Rdp Numero 2

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La Resistenza Della Poesia DIRETTORE RESPONSABILE Giuseppe Ghini COMITATO DI REDAZIONE Sara Balleroni Monica Bravi Umberto Brunetti Alberto Fraccacreta Matteo Giunta Alessandro Zaffini HANNO COLLABORATO Riccardo Marchionni Gianfranco Stigliano VIGNETTE ED ILLUSTRAZIONI Alessandro Zaffini Filippo Fabi FOTOGRAFIE Guido Dall’Olio Pag. 9, 16, 18, 28, 32 PROGETTO GRAFICO La Resistenza della Poesia Logo di Beatrice Schena ABBONAMENTO ANNUALE Versamento di euro 15,00 IBAN IT82Z0200868703000102089414 intestato a La Resistenza della Poesia periodico quadrimestrale REDAZIONE Piazza Rinascimento, 7 - 61029 Urbino email: laresistenzadellapoesia@gmail.com www.laresistenzadellapoesia.it AUTORIZZAZIONE Tribunale di Urbino, N. 2/2012 STAMPA Litocolor S.n.c. Via Terni, 30 - 61122 Pesaro


La Resistenza della Poesia Letteratura e conoscenza

EDITORIALE

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Quando la Letteratura insegna alla Scienza di Giuseppe Ghini

ZAMPILLI LETTERARI

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La visione increspata di Alessandro Zaffini

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Conoscenza dell’amore a Sarajevo di Alberto Fraccacreta

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La parola, l’immagine: il verso omerico di Monica Bravi

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La memoria è esperienza di Riccardo Marchionni

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Il pensiero scientifico nei Medical Drama di Gianfranco Stigliano

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Smettere di difenderci dai libri di Sara Balleroni

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L’«altra» conoscenza di Umberto Brunetti

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La poesia e il poeta oggi di Matteo Giunta


Anno I / Numero II / Agosto 2012 Letteratura e conoscenza

IL CALAMAIO SCALOGNATO

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Levarsi la maschera di Camus

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Una vita o pi첫 di M. G.

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Tenzone di U. B.

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Le nebbie di Athayde Grassi

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Sceneggiatura di R. M.

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Soliloquio di Letizia Zaffini

CONSIGLI PER LA LETTURA

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Cupo tempo gentile Umberto Piersanti di Alessandro Zaffini


LETTERATURA E CONOSCENZA

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EDITORIALE

Quando la Letteratura insegna alla Scienza di Giuseppe Ghini

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i diceva uno psichiatra: “Ho imparato più dai romanzi di Dostoevskij che non dai manuali di psichiatria. Da Goljadkin (Il sosia) – la schizofrenia, dal Giocatore – la psicologia delle dipendenze, dall’Idiota – l’epilessia, da Smerdjakov (I fratelli Karamazov) – il nevrotico che si procura un’aura epilettica: non esiste manuale che descriva meglio di Dostoevskij quelle patologie”. Dunque? La letteratura porta con sé una conoscenza credibile, attendibile? Oppure, come tutto sembra suggerire nel nostro mondo, è solo la Scienza con la “s” maiuscola, quella di derivazione galileiana che ci fa conoscere qualcosa? La conoscenza è prodotta solamente da esperimenti riproducibili in laboratorio secondo la logica fisico-matematica? No, suggerisce il mio amico psichiatra, e come lui suggeriscono Amartya Sen, Martha Nussbaum, Francis Collins e una schiera di scienziati non chiusi in uno scientismo tanto orgoglioso quanto infantile. Lo scientismo, sì, lo scientismo è la vera cifra della cultura del nostro tempo, uno scientismo che ha gettato il discredito nei confronti della religione, dell’estetica e della riflessione sapienziale, le altre forme di conoscenza che il mondo antico coltivava accanto alla scienza. «Nell’arco di tre secoli – ha scritto Jacques Monod – la scienza, fondata sul postulato dell’oggettività, ha conquistato il suo posto nella società [...] Le società moderne sono costruite sulla scienza. Le devono la loro ricchezza, la loro potenza e la certezza che ricchezze e potenze ancora maggiori saranno in un domani accessibili all’uomo, se egli lo vorrà» (Il caso e la necessità, Milano, Mondadori, 1971: 136-7). Ora, questa Scienza spezza l’uomo in parti, lo riduce in pezzetti per poterlo studiare e così facendo perde l’autentico sguardo sintetico sulla persona che invece è proprio dell’antropologia che soggiace alla religione, all’arte, alla sapienza. Non è solo che la Scienza non risponde alle domande esistenziali – “Perché io esisto?”, “Da dove vengo, dove vado?” – ma, da sola, finisce col rispondere in modo insufficiente anche alle proprie domande. I saggi qui raccolti lo dimostrano abbondantemente. La Scienza, lasciata in balia di se stessa, provoca il contrario di ciò che si era proposta (è la cosiddetta “eterogenesi dei fini”): nessun mondo ha mai visto una simile esplosione di chiromanti, astrologi, ciarlatani e creduloni, nessun mondo ha mai visto la diffusione mediatica delle pseudoscienze (Il pensiero scientifico nei Medical Drama). D’altra parte, visto quanto la Scienza non riesce a spiegare, ciò sembra inevitabile: la logica scientifica, fatalmente univoca, è impossibilitata a comprendere il sentimento ambivalente in cui l’infelicità si mescola ad una felicità seppur limitata (La conoscenza dell’amore), oppure la contesa filiale in cui l’essere umano lotta con Chi pur considera il proprio Tutto (La visione increspata). Al presunto realismo della Scienza sfugge l’apporto conoscitivo degli elementi mitici consapevoli e inconsci (La memoria è esperienza; L’altra conoscenza.

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LETTERATURA E CONOSCENZA I dialoghi con Leucò di Cesare Pavese), ma anche l’empatia con i grandi che ci sono lontani nello spazio e nel tempo (Smettere di difenderci dai libri); il linguaggio scientifico esclusivamente denotativo non riesce a cogliere la ricchezza dell’aspetto connotativo delle parole, quello che è legato all’oralità, alla dimensione immaginifica (La parola, l’immagine: il verso omerico). Infine, al polo opposto della conoscenza scientifica è la conoscenza del silenzio (Una vita o più), quella degli innamorati e dei mistici, come pure quella di poeti in cui sembra realizzarsi una volta di più l’impotenza dello spirito di Max Scheler (cfr. l’intervista ad Andrea Gibellini). È ora di riconsegnare alla religione, alla letteratura e alla sapienza la loro dose di attendibilità. Il Vangelo, Il libro di Giobbe, la Divina commedia, Il mercante di Venezia, l’Odissea, I fratelli Karamazov ci insegnano qualcosa di essenziale sull’uomo, qualcosa di vero. Qualcosa che la Scienza non è in grado di dirci. Qualcosa che la Scienza deve recepire se vuole diventare degna dell’uomo.

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LETTERATURA E CONOSCENZA

La visione increspata Il ‘pungolo’ del dubbio nella poesia di Fernanda Romagnoli di Alessandro Zaffini

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i Fernanda Romagnoli (1916 – 1986), poetessa della quale poco è stato scritto sia in vita che in morte, ci rimangono quattro opere pubblicate col suo beneplacito (Capriccio nel 1943, Berretto rosso nel 1965, Confiteor nel 1973 e Il tredicesimo invitato nel 1980), come pure un esiguo numero di poesie inedite sparse in due raccolte postume (Mar rosso nel 1997 e Il tredicesimo invitato e altre poesie a cura di Donatella Bisutti nel 2003). Con l’avanzare degli anni notiamo che la scrittura della Romagnoli concede uno spazio sempre maggiore alla tematica religiosa: il giovanile nonché vagamente d’annunziano senso panico della prima raccolta cede il passo a un immaginario esistenziale e poetico sempre più ossessionato dai dilemmi della propria tormentata cristianità, fino a sviluppare per questa via una vera e propria vocazione al misticismo. Il verso accoglie e mette in scena il dramma di un’ascensione conti-

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nuamente minacciata da improvvise cadute, una volontà di conoscenza del divino mai appagata, costretta a un continuo e doloroso rigenerarsi nella ricerca. Costituisce un esempio di quanto appena affermato la lirica Idi di marzo.1 Le idi di marzo nel calendario romano erano dedicate a Marte, e non a caso la prima strofa, pur descrivendo uno scenario naturale, fa uso di terminologie ed espressioni appartenenti al linguaggio militare («difendono», «proclamando», «retroguardie», «consegnarsi») per dare al lettore il senso di una realtà tanto pragmatica (e in questo senso romana, se vogliamo, non toccata da cristiana compassione) quanto crudele: l’inverno è duro a morire, le nevi tarderanno a consegnarsi, illumineranno ancora la città del proprio triste pallore nonostante il vento proclami con tirannica prepotenza la nuova rotta della stagione morente. Nella seconda strofa la poetessa fa il proprio ingresso sulla scena

1 F. Romagnoli, Il tredicesimo invitato, Milano 1980, p. 33.


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per toccare la ‘certezza’ di questi prodigi («tocco questi innumeri / prodigi certi»), insistendo sulla loro realtà materiale e ‘positiva’, per definirli subito dopo «malcerti indizi» – di cosa? È forse la traccia di un deus absconditus (dio nascosto) che si cela oltre le durezze del gelo? Nella nebbia che le proteggeva le gemme muoiono perché venute al mondo troppo presto, e «l’innocente / strage degli innocenti» (innocente non perché impietosa, ma precedente alla pietà) è quella operata dalla Natura, la fredda dittatrice che pur di assecondare le proprie dinamiche non esita a sopprimere chi si è appena affacciato alla vita – quella ‘vita’ in cui pur dolcemente si

spengono «i bocci nella nebbia / con soffi come baci», ma che resta scandita dall’incessante e violenta marcia delle stagioni senza avere in sé impressa l’impronta di un Dio caritatevole. Partendo da queste premesse possiamo comprendere il senso della sofferta invocazione finale: non tanto una preghiera quanto un’accusa nei confronti di quel divino che ci si ostina ad affermare pure nell’evidenza del Male, un ‘restituire il biglietto’ sulla falsariga del biblico Giobbe, o (con più aderenza alla metafora appena utilizzata) del dostoevskjiano Ivan Karamazov. Ma a differenza di quest’ultimo, la Romagnoli non vuole ergersi puntando tragicamente il dito contro

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LETTERATURA E CONOSCENZA i cieli, anzi: chiude la sua voce in un sussurrio doloroso, come rivolta a una persona amata che l’abbia fatta soffrire tanto da costringerla a domandarsi chi veramente sia – «Anche di questo / dovrò chiederti conto, mio Tutto, / mio Nulla, mio Chi» – e contrariamente anche a quanto accade nel Libro di Giobbe, l’interrogativo sottinteso in questi versi resta senza risposta. Quel «Dio» con cui lapidariamente la lirica si conclude non può che essere «illegalmente / nominato» nella poetessa, e non perché impunemente ‘sfidato’ a render conto del proprio oscuro disegno: di fronte a un Ordine che pare escluderlo dal suo statuto, ovvero quello dell’innocente ‘oggettiva’ ferocia della vita che non riconosce la legittimità di un divino mosso a compassione, è solo nell’ostinata sensibilità del singolo che quel Dio altrimenti assente può continuare a essere chiamato in giudizio dagli uomini, serbandosi, paradossalmente tramite il più cocente dei dubbi, dalla vanificazione. Di questo angoscioso e conflittuale rapporto con la propria religiosità la Romagnoli ha fatto uno dei punti cardine della sua vicenda personale e lirica. Soprattutto a partire da Confiteor , si fa sempre più forte la tensione ‘verticale’ verso un irraggiungibile Assoluto. A ostacolare e insieme mantenere viva l’ascesa è ancora una volta il dubbio, come testimonia il breve componimento intitolato Per assurdo.2 Immediatamente escluso non è solo il raggiungimento dell’Assoluto, ma addirittura

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la volontà, qualora fosse possibile, di capire nel senso più o meno etimologico del termine (dal latino capio, prendere, far proprio) la dimensione della Totalità. Condizione necessaria della presenza di Dio non è quindi la sua tangibilità fattuale o intellettuale, ma, al contrario, la sua inafferrabilità che spinge Fernanda a una continua e travagliata ricerca, come appare chiaro dai versi di un’altra poesia della stessa raccolta, intitolata Senza requie:3 «Senza requie, senza requie, Signore, / il Tuo giungere a me. Senza fine, / senza fine, Signore, / il mio perdere Te». Altre volte a inceppare l’ingranaggio della rivelazione interviene la stessa corporeità della Romagnoli, vissuta in maniera sempre più tragica con l’avanzare degli anni e il peggiorare delle condizioni di salute. Il corpo viene più volte descritto nel corso dell’opera della poetessa come una sorta di prigione che l’anima si vorrebbe scrollare di dosso (un tema ricorrente già dalla prima silloge, Capriccio, la cui copertina non a caso raffigura una fanciulla dalle vesti ariose portata via dal vento), colto nella sua imbarazzante debolezza e caducità, involucro in balìa dello scorrere del tempo, spesso in aperto e insanabile conflitto con la realtà ultraterrena, come possiamo leggere nella lirica Anime: «Verso il mattino, / quando i sogni si fanno verticali / per leggerezza, io sono d’un tessuto / trasparente; nelle mie vene l’alba / beve il suo fresco vino. / Ma subito, al risveglio, con un muto / grido di meta-

2 Romagnoli, Confiteor, Parma 1973, p.67: «Per assurdo potessi – se in un lampo / potessi intravedere la Tua Faccia / nel fulgore assoluto che Tu sei; / per assurdo – abolito il Tuo mistero – / se nell’ombra di Te, che a Te m’abbraccia / e Ti fa mio, più non trovassi scampo: / Signore, anche potessi – non vorrei». 3 Ibid., p. 72.


ZAMPILLI LETTERARI morfosi, la carne / ha già escluso la luce».4 Diversamente significativa è la poesia Preghiera:5 il corpo in quest’ottica, in quanto forma ma anche filtro dell’anima nei confronti della realtà oggettiva, uso alle privazioni, ai compromessi e alle sconfitte – l’insistenza anaforica della seconda strofa rivela come su di esso gràvino patimento, fatica e bisogno – diviene luogo privilegiato di quell’urgenza fondante la ricerca mistica della poetessa («Ma non con la mia anima tiranna / Ti pregherò, Signore. / Con questo corpo / nutrito dalle briciole cadute / all’orgoglio dell’anima, con questo / portatore

di pena // con questo muratore senza tetto / con questo domatore di demòni / con questo letto di vene / con questa miniera accecata / che invoca barlumi, / con questo informe mugolìo di fiamma / che tenta canzoni: // col corpo mio Ti pregherò, Signore»). L’anima è ‘orgogliosa’ perché pura, non dubitosa del divino, e proprio per la sua vicinanza all’Assoluto le è impossibile tessere i fili di una preghiera; solo in quella parte di sé digiuna di Totalità – e per questo anche la più incline a rigettarla e a desiderarla – Fernanda Romagnoli può edificare il tempio di una fede tormentata, sì, ma continuamente messa alla prova e rinnovata.

4 Ibid., p. 20. 5 Romagnoli, Berretto Rosso, Roma 1965, p. 18.

Giunte a coppa mani di nebbia in vetta ai rami difendono prematuri lucignoli di gemme. Vento di sottobosco fa comizi proclamando la rotta dell’inverno, seppure retroguardie di nevi dureranno restie a consegnarsi sui colli, e le vie della città son pallide da piangere. Io passo, e vedo, e tocco questi innumeri prodigi certi – questi malcerti indizi. Idi di marzo. La luce ha fronte accesa ma labbra ghiacce: « È presto per nascere ». E spegne i bocci nella nebbia con soffi come baci. L’innocente strage degli innocenti! Anche di questo dovrò chiederti conto, mio Tutto, mio Nulla, mio Chi – illegalmente nominato in me Dio. [Fernanda Romagnoli, Idi di marzo]

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LETTERATURA E CONOSCENZA

Conoscenza dell’amore a Sarajevo Appunti distratti su Izet Sarajlić di Alberto Fraccacreta

Le poesie che possono essere lette da tutti tranne che da te possono ancora essere considerate mie?

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erché, quando una città è devastata, si canta l’amore? Forse, un maggiore chiarimento può riconsegnarlo allo spirito la lirica di Izet Sarajlić (1930 – 2002), poeta bosniaco, noto al pubblico italiano soprattutto per la recentissima pubblicazione di Chi ha fatto il turno di notte,1 edito dalla bianca Einaudi. Ad un primo sguardo, la scrittura poetica di Sarajlić appare indubbiamente arguta, anaforica, prosastica non nel confine di verso, ma nell’insieme, nel risultato ‘letterario’ che comunque molto concede a dignità e a grandezza. Com’è stato giustamente osservato,2 due sono i temi principali della sua opera: Sarajevo e una donna. Anzi, Sarajevo è la donna. Nel senso che, in poeti dilaniati dalla devastazione del luogo nativo e tutta-

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via sordi all’esotismo e all’espatrio dei ‘comodoni’, restare nella propria città significa identificarla con la propria donna. O meglio: nell’essere femminile può giacere quel quid infiammante per cui anche un sobborgo esiziale si trasforma in mèta esistenziale: «Qui, se chiamo persino i pioppi, miei concittadini, / anch’essi sapranno ciò che mi fa soffrire. / Perché questa è la città dove forse non sono stato / troppo felice, / ma dove tuttavia anche la pioggia quando cade non è / solo pioggia». Ecco che, allora, agilmente rampolla nella mente del lettore il Sei la terra… di Pavese: la donna è il suolo raso, la corteccia del mondo dal quale ancora può rinascere qualcosa – e qui abbandoniamo le conclusioni che ne trae il buon Pavese – di salvifico non solo per

1 I. Sarajlić, Chi ha fatto il turno di notte, cur. S. Ferrari, Milano 2012. A onor del vero, già tre volumi dello stesso autore erano stati pubblicati, a partire dal 2001, da Multimedia Edizioni. 2 M. Lattanzi, Chi ha fatto il turno di notte di Izet Sarajlić, <http:// www.wuz.it/ recen-sionelibro/6732/chifatto-turno-notte-izet-sarajlic. html> (cons. 24/07/2012).


ZAMPILLI LETTERARI l’autore, ma per la patria stessa. Il canto d’amore diviene, dunque, una forma di resistenza contro la morte e contro lo sterminio dei guerrafondai, che pure hanno provocato il trapasso dell’amata in tempi di ostilità; ma la memoria cristallizza il volto e ne sancisce l’unicità: «Tante donne / e nessuna tu. // A Sarajevo / duecentomila donne / e nessuna tu. // In Europa / duecento milioni di donne / e nessuna tu. // Nel mondo / due miliardi di donne / e nessuna tu». Il tu di Sarajlić dimostra di essere il senso potente della vita («io che all’amore avevo consacrato tutto il mio tempo») e della letteratura («Le poesie che possono essere lette da tutti tranne che da te possono ancora essere considera-

te mie?»), in ossequio alla grande tradizione trobadorica medievale. Eppure, vi è ancora una radicale quanto tacita differenza: quel ‘tu’ conosciuto da una vita possiede oscuramente il lato inconoscibile e misterioso dell’al di là e della trascendenza. Tipico della poesia anaforica e ‘capovolgente’3 è celare, per mezzo di uno stile asciutto e semplice, il significato profondo del dire. Dice il giorno, ma intende la notte. Si ammanta di uno stile piano, ma possiede un contenuto epidermico poco scontato. Gioca ad essere innocua, ma instilla le rivolte ‘subliminali’ della coscienza. È il caso, ad esempio, della lirica I nostri incontri d’amore al “Leone”.

Come avremmo potuto invecchiare magnificamente tu e io, senza questa follia nazionalista slavomeridionale.

3 Ovvero: quel tipo di poesia che, motteggiando ironicamente, capovolge il fronte del discorso. Un esempio emblemati-co nel nostro è la lirica I critici di poesia: «Perché i critici di poesia / non scrivono poesia / giacché sanno tutto della po-esia? // Sapessero, / forse preferirebbero scrivere poesia che di poesia. // I critici di poesia sono come i vecchi. / Anch’essi sanno tutto dell’amore. / Quello che non sanno è fare l’amore».

Ed invece di tutta la nostra vita sono rimasti solo questi nostri tristi incontri d’amore al cimitero del Leone. Voglio dirti quando sono più felice in questa mia infelicità: quando al cimitero mi coglie la pioggia. Mi piace da morire Inzupparmi insieme a te! Lirica tranquilla e piacevole, di un’ironia tragica. Ma chiara, lineare – apparentemente. Un giovane vecchietto (siamo nel ’98 e Sarajlić aveva sessantotto anni all’epoca), inerme, va a trovare la moglie al

cimitero. Parla della sua unica felicità (la comune inzuppata di pioggia), non si lamenta. Anzi, per un attimo, il tempo di un verso, si lamenta: questa follia nazionalista slavomeridionale! Ma il discor-

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LETTERATURA E CONOSCENZA

so sfuma. È una lamentela nata e morta. Un sassolino nella scarpa. Un’esclamazione menadica, en passant. Invece, il senso immediato della poesia è press’a poco questo: «Al diavolo la morte, ti tratto non come una parvenza, ma come se tu fossi ancora qui e potessi davvero inzupparti con me!» Siamo al punto di prima: il lato inconoscibile e misterioso della trascendenza. Eppure, nonostante tutte le devianze e le parabole del dire, nel timpano del lettore, simile ad un gocciolio martellante, permane quello che pareva essere solo un grido da Baccante: questa follia nazionalista slavomeridionale! In maniera criptica, impercettibile per la reale portata della lezione, il poeta ci ha inoculato – senza che noi ce ne accorgessimo pienamente – un altro, graffiante senso:

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«Quei folli vigliacchi, che li portasse il diavolo, ci hanno impedito di invecchiare insieme!» È una protesta ‘affilata’, molto più efficace di tanti sbandieramenti e tanta demagogia contemporanea. Con le stesse armi di cui si serve il potere (il subliminale, appunto) Sarajlić ha coraggiosamente ‘fregato’ pubblico e potere. Il suono delle sue parole passa inosservato, ma non il suo rifiuto di un mondo dominato dalla violenza e dalle ingiustizie. Anche perché – e in ultima analisi tale è il messaggio autentico – «quei folli vigliacchi, che li portasse il diavolo, ci hanno impedito di invecchiare insieme, ma non mi impediscono, né mi impediranno d’inzupparmi con te». E cos’è questa se non conoscenza poetica dell’amore?


ZAMPILLI LETTERARI

La parola, l’immagine: il verso omerico di Monica Bravi

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n bambino che ogni sera si infila sotto le coperte apprestandosi ad ascoltare la favola dalla mamma vive un’esperienza quasi rituale: compie gli stessi gesti, sceglie una stessa posizione e, quanto più è piccolo, tanto più pretende dalla madre le stesse favole raccontate, preferibilmente, con le stesse parole. È il fascino esercitato dalla ripetizione, dal noto che conferma e rassicura e, di quando in quando, dalla novità inaspettata; è il piacere estatico di chi si perde fra le immagini evocate da una voce ‘sacra’, autorevole e degna di fiducia. Qualcosa di molto simile doveva avvenire quando, nel corso dell’alto arcaismo, la gente si raccoglieva nelle piazze o nei palazzi attorno all’aedo per assistere al ‘rito’ del canto epico. Senza voler cadere ad ogni costo nell’immagine ormai superata della cultura greca arcaica vista come una sorta di infanzia dell’umanità, è comunque un fatto che determinati aspetti di

quella cultura possono essere colti solo se accostati ad alcune esperienze che viviamo nel corso della nostra età pre-scolastica, prima fra tutte l’esperienza dell’oralità. Una comunicazione che non si basa su di un approccio silenzioso e individuale nei confronti di una pagina scritta ma sull’ascolto della voce altrui, porta con sé delle implicazioni completamente diverse, poiché seguire col pensiero delle ‘parole alate’, come le definisce Omero, richiede un salto dell’immaginazione molto maggiore. È chiaro infatti che il peso di una parola ‘che vola’ è molto diverso da quello di una parola che se ne sta inerte su di una pagina bianca. Esattamente come il bambino che ascolta la sua storia preferita, chi udiva il canto dell’aedo sapeva perfettamente che Achille sarebbe tornato a combattere, che Odisseo avrebbe accecato il Ciclope e quale fine attendesse i Proci: del tutto estraneo al principio del ‘come va a finire’, l’ascoltatore era tra-

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LETTERATURA E CONOSCENZA

scinato nel flusso narrativo e si lasciava trasportare con totale accondiscendenza da un canto che non era affatto terreno, bensì voce di un altrove. Attraverso l’ascolto di gesta note compiute da eroi arcinoti egli riviveva non tanto una narrazione di imprese, quanto piuttosto una contemplazione di immagini che si susseguivano l’una dopo l’altra, ricavandone l’impressione di essere sottoposto ad una serie ininterrotta di visioni ispirate dalla Musa al poeta, la cui voce era pertanto sacra, autorevole e degna di fiducia. Nel terzo canto dell’Iliade, quando Iris va a chiamare Elena perché assista al duello fra Menelao e Paride, per alcuni istanti l’andamento narrativo passa del tutto in secondo piano perché, varcando la soglia della stanza con la dea, restiamo attoniti di fronte all’immagine di Elena che tesse una tela: «La trovò nella sala: ed ella tesseva un’ampia tela / doppia e di porpora, e a poco a poco vi cosparge-

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va le molte imprese / dei Troiani domatori di cavalli e degli Achei chitoni di bronzo (Il. 3, 125-7)».1 Il verbo che qui rappresenta l’azione del ricamo, πάσσω, è altrove utilizzato nel senso di ‘spalmare’ medicamenti su di una ferita (Il. 4, 219; 5, 401; 15, 394) o ‘cospargere’ qualcosa di sale (Il. 9, 214). Nel rappresentare il ricamo come un riempire progressivamente la tela di immagini sempre più fitte, il poeta fa leva sullo stupore che si prova nel contemplare una superficie vuota che lentamente si riempie, si arricchisce. Gli stessi versi saranno ripetuti identici, secondo la formularità tipica dell’epos, in riferimento ad Andromaca, pochi istanti prima che la donna apprenda della morte di Ettore (Il. 22, 440-1). Le due figure femminili centrali del poema sono quindi immortalate in una stessa immagine che le ritrae intente all’occupazione femminile per eccellenza, nel momento in cui il proprio destino di donne sta cambiare radi-

1 Le traduzioni dall’Iliade e dall’Odissea qui e di seguito riportate sono mie.


ZAMPILLI LETTERARI calmente. La straordinaria portata immaginifica della poesia omerica risiede soprattutto nella descrizione di quei fenomeni che noi percepiamo come astratti e interiori, in particolare la rappresentazione dei sentimenti e del pensiero. La poesia omerica non opera una vera introspezione che colga il carattere astratto di simili aspetti, ma di essi sottolinea al contrario l’elemento concreto, fisico, viscerale. Il ‘pensare’ in Omero è piuttosto un ‘agitare sensazioni nel proprio petto’ (φρονέω, ὁρμαίνω), e l’esitazione è rappresentata come una vera e propria frattura avvertita all’altezza del cuore ed espressa dal verbo μερμηρίζω, costruito sul raddoppiamento etimologico della radice μερ- di ‘dividere’. Bellissimi sono poi i versi che ci dipingono il dolore di Odisseo, seduto su di un promontorio nell’isola di Ogigia: «Né mai i suoi occhi / erano asciutti di pianto, ma a lui la dolce vita scivolava via / nel dolore per il ritorno (Od. 5, 151-3)». L’uso del verbo κατείβω, che indica lo scorrere di un flusso d’acqua, crea un bellissimo accostamento fra lo scorrere della vita e lo scorrere delle lacrime: in qualche modo la vita di Odisseo sta scivolando via trascinata dalle sue lacrime. Infine particolarmente suggestiva in Omero è la rappresentazione del momento della morte, che viene visto come un ‘consumarsi della porzione stabilita’, poiché nell’immaginario greco arcaico la vita corrisponde alla parte, alla porzione assegnata a ciascu-

no (Moira) dunque destinata un giorno a ‘consumarsi’. Si osservino ad esempio i versi che ritraggono la morte del guerriero troiano Simoesio: «La sua vita, facile a corrodersi, / presto svanì sotto i colpi della lancia funesta di Aiace magnanimo (Il. 4, 478-9)». Αἰών, che indica proprio la vita nel senso della durata (o per meglio dire della quantità) è qui accompagnato dall’aggettivo μινυνθάδιος che, connesso al verbo μινύθω, contiene in sé l’idea del ‘diminuire’, ‘decrescere’, ‘svanire’, ‘consumarsi’: quello che per noi è un finire il nostro tempo in Omero è dunque un esaurirsi della parte di vita che ci spetta.2 Ma più spesso la morte coincide con l’istante in cui la ψυχή, il respiro vitale, abbandona l’eroe riducendolo a corpo inerte. Quando Ettore viene colpito a morte da Achille, nel ventiduesimo canto, «il soffio vitale, volando via dalle membra, scese all’Ade, / piangendo il proprio destino, abbandonando per sempre vigore e giovinezza (Il. 22, 362-3)». L’immagine è, dunque, quella di un corpo che improvvisamente ‘si svuota’ del respiro e appassisce, svigorisce.3 Non è del tutto corretto interpretare questo tipo di rappresentazioni alla stregua di metafore paragonabili a quelle di un poeta moderno, perché l’estrema concretezza del linguaggio omerico sovrasta ancora del tutto il piano dell’astrazione, indispensabile invece per operare il salto implicito da un ‘metaferendo’ a un ‘metaferente’. In questo senso, ad esempio,

2 Di questa rappresentazione della vita come qualcosa che è destinato a consumarsi si trova riscontro nell’immaginario mitico: per volere delle Moire il giovane Meleagro, figlio di Altea, ha una durata della vita pari al tempo impiegato da un tizzone per ardere del tutto nel fuoco. 3 La scansione metrica di questo esametro presuppone fenomeni fonetici precedenti al greco di età storica, confermandoci che si tratta di un antichissimo verso formulare, probabilmente di derivazione indoeuropea, confluito nell’ epos omerico.

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LETTERATURA E CONOSCENZA le parole in Omero verosimilmente sono ‘alate’ non perché implicitamente accostate a delle creature che fluttuano nell’aria, ma perché, molto più concretamente, volano da una bocca ad un orecchio. Per Omero sempre di volo si tratta, non c’è nessuna sostituzione implicita, né esiste del resto modo più efficace per esprime un con-

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cetto simile. Al contrario la poesia omerica si costruisce sulla similitudine, dunque sull’accostamento di un’immagine concreta ad un’altra altrettanto concreta e più universalmente nota: «Come nella piana quattro cavalli maschi / insieme slanciandosi a colpi di frusta / alti levandosi compiono rapidi la


ZAMPILLI LETTERARI via / così la poppa della nave si alzava, e l’onda dietro / del mare risonante ribolliva di schiuma (Od. 13, 81-5)». Tutta la poesia di Omero è dunque un continuo accostamento e susseguirsi di immagini, perlopiù tratte dal mondo animale e naturale. Se il linguaggio poetico di per sé ha il potere di creare nuove realtà, di evocare immagini dotate di una loro reale consistenza, la parola poetica di Omero è immagine essa stessa. Nell’ambito di una performance orale in cui il poeta canta dinnanzi ad un pubblico di ascoltatori, è l’immagine a farsi parola, conservando nel verso tutto il carattere visivo e quasi tangibile che le è proprio.4 Tuttavia sarebbe riduttivo interpretare una simile carica espressiva, una tensione immaginifica di questa portata, che traspare in pratica da ogni verso, come puro artificio retorico. Dietro questo respiro poetico così singolare deve celarsi un particolare modo di sentire la realtà, una tendenza a ricercare l’essenza delle cose nella loro facies più visibile, tangibile, una tendenza che è figlia dell’oralità e di cui la poesia non è che l’espressione più alta. L’oralità, infatti, non è da intendersi come tratto peculiare della comunicazione letteraria, ma come tendenza generale di una civiltà che, pur avendo scoperto la scrittura, persiste nel coltivare l’efficacia comunicativa della parola che vola. Le implicazioni legate al contesto orale della performance si incontrano quindi con successo con una tendenza già in

atto nel tipo di lessico di cui Omero può disporre, nel suo greco arcaico di IX/VIII sec. a.C.: una sfera semantica prevalentemente sensoriale, legata al mondo della fisicità, della materialità, dei fenomeni naturali, a cui il poeta attinge per significare ogni tipo di azione e di esperienza, dal ricamo di una tela alla morte, dai sentimenti alle operazioni mentali. La dizione omerica è poeticità in toto, perché nasce dalla tendenza a conoscere, interpretare e comunicare la realtà per immagini e perché scaturisce da una particolarissima sympathia fra chi canta e chi ascolta, nell’ambito di una civiltà che a questo tipo di connubio assegna la massima sacralità. Quale effetto dovesse produrre un simile canto possiamo solo, per l’appunto, immaginarlo. Certo, però, doveva comportare uno sforzo della ‘vista’ davvero impressionante.

4 Sulla connessione fra immaginario omerico e performance orale si veda J. Russo – B. Simon, Psicologia omerica e tradizione epica orale, «Quaderni Urbinati di Cultura Classica» 12, 1971, pp.40-61.

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LETTERATURA E CONOSCENZA

La memoria è esperienza Jack London e la conoscenza interiore di Riccardo Marchionni

È proprio vero che, non appena si nasce, le ombre della prigione già si chiudono attorno a noi, e troppo presto iniziamo a dimenticare. Eppure, da neonati, serbavamo sicura memoria di altre epoche e di altri luoghi. Noi, infanti indifesi che andavano tenuti in braccio, o ancora gattonavano, abbiamo sognato di volare; e sempre nei nostri sogni siamo stati tormentati e torturati da forme vaghe e mostruose. Noi, appena nati, senza alcuna esperienza, conoscevamo la paura, ne avevamo memoria; e che cos’è la memoria, se non esperienza? Jack London, Il vagabondo delle stelle

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on Il vagabondo delle stelle, Jack London, il ‘realista selvaggio’, il ‘materialista convinto’, sfrutta i canoni del romanzo naturalista per proiettarsi in una visione dell’esistenza libera dai limiti della materia. Il protagonista, Darrell Standing, professore di agronomia all’Università della California, viene rinchiuso nel famigerato carcere di San Quentin per scontare la pena capitale, dopo aver ucciso un collega. Uno scienziato, un tecnico, che, trovatosi a subire la tortura della camicia di forza, educa il suo corpo (con pratiche non dissimili da quelle di un monaco buddista)1 ad

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entrare in uno stato di totale dislocamento dalla mente, una «morte in vita»,2 attraverso la quale elimina il suo desiderio di libertà fisica per raggiungere le vastità spaziali ed indefinite dello spirito e della memoria. Spezzando le catene che obbligano l’anima al livello materiale, egli rivive le sue vite precedenti; ad ogni esperienza extracorporea corrisponde un racconto, l’apertura di una cella con dentro una storia d’altri tempi e spazi, inserita nel quadro totale del romanzo. London affida infatti la narrazione al protagonista stesso che, prima dell’impiccagione, decide di

1 Per altre considerazioni sulle corrispondenze del romanzo con le filosofie orientali di matrice buddhista si rimanda al saggio di Ottavio Fatica «A zonzo nell’eternullità» in postfazione a Il vagabondo delle stelle, Milano 2005. 2 Jack London, Il vagabondo delle stelle, Milano 2005, p. 15


ZAMPILLI LETTERARI lasciare testimonianza scritta dei suoi ‘viaggi’, come a monito della veridicità di un altro piano d’esistenza, del possibile raggiungimento d’un nirvana libero dalla «stanchezza dell’eterno ritorno periodico»3 causato dal susseguirsi delle vite terrene. Darrell Standing, che dunque è solo un nome volto a coagulare la ricorrenza della vita in una forma presente ed intelligibile per il lettore, si fa ‘sciamano illuminato’, assurge a ‘Buddha’ narratore di una dimensione di conoscenza eterna, intrinseca nel genere umano. Tale conoscenza è recuperabile proprio attraverso l’esplorazione interiore e «attraverso il raggiungimento di un completo oblio del presente e della maturità nel frattempo raggiunta».4 Solo con questa ‘ipnosi della materia’ (che in questo caso non è solo una tecnica, ma una vera e propria dichiarazione d’intenti rispetto all’involucro fisico) il protagonista abbandona il corpo e il momento attuale, ritrovando quelle memorie lontane e perdute dell’infanzia, che si ricollegano (e qui Jung fa capolino) ad una base inconscia di conoscenze collettive e primordiali. È proprio sotto le spoglie di un bambino che l’entità protagonista e narrante (insensato ormai parlare di Darrell Standing o unicamente di ‘protagonista’) inizierà a viaggiare in spazi e tempi dilatati all’infinito. Il suo vagare è totale, eterno ed instabile ma è da questo stato di coscienza primevo e non cristallizzato (l’infanzia, appunto) che l’entità, muovendosi verso il

suo interno,5 acquisisce la possibilità di snodarsi attraverso le esistenze passate. Si è resi partecipi di una forma di conoscenza vista come movimento verso le profondità dello spirito; un reimmettersi nel flusso non ancora definito della coscienza prematura e prestorica. Una visione mistica a tal punto può essere portata avanti da qualcuno che si considerava fedele al ‘fatto’ e alla scientificità della scrittura? Se si analizza attentamente l’opera del materialistico London, ci si accorge che tutto ciò non solo è possibile, ma anche frequente. Egli è spesso andato a nozze con gli slanci di spiritualità mitica che caratterizzano Il vagabondo delle stelle, nonostante il suo professarsi contrario. In tali momenti, London ha svelato la sua profonda dualità letteraria. Già nei primi lavori (mi riferisco in particolar modo a Il richiamo della foresta), dietro alla cruda descrizione dell’ambiente e della vita nel Grande Nord americano, echeggia una voce testimone di tempi remoti.6 Un richiamo, appunto, che trascende tutte le vite, dai primordi al presente, e arriva vivido e irresistibile dalle profondità dell’animo; che sia udito da un carcerato in una camicia di forza o da un cane nelle foreste innevate dello Yukon, esso ha sempre la stessa forza e la stessa identità. La Conoscenza spinge il cane Buck ad entrare nella foresta e l’uomo a navigare, con lo spirito, nel mare dello spaziotempo.

3 Ibid., p. 372. 4 Ibid., p. 57. 5 L’unica via possibile, vista la mancanza di un corpo che interagisca con l’esterno. 6 London, Il richiamo della foresta, Torino 2007, p. 55: «Ben più possenti erano, in lui, le memorie ereditarie, che gli facevan sembrare note e consuete cose mai viste con i suoi occhi; infatti si stavano risvegliando e rianimando, in lui, gli istinti (che erano poi memorie dei suoi antenati, divenute abitudini) affievolitisi in periodi recenti, e, più ancora, in epoche remote».

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LETTERATURA E CONOSCENZA

Il pensiero scientifico nei Medical Drama Le due culture percepite dai media e un loro punto d’incontro: le pseudoscienze di Gianfranco Stigliano

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er te c’è una sola e semplice regola: dire la schietta e « onesta verità nella maniera più brutale; e ciò che sarà, sarà; ciò che sarà è ciò che dovrebbe essere; e tutti gli altri sono dei codardi. Ma ti sbagli: non è codardia il non dare dell’idiota a qualcuno».1 Con queste parole il Dottor House viene criticato dal proprio subconscio durante una dolorosa convalescenza causata dal suo cinico modo di vivere. Queste parole scatenano l’unica tempesta emotiva che il protagonista vive durante l’intera serie televisiva. L’enorme successo del sarcastico medico può essere portato quale esempio dell’eterno confronto tra pensiero scientifico e pensiero umanistico. La cultura umanistica ha visto perdere gran parte della sua autorevolezza nella società moderna a causa dell’incedere dei movimenti scientifici, nello specifico a partire dal movimento positivista ottocentesco. In questa ‘regressione’

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essa è stata accompagnata dalla religione, le cui credenze erano e sono ritenute prive di qualsiasi validità scientifica. Ciò non è un caso: il Positivismo ha visto la sua affermazione proprio perché si pensava che tutti i problemi dell’umanità potessero essere affrontati e risolti con la sola forza del ragionamento. Si delineò quindi un nuovo tipo di fede, diversa dalle precedenti, per cui l’uomo, insofferente più che mai a ciò che non poteva controllare e capire, rifiutava qualsiasi avvenimento e credenza non potesse essere dimostrato con procedimenti sperimentali riproducibili. In fondo tuttavia, si tratta di una nuova forma di fede, una fede profondamente antropocentrica che ha aperto il campo a problemi etici (Hiroshima e Nagasaki, per esempio) e ambientali (e forse anche di quelli economici, frutto di un pensiero profondamente relativistico), anch’essa è destinata a trasformarsi con i mutamenti

1 House M.D. Season 2, Episode 24: No Reason. 2 Stephen Hawking, Dal big bang ai buchi neri. Breve storia del tempo, trad. it. di L. Sosio, Rizzoli, Milano 2000.


ZAMPILLI LETTERARI della società. E in un certo senso è stato così. Come anticipato, questo mutamento può essere percepito dal successo dei Medical Drama, serie televisive che indagano sulle varie implicazioni etiche ed emotive del rigido ragionamento scientifico in campo medico (e di cui Dr. House fa parte). Nel caso menzionato all’inizio dell’articolo, il Dr. House si serve della brutale verità quale unico mezzo di approccio al mondo esterno. Il benessere del protagonista è in questo modo fortemente compromesso, così come il rapporto medico-paziente. Ed è proprio parlando del benessere dell’uomo che la serie tv smaschera efficacemente l’errore del pensiero scientifico portato all’estremo. La scienza ci ha dato le basi per la costruzione della società di oggi, con i suoi pro e contro. È merito della scienza, del rigoroso metodo iniziato da Galilei, se oggi siamo capaci di viaggiare nello spazio, curare malattie gravissime e confermare teorie della fisica quantistica. Il fallimento si è palesato tuttavia solo nel momento in cui il Positivismo si è sostituito alla fede, ovvero un relativismo assoluto non poteva essere un punto fermo per l’essere umano. La formulazione di una teoria scientifica segue infatti un iter piuttosto preciso, verificato da più fonti contemporaneamente, in modo che l’osservazione finale sia oggettiva e verificabile da tutti. Tuttavia, soprattutto negli ultimi anni, si è arrivati a una vera e propria ‘dittatura’ del relativo, secondo cui non esiste alcu-

na verità assoluta in campo scientifico. Le teorie formulate, infatti, sono ritenute valide fintanto che l’evento atteso in base ad esse non si verifica più. Come dice Stephen Hawking, «non importa quante volte i risultati di un esperimento sono in accordo con una teoria, non si può mai essere completamente sicuri che la prossima volta i risultati non saranno in contraddizione con la teoria».2 Ecco quindi che assistiamo all’avanzare delle pseudoscienze, discipline intermedie tra cultura umanistica e scientifica. Un esempio lampante di questo connubio può essere dato dall’omeopatia, considerata una pseudoscienza medica, le cui basi si rifanno in parte a Ippocrate e alla sua teoria degli umori e che sono molto vicine al campo della filosofia. Il proliferare delle pseudoscienze avviene perché l’uomo, stanco delle confutazioni continue delle teorie scientifiche e bisognoso di certezze assolute, cerca di dare autorevolezza scientifica ad argomentazioni che non appartengono all’ambito scientifico. Detto con una sorta di sillogismo: l’uomo ha bisogno di certezze; l’uomo moderno riconosce come certo solo il metodo delle scienze fisico-matematiche; e dunque tenta di applicare questa ‘scientificità’ anche agli altri ambiti della conoscenza.3 Da dove deriva il termine pseudoscienza? In effetti il metodo ‘pseudoscientifico’ ha parecchi caratteri comuni con quello religioso. Le critiche mosse dalle autorità scientifiche sono disparate, tra cui

3 Per approfondire sulla differente scientificità delle varie discipline si rimanda a: J. Maritain, Distinguere per unire. I gradi del sapere, cur. A. Pavan, trad. it. di E. Maccagnolo, Morcelliana, Brescia 1974.

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quella di non seguire il rigido metodo galileiano, presentare un metodo deduttivo, ecc... Ma la caratteristica forse più determinante è che le pseudoscienze ritengono valido ciò che apporta benessere all’essere umano, utilizzando questo come principale, seppur non unico, strumento d’indagine. Non è solo la pseudoscienza, tuttavia, a basarsi sull’indeterminazione: anche la scienza più avanzata si fonda, ad esempio, sull’impossibilità di conoscere con precisione velocità e posizione di una particella subatomica in un preciso istante.4 Consideriamo l’atomo, costituito da un nucleo di protoni e neutroni attorno ai quali orbitano gli elettroni: ebbene, poiché non possiamo conoscere l’esatta posizione dell’elettrone attorno al nucleo, possiamo solo ipotizzare che in una zona ci sarà una maggiore probabilità di trovare l’elettrone

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in dato momento. È anch’esso uno studio di tipo probabilistico, non verificabile con certezza, come la pseudoscienza. Quest’ultima, però, ha un campo di appartenenza più vicino al filosofico. Può risultare, allora, che i problemi etici e personali vengano da queste indagati maggiormente, specie se si considera che alcuni scienziati ritengono persino la psicanalisi stessa intermedia tra scienza e pseudoscienza. Questo scetticismo ha spinto la comunità scientifica a istituire un premio (Premio Randi), per cui verrà consegnato un milione di dollari a chiunque riesca a dimostrare la veridicità delle teorie di alcune pseudoscienze. Ma se la comunità scientifica ha definito, per esempio, astrologia e omeopatia ‘pseudoscienze’, com’è possibile dimostrare la veridicità delle loro teorie secondo il metodo scien-

4 Vd. il Principio di indeterminazione di Heisenberg.


ZAMPILLI LETTERARI tifico? E soprattutto, se il principio delle pseudoscienze è davvero quello secondo cui si ritiene valido ciò che funziona ed è soddisfacente per se stessi, che senso ha dimostrare che sono teorie fondate sul nulla? Se ad esempio la scienza riconosce l’importanza dell’effetto placebo, che consiste in una risposta dell’organismo ad una terapia non derivante dal principio attivo del farmaco, ma solo da ciò che l’individuo si aspetta dalla terapia stessa, paragonare gli effetti dei farmaci omeopatici all’effetto placebo significa riconoscerne implicitamente la validità. È la scienza medica che riconosce paradossalmente il valore della omeopatia. O, forse, significa che la scienza (quella che si autodefinisce tale) è costretta ad ammettere al suo interno il valore di qualcosa che non sa spiegare e che mette in crisi i suoi stessi fondamenti scientifici. Se comunque molte persone hanno bisogno di credere in qualcosa, perché mai ridicolizzare ciò che apporta loro benessere? Se un rigido scienziato si trovasse davanti a una forma, indefinibile e misteriosa, che per qualche oscura ragione è in grado di renderlo felice... sarebbe in grado di godere di quella sensazione o tenterebbe di comprenderla e sezionarla nel dettaglio fino a corromperla del tutto? Per concludere cito la parte finale del discorso di House, l’unica nella serie che è stata capace di rigare il volto mascherato del dottore con una lacrima: «Tu pensi che l’unica verità che conta è la verità

che può essere misurata. Le buone intenzioni non contano, ciò che è nel tuo cuore non conta, la cura non conta. Ma la vita di un uomo non può essere misurata a seconda di quante lacrime vengono versate quando muore. Perché non si possono misurare. Perché nessuno vuole farlo. Ma non significa che non ci siano. [...] Per te non esiste alcuno scopo per nulla, anche per le vite che salvi. Trasformi l’unica cosa decente della tua vita e la macchi, la spogli di ogni significato. Sei un miserabile per niente. Non so perché ci tieni a vivere».5

5 House M.D. Season 2, Ibid.

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LETTERATURA E CONOSCENZA

Smettere di difenderci dai libri La letteratura come training sociale di Sara Balleroni

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iorni fa, in biblioteca, mi son imbattuta in un libro intitolato 100 romanzi di primo soccorso per curare (quasi) tutto;1 l’autrice elenca una serie di malattie, disturbi o semplicemente situazioni spiacevoli (dalla depressione al triangolo amoroso) in cui il lettore può incorrere e consiglia un’opera dalla cui lettura trarre giovamento. Per curare, ad esempio, l’apatia (o, meglio, la mancanza di interesse nelle cose), il libro consigliato era Oblomov, il classico di Gončaròv; ora: Oblomov è, esattamente, l’emblema dell’indolenza e dell’inattività, quindi – mi son detta – come si può pensare che per vincere una condizione, una malattia (in senso lato) dell’animo, si debba leggere un libro che la descrive minuziosamente? La cura coincide forse con il disturbo? E, in effetti, credo di sì. Quando siamo assillati da un problema, e abbiamo bisogno di qualcuno con cui parlarne, cerchiamo un amico che abbia

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vissuto la nostra stessa situazione, qualcuno che sappia a cosa ci riferiamo e che sappia darcene, magari, una prospettiva diversa. Insomma, se sei depressa perché sei grassa non vai a prenderti un caffè con la tua amica modella. Con i libri è esattamente la stessa cosa, perché ogni libro è una condivisione: di un’esperienza (senza inoltrarsi nel dibattito sull’autobiografismo), di una storia, di un pensiero; e dietro ogni libro c’è una persona, che ha scritto il libro non per compiacere il lettore, ma per mettere in gioco una parte di sé e farcene dono, così com’è. David Foster Wallace diceva: «Il talento è solo uno strumento. È come avere una penna che funziona anziché una che non funziona. [...] C’entra invece l’amore. La disciplina necessaria a far parlare quella parte di sé capace di amare, anziché quella parte che vuole solo essere amata».2 L’autore – per essere grande – per essere sincero, non può cercare la compia-

1 S. Janicot, 100 romanzi per curare (quasi) tutto, Corbaccio, Milano 2009. 2 D. F. Wallace, Brevi interviste con uomini schifosi, Einaudi, Torino 2010; p. 6.


ZAMPILLI LETTERARI cenza; con le parole di Parise: «chi vuole vivere e scrivere in modo da commuovere gli uomini non può conoscere astuzia».3 Da un autore ci aspettiamo la gratuità e la sincerità che è propria di ogni dialogo d’amicizia ed è quindi naturale che, per affrontare un libro in questa prospettiva, sia necessaria la cooperazione del lettore. Il lettore e l’autore sono, per un momento, alla pari: quando si apre un libro e lo si legge, la voce che si intravede dietro la parola stampata sta parlando, in quell’istante, solo per noi. Dietro ogni libro c’è una persona e ad ogni libro ci si dovrebbe avvicinare con questa consapevolezza: così come non è la cultura a fare la dignità di una persona, allo stesso modo non è il valore letterario a fare la dignità di un libro. Ovviamente, come in tutti i rapporti sociali, ognuno ha i suoi strumenti per relazionarsi alle persone e ci sono valori e qualità quasi assolute, che non possono che essere ricercate e lodate nelle persone che ci circondano. La bellezza, o la cultura, o la gentilezza, sono doti abbastanza oggettive (e canonizzate dall’epoca in cui si vive), a cui praticamente tutti si rapportano positivamente; allo stesso modo ci sono caratteristiche – di bello scrivere, per esempio – che rendono la comunicazione letteraria più semplice e gradevole: è ovviamente più facile comunicare con chi sa ben parlare. Ma non è solo questo, non si tratta solo di ben parlare e di facile comunicare, altrimenti l’Ulisse di Joyce sarebbe finito in un cas-

sonetto qualche decina d’anni fa; Joyce ha creato una lingua segreta che ha stretto a sé i suoi lettori, più vicini di chiunque altro. Ma poi, in fin dei conti, c’è chi non riesce ad apprezzarlo, a goderne, anche se non si potrebbe mai metterne in discussione la grandezza. Di nuovo come con le persone, allora: non ci sono solo caratteri docili e solari, ma a volte le grandi amicizie e le grandi passioni si nascondono proprio dietro i visi più burberi ed ostici. A dirla così, ammetto, sembra che si possa trovare del buono in ogni opera, in ogni libro, in ogni parola, prescindendo dal valore letterario. Se così fosse non avrebbe senso decidere cosa leggere, o tenere sul comodino un libro del cuore, che c’è stato vicino in un momento particolare, e che magari ogni tanto si rilegge; invece, proprio come con le persone, siamo noi a scegliere a chi avvicinarci, e con chi passare più tempo; sta a noi vedere con chi ci sentiamo più a nostro agio. Ci sono volte in cui devi necessariamente parlare con qualcuno, anche se magari non ti va a genio, perché altrimenti saresti scortese, e magari scopri che anche quella persona aveva qualcosa da darti, anche se da solo non saresti mai andato a cercartela. Il punto è, credo, che il lettore debba scendere dalla sua roccaforte, debba smettere di difendersi dai libri e svestire i panni del critico: liberarsi dal giudizio e dall’ansia di dover, necessariamente, dare una sentenza netta che definisca da che parte si

3 G. Parise, Il ragazzo morto e le comete, Rizzoli, Milano 1997; quarta di copertina.

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sta, è l’unico modo per sgombrare la mente e lasciar spazio, effettivo, alle opinioni sincere. Ci vuole un po’ di benevolenza, un po’ di senso di comunione, perché, in fondo, siamo tutti sulla stessa barca. Il libro è il caffè sul tavolino, che ti è stato offerto; il libro è un passo avanti, un’apertura davanti alla quale non si può rimanere inerti: si tratta di qualcosa che non è nato appositamente per noi, non è su misura, ma a noi è stato offerto, ed è giusto ad esso ci si approcci come ad un dono che poi, in fin dei conti, può anche non piacere, ma di cui si è comunque grati. La letteratura ha il pregio di poterci dare un’esperienza sociale: dietro ogni opera c’è una persona diversa che parla con un suo, peculiare, tono di voce; entrare in una biblioteca può essere come andare ad una festa, e cercare in giro un viso familiare con cui chiacchierare. Non si cresce soli, ma d’espe-

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rienza e di parole: e la letteratura è l’unico mezzo che abbiamo, ora, di ascoltare le parole anche dei grandi uomini e delle grandi donne che ci sono lontani nello spazio e nel tempo.


ZAMPILLI LETTERARI

L’«altra» conoscenza I Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese di Umberto Brunetti

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è un’«altra» conoscenza, diversa da quella che procede sicura nel tempo, tra un principio di causalità e uno di non contraddizione. C’è una conoscenza che permane nell’attimo, che guarda all’indietro, che è memoria – lucore d’arcaico mistero che si svela; ed è mito. «C’è una sapienza più antica»,1 dice Prometeo ad Eracle ne ‘La rupe’, uno dei ventisette brevi racconti che costituiscono i Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese; più antica persino degli dèi che tutto sanno. Prometeo ha rubato il fuoco e paga il fio incatenato nudo sulla cima di un monte; quello stesso fuoco con il quale il suo benefattore, Eracle, sconterà il sangue versato di tanti mostri: perché nulla si fa che non ritorni («Prometeo, lascia che ti sciolga. – Sono già sciolto, Eracle. Io potevo essere sciolto se un altro prendeva il mio posto. E Chirone si è fatto trafiggere da te, che la sorte man-

dava. Ma in questo mondo che è nato dal caos, regna una legge di giustizia. [...] Nulla si fa che non ritorni. Il sangue che tu hai sparso e spargerai, ti spingerà sul monte Oeta a morir la tua morte. Sarà il sangue dei mostri che tu vivi a distruggere. E salirai su un rogo, fatto del fuoco che io ho rubato»). Ne ‘Le streghe’ Circe dialoga con Leucotea lamentandosi di aver perduto il suo Odisseo. Costui, spiega la maga, «non seppe mai il sorriso degli dèi – di noi che sappiamo il destino».2 E quando essa gli anticipò l’ultimo viaggio che l’attendeva e la discesa all’Averno, egli non pianse per paura, ma perché ciò «gli era imposto dal fato, era una cosa già saputa. E allora perché farlo?». Eppure la dea Calipso proprio a lui aveva offerto l’immortalità, la sorte di chi antivede il futuro e non conserva memoria. Ma Odisseo ricordava, e anche nell’antro dell’isola lontana pensava al suo talamo, a Penelope e a suo figlio; e rifiutò. Il senso di

1 C. Pavese, Dialoghi con Leucò, Einuadi, Torino 2011, p. 72. 2 Ibid., p. 114.

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LETTERATURA E CONOSCENZA quella che a Leucotea può sembrare una scelta dissennata viene così spiegato da Circe: anche gli uomini godono una propria ‘immortalità’; «L’uomo mortale, Leucò, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia. Nomi e parole sono questo. Davanti al ricordo sorridono anche loro, rassegnàti». L’uomo vive nella memoria, nella condizione di chi non sa il suo destino e trascorre ogni attimo con lo stupore di una cosa inattesa. È così, e non può essere diversamente. Per questo, ci spiega Pavese in uno dei suoi Dialoghi più affascinanti (‘L’inconsolabile’), in quel giorno tremendo Orfeo si voltò. «Mi sentivo alle spalle il fruscìo del suo passo. Ma io ero ancora laggiù e avevo addosso quel freddo. Pensavo che un giorno avrei dovuto tornarci, che ciò che è stato sarà. [...] Valeva la pena di rivivere ancora?».3 L’uomo che avanza lo sguardo oltre le porte del giorno, che scopre quello che accadrà nella notte, conosce il destino e ne resta annichilito. Il nulla assale Orfeo con la consapevolezza della vanità di ogni tentativo di piegare l’ineludibile morte («Come poter far rivivere Euridice con la consapevolezza che sarebbe ricaduta nel nulla, che ciò che è stato sarà?»). Bacca stenta a credere alle parole del cantore: «Il dolore ti ha stravolto, Orfeo. Chi non rivorrebbe il passato? Euridice era quasi rinata. – Per poi morire un’altra volta, Bacca. Per portarsi nel sangue l’orrore

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dell’Ade e tremare con me notte e giorno». Dunque non valse nulla a Orfeo un viaggio così ardito? Niente affatto: dal profondo pessimismo pavesiano emerge un senso di ‘riparazione’ e un barlume di speranza. Orfeo non scese nell’Ade per salvare Euridice da un destino che non si cancella: «Io cercavo, piangendo, non più lei ma me stesso. Un destino, se vuoi. [...] Ho cercato me stesso, non si cerca che questo». Come afferma Orsini, «in questo ritorno al passato, alla morte, al nulla, [Orfeo] ha toccato il suo limite, il suo destino, e in questo suo perdersi ha trovato la virtù divina del canto, che è memoria e consapevolezza»:4 «Ero quasi perduto, e cantavo. Comprendendo ho trovato me stesso», è questo il segreto che Orfeo svela a Bacca. Il tema del canto e della poesia ‘rivelatrice’ riaffiora in un altro dialogo appassionato, ‘Le muse’, il penultimo dell’opera. La dea Mnemòsine, madre e antesignana delle Muse, parla con Esiodo e gli chiede il perché del suo scontento. Il poeta lamenta il «fastidio» delle cose e dei lavori: la vita dell’uomo mette sempre davanti alla stessa fatica e alle stesse mancanze. «La fatica interminabile, lo sforzo per star vivi d’ora in ora, la notizia del male degli altri, del male meschino [...] – questo è il vivere che taglia le gambe, Melete».5 Questo ‘male del quotidiano’ – che è il disagio esistenziale del poeta in astratto e, allo stesso tempo, dello scrittore Cesare Pavese – spinge Esiodo a fuggire sul-

3 Ibid., p. 77. 4 E. Corsini, Orfeo senza Euridice: i «Dialoghi con Leucò» e il classicismo di Pavese, in «Sigma», I (dicembre 1964), nn. 3-4, pp. 124-35. 5 Pavese, Ibid., p. 166.


ZAMPILLI LETTERARI la montagna e a ricercare la musa: «Le cose che tu dici non hanno in sé quel fastidio di ciò che avviene tutti i giorni. Tu dài nomi alle cose che le fanno diverse, inaudite, eppure care e familiari come una voce che da tempo taceva». Mnemòsine domanda allora all’aedo se non è vero che anche agli

uomini accadono dei momenti in cui il tempo pare fermarsi e le cose si svestono del grigiore quotidiano e rilucono di tutta la loro limpida essenza. Esiodo ammette che ciò avviene, ma solo nell’attimo in cui la cosa si trasforma in ricordo, in modello («È solo un attimo, Melete. Come posso fermarlo?»).

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LETTERATURA E CONOSCENZA Non si può pensare un’esistenza fatta tutta di quegli attimi, lamenta l’uomo-poeta: gli «istanti mortali non sono una vita. Torna sempre il fastidio». Ma la Musa risponde che nemmeno il fastidio «è tutta la vita», e che anche la miseria e il dolore della vita mortale hanno dentro il divino: «Ogni gesto che fate ripete un modello divino. Giorno e notte, non avete un istante, nemmeno il più futile, che non sgorghi dal silenzio delle origini». Viviamo a stretto contatto col divino, solo non ce ne accorgiamo: questo il messaggio del racconto, e più in generale di tutta l’opera. Quale può essere allora il compito del poeta di fronte a tale condizione? Pavese racchiude la risposta nelle battute finali del dialogo tra Esiodo e Mnemòsine: «Tu parli, Melete, e non posso re-

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sisterti. Bastasse almeno venerarti. – C’è un altro modo, mio caro. – E quale? – Prova a dire ai mortali queste cose che sai». Cosa sono dunque i Dialoghi con Leucò, questo libro misterioso e affascinante, così diverso dalla restante produzione pavesiana? Lo scrittore delle Langhe, che si autodefinisce nella prefazione all’opera «testardo narratore realista», ritorna al mito, lo rinarra, a volte stravolgendolo, di certo immergendolo di una nuova sensibilità moderna e rendendolo anzitutto un dialogo con se stesso. Come Orfeo disceso nell’Ade, Pavese si immerge nel gorgo dei miti in «una ricerca di consapevolezza e di comprensione di sé e degli altri»,6 che è allo stesso tempo ciò che accende e costituisce la poesia. Nonostante il

6 Corsini, Ibid.


ZAMPILLI LETTERARI profondo pessimismo, la condanna del ‘ciò che è stato sarà’ e l’ineludibilità del destino umano che, come Orfeo scopre, è destino di morte, dall’opera pavesiana emerge un forte senso di armonia e di riparazione: anche all’uomo mortale è data la sua immortalità nel ricordo, nel tempo fuori dal tempo, nell’attimo che fissa le cose nel loro ‘eterno’ facendoci percepire il ‘divino’. Come afferma Patrizia D’Arrigo, «il canto dice l’orrore del destino, attraverso la parola. Ma dicendolo ce ne libera, è salvifico».7 Alla poesia è dunque questo compito catartico, che è assieme cura e conoscenza: attraverso il canto Orfeo trova se stesso, con la poesia Esiodo dirà ai mortali quelle cose che sa per aver ascoltato la Musa. E attraverso la comprensione la strada del mito intrapresa da Pavese porta anche all’accettazione della condizione umana e alla coscienza della sua profonda dignità. L’uomo è l’essere che persino gli dèi ammirano e a cui vogliono stare accanto: loro che sorridono, ma non sanno né ridere né piangere, tutti «camminano la terra fra gli uomini». Perché «la parola dell’uomo, che sa di partire e si affanna e possiede la terra rivela a chi l’ascolta meraviglie. [...] Sono poveri vermi ma tutto fra loro è imprevisto e scoperta. Si conosce la bestia, si conosce l’iddio, ma nessuno, nemmeno noialtri, sappiamo il fondo di quei cuori. C’è persino, tra loro, chi osa mettersi contro il destino. Soltanto vivendo con loro e per loro si gusta

il sapore del mondo» (‘Gli uomini’).8 Ecco allora il senso intimo della riscrittura dei miti classici pavesiana: la parola poetica, la parola del mito ancora oggi ci apre contrade nascoste allo sguardo razionale del procedere nel tempo. La poesia è la via della memoria, che fissa nell’attimo le cose nella loro essenza; è la strada verso la comprensione di un destino non svelato, è bagliore di assoluto. Sentimento del divino che percepiamo, e a cui siamo chiamati a dare voce.

7 Patrizia D’Arrigo, Mito e modernità nei «Dialoghi con Leucò», http:// www.italianisti. it/fileservices/ D’Arrigo%20Patrizia.pdf (cons. 25/07/2012). 8 Pavese, Ibid., pp. 143-7.

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La poesia e il poeta oggi Intervista ad Andrea Gibellini di Matteo Giunta

A

ndrea Gibellini è poeta; nato a Sassuolo nel 1965, ha pubblicato le raccolte di poesia Le ossa di Bering (NCE 1993), È solo il vento (Pulcino Elefante), La felicità improvvisa (Jaca Book 2001, con cui ha vinto il Premio Montale). In occasione della presentazione della sua raccolta di saggi L’elastico emotivo (Incontri 2011) all’università degli studi di Urbino ‘Carlo Bo’, abbiamo rivolto al poeta alcune domande sul significato della poesia all’interno di quella che è la società di oggi, sul pubblico della poesia e sull’esperienza poetica personale, alla luce di quella che è la capacità conoscitiva della letteratura e della poesia e la loro potenza sociale oltre che individuale.

In che modo la poesia può essere un mezzo di conoscenza del mondo e di sé; quale importanza assume l’osservazione del reale nella sua opera e quali esiti raggiunge? L’osservazione del reale penso che sia di primaria importanza all’interno di un discorso poetico, come è altrettanto importante (e Pascoli quanto Montale ce lo dicono attraverso la forza della loro poesia) identificare ciò che non è immediatamente reale, cioè le cose come le immagini fuoriuscite dalla memoria che diventano spettro (proprio spettro) di quello che noi percepiamo, intendiamo, come cosa reale. Ma un poeta si chiede anche se esiste poi una realtà da conoscere: se esiste o può esistere un realismo della poesia è in fondo una contraddizione quasi in termini, un divario metafisico tra la poesia e la percezione del reale. Perché credo che il punto fondamentale, almeno per quanto mi riguarda, sia quello di come si determina una poesia, la sua intrinseca composizione. Certamente il rapporto con la realtà e il tentativo di una sua conoscenza esiste, è indubbio e fuorviante non sostenerlo come un fatto direi acquisito. Ma è anche indubbio che la poesia è una ri-creazione della realtà (un organismo vivente spiegava brillantemente Sereni sull›esempio della poetica di Char). Ma ogni poeta ha, o dovrebbe avere,

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ZAMPILLI LETTERARI una sua poetica, un suo stile dal quale sviluppa una propria identità nella poesia. Ricreare uno stato di cose, cioè una poesia, vuole anche dire intuire una libertà del fare poesia, nel dire in versi e come noi vogliamo un vedere e un sentire. Tutto questo, naturalmente, non può essere solo teoria. La poesia, in fondo (ecco un aspetto che ribalta il concetto di poesia come riflesso metafisico di un modo di vivere e vedere) ha una sua praticità di fondo, esiste nel momento che la composizione esiste, il suo valore è dato nel momento che è reale. La poesia italiana del secondo Novecento può essere definita una ‘poesia senza pubblico’. Quali sono, secondo lei, le cause di questa indifferenza? Come dire: è una falsa credenza. Non è vero che la poesia del Novecento non abbia avuto un suo pubblico; diciamo che ha avuto un pubblico più attento a questo fatto artistico che noi chiamiamo poesia. E i poeti (bisogna dirlo) erano più grandi basti citare i soliti Montale, Sereni, Bertolucci, Giudici, Porta, per fare qualche nome. Noi viviamo in un’epoca del disagio linguistico, intendo dire che il rapporto che abbiamo con la lingua della poesia si è addensato di ambiguità e di poche certezze. Il pubblico della poesia è diventato il pubblico dei poeti. Tra poesia e critica è venuto a mancare uno scambio culturale che una volta era sicuramente maggiore; i valori dei singoli poeti sono annebbiati da una massa spesso indistinta (e un po’ volgare) di persone che scrivono; gli argomenti della poesia sono gli argomenti privati e la lingua usata per manifestare questi argomenti privati (spesso lutti, sfortune varie, e parenti vari con un occhio speciale, mi pare, alla saggezza delle nonne) è una lingua di sintassi media italiana spesso priva di errori grammaticali. Viene da chiedersi, allora, se la lingua della poesia sia una lingua di normalità o normativa o se sia invece una lingua che intensifichi e modifichi (creativamente) uno stato di cose. Si vorrebbe, in sostanza, come utopia, un lettore creativo che conosca il valore della poesia come entità storica. Chi ascolta un concerto di musica classica ha spesso dei riferimenti culturali; la mia impressione che questi parametri culturali siano spesso assenti nelle circostanze dove si legge o si pratica la poesia. Come tornare a ‘dar credito’ alla poesia? La domanda riflette inevitabilmente la precedente. La felice frase ‘dar credito alla poesia’ proviene dal discorso del premio Nobel irlandese Seamus Heaney. È un poeta che io ho molto amato; in particolare mi ha interessato il suo modo (empirico, oggettivo, di tradizione anglosassone) di parlare di poesia nella sua scrittura critica. È un tipo di scrittura, la sua, dialettica, che vede la poesia come un fatto oggettivo da commentare: così sia la storia che la poesia si intrecciano in un unico spartito sonoro, la concentrazione del poeta è virtuosa non è fine a se stessa. Forse ri-dare credito alla poesia significa ri-focalizzare il termine poesia ridargli il suo spazio. Fare attenzione. La poesia (come tutte le arti) è una cosa delicata: odia il potere, il potere che la vuole assoggettare, odia il pressapochismo, la scarsa definizione delle cose. Ma tutto ciò che io adesso dico, come il discorso che facevo sopra sulla poesia infine come cosa pratica, deve essere appunto messo in pratica, ecco (forse) dove sta l’eticità della poesia e del fare poesia.

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LETTERATURA E CONOSCENZA Quale ruolo, lei crede, possa avere concretamente la poesia in un mondo dominato dall’economia? Il poeta, vivendo (quando scrive, come io adesso), nel solco dell’emergenza individuale e creativa, capisce che anche lui deve vivere in mezzo agli altri uomini e che dunque deve avere un lavoro magari una famiglia etc; avere una identità sociale, ma il suo essere per natura confligge con la natura sociale (economica) che ogni giorno vive. É un conflitto irriducibile. Qui il poeta non ha speranza, perde sempre; a meno che non trovi uno spazio creativo dentro alla società. Non so se sia possibile qui in Italia. Da noi il conflitto tra natura e società si esaspera perché al poeta viene dato un ruolo o una maschera. A quale pubblico immagina di rivolgersi il poeta di questo secolo? Vorrei, nella mia utopia di scrittore in versi, rivolgermi ad un lettore creativo. Libero di leggermi come libero di non leggermi, libero da ogni tipo di legame che ha me come persona. Un lettore altrettanto consapevole di quello che sta ascoltando e leggendo, e che sia, questa mia voce spuntata dal nulla, di qualche utilità creativa, non so se per vivere o per sognare o per scoprire e conoscere l’immaginazione che fa nascere le cose a cui noi teniamo.

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Levarsi la maschera di Camus

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ermi tutti!», dissi alla calca raggruppata nella piazza olivastra, un giovedì nero. «Fermi tutti. E tu, donna, quando presterai ascolto ai miei richiami? « Tu, che cammini senza mai fermarti per lunghe strade e guardi con occhi acerbi il farsi e il disfarsi d’illusioni. Tu, che la speranza è lì per abbandonarti, ma vesti ancora di abiti fruscianti per tirare tardi la sera. Tu, che il mondo avresti dovuto salvare, ma t’ubriachi con amarezza, perché hai ceduto alle finzioni con ricatto e prima degli altri. Cosa farai adesso? Fumerai di grazia. Navigherai nell’ordinario. Attenderai un qualche accenno di divinità disturbate, che t’allontanino dal tuo dio più di quanto già non lo sia. Nondimeno, nulla riuscirai a cavare per sfuggire alla spaventosa solitudine che ti circonda e che ti ha reso così desertica e inospitale. Di rena e scorza è fatto il tuo sentiero, di bestie feroci la tua via. Sei solo un grosso abbaglio, un insulto al buon senso, una menzogna. Coltivi il silenzio da anni – silenzio insensato, passando il tempo a rifiutare con spocchia ciò che ti passa per mano, perché brami di cieca forza il tuo momento di gloria. Ma chi ti concederà quest’onore? E a quale prezzo? Dove andrai allora, se ciò non dovesse accadere? Sei con tutti, ma con nessuno. Sei della razza dei perdenti, benché sia tu sommersa dal consenso e dall’interesse della gente opaca. Sei una istigatrice di violenza, celata da volto baggiano. Avrai ancora molto da struggerti, fino a consumare quel po’ d’isteria e di pulsioni idiosincratiche, quando finalmente capirai che non esiste mondo che regga ai tuoi capricci e al tuo esser così gratuitamente balzana. Sicché, forse, chinerai il capo alla necessità e al pretesto, pur sempre di cattiva lena. Ma sarà troppo tardi.» La calca fu agitata duramente da queste parole. «Noi qui, che ci diamo convegno in bettole oscure con animo tormentato fino alla morte, che brindiamo di cuore e ci scrutiamo a fondo l’un l’altro, noi con discorsi all’apparenza innocui, vi assicuro, stiamo preparando una rinascita. Alla quale tu, che non hai ascoltato i miei richiami, non farai parte...» Al che le donne presenti all’incontro, sentendosi chiamate in causa con tanto vigore, cominciarono a chiedere convulsamente: «Sono forse io?» «È colei che, quando la conobbi, parlò con seduzione.» Allora una donna, ben vestita e dalla voce incantevole, domandò: «Sono forse io?» «Tu l’hai detto.»

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Una vita o più (appunto n. 2) di M. G. Le tavole della legge che Mosè spezzò in un momento di intuito decostruzionista, non possono essere ricomposte. [J. Derrida]

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-roposito:

Dire il silenzio – una struttura, relazioni tra le convenzioni di realtà e rappresentazioni – : forse l’unica forma di poesia di quella onesta, che non sia bugia.)

(

Confesso del silenzio la paura. Non a sera, nell’ora in cui rischiarasi del desiderio la schiera e più pura d’altrove già rimossi la fanfara (udita tra il silenzio dei suoi passi) s’ode fra l’ossa di quercia d’autunno, e d’anni ormai dispersi la nervosa danza riporta atri volti e, ritrosa, calura di nomi non più discoperti e aspro l’odore di scialba sciantosa. (Hai dunque un volto un nome e sei sorgente d’un male antico. Ancora t’ascolto. Ricordi quando a notte mi dicesti di svelare parole più reali?) Son nel parlare muto. Tu non senti (e chi è quel tu?) non ascolti e non sai la ragione: dove hai i sentimenti? Dove li hai costruiti vedrai soltanto vaghi tormenti ricolmi

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di gremiti sistemi e formicai folli (non servono lacrime, sai.) Ogni parola ha il sogno di salvare ogni strada vuol giungere all’uscita. Ma quale orgasmo nel poterti dire ‘Dove vai? Che sapore ha la vita?’ (Potrò mai dirti senza che svanisci? Ricordi quando a notte mi dicesti di sgranellare parole più dolci?) Confesso. L’antennone sul crostone, lontano, nella notte, del Nerone, spia l’amico, poeta, che si perde nel rubro ammiccamento verginale ‘non rimane che scrivere’ mi dice ‘non resiste alla vita il compimento (concepimento) del volo: non resta che cenere.’ L’origine del male sul volto cereo di lui è carnale, nel mito. ‘Ed il silenzio è un grido: Reo!’ Perché io? Come ogni sera le vere parole han flebile voce di altri (per me il dolore è soltanto verbale) appartengono a labbra che non sono, a uomini ingialliti dalla corsa del divenire. (A che vale ciò?). Addio. Soffia la rena il verbo mio. (È crudele il restare della voce se il fiato non inciampa su altra pelle) E di nuovo sorprendo me a contare le sillabe – a dar forma al brusio –, le spighe arse di grano e sul mare disegnare il profilo incerto di dio.

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Tenzone di U. B.

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n vecchio amico mi accusa d’incoerenza, di mutare personalità, di essere doppio. Gli rispondo che si sbaglia e di non prendersela, che è solo una sua impressione, una parvenza. Lui si inalbera, si risente, dice che con lui non riesco a essere serio, che lo faccio a bella posta, che giullareggio. Gli rispondo che ha ragione, che è tutto vero, gli dico: «Scusa, mi spiace di non essere un monolite, un blocco di marmo, un tutto d’un pezzo: arabescare è una mia velleità, un mio vezzo. Ma, per favore, non ti arrabbiare se sovente cambio maschera, se ora istrioneggio, e poi farò il serio, l’accademico, il supponente, il pallone gonfiato, l’attaccapezze; se ora sono piantagrane, grullo, grottesco: se ci faccio o ci sono non lo dico – la sentenza agli scaltri, se riescono. Ma ti prego, sii comprensibile, non darmi etichetta, non dirmi quello che sono o non sono, non sottrarmi le maschere da togliere e mettere. Siamo tutti guitti, sciatte comparse, recitiamo quotidianamente su un palcoscenico trito, di storia-farsa». Ma non lo convinco, col suo occhio allampanato mi fissa. Mi chiede ‘chi sei’: che rispondergli? «Non sono un foglio stampato, siamo un abisso».

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Le nebbie di Athayde Grassi

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ei borghi lĂ ho visto la nebbia dilavare il paesaggio e i lavori di bottega consumati presto dal cieco passare sottile. Fragile volo lo spiraglio alla soglia di cosa. Casa. E prendemmo le briciole intere a forza di beccare.

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Sceneggiatura di R. M.

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o visto negli ultimi capitoli di un romanzo finito e non voluto occhi e labbra di un altro racconto, note sparse di un tema sconosciuto non ancora suonato; possibili pellicole di futuro girato non vissuto eppure giĂ proiettato. Cinema: Sala del Non Accaduto.

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Soliloquio di Letizia Zaffini

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nita: Un altro pomeriggio sprecato. Niente! Il cielo plumbeo di Maggio, la pioggia a scrosci violenti, a intermittenza, ora lievi ora burrascosi, ora che ti spazzano via l’ombrello e la borsa della spesa stretta con la mano destra, ora che ti scompigliano i capelli pettinati a fatica... invano! Invano pettinarsi! Quel vento strano di Maggio che ricorda Novembre e toglie la voglia di vivere ... mi distrugge, mi fa venire il mal d’ossa – colpa dell’umidità – mi entra nel midollo, e rimango paralizzata. Ee...cciù. Bene, anche il raffreddore adesso. Ho le guance pallide pallidine e il naso tutto rosso. Non so più se per le allergie o per il freddo. Mah! Primavera tiranna! Un tempo a primavera era primavera! Ora se ti va bene siamo un giorno Agosto e il giorno dopo Dicembre! Puà. Tempo intercambiabile. Non si decide mai a diventare stagione. Ed ecco che la primavera vuole essere Autunno, l’Autunno vuole essere Primavera, l’Inverno si maschera da Estate e l’Estate diventa tropicale! Lei fra tutte è quella che rimane più fedele a sé stessa... Ma tanto, di che vogliamo lamentarci? Chi fa più il proprio lavoro ormai? Chi si assume davvero il proprio ruolo? Ognuno gioca ad essere un altro. Io che sono casalinga non spazzo più neanche se mio marito mi paga le ore. La cucina è un’ammucchiata di piatti accatastati nel lavabo. L’aspirapolvere, un vecchio amico... Ciao Astolfo, tutto bene? è da un po’ che non lavori... ti sei preso le ferie? Per malattia? Ah, mi dispiace tanto... Il bagno, un buco verde acqua con il water e la doccia. Il salotto conta pile di libri che risalgono all’anteguerra, la camera da letto rigorosamente disfatta... e vuota. Oh, io lo so, lo so perché sono stufa di pulire casa! Starsene soli in un appartamento tutto lindo e in ordine è una crudeltà ancor più grande dello starsene soli in un immondezzaio. Tutti questi oggetti sparsi mi fanno compagnia, ancor meglio della televisione, con quel diavolaccio di Michele Cucuzza, che mi mette addosso un gran nervoso. No, se c’è una cosa che proprio non riesce ad arginare la solitudine, è la televisione! Mortori su mortori a luci al neon triplicati in onda digitale. Questa è la TV, che mi mette tanta tristezza. È molto più interessante quella combriccola di bicchieri di Brandy mezzi vuoti, sul tavolinetto della sala. Sembrano una piccola banda di ragazzini in cerchio. Forse sono scout. Scoutismo in casa mia? Puà! Via, degenerati, io sono atea, andate a idolatrare i vostri babbi natale da un’altra parte! Dicevo – il disordine è molto interessante. Con lui puoi creare un dialogo. “Oh, sciacquone otturato del cesso, come andiamo oggi? Eh? Come mai non mi risponde? Abbiamo il prosciutto nelle orecchie? Eh? Ah, dimenticavo. Lei è sordo, signor Sciacquone, andrò a parlare con il lavandino incrostato.” “Ehm... salve, signor Lavandino incrostato! Anche lei un po’ arrugginito? Colpa del tempo, dell’ umidità! Come sto io? Mah, i soliti acciacchi, la solita noia, il solito grigio grigiastro che mi impatina tutta dalla testa ai piedi come la buccia di un salame...” Salame. Ideona! Mangio un panino col salame. No. L’ho mangiato

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LETTERATURA E CONOSCENZA prima. “Signor Lavandino arrugginito, lei che merenda bis mi consiglia?” “Come dice? Sono una grassona cellulitica che farebbe meglio a darsi allo sciopero della fame? Da lei non mi aspettavo un simile affronto! Io... non mi merito questo... Signorina Doccia incalcarita, ha sentito? Sono appena stata maltrattata! Che mi consiglia? Chiamare il telefono rosa e denunciare lo stupro? No no non sono stata stuprata, semplicemente offesa... Come? Sostiene di aver assistito ad uno stupro in questa stanza? Ommioddio! E chi era la vittima, chi il responsabile? Bidè, il carnefice?! La vittima, mio marito? Santi numi santi numi lei è completamente fusa signorina Doccia, monsieur Bidè non sarebbe mai in grado di compiere un atto così riprovevole, e mio marito, mi creda, non ha dato segni di squilibrio, non si avvertono in lui residui traumatici alcuni, posso confermarlo, io che ho una laurea in psicologia me ne intendo, capisco subito quando una persona è soggetta a nevrosi... Aspettate un attimo qui, signori e signore, mi consulterò con Mr Forno a microonde. Cosa? Mi state chiedendo se io ho mai avuto problemi nervosi? Assolutamente no, ve l’ho accennato prima, ho una laurea in psicologia, me ne accorgerei! Col tempo ho imparato a diventare padrona dei miei orari e delle situazioni di ogni giorno. Oh sì. Con il tempo ho imparato a non dare più peso a niente. A sperimentare il piacere terribile del non fare niente. Mi sento così leggera. Non ho ambizioni, non ho prospettive, non posso più essere delusa da niente perché non mi impegno in nulla, non ho nulla, a parte un marito ingrato e questa casa di degrado. Degrado. In tutti questi anni ho imparato a riconoscere il degrado nelle sue varie forme e ad accettarlo così come mi si poneva. Ho accettato che il mio corpo e la mia testa seguissero il loro naturale processo di sbriciolamento, ed io non ho mosso un dito per fermarlo. In quarantatre anni, mai una crema antirughe, mai un appuntamento dall’estetista, mai uno svago intellettuale con le amiche, mai un amante! Non ne ho mai avuto bisogno. Avevo la possibilità di metter su un piccolo studio mio, ma a che sarebbe servito? Mio marito è ricco. Potremmo permetterci una casa molto più grande, un giardino, una donna delle pulizie... ma io non l’ho voluta, no, non voglio un’estranea in casa mia, una perfetta sconosciuta che sbuca dal nulla a turbare la mia perfetta quiete, no grazie! Carlo è preoccupato – o meglio, lo era i primi tempi, dieci anni fa, ovvero 10 chili fa, quando bene o male viveva ancora in questa casa. Poverino, lavora sempre, è fuori quasi tutte le notti per lavoro. Fa i turni. Con le segretarie. Vabbè, lo sapevi sin dall’inizio che sarebbe finita così, lazzarona. Non hai voluto costruirti una vita perché non ne avevi voglia, non ne eri capace o semplicemente non sentivi lo stimolo. Mettere su casa sposarsi e magari avere un figlio, per poi lasciarsi morire, questa era la tua più grande aspirazione. Sì, i primi dieci anni i figli sono meravigliosi. Poi iniziano i guai. Il mio unico figlio, Filippo, è uno stronzo e non ho paura di dichiararlo. Anche lui lavora sempre, sta fuori la notte, non si fa mai vedere, proprio come mio marito. Somiglia così tanto a Carlo. Sarà per questo che è stronzo. Non mi ha mai ferita in modo diretto, devo ammetterlo, ma è sempre stato così assente, così insensibile... come tutti, d’altronde. Oh, ma di che mi lagno? È tutta colpa mia. Mea culpa. Signorina Pianta da interno! Come siamo mosci oggidì! Oh, ma lei è tutta finta da capo a piedi, da foglia a punta di radice. Proprio sicura che non gradirebbe un po’ d’acqua? Le farebbe bene. No, anzi, non le servirebbe proprio a niente, perché lei, di radici, non ne ha. Come me, dopotutto. Finta dal capello più ritto all’unghia dell’alluce, senza passato, presente, futuro, déracinée, a

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IL CALAMAIO SCALOGNATO chi voglio darla a bere? Mi chiedo come mi sono ridotta così. Prima del coma, avevo ricordi. Guidavo la macchina. Dopo l’incidente, non mi sono più azzardata. Tutta la mia vita non mi sembra nient’altro che l’avambraccio del coma. A volte mi chiedo se mi sono svegliata realmente, quel 17 Gennaio di dieci anni fa, o se ho solo sognato un risveglio da inferno. Ricordo pomeriggi di sole, quando ero bambina, e correvo l’estate sui prati. Senza meta, nel giardino attorno alla casa in campagna, vagavo a casaccio, ma pur sempre correvo. Potessi smarrirmi in quel ricordo di luce. Già allora portavo sulla pelle il marchio del nulla che ora mi assale. Ma non ne ero conscia. Vecchia signora Specchiera, come è annebbiata la sua superficie. Si direbbe non rifletta più niente! In effetti, cosa c’è da riflettere? Nulla. Non ci vuole una laurea in psicologia per capirlo. (Anita sospira. È in camera da letto, di fronte alla specchiera. Guarda a lungo il suo riflesso, assente, gli occhi sbarrati.) Anita: “Le confesso una cosa, signorina: di tutti gli oggetti qui dentro lei è quella che meno mi attrae, che più mi dispera, che meno mi ascolta”. Sipario.

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CONSIGLI PER LA LETTURA

Cupo tempo gentile Autore: Umberto Piersanti di Alessandro Zaffini

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on Cupo tempo gentile, romanzo edito quest’anno dalla Marcos y Marcos, il poeta Umberto Piersanti fornisce una testimonianza diretta su ciò che riguarda la contestazione studentesca del 1968, tentando di dipanare l’alone di mitica intangibilità che in più di quarant’anni si è venuto a creare attorno a quel periodo. Andrea (alter ego dell’autore?) abita, studia e lavora a Urbino; dopo un anno di Legge si è ‘ravveduto’ e lo troviamo che sta per laurearsi in Lettere. Ama le donne, la buona tavola, la natura, l’arte, la poesia, e pensa ‘laicamente’ che il mondo debba essere cambiato – per questo entra a far parte del Movimento studentesco che ha occupato l’Università. I suoi compagni d’avventura hanno opinioni diverse: più giovani di lui, per lo più collerici e interessati a nient’altro che alla Rivoluzione, adepti dei dogmi socialisti, si sono lasciati alle spalle l’esaltazione acritica dei soviet solo per seguire la nuova moda del maoismo; non amano il dissenso e chiamano il loro compagno revisionista per le sue idee politiche e decadente perché più dell’ideologia stima la letteratura. La voce della narrazione, accordante al discorso indiretto libero e a tratti vernacolare, accompagna Andrea attraverso episodi di vita più o meno quotidiana, lasciando che in essi si innestino veri e propri spaccati dell’ambiente universitario di allora, nonché spunti di riflessione sull’attualità del periodo – e su cosa a quel periodo sarebbe poi sopravvissuto – informandoci sulle crescenti e sempre più fondate inquietudini del protagonista sul Movimento. Per il lettore di oggi c’è più di un episodio che può creare, se non indignazione, sbigottimento: esami collettivi che è impossibile non passare, ragazzi e professori che inventano letteralmente la Storia in base alle teorie marxiste, inutili attentati fatti passare come assalti al potere e tensioni che rischiano continuamente di degenerare; ma allo stesso tempo una certa ironia permane sottocutanea per esplodere in alcune scene di ilarità al limite del grottesco, e molto raramente ci imbattiamo in un vero e proprio pathos. La nube del cambiamento che finisce presto o tardi per inondare anche il Montefeltro offusca le certezze dei personaggi, ma al contempo inebria le loro esistenze di una vivacità prima di allora sconosciuta (Andrea, ad esempio, è turbato dall’omosessualità e da alcuni aspetti dell’amore libero, e pure accetta la prima e pratica il secondo), mentre fuori dall’occupazione la vita fluisce con la leggerezza di un bel sogno: le stagioni si susseguono, le teorie di rivoluzione sono fumose parole in bocca a studenti idealisti, le ragazze sciamano nelle loro minigonne, si mangia, si beve, si sta insieme, si ‘fugge’ per l’entroterra. Urbino altro non è che un piccolo mondo protetto dal duplice schermo della giovinezza e del ricordo di essa, dove nulla di ciò che accade ha il peso della tragedia. Soltanto quando acquista consapevolezza di quanto sta realmente avvenendo sotto i suoi occhi – cioè quando la violenza irrompe a spezzare l’incanto e a costringere il protagonista a una presa di posizione ‘adulta’ – Andrea decide di non avere più niente a che fare con il Movimento.

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