo apatico, incapace di esprimere emozioni positive, esclude la possibilità di determinate letture del mondo ed impedisce all’uomo la piena comprensione della realtà. La mancanza di umorismo rappresenta quindi un handicap cognitivo, sostiene Berger, mentre il comico e l’arguzia, al contrario,

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«svelano le realtà molteplici del mondo, la sua dicotomia tra facciata e ciò che sta di dietro».5 Il motto di spirito, aggiungendo un po’ di leggerezza sulla bilancia di Weil, aiuta l’uomo a coesistere col mondo. L’umorismo in sé rappresenta anche un atto poetico. L’arte dell’umorismo non è un privilegio esclusivo dei grandi comici, né di artisti come Aristofane o Molière – sebbene questi ultimi, avendo sublimato l’essenza del comico nelle sue forme più raffinate, si potrebbero definire ‘virtuosi dell’umorismo’. Al contrario, chiunque può improvvisarsi cantore del rinnovamento del mondo attraverso l’ironia, anche l’accademico più austero. Ridendo, l’uomo si scrolla di dosso la gravitas, liberandosi d’un pesante mantello: l’umorismo aiuta l’uomo ad affrontare le fatalità, distende l’animo senza banalizzare, è catartico. La comicità ha perciò una funzione trascendente. Quando raccontiamo una barzelletta coinvolgiamo il nostro ascoltatore in un mondo privo di sofferenza, dal quale viene astratta la dimensione tragica dell’esistenza umana. La risata in conclusione – purché ciò che raccontiamo riesca a far ridere! – è in grado di donare all’uomo un senso di consolazione. Si tratta di una breve fuga dalla realtà, verso quelle ‘isole’ che Berger dispone «all’interno dell’ordito della realtà consueta».6 Disobbedendo alla forza di gravità, inoltre, l’uomo moderno si rifugia in una realtà alternativa che molto ha in comu-

3 M. Kundera, Il sipario, Adelphi, Milano 2005, p. 119. 4 P. L. Berger, Homo ridens. La dimensione comica dell’esperienza umana, Il Mulino, Bologna 1999. 5 Ibid., p. 33. 6 Ibid., p. 226.


ZAMPILLI LETTERARI ne col rito carnevalesco rievocato da Michail Bachtin in L’opera di Rabelais e la cultura popolare.7 Questo rito, che aveva luogo negli ultimi giorni che precedevano la quaresima cristiana, permetteva infatti all’uomo medievale di sovvertire, seppure per un breve periodo, l’ordine della realtà: durante il carnevale vi era l’abolizione di tutti i rapporti gerarchici, di ogni distinzione sociale, e veniva addirittura eletto un nuovo re, un

sovrano ‘per burla’ (roi pour rire). Per giorni interi nelle piazze e nelle strade si celebravano ‘feste dei folli’ (festae stultorum) ed il ‘riso’ (risus paschalis) veniva ammesso anche nei luoghi sacri, che per tutto il resto dell’anno tornavano ad essere baluardi della seriosità. Tutti partecipavano e ridevano durante il carnevale, era un riso di festa. Ponendo sul piatto della bilancia una realtà totalmente alternativa, ogni anno i partecipanti

7 M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Einaudi, Torino 1979.

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REDRESS OF POETRY al carnevale contribuivano così al riassetto dell’ordine del mondo, assistendo alla creazione di un nuovo equilibrio fra gravitas e levitas. Questa rappresentava l’ultima espressione della joie de vivre prima del digiuno quaresimale, nel corso del quale la realtà tornava ad assumere le tinte, a volte chiare, a volte scure, che la contraddistinguono. La carenza sintomatica di allegria e la seriosità si traducono spesso in dramma. Queste riflettono il lato tragico della vita, ne accre-

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scono la gravitas, rischiando così di rendere angoscioso ciò che in verità si dimostra effimero. L’esperienza del comico, conclude Berger, è invece una promessa di redenzione. È solo grazie alle migliori espressioni di levitas, tra cui l’umorismo e l’arte – che sono poi la stessa cosa – se l’uomo riesce a far sì che, nella bilancia a bracci diseguali di Weil, il grammo possa prevalere sul chilo.


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Il rito della commedia A colloquio col Maestro Carlo Boso di Matteo Giunta

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arlo Boso, attore e regista teatrale, si è formato alla scuola del Piccolo Teatro di Milano e ha partecipato nel 1983 alla fondazione del TAG Teatro di Venezia. Dal 2004 dirige l’Académie Internationale des Arts du Spectacle di Parigi.

Abbiamo scelto, come tematica centrale di questo numero della nostra rivista, quello della letteratura come ‘riparazione’ al male o ad un dramma della vita di un uomo o di una società. Secondo lei, maestro, la Commedia dell’Arte può essere una riparazione, e se sì, in che modo? Sicuramente. La Commedia dell’Arte è l’istituzionalizzazione del rito del carnevale, e in questo è già una ‘riparazione’, infatti sappiamo che il carnevale permette, attraverso cinque giorni di libertà dati al popolo, di ‘riparare’ ai torti che questo ha subito durante tutto l’anno. In questi cinque giorni di libertà in cui le persone hanno il potere di condannare colui che è stato la causa di tutti i mali avviene una sorta di catarsi riparatoria. Se prendiamo nello specifico la Commedia dell’Arte, vediamo come essa rappresenti a livello drammaturgico una lotta tra il vizio e la virtù che, nel terzo atto, si risolve attraverso un ‘processo’ al male dove viene punito il vizio e dove trionfa la virtù e l’ordine, e l’armonia, minacciata appunto dai personaggi che rappresentano il male, si ristabilisce. In un’epoca in cui l’Io è diventato il centro dell’interesse di tutte le arti, soprattutto dopo la lezione della grande letteratura e del teatro novecentesco, in che modo la Commedia dell’Arte che rifugge questo psicologismo individuale e si basa piuttosto su tipi fissi, può continuare ad essere attuale ed utile per il singolo? Il teatro del Novecento si preoccupa dell’Ego di una persona e quindi di un tipo, ed è perciò una forma di teatro legata all’evoluzione borghese della società, in cui l’individuo viene isolato in quanto singolo e non più considerato in quanto entità appartenente a

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un gruppo. A differenza di ciò nella Commedia dell’Arte l’Ego del tipo rappresentativo rispecchia l’Ego di tutta una classe sociale: è perciò una forma di teatro universale, in cui attraverso i tipi si possono rappresentare tutte le categorie sociali. Perciò credo che l’attualità di questo genere teatrale stia nella sua capacità, ancora oggi, di creare ‘comunione’ attraverso la rappresentazione di tutti i vari tipi sociali. Inoltre per mezzo della messa in scena di un processo a quella che può essere una forma di vizio la Commedia dell’Arte svolge una grande funzione nel denunciare certi soprusi che avvengono all’interno della comunità e nel cercare di rendere coscienti le persone dei ‘mezzi’ che consentono di vincere tali soprusi che tutti noi sopportiamo. È possibile ricostruire un comico italico, che a partire dalla farsa Atellana e passando per il teatro latino di Plauto, arrivi fino alla Commedia dell’Arte? Si può tracciare una linea di continuità? Sicuramente gli aspetti in comune sono diversi, a cominciare dalla funzione. La Commedia dell’Arte è un fenomeno che si è diffuso in tutta Europa rapidamente durante il ‘500: questo perché si sviluppa da una serie di riti preesistenti, come il Carnevale, che lentamente hanno assunto una forma teatrale. Questo fenomeno ha origini molto più lontane: il teatro greco e il teatro latino sono una forma di teatro rituale, in cui le rappresentazioni venivano sempre messe in scena durante festività, ad esempio la Grande Dionisie in Grecia e i ludi plebei a Roma, e in questo vediamo come esista già una comunanza. In secondo luogo è la funzione stessa ad accomunare questi due tipi di teatro: entrambi sono, infatti, una forma d’arte liberatoria; come nell’Atellana latina la funzione della Commedia dell’Arte è quella di far ridere il pubblico dei propri problemi, problemi che gli attori rappresentano sulla scena. Più si riesce a far ridere di un dramma, più il pubblico si libera dalla paura del dramma. È necessario che la rappresentazione

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mostri le responsabilità del problema e dia un nome alla causa del dramma; quando si ride della causa quest’ultima viene screditata, quindi la causa viene ridotta a niente e mostrata per quello che è. Proprio per questo motivo in tutte le dittature la Commedia dell’Arte viene bandita: a nessun dittatore interessa avere una forma di teatro che esercita una critica alla sua azione e svela agli uomini i suoi soprusi. Un’altra comunanza sta nel sistema di rapportarsi con il pubblico che è a vista: la Commedia dell’Arte è un teatro senza quarta parete, dove il pubblico è giudice e spettatore della rappresentazione e partecipa direttamente all’azione. Plauto è importantissimo perché, soprattutto attraverso l’Asinaria, ci fornisce un esempio determinante per quello che riguarda gli scambi di ruoli in scena che sono fondamentali nella Commedia dell’Arte: il padrone che per un certo periodo diventa servo e il servo padrone. Tutto ciò era permesso dai potenti dell’epoca proprio perché il teatro avveniva nel periodo dei Saturnali: durante questa festività l’inversione dei ruoli era ammessa, per cui era possibile anche una visione della realtà diversa. La Commedia dell’Arte tiene conto anche di una forma di ‘teatro in strada’ come era quello delle Atellane latine, da cui riprende il sistema dei tipi rappresentativi. Infine i costumi dei primi Zanni e di Pulcinella riprendono il tipico costume dei Mimi romani. Di fronte ad un panorama dove il cinema sembra farla ormai da padrone, dove la tendenza è quella di una ‘spettacolarizzazione’ a fronte di contenuti sempre più stereotipati delle opere, anche grazie a potenzialità e mezzi digitali che soltanto sulla pellicola sono possibili, di fronte ad un simile panorama, quale futuro è possibile per il teatro? Sicuramente il teatro continuerà a far parte della vita degli uomini, proprio per equilibrare questa enorme diffusione dei media televisivi, infatti questi tipi di rappresentazione spingono l’uomo alla solitudine di fronte allo schermo. Il teatro al contrario può essere considerato uno degli ultimi riti rimasti nella nostra società: il riunirsi tutti attorno ad un atto rappresentativo, rappresenta una sorta di ‘messa’ fatta da uomini per uomini: una messa civile che può condizionare molto di più il pensiero di una società rispetto a tanti film, anche se ben fatti. Il film continua a parlare all’individuo in quanto individuo solo, il teatro, in specie la Commedia dell’Arte, parla all’insieme di una società di individui che si sono riuniti in una sala per vedere altri uomini (presenti realmente sulla scena) che attraverso la rappresentazione riescono a parlare dei problemi di tutti e riescono ad esemplificare le soluzioni attraverso l’esempio. Io credo che la società abbia avuto una grossa spinta d’evoluzione quando i greci hanno creato il teatro, cioè, nel momento in cui si è data la possibilità di discutere su un palcoscenico delle responsabilità degli dei e degli uomini, e oltre a questo si è data la possibilità a tutta la cittadinanza di partecipare a questo atto rituale in cui si discutevano le responsabilità civili, e attraverso l’applauso di poter esprimere il consenso o no alla rappresentazione teatrale in quanto liberatrice di un dramma. In questo il teatro ha ancora tutto il suo valore, e non solo: può essere sicuramente un’arma con cui costruire un futuro.

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La letteratura come grande atto d’amore Un anno di Resistenza di Giuseppe Ghini

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conclusione di quello straordinario libro che è After virtue, Alasdair MacIntyre traccia un parallelo tra il nostro tempo e il Tardo Impero Romano, quando i Barbari scorrazzavano per l’Europa e l’Antichità declinava verso un’epoca oscura. Un punto di svolta decisivo – sostiene il filosofo scozzese – si ebbe allora, quando uomini e donne di buona volontà invece di continuare a puntellare l’imperium romano, si prefissero, a volte inconsapevolmente, un nuovo compito: la costruzione di forme di comunità entro cui la vita morale poteva essere sostenuta, in modo che la visione classica, aristotelica dell’uomo e l’etica delle virtù che ne era la naturale conseguenza avessero la possibilità di sopravvivere all’incipiente epoca di barbarie e di oscurità. Queste comunità assunsero la forma delle abbazie benedettine dove, oltre ai monaci, andò concentrandosi una folta schiera di persone che condivide-

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va il medesimo ideale: fratelli laici, artigiani, servi, liberi, affrancati e coloni, vedovi, veterani, tutti con le loro famiglie. Non so con quale consapevolezza noi resistenti ci siamo riuniti; sta di fatto che, di fronte all’incalzante imbarbarimento della nostra società, abbiamo costituito una piccola comunità attorno a un ideale. E siccome siamo universitari, questa piccola comunità ha assunto naturalmente la forma di una universitas magistrorum et scholarium, unione di professori e studenti che si prefigge di raggiungere la verità, o almeno di approfondirla, di studiarla. La verità su che cosa? Be’, essendo umanisti, anzitutto la verità relativa alla letteratura, alle humanities, ma senza staccarla, anzi scorgendovi il legame con l’humanitas, con la visione classica dell’uomo. All’inizio di Tolstoj o Dostoevskij, George Steiner, un grande rappresentante della humanitas-humanities, scolpisce una frase su cui ogni


ZAMPILLI LETTERARI professore di letteratura dovrebbe meditare a lungo e periodicamente: «Literary criticism should arise out of a debt of love». La critica letteraria dovrebbe sorgere da un debito d’amore. Spiegando, Steiner racconta come la prima frase del primissimo libro che lesse e che lo conquistò definitivamente fu di Dostoevskij e che, dunque, la pubblicazione di Tolstoj o Dostoevskij è stato il suo modo di pagare il debito d’amore. Amore!? Di questo ci occupiamo? Di questo parliamo? Ma precisamente di quale amore? Di quello delle canzoni, di quello romantico? No, non credo. Personalmente ho una concezione molto più profonda dell’amore, una concezione che si ispira soprattutto a Max Scheler, il fenomenologo autore, tra l’altro, di Ordo amoris. È l’amore, sostiene Scheler, che organizza la nostra vita, che posiziona noi stessi e ciò che ci circonda nello spazio dei valori, è l’amo-

re ciò che ci permette di assegnare un posto ad ogni cosa e ad ogni esperienza. Grazie all’amore, non alla razionalità, noi collochiamo noi stessi nel cosmo; all’amore dobbiamo la formazione del nostro ordine assiologico, della nostra scala di valori. L’amare precede e fonda il volere e il conoscere, come sa qualunque studente che ha scelto una facoltà scientifica perché desta il suo interesse, il suo amore, appunto. E così l’amore di cui parla Steiner non è la rivendicazione quasi risentita di un ambito negletto dalla ragione, non è un’estemporanea manifestazione di un sentimento coltivato, con senso di colpa, nel fondo del cuore. Anzi, il cuore stesso non è l’organo tremulo e appicicaticcio dei romantici, il luogo in cui rifugiarsi dal mondo, ma la fonte degli interessi che aprono l’uomo al mondo, che gli consentono di orientarsi in un cosmo di cui scopre il senso. La cri-

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REDRESS OF POETRY tica letteraria, conseguentemente, non è l’occupazione di chi, mentre il barbaro mondo là fuori è dominato dalla razionalità e dell’utilitarismo, continua coltivare i valori di un mondo in via di estinzione. No, non è questo che vogliamo. MacIntyre parla della costruzione di qualcosa di nuovo, qualcosa di radicalmente opposto alla sola difesa nostalgica del vecchio. Anzi: MacIntyre dice che la costruzione di qualcosa di nuovo, al tempo di san Benedetto, fu possibile proprio perché la visione classica dell’uomo venne sciolta dal suo legame con l’Imperium e incarnata in nuove forme culturali. I brevi saggi di critica letteraria che popola-

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no questa rivista sono dunque atti d’amore degli autori verso i testi che amano, e che amano in questo modo non intimorito e non complessato. Sono il loro modo di collocare se stessi nel cosmo, di affermare orgogliosamente la loro concezione della vita, il loro ordo amoris. Sono atti d’amore, piccole luci che illuminano nell’oscurità della barbarie e ci indicano una strada. Aiutateci a tenerle accese. This little light of mine, I’m gonna let it shine! This little light of mine, I’m gonna let it shine! Let it shine, let it shine, let it shine!


IL CALAMAIO SCALOGNATO

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Vacanza toscana di Dina Maria Laurenzi

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un giorno controluce racchiuso tra le mura di un borgo stanco e silenzioso. Spira il tramonto per i viottoli intrecciati, fin sul cocuzzolo di osterie e botteghe incastrate. All’ombra nitida del cielo c’addormentiamo come amanti: c’è odore di lavanda, timo e ginepro, sapore di toscana e rovi selvatici.

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IL CALAMAIO SCALOGNATO

Venerdì di Alessandro Zaffini

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ietoso teatrino di questa piazza nessun palcoscenico – s’ignora la fatica protratta nei giorni di un’azione conclusa di una vera parola. L’unica soglia è il dolore pudibondo, infertile, privatamente umano. Ora che è inverno e le prime fucilate di neve accerchiano la casa in bella vista sulla teoria dei colli è l’immobile disastro a propagarsi la metafisica rassegnazione di ciò che incompiuto congela – così l’incanto spietato ad ogni suo gesto sottraeva le forme e le cose. Anche tu condurrai a questo? Tu che dormi poco o niente, salvo piombare in Notturni e sempre stringere all’alba le schegge di quale verbo futuro – ma è sangue ora, acerbo e scuro. Insieme tremiamo serbando lo stesso mistero scendendo a tentoni l’asfalto, il gelo. Tu viva sorridi, e hai paura.

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1° Tentativo di rifacimento Un abbozzo di Matteo Giunta

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redo: alla poesia come rivelazione, ( alla parola come carne o alla carne come transustanziazione… Dubito: …ma se è parola? come elevarne la significazione come uscirne – convenzione – dal dualismo impenetrabile e ontologicamente fragile di significato e di significante?) Nichilista? Se me lo chiedi lo sono, forse un po’ – ignoro l’esatta terminologia e forse un po’ ci credo a ciò che vedo e no. Non guardo le stelle, scusami, nei tuoi occhi naufragate son più belle. (Che blande parole: usurate, già sentite forma pura; ma dalla bocca, questa ch’è mia, sai, non sono mai uscite. E ancora le più dolci sillabe declamate a gran voce la sera non appartengono a te, né a me.) Lo so che una tua autentica risata non è che incresparsi di crosta, sintomo di malattia… Il segreto è serrare lo sguardo, gli aggrovigliati giorni non districare mai; non opporre alla bufera resistenze vane; alle lusinghe della sera, tentati permessi di via. Lacci lanciare e deduzioni. (Dove? Se non c’è che il vento a parlare.)

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IL CALAMAIO SCALOGNATO … e so che un abbraccio mio è un grido soffocato di solitudine, e di noia. (Non più benefico dolore: quello di allora, di quando aveva senso, ancora, parlare d’amore) Tanti poeti tacciono – più grandi ora scontano parole: non sono che voci volti ingialliti, inattuali vagiti (silenzi?) (E cosa resta? è crudele il restare della voce, finita l’epoca che il grido lottava). (Insegnami ancora a parlare, a non ricordare la parola che fa precipitare, che apre l’abisso.) In fondo sono un uomo, Je suis ici, un quid – ancora so ascoltare il manto dell’inverno – e lo sento: lo stomaco si torce e il ventre è teso: allunga la mano! Ho letto Nietzsche – la croce mi ricorda quel tuo corpo troppo umano.

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Il confine di Eden di Giulio Iovine

C

aino, la schiena curva per il carico e le mani nere di terra e fuliggine, percorse il viottolo polveroso che divideva la sua tenda ed il piccolo campo dalla grande radura in mezzo alla foresta. Le ombre del primo pomeriggio erano costellate dallo sfrigolio delle cicale, e veniva dal recesso più scuro del bosco un lieve vento. L'illusione dell'eterna estate si sarebbe rotta in capo a poche settimane; ma Caino non ci pensava. Seguì il sentiero fino alla radura, dove stavano due piccoli altari di pietra – e dove, nei tramonti estivi, attraverso uno squarcio nel sottobosco, si vedeva, ad occidente, il confine di Eden. Lì, circondato dal verde e dal silenzio, liberò la schiena, e buttò sulla catasta di legno i frutti del suo orto, irrigato a sangue e mezze bestemmie; vi appiccò il fuoco; un po' le scintille, un po' il vuoto della giornata, gli presero via qualche lacrima. Anche ad Eva, in quel momento, dovevano forse sfuggire delle lacrime. Non si sarebbe stupito, Caino, di scovarla rimpiattata contro le pareti di casa, la testa fra le ginocchia, a respirare a fatica, come tutte le sere di fine estate. Adamo era chissà dove, disperso nella foresta; ogni tanto tornava a casa, ma non diceva nulla. Erano anni che non parlava, suo padre. Caino non ricordava più la sua voce, e se cercava di pensare un Adamo parlante, nella testa vedeva un uomo di mezza età che parlava a sibili, come una cesta di pane che scorresse sopra un tavolo pieno di farina. Guardò, con un gran sonno addosso, la colonna di fumo che si innalzava verso il cielo, ed il suo invisibile padrone. Non dubitava di riuscirgli gradito; e sebbene quell'anno i meloni fossero un po' intristiti dalla poca acqua, erano comunque saporiti al punto giusto. Forse, senza rendersene conto, si sentiva l'erbivendolo dell'onnipotente. Comparve Abele, con il solito chiasso; tornava in quel momento, probabilmente, dalla cima della collina, dove portava il suo gregge tutte le mattine – e come lui, sacrificò al suo invisibile padrone. Tra i due fratelli corse il solito silenzio. Ma quel pomeriggio, le colonne di fumo non si alzarono allo stesso modo. Il fumo di Abele salì alto, roteò nel cielo, si sparse a colorare le nuvole, e fu da loro accolto, come un oceano capovolto che accogliesse il fiotto di una cascata. Il fumo di Caino non arrivò ad un metro da terra e imbrattò tutta la radura. Abele non disse nulla, e cominciò a fare le capriole sul prato, come faceva quando era contento. A Caino tremarono le mani. Drizzò la fronte verso l'alto e chiese a gran voce al suo invisibile padrone, cosa mai gli avesse fatto. – Fatto? Niente. Dovevi fare qualcosa?, rispose lui. – Sei in collera con me, signore? – No. – Ma non accetti le mie offerte, il che per me è molto doloroso.

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IL CALAMAIO SCALOGNATO – Non sono obbligato ad accettarle, Caino. – Almeno una spiegazione. Tu sai chi sono: sono quello che ti venera, che sacrifica per te il suo lavoro, che non chiede altro che di vivere nel tuo ordine. Abele, gli abbiamo dovuto spiegare perfino cos'era una zappa. – Non trovi che Abele sia meraviglioso? È così dolce, Abele. E poi mi fa tanto ridere, quando fa le imitazioni degli animali. – Ma, signore, tu ora preferisci Abele! – Boh, si. – Perché?! – Non lo so. – Signore, tu dirotti le tue preferenze a casaccio! – A lungo andare, Caino, quando ci si propone ad uno che non ci desidera, si diventa fastidiosi. Ti metto in guardia fin da subito dal diventarlo. E tacque. Caino guardò il cielo. Del sui invisibile padrone, non c'era più traccia. C'era solo il fumo, che penetrava lo spessore delle nubi, e anche queste si stavano diradando in fretta. La Luna gli rideva addosso, bianca ed enorme. Il resto del cielo era sgombro; e blu, profondamente blu, come se fosse stato felice. Caino guardò Abele. Non faceva più le capriole. Giocherellava con i pezzi di legno mezzo incenerito che stava sull'altare. Tentava di farci qualcosa che sapeva solo lui. A volte, con il lato carbonizzato di un pezzo di legno, disegnava spirali e pupazzetti sui lati dell'altare. La pietra era ruvida e chiara, e si prestava bene al gioco. Ghignava. Eh, per forza, pensò Caino, quando il tuo invisibile padrone è con te, di cosa vuoi dolerti. Non stette nemmeno a pensarci troppo. Nella sua testa, una catena di simboli si agganciò ad un'altra, e Caino agì. Afferrò la sua vanga, corse verso Abele, lo rovesciò sul dorso, e prese a squarciargli il ventre, colpo dopo colpo, fracassandogli tutte le ossa, e non smise, finché non fece caso al fatto che suo fratello non si muoveva più. Dal petto in giù era una cloaca di sangue e viscere; ma la sua faccia pulita, i capelli chiari, le belle labbra non troppo evidenti, i canini un po' appuntiti, che gli davano un'aria così sveglia, quando sorrideva – tutte quelle cose c'erano ancora; e nemmeno tanto pallide; sospese, quasi, dall'obbligo del sonno. Caino si mise in ginocchio, con in mano una selce appuntita che usava per sbucciare la frutta; con pazienza, si diede a incidere i lati della testa di suo fratello, per poi sollevargli delicatamente la faccia, ridotta ad una maschera di pelle spessa. La pulì con la sabbia e la cenere, la raschiò; se la mise addosso, se la premette sulla faccia, e le sue lacrime, impastandosi col grasso e con la cenere, gliela fecero star su. Poi sollevò la fronte, verso il blu, e gridò: – Io sono Abele! Adesso – e prese un gran respiro – adesso, puoi amarmi?

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Sfinge di Caterina Pentericci

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onde l’incedere tuo movi scalciante per ciottoli cuneiformi e perlacei onde spirito duce roboante per qual parte e speme fronteggia colei che l’inganni adduce in vizi e l’umana bestia irretisce a giovanil morte? Con cotal maestria dimanda, insana fiera e s’attende parole accorte. Innanzi al seno felino e materno tremulo il piede nell’antro s’avanza attratto pel canto flebil d’Averno che suadente attarda la speranza.

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IL CALAMAIO SCALOGNATO

Non sono stato io di Giacomo Sensolini

Poesia di Natale

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er natale volevo scrivere una poesia che parlava del natale. Questa poesia parla del natale: 5 trofe, 12 versi, niente rima. Volevo scrivere una poesia che parlava di natale. Alla fine l’ho scritta. Mica per niente

H

o scritto un’altra poesia: due strofe, sette versi, niente rima. Mica per niente. Era così, per far qualcosa di diverso. La lira

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orse era meglio la lira, dell’euro. Adesso però c’è l’euro. E tocca fare con quelli.

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Charms e il pastrano di Camus

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aniil Charms aveva un pastrano marrone e ne andava fiero. Il pastrano è precisamente un soprabito ferraiolo, con bottoni, maniche, bavero e pistagna. È, insomma, una specie di paltò, un… tabarro. Tutte belle parole, – inusuali al giorno d’oggi! Ed è proprio questo il punto: a Daniil Charms non attraeva il pastrano in sé, ma piuttosto gli piaceva, lo allettava – per dirla tutta – andava fiero della parola stessa: ‘pastrano’. Tant’è che non faceva altro che ripetere: «Pastrano!!! Pa-stra-no! Sì, pastrano! Pastrano!!!» Alle volte, addirittura, quando il gelo di Parigi lo scaraventava nel calduccio della sua misera e infognata casupola, dava all’abito anche dei nomignoli: «Pastranino! Pastranuccio! Pastrangolo!» E così faceva persino quand’era infuriato: «Pastranardo! Pastranazzo!» Fischiettava da sera a dì il folle Charms; tutto, per lui, era motivo di gioia e clangore da quando aveva il suo bel pastrano del colore della corteccia. Finché, una notte di ghiaccio dicembrino, precisamente la notte di Natale del 2012, attanagliata dagli abissi violacei dell’inverno continentale, il pazzoide Daniil, di ritorno dalla Puglia, mentre scorazzava lieto per le rues e le avenues di quella metropoli infangata di romanticismo che è Parigi, vide un povero barbone che moriva letteralmente di freddo. «Accidempoli! – gridò tra i denti il grande raccontiere russo – accidempoli, il vegliardo sta morendo! Se non gli porgo subito il mantello, farò proprio come Ivàn Karamazov, nel celebre romanzo del sommo Dostoevskij!» E, in un gesto di vera misericordia, il grande Charms porse con amorevole cura il mantello al povero barbone, il quale aveva le convulsioni e tremava a più non posso. «Cos’è l’esistenza – pensò, guardando benevolo il povero barbone che si accoccolava nel suo pastrano – cos’è l’esistenza se non una continua opera verso gli altri? Noi siamo tutti qui uniti, in questo posto splendido e, a un tempo, infame che chiamano mondo. Tutti insieme! Insieme parliamo, insieme porgiamo il bicchiere, insieme camminiamo: sì, tutta la vita insieme! Altro che pastrano, altro che tabarro! Questo è il segreto, questo il pungolo che… par strano…» E sorrise il pazzo Daniil Charms, più sano di chiunque abbia mai solcato la faccia della terra. Sorrise di cuore e lasciò il vegliardo al miracoloso calduccio dell’ormai non più suo paltò – anzi, pastrano – marrone.

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IL CALAMAIO SCALOGNATO Soltanto, girandosi un’ultima volta, prima di svoltare verso la triste casupola, notò che il barbone aveva stranamente in mano una maschera di cuoio. «Cosa ci fa quel buon diavolo con la maschera?» Non sapeva il bravo raccontiere russo, non sapeva che il barbone non era certo un semplice barbone, e la maschera non era certo una semplice maschera in cuoio. No, il grande Daniil Charms non poteva sapere di aver salvato dalla moria del gelo attanagliante proprio loro, sì, loro che non avevano avuto pace fino a quel momento, gli atei per eccellenza, loro – de Sade e l’Arlecchin a Paris!

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Ri(am)arsi di Riccardo Marchionni

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ra viandanti, a deserto ormai inoltrato, la stanchezza avanza, e diventa presto questione di miraggi: l’uno vede cose che l’altro non vede. Il riflesso è l’illusione di chi ancora crede, la rovina di chi ha ancora sete, quando ogni pozzo d’oasi è prosciugato.

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IL CALAMAIO SCALOGNATO

Things behind blue glass di Letizia Zaffini

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ltre il vetro di questa finestra ho visto sgretolarsi Autunni perenni. Invincibile è il flusso delle stagioni, inutile la sfida del Tempo. Ora Appare come sempre dietro le colline l’Invisibile rintocco quattro quarti tempo semplice, minima croma semiminima croma chiave di Sol cosa c’è da capire? L’aria in un boato rarefatta esplode – TUM, BUAM, CRASH! L’universo in un tuffo Sorge al tramonto declina all’Alba ed è Guerra, ed è Pace Nulla di più semplice Eppure in me persiste il dubbio… Nulla da capire ma carpire il senso sulla pelle che mi sfugge… THAT IS THE QUESTION.

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Apatica neve di Umberto Brunetti

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patica neve di sale a dune posa sull’asfalto gelato: un bianco deserto acceca la notte di questo dicembre accaffato. Le dita intorpidite rallentano – le note cristalli e ghiaccioli – sopra i tasti d’avorio e di ebano; anche le più tenere di una Danzòn per Lily. Dalla porta i fragori e il bailamme di acidi suoni confondono quel dir che non so: mi avvolgono dure memorie nel riflesso del vetro appannato: mio franto antico specchio di Shalott.

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CONSIGLI PER LA LETTURA

Odissea remix Il signore degli inganni di Zachary Mason di Lorenzo Carnevali

L’

Odisseo di Omero resta lontano dalla patria per vent’anni: dieci spesi a combattere sotto le mura di Troia e altrettanti peregrinando per mari e terre sconosciute. Dopo mille peripezie approda finalmente ad Itaca, fa strage dei pretendenti che infestano la sua casa consumando il patrimonio e insidiando la fedele moglie Penelope, fino a tornare indiscusso sovrano dell’isola. L’Odissea, dice Aristotele, è tutta qui. L’Odissea, dice l’autore de Il signore degli inganni (infelicissima traduzione italiana dell’originale The lost books of the Odissey) potrebbe essere anche qualcos’altro e di sicuro è molto di più. Lo spunto narrativo è esilissimo e quasi banale, il ritrovamento di un «papiro pretolemaico estratto dai cumuli di immondizia disseccata di Ossirinco». Il libro è ambiguo e multiforme come il suo eroe: quarantaquattro brevi variazioni (racconti? Capitoli di romanzo?) sul tema ‘Odissea’. Inseguiamo il protagonista in un labirinto di allucinazioni: Odisseo torna a Itaca e ritrova Penelope. Penelope è morta. Penelope ha sposato un altro. Odisseo ha rinunciato al ritorno e ha sposato Nausicaa. Odisseo è un aedo autore della propria leggenda. Odisseo è un codardo disertore. Odisseo fabbrica un golem chiamato Achille che fa strage di amici e nemici. Odisseo è lo sposo di Elena mentre Penelope moglie di Menelao viene sedotta e rapita da Paride. Odisseo è ricoverato in un ospedale psichiatrico. Odisseo è un funambolo in equilibrio su un filo teso negli spazi siderali. La formazione dell’autore, un informatico californiano specialista in intelligenza artificiale, ha dato un’impronta decisiva alla struttura combinatoria del racconto. Per la narrativa di Mason si possono indicare poi molti illustri riferimenti: Borges, Calvino, il realismo magico, il Manoscritto trovato a Saragozza di Potocki, la fantascienza di Lem e Gibson… Ma Zachary Mason è soprattutto un grande interprete dell’Odissea: ci dice qualcosa di nuovo e di originale sul racconto omerico, sui suoi personaggi e in generale su quell’insieme di storie che chiamiamo ‘miti’. Per esempio nessuno, neppure lo specialista più rinomato, potrebbe spiegare meglio di quanto abbia fatto Mason il rapporto sadico, violento, beffardo e dolcissimo che lega Atena ad Odisseo. Un classico, diceva Calvino, è un libro che non ha ancora finito di dire quel che ha da dire. Un classico, dice Zachary Mason, è un libro che non ha ancora finito di essere scritto.

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CONSIGLI PER LA LETTURA

Un romanzo per saldare i debiti con la mamma Un giorno ancora di Mitch Albom di Giuseppe Ghini

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a morte della propria mamma. La morte improvvisa della propria mamma e il rammarico più ancora che di un addio mancato, di tante parole non dette, di tanti debiti non saldati. È questo il tema del romanzo filosofico For one more day (Un giorno ancora) di Mitch Albom (2006), i cui capitoletti più belli sono forse proprio quelli intitolati Times My Mother Stood Up For Me e Times I Didn’t Stand Up For My Mother (Volte che mia mamma mi ha difeso, Volte che non ho difeso mia mamma). Se la vita del protagonista è andata da schifo dopo l’acme toccato con la partecipazione alle World Series di baseball, un giorno ancora con la mamma morta è l’unico modo per tentare di riparare quella vita. Giorno fantastico, surreale ma realissimo, impossibile ma tangibile. Albom però non vira verso i tanti ghost, whisperer e supernatural della cultura contemporanea, perché il finale sancisce senza alcun dubbio la fuoriuscita dal fantastico e lascia dunque che il saldo dei debiti abbia tutta e sola la realtà della letteratura. Come gli altri libri di Albom, capace di tracciare la sottile differenza tra sentimento e sentimentalismo.

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