Ticino 7 N40

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Tecnologia e psicanalisi: le applicazioni sul lettino

Quel legame tra uso dei social, personalità e depressione

ticino7

L’enorme potere e il livello di penetrazione dei social media nella nostra esistenza inizia a mostrare, per chi avesse ancora qualche dubbio, i suoi lati meno edificanti (in particolare nell’uso quotidiano, che diventa facilmente abuso e dipendenza). Un contributo che apparirà nella prossima uscita del Journal of Affective Disorders Reports (vol. 10, dicembre 2022) presenta le conclusioni di uno studio condotto su 978 individui tra i 18 e i 30 anni, e il responso è immaginabile: sia che i giovani adulti abbiano una personalità più o meno aperta, introversa, coscienziosa o tendenzialmente nevrotica, l’uso dei social viene associato allo sviluppo di lati depressivi. Questo sarebbe soprattutto da ricondurre ai meccanismi e alle modalità d’interazione

che dominano online: “Un confronto sociale problematico può aumentare i sentimenti negativi di se stessi e degli altri, il che potrebbe spiegare come il rischio di depressione aumenti con un maggiore utilizzo dei social media”, si legge nel rapporto. “Connettersi virtualmente con le persone può aumentare il rischio di problemi di comunicazione o di percezione errata che porta a difficoltà relazionali e al potenziale rischio di problemi di salute mentale”, afferma Ranae A. Merrill, una delle ricercatrici. In un numero di Ticino7 nel quale scriviamo di come oggi proprio la salute mentale e la cura dei disturbi passino anche dagli smartphone e da applicazioni (sovente) poco professionali e ‘riservate’, il cortocircuito pare essere servito.

sabato 8 ottobre 2022 1Ticino7 numero 40 A CURA DELLA REDAZIONE

La terapia portatile e altri moderni armamentari

“Ora... per cominciare... potresti semplicemente individuare una posizione abbastanza comoda... per esempio potresti sederti in maniera rilassata su una sedia, una poltrona, un divano o qualsiasi altro supporto ti sembri adeguato...”. La voce che pronuncia queste parole è tranquilla, assertiva, distesa; dopo una pausa un po’ più lunga, riprende a parlare: “A volte trovare una posizione comoda richiede qualche piccolo aggiustamento... ma è qualcosa che il corpo sa fare autonomamente... qualcosa che non richiede da parte tua una particolare attenzione... Il tuo pensiero si può svincolare... e volgersi altrove... per esempio al respiro che sta diventando più placido e profondo... e tu puoi notare come... ad ogni inspirazione... l’aria sembri diventare più fresca... e come ad ogni espirazione... si liberi una piccola porzione di spazio dentro di te... alleggerendoti...”.

È piacevole ascoltare, anche quando, da un certo punto in avanti, la mente si distrae e inizia a vagare per conto suo, senza mai distaccarsi del tutto, però, dal suono di quella voce che l’accompagna. Ne è riprova il fatto che, dieci minuti dopo, quando la voce smette di parlare, apro gli occhi e torno prontamente nel “qui ed ora”, sentendomi rilassata e con la testa sgombra. Mi guardo intorno; non c’è nessun altro nella stanza. La voce proveniva dagli auricolari dello smartphone, che riproduceva una delle innumerevoli tracce audio di un’applicazione per la salute mentale fra le molte che si possono scaricare dalla rete. Fra le più note: Calm e Headspace per imparare a gestire meglio l’ansia; Moodnotes e Moodpath per tracciare le oscillazioni del tono dell’umore; PTSD Coach per aumentare la resilienza nelle situazioni posttraumatiche o gravemente stressogene, e così via. Alcune sono finalizzate ad aumentare la capacità di concentrazione e, più in generale, a incrementare le prestazioni cognitive (la cosiddetta “peak performance”).

Attualmente, si contano più di 10mila app scaricabili sul proprio dispositivo, in modalità gratuita o a pagamento, con funzionalità che spaziano dal tracciamento dei sintomi e dei comportamenti sintomatici allo screening diagnostico, dalla psico-educazione agli esercizi di rilassamento e mindfulness. Si stima che, solo nel 2019, le aziende che producono applicazioni per la salute mentale abbiano ricevuto investimenti superiori ai quattrocento milioni di dollari (S.L. Connolly et al.

“Leveraging implementation science to understand factors influencing sustained use of mental health apps: a narrative review”, Journal of technology in behavioral science, 2021). Queste “pillole di psicoterapia” in formato podcast sono di fatto sempre più richieste, un fenomeno che s’inscrive all’interno della metamorfosi che la pratica psicoterapeutica sta vivendo dall’inizio della pandemia. Un cambiamento che gli addetti ai lavori descrivono come epocale, poiché ha coinciso con la dissoluzione del setting, quanto meno nella sua dimensione fisica.

Lo spazio dell’ascolto

Quando parliamo di “setting” in psicoterapia ci riferiamo al “contenitore”, fisico ma anche emotivo, entro cui il lavoro viene svolto. Il setting è quindi, al contempo, il luogo in cui ci si incontra – uno studio che garantisca la privacy del paziente e il suo diritto alla riservatezza – e l’assetto mentale del terapeuta, improntato all’ascolto e alla sospensione del giudizio: entrambe attitudini attive, sebbene “silenti”. Queste condizioni garantiscono la sicurezza del paziente anche sul piano psicologico e gli forniscono uno spazio libero in cui elaborare, stemperando le inibizioni causate dai sentimenti di colpa e/o di vergogna. Per questo motivo, il setting è stato considerato, fin dagli albori della psicoterapia modernamente intesa, un elemento costitutivo della psicoterapia stessa: il metaforico telaio su cui tessere la trama nell’ordito. L’impostazione che vede nel setting la condizione sine qua non allo svolgimento della psicoterapia contempla alcune celebri eccezioni, fra cui il famoso “caso del piccolo Hans” (Analisi della fobia di un bambino di cinque anni, 1909), a partire dal quale Freud elaborò il primo nucleo concettuale della teoria edipica. Orbene, Freud non solo non incontrò mai quel bambino che manifestava un’intensa fobia dei cavalli, ma condusse l’analisi attraverso una corrispondenza epistolare con il padre del giovanissimo paziente, che era membro del Circolo psicoanalitico di Vienna. Freud, però, è il fondatore della psicanalisi, e quindi (sebbene le due cose non coincidano del tutto) anche uno dei padri della psicoterapia; e una prerogativa dei padri fondatori, generalmente parlando, è di poter fare un po’ come gli pare. Per tutti coloro che gli sono succeduti, invece, il setting è stato interiorizzato come un assioma inviolabile e sacro... almeno fino a quando non è arrivato il Covid-19 che, fra le molte certezze, ha spazzato via pure questa.

Il digitale e la perdita del contatto

Improvvisamente, da un giorno all’altro, il setting è scomparso e gli psicoterapeuti si sono ritrovati a casa dei loro pazienti e viceversa, seppure in forma immateriale. L’impossibilità di recarsi in studio, insieme alla necessità (resa a tratti impellente dalle circostanze) di proseguire il percorso di elaborazione, ha costretto gli uni e gli altri a traslare in un setting digitale veicolato da computer, tablet, smartphone o, semplicemente, dal telefono. La riservatezza, fisica e psicologica, garantita dalle quattro, solide mura dello studio si è notevolmente assottigliata, laddove, nel contesto domestico, una porta veniva sbadatamente aperta o la presenza dell’altro/a nella stanza attigua era sufficiente a causare un effetto di inibizione. Per aggirare questi ostacoli, alcuni pazienti si sono collegati dall’abitacolo dell’auto (opportunamente parcheggiata in strada a meno di duecento metri dall’abitazione), dal bagno di casa o anche dalla cantina, se prendeva il wi-fi.

I terapeuti, per parte loro, hanno dovuto rinunciare in qualche misura alla tanto decantata neutralità che dovrebbe caratterizzarli, non fosse altro che per il fatto di lavorare dal salotto. Se poi un terapeuta era circondato dall’affetto di figli, cani, gatti o anche “soltanto” di un/una coniuge o di un/una compagno/a, ecco che le incursioni involontarie del privato nel professionale crescevano esponenzialmente. Non è stato facile per nessuno, ma da questa “prova del fuoco” tanto i pazienti quanto i terapeuti sono emersi con una nuova consapevolezza: se il setting inteso come assetto relazionale regge, allora il setting fisico, che resta un efficace e talvolta irrinunciabile mezzo di facilitazione, può essere compresso, dislocato, smaterializzato e addirittura smantellato... seppure le persone che, da una parte e dall’altra, praticano la psicoterapia vi rimangano comprensibilmente affezionate.

sabato 8 ottobre 2022 2Ticino7 L’APPROFONDIMENTO DI MARIELLA DAL FARRA
© Shutterstock

Importanti, ma come complemento Ma torniamo alle app per la salute mentale. Assistiamo in questo caso non solo alla dissoluzione del setting fisico (lo svolgimento della sessione può avvenire in qualunque luogo e in qualsiasi momento la persona decida di farlo), ma anche relazionale: la funzione terapeutica non è più svolta da qualcuno che esercita in maniera competente un ascolto attivo e non giudicante, bensì da una traccia pre-registrata che invece esercita il paziente ad ascoltarsi (in maniera competente, attiva e non giudicante). Ed è vero che il punto di arrivo è, idealmente, il medesimo, ma il mezzo per raggiungerlo è certo molto diverso. L’“apprendimento” psicoterapeutico – un “sapere” che è cognitivo ma soprattutto affettivo ed esperienziale – non è più mediato dalla presenza del terapeuta: viene mutuato dal materiale audiovisivo che stimola lo sviluppo di una funzione terapeutica “interna”, in assenza di rispecchiamento. Il che potrebbe rendere le cose un po’ più complicate, considerato che l’apprendimento avviene prevalentemente per imitazione (disponiamo di vaste colonie di neuroni-specchio preposte a questo compito...).

Per questo e altri motivi, la maggior parte dei terapeuti tende a considerare tali applicazioni come un utile complemento alla psicoterapia propriamente intesa, piuttosto che come un sostitutivo della stessa. “Il lavoro che viene svolto in terapia richiede che il paziente si renda vulnerabile e si esponga allo sguardo di un’altra persona, ciò a cui segue una connessione empatica che promuove il cambiamento e l’accettazione”, afferma per esempio Jean Otto, psicologa e ricercatrice, in un articolo pubblicato su psycom.net (Truschel & Tzeses, “Top Mental Health Apps: An Effective Alternative for When You Can’t Afford Therapy?”, 22.12.21). E tuttavia, se c’è una cosa che abbiamo imparato ultimamente, è proprio quella di non dare niente per scontato...

La questione della privacy

Una delle variabili prese in considerazione da PsyberGuide per valutare l’idoneità delle applicazioni per la salute mentale è il grado di privacy (“Transparency”) che garantiscono ai propri utilizzatori. Questione tutt’altro che scontata, se l’osservatorio ‘Privacy Not Included’ del motore di ricerca Mozilla, che pubblica report periodici sull’argomento, ha testato 32 mHealth Apps trovandone appena cinque (una miseria) con le carte in regola (si veda Caltrider & Rykov, New *Privacy Not IncludedResearch Finds Mental Health Apps Are Terrible at Privacy, 2.5.2022).

Considerato che le applicazioni per la salute mentale (mHealth Apps) sono state implementate di recente (da una decina d’anni a questa parte), non sono molti gli studi condotti sulla loro efficacia, e quelli che ci sono mancano di un monitoraggio a lungo termine (follow-up) dei risultati ottenuti. A fronte di queste limitazioni, meta-analisi dei dati disponibili indicano che queste app risultano efficaci nel ridurre sintomi di ansia e di depressione ma, se paragonate all’utilizzo di altre applicazioni, disegnate per scopi diversi dalla salute mentale, gli effetti riscontrati si ridimensionano significativamente. Si parla in questo caso di “effetto placebo digitale” (Connolly et al., 2021). Altre analisi hanno messo in evidenza un tasso di dropout di quasi il 50% fra gli utilizzatori di mHealth

Apps per la depressione (Torus et al., 2019), mentre solo il 4% degli utenti sembra impegnarsi attivamente su base giornaliera (Baumel et al., 2019). La criticità maggiore risiederebbe dunque nella compliance, ovvero nella continuità della fruizione del trattamento da parte del paziente. Questi dati suggeriscono cautela nel ricorrere ipso facto alle applicazioni di salute mentale in assenza di indicazioni più precise, motivo per cui l’associazione ONE MINDPsyberGuide, costituta da un pool composito di esperti, ha aperto un sito in cui pubblica le recensioni su base scientifica delle diverse app presenti sul mercato. In lingua inglese ma molto intuitivo per come è organizzato, il sito è consultabile all’indirizzo: onemindpsyberguide.org.

sabato 8 ottobre 2022 3Ticino7
Sigmud Freud con Herbert Graf (nato nel 1903) in una foto 1905 circa. © Alex Castro
Lo stato della ricerca
“Se non si può raggiungere il cielo (la conoscenza assoluta), si può provare a raggiungere gli inferi (l’inconscio)” Sigmung Freud
“La verità è l’errore che fugge nell'inganno ed è raggiunto dal fraintendimento” Jacques Lacan
© Shutterstock

Joe Jackson

New York di giorno e di notte

‘Look Sharp’ (1979) / ‘I’m the Man’ (1980)

I due dischi di un colto ‘angry young man’ per il quale, a inizio carriera, ‘post-punk’ è solo una mera definizione spazio-temporale.

‘Jumpin’ Jive’ (1981)

Prima degli Stray Cats e della Brian Setzer Orchestra, molto prima di Sergio Caputo, un salto dalla new wave a Louis Jordan e Cab Calloway per cantare i classici degli anni 30 e 40 con voce e attitudine da punk. Discograficamente spiazzante, primo atto del cosiddetto retro-swing revival.

‘Big World’ (1986)

Registrato dal vivo a New York, pubblicato senza sovraincisioni e senza applausi (chiedendo al pubblico di applaudire molto dopo la fine del brano). Uscì in doppio vinile (al prezzo di uno soltanto) con tre lati incisi e un quarto riportante la scritta ‘Non c’è musica su questo lato’. Insieme al relativo ‘Live in Tokyo’, il video di un concerto giapponese del tour, è tutta (Big) world music.

‘Laughter & Lust’ (1991)

“Pensavo di avere fatto la cosa più vicina al pop commerciale, il disco che tutti avrebbero amato”. Era il suo 11esimo album, un mezzo fiasco negli Stati Uniti (meno in Europa) cui fece seguito un lungo blocco dello scrittore. Da rivalutare, cominciando da ‘The Obvious Song’, elegante protest-song.

‘Symphony No. 1’ (1999)

I quattro movimenti della sua prima e ultima sinfonia sono affidati, tra gli altri, a una manciata di jazzisti tra cui Terence Blanchard e Robin Eubanks, alla fidata percussionista Sue Hadjopoulos e al virtuoso dellachitarra Steve Vai. È così che Joe Jackson riceve il suo unico Grammy, per un album non di canzoni.

‘Summer in the City/Live in NY’ (2000)

Quando le cose funzionano anche in tre, pianoforte-basso-batteria, con omaggio al (da poco) defunto Ramsey Lewis di ‘The In Crowd’, sempre con il fido Graham Maby al basso elettrico e Gary Burke alla batteria.

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‘The Duke’ (2012)

Più o meno trent’anni dopo ‘Jumpin’ Jive’, è l’omaggio a Duke Ellington calato nel Joe Jackson sound che include ogni cosa, anche Iggy Pop in ‘It Don’t Mean a Thing (If I Ain’t Got That Swing)’. I puristi del jazz la pensino come credono.

“E quando morirò, e andrò nel paradiso del Puro pop, gli angeli si raduneranno intorno a me e mi chiederanno tutta la storia della mia vita, e di quel mio favoloso suono. Ma so che poi mi fermeranno, proprio mentre comincerò a scorrere ogni singola riga, e mi diranno: “No, per favore, non l’intero dannato album, nessuno ormai ha così tanto tempo. Ti prego: solo il singolo di successo…”.

Nel paradiso del Puro pop gli angeli, così come le radio da tanto tempo, non sanno più che farsene dell’intera discografia di un artista. Più o meno trent’anni fa, Joe Jackson lo aveva già capito. “Per favore, solo il singolo di successo”. ‘Hit Single’ appare su Laughter & Lust, album del 1991 che non contiene hit single e che per lungo tempo è stato il testamento cantautorale di David Ian ‘Joe’ Jackson, polistrumentista e singer songwriter britannico che la moderna classificazione mette in un generico ‘pop’ ma che negli anni 80 – quelli di Elvis Costello e Graham Parker – riempì la forma canzone di ogni influenza possibile e immaginabile, fatta propria durante la gavetta nei multietnici locali londinesi, ancor prima durante un’infanzia popolata da vinili, beni di rifugio per molti outsider, e nei giorni da studente alla Royal Academy of Music, popolata da futuri autori di hit single.

‘Weirdo’

“Aveva occhi bellissimi, pensavo, ma sull’acconciatura doveva lavorarci”. È Annie Lennox a inizio anni 70, nello stesso conservatorio di Joe Jackson. È un passaggio da A Cure for Gravity, autobiografia di quest’ultimo che va dalla culla fino al successo di Look Sharp (1979), poco più di trecento pagine che sono insieme un corso di musica, una guida all’ascolto e la storia della rivincita di un weirdo (strambo). Di salute sempre cagionevole, paonazzo in volto, palesemente non bello, cronicamente timido, costantemente bullizzato, il piccolo Joe ebbe nell’eroe dei fumetti Dan Dare, pilota del futuro, la prima di molte sue vie di fuga: “Da bambino avevo la sensazione che per qualche oscuro motivo ero rimasto imprigionato nel posto sbagliato con la famiglia sbagliata. Ero sicuro che i miei genitori fossero esploratori, attori, o gente del circo, e che un giorno sarebbero tornati indietro a prendermi”. Nei suoi childhood years, “il bambino che scriveva storie” (appellativo dato dal vicinato) era cresciuto a pane e Stravinsky anziché a pane e Beatles, per abbracciare poi tutto, fino al jazz, smontando uno degli assunti della working-class life d’Oltremanica: “Soffrire, stoicamente”. Così come accaduto a tanti weirdos, la musica avrebbe trasformato quel giovane disadattato cresciuto a Portsmouth, città di portuali sulla Manica, in un brillante artista.

‘Me babe, steppin’ out / Into the night, into the light’ Chissà quale canzone vorranno ascoltare gli angeli nel paradiso del Puro pop da Joe Jackson quando questi passerà a miglior vita. Forse gli chiederanno di ‘Steppin’ Out’, singolo uscito il primo ottobre di quarant’anni fa, terzo estratto da un disco pubblicato nell’estate dell’82 e intitolato Night and Day, omaggio allo standard di Cole Porter che ispira il titolo, ma omaggio anche a George Gershwin e Duke Ellington dei quali l’autore è devoto. Un tributo che si estende alla città di New York tutta,

vissuta di giorno (lato uno) e di notte (lato due). Con l’artista ritratto in poche linee dal caricaturista Philip Burke in copertina, la New York di giorno è ritmica nel risveglio in un nuovo mondo, nel mezzo strumentale intitolato ‘Another World’; è frenetica in una ‘Chinatown’ tutta latin; latin è pure ‘Target’, sul logorio della vita moderna (cit.); moderatamente apocalittica è ‘T.V. Age’, cantata à la David Byrne. Con ‘Steppin’ Out’, ultima traccia del lato A, Night and Day si tuffa “into the night, into the light”, nella notte e nella luce della città che non dorme mai, catturandone in eterno il crepuscolo. Quel tema di pianoforte contemporaneamente acustico ed elettrico, doppiato dal glockenspiel e impastato da un organo Hammond, unito a pochi colpi di rullante e a un giro di basso palesemente disco ma senza volgarità, valsero al suo autore una nomination al Grammy per il Disco dell’anno e una alla Miglior performance vocale pop maschile. ‘Steppin’ Out’ non fu mai una numero uno, ma su quella canzone, a ogni (sempre più) rara emissione radiofonica, i bambini – i bambini del 1982 –fanno ancora ‘oh’. Sul lato B, la notte ha le dinamiche di coppia (personali) cantate in ‘Breakin’ Us In Two’; c’è poco ottimismo in ‘Cancer’ (“Tutto provoca il cancro, non c’è cura, non c’è risposta”) e tanto meno in ‘Real Men’, in cui ci si chiede chi siano i veri uomini, se siano davvero quelli che fabbricano pistole, che vanno in guerra o a prostitute. Il limbo di sessualità descritto più tardi in ‘Gravità zero’ ha un corrispettivo nella canzone e nel video annesso, scampolo del mondo gay sin troppo avanti per il 1982. Su Night and Day, alla fine, arriva la più apocalittica delle visioni di Joe Jackson. S’intitola ‘A Slow Song’, è stato ed è il brano di congedo di molti suoi tour, canzone lenta (lo dice il titolo) su chi è “brutalizzato dai bassi e terrorizzato dagli alti”, alla ricerca di un po’ di pace nella frenesia imposta da nuove, prevaricanti figure venute a prendersi la scena: “Sono stanco dei Dj, perché è sempre quello che decidono loro?”.

Parte seconda, anzi no Sulla copertina le Twin Towers ancora in piedi; all’interno, la decadente ‘Glamour and Pain’ (con richiami da ‘Steppin’ Out’) è affidata alla voce della drag queen Dale Devere; la decadentissima ‘Love Got Lost’, invece, all’interpretazione della musa Marianne Faithful. Night and Day II esce nell’anno Duemila senza rinverdire i fasti del primo capitolo. Nemmeno qui c’è un hit single, ma Joe Jackson ha smesso di cercarne da un pezzo. Nel continuum creato da brevi inserti percussivi che fanno dell’album una sorta di traccia unica, brilla il non-singolo ‘Happyland’, cinque minuti d’impareggiabile sospensione armonica ispirati dal rogo del locale Happy Land, nel Bronx, che nel marzo del 1990 costò la vita a un’ottantina di giovani honduregni. L’autore considera questo secondo capitolo su New York il suo disco più sottovalutato, poiché scambiato per il sequel di quello dell’82 (ma è lui ad averlo chiamato ‘Night and Day II, mica noi).

sabato 8 ottobre 2022 4Ticino7 MUSICA DI BEPPE DONADIO
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Roberto Lardelli

Nato il 5 giugno 1951 a Mendrisio, cresciuto a Genestrerio dove ha frequentato le scuole dell’obbligo, è presidente di Ficedula dal 1989. Ha studiato a Zurigo e a Milano Scienze Naturali, ornitologo e docente per diversi anni alle scuole medie cantonali. Il binocolo del nonno lo ha accompagnato per le sue osservazioni nei boschi già dalle scuole elementari. Una passione, quella per gli uccelli, che lo accompagna da tutta la vita e ha segnato il percorso dell’ornitologia nella Svizzera italiana.

L’interesse per gli uccelli in Ticino è già documentato dalla metà del Cinquecento, quando Conrad Gessner nel suo Historiae Animalium (1555) citava la nidificazione del Verzellino a Bellinzona e quella del Corvo di roccia sul Verbano. Da quel momento sono passati tanti anni, finché nel 1981 un gruppo di amici, tra questi Roberto Lardelli, creò la prima associazione sullo studio degli uccelli nel nostro cantone. Ficedula lo scorso anno ha così compiuto quarant’anni, un traguardo segnato da tanti progetti e un continuo sviluppo. Oggi l’associazione conta 1’400 membri e Lardelli continua ad accompagnare i gruppi alla scoperta dell’avifauna presente sul territorio, dedicandosi naturalmente anche alla ricerca e alla divulgazione scientifica.

La nascita di Ficedula “Era il 20 febbraio 1981 quando, con un gruppo di amici appassionati di ornitologia, abbiamo fondato Ficedula ( ficedula.ch), allora chiamata Società Pro avifauna della Svizzera italiana, negli anni successivi rinominata in Associazione per lo studio e la conservazione degli uccelli della Svizzera italiana”. L’associazione venne successivamente chiamata Ficedula dal nome scientifico della Balia dal collare Ficedula albicollis, una specie rara e minacciata che nidificava, e nidifica tuttora, solo nella Svizzera italiana con una popolazione di qualche decina di coppie.

Attività e collaborazioni Ficedula è una delle associazioni ornitologiche scientifiche della Svizzera che costituiscono il Gruppo di lavoro Ornitologia nell’Accademia svizzera di Scienze naturali e nel quale rappresenta l’area linguistica italofona. “È un’organizzazione nazionale di BirdLife Svizzera”, annota Roberto Lardelli. “Realizziamo e promuoviamo lo studio degli uccelli con l’obiettivo di creare le basi per la conservazione delle specie e dei loro habitat. Organizziamo corsi di ornitologia, giornate di studio sugli uccelli del Ticino ed escursioni, puntando da sempre sulla scienza partecipativa – nota anche come citizen science –, pubblicando già il primo atlante degli uccelli del Ticino in inverno nel 1992”. Indirettamente e direttamente, Ficedula fornisce una consulenza a uffici ed enti cantonali come l’Ufficio della natura e del paesaggio, l’Ufficio della caccia e della pesca, l’Ufficio dei beni culturali, la Sezione agricoltura, la Sezione Forestale, le organizzazioni agricole. “Abbiamo inoltre contribuito ad allestire la Strategia cantonale

per lo studio e la conservazione degli uccelli del Canton Ticino. Inoltre, con Ficedula svolgiamo il ruolo di assistenza per studenti o per ricerche sul territorio ticinese: lavori di maturità, bachelor e master”.

Ma Ficedula è anche molto presente nella divulgazione scientifica, nell’educazione e nella sensibilizzazione ambientale e collabora con la Fondazione Bolle di Magadino –“di cui siamo consulenti attraverso il Centro Avifauna Ticino” – e con il Museo Cantonale di Storia naturale di Lugano.

I progetti non mancano Ma l’associazione non si ferma… “Abbiamo appena cominciato un corso di ornitologia di campo che durerà quasi due anni, con oltre una settantina di partecipanti, un grande successo, tutti molto interessati e motivati. In collaborazione con l’Ufficio della natura e del paesaggio, stiamo realizzando l’inventario cantonale dei siti di riproduzione dei Rondoni dopo aver realizzato nel 2019 quello di un’altra specie prioritaria, il Balestruccio. Tutte specie presenti sul nostro territorio che desideriamo proteggere e monitorare”. Mentre il prossimo inverno si concluderà la raccolta dati per il nuovo atlante degli uccelli del Ticino in inverno, dopo quello da noi pubblicato nel 1992. “Avremo così a disposizione migliaia di dati per vedere come il cambiamento climatico e le modifiche ambientali hanno inciso sulla situazione dell’avifauna della Svizzera italiana negli ultimi 30 anni”, ci dice Lardelli. Inoltre, Ficedula è impegnata con BirdLife Svizzera in un progetto di conservazione che interessa Civetta, Upupa, Tortora selvatica, Assiolo, Torcicollo, Succiacapre e altre specie prioritarie a livello nazionale, progetto che sta riscuotendo un grande successo. Grazie alle misure intraprese con la collaborazione degli agricoltori, dal 2004 la popolazione di Civetta in via di “esaurimento” ha più che quintuplicato gli effettivi: “Naturalmente abbiamo anche un progetto di conservazione dedicato alla nostra specie simbolo, la Balia dal collare; questo progetto ha permesso di stabilizzarne la popolazione nidificante ed è oggetto di studio. E abbiamo di recente mandato in stampa un libro dedicato all’avifauna del Verbano insieme a Fondazione Bolle di Magadino e Gruppo Insubrico di Ornitologia”. Ben 256 pagine che avranno fatto la felicità, immaginiamo, di tutti i soci e gli appassionati.

sabato 8 ottobre 2022 5Ticino7 INCONTRI DI CHIARA PICCALUGA; FOTOGRAFIE © R. L./FICEDULA

‘Better Call Saul’

Il mondo che cambia

Che è successo negli ultimi quindici anni?

Quanto siamo cambiati noi? Un buon modo per rispondere sarebbe guardare questa serie giunta a conclusione pochi mesi fa.

Originariamente concepita come commedia di mezz’ora sull’avvocato disonesto e traffichino di Breaking Bad, si è trasformata in corso d’opera in un drammone lungo sessantatrè episodi su un uomo in eterno conflitto tra bene e male.

Nel 2015, quando Vince Gilligan ha annunciato lo spin-off, nessuno voleva davvero sapere come fosse nata la spalla comica di Walter White, Saul Goodman era poco più di una macchietta e tutto quello che il pubblico chiedeva era far durare ancora un po’ l’atmosfera di Breaking Bad. Oggi possiamo dire che Better Call Saul è stata molto di più, una serie capace di reggere il confronto con i capolavori del genere, forse l’ultima di quella che negli Stati Uniti hanno definito la “golden age” della televisione. Inoltre, Better Call Saul ci mostra che nel frattempo siamo diventati più buoni.  “Più passa il tempo, meno provo simpatia per Walter White”, ha raccontato Gilligan al New Yorker, in un’intervista in cui ha detto anche che il suo prossimo progetto sarà un personaggio buono, un eroe vecchio stile. “Quindici anni fa, quando ho concepito Walter White, in tv vedevo solo buoni, oggi mi guardo intorno e, diamine, è pieno di cattivi, non solo nelle serie ma anche al telegiornale”. A Gilligan non piace molto l’ambiguità, quella che ad esempio aveva spinto il creatore dei Soprano, David Chase, a deludere gli spettatori con un finale aperto. Il pubblico avrebbe voluto vedere Tony Soprano con la faccia negli spaghetti, o ammazzato in un’imboscata in un tunnel del New Jersey, mentre Chase si era astenuto dal punire la sua stessa creatura. In Breaking Bad, invece, Gilligan ha punito Walter White concedendogli la messa in opera di un ultimo dei suoi piani geniali, complicati al limite del verosimile, cinematograficamente spettacolari, l’ennesima sconfitta mascherata da vittoria. È un finale brutale e amaro, un’apoteosi di tutto quello che era stato Walter White.

Cattivo dentro (da sempre)

Il contrasto non potrebbe essere più forte con il finale dolce, persino romantico, raccontato nei toni sfumati del bianco e nero, con cui si è concluso Better Call Saul. Saul Goodman/Jimmy McGill ha avuto quella redenzione last minute, quell’epifania, che a Walter White è mancata per cinque strazianti stagioni. Certo c’è stato anche stavolta un sacrificio finale, ma in questo caso ha coinciso con il riappropriarsi della propria identità, del proprio passato e del rapporto con la persona amata. Jimmy ha imparato di nuovo - o finalmente - a distinguere tra la parte migliore e la peggiore di se stesso, è diventato più buono.

Se Breaking Bad finisce con lo sguardo senza vita di Walter White, in quello di Jimmy dietro alla rete metallica della prigione in cui passerà il resto dei suoi giorni c’è vita, c’è speranza, c’è amore. È triste, d’accordo, veder andar via Kim Wrexler sapendo che non potrà fare niente per tirarlo fuori, ma forse è giusto così e non c’è niente di più triste di un uomo privo di sentimenti, come quello da cui si era separata qualche puntata prima.

In fondo il tema della serie era simile a quello di Breaking Bad: la trasformazione di un uomo comune, accettabile, dignitoso, in questo caso un aspirante avvocato, in un criminale cinico e freddo. Ma se quella di Walter White era la storia di un professore di chimica frustrato e rabbioso, che con la scusa della malattia terminale perdeva ogni limite morale, quella di Saul Goodman/Jimmy McGill è stata una lenta battaglia tra due forze opposte che hanno abitato dentro di lui fin dall’inizio.  Nel finale di Better Call Saul, Vince Gilligan si regala (e ci regala) una specie di saluto a tutti i personaggi principali delle due serie tv,  saltando da un piano temporale all’altro con una disinvoltura che non ha mai avuto prima (ed è un peccato). Chiusi in uno scantinato, come li avevamo visti nel finale di Breaking Bad, Walter White e Saul Goodman parlano di rimpianti. Walter pensa al giorno in cui è uscito dall’azienda che aveva creato, prima che avesse successo, per evitare un errore che, dal suo punto di vista, avrebbe causato il resto delle sue sfortune. Saul invece ricorda quando da ragazzo, per una delle sue truffe, si è fatto sul serio male al ginocchio. Il suo unico

rimpianto è quello: “Quindi sei sempre stato così”, commenta senza nascondere troppo il proprio disprezzo Walter White.  È una scena deprimente che sembra condannare definitivamente Saul/Jimmy. Ma a ben guardare quello irrecuperabile è proprio Walter White che anche alla fine della propria storia non riesce a non vedersi come una vittima, le sue scelte, i suoi crimini, come una conseguenza di circostanze esterne o, al limite, di una natura frustrata. Per Walter White l’unica vittoria era contro quello che lo circondava e, in definitiva, contro se stesso.

Pensa a te stesso

Il fatto che Jimmy McGill sia sempre stato un piccolo truffatore non è una novità per lo spettatore di Better Call Saul. Ma abbiamo visto anche i suoi sforzi per integrarsi, per diventare un membro produttivo di quella società che lo ha rifiutato. Jimmy, in un certo senso, ha sempre saputo che la vera battaglia non era con gli altri ma con se stesso, per andare oltre la frustrazione e smetterla di corrompere il nucleo migliore della sua identità. E per vincere questa battaglia non è mai troppo tardi. Forse quello che voleva dirci Gilligan con lo studio psicologico di Better Call Saul è che in un mondo sempre più pieno di cattivi - soprattutto al telegiornalela cosa migliore da fare, forse l’unica davvero possibile, è pensare a noi stessi. Cercare di essere buoni, onesti, anche se magari è più difficile, o meno spettacolare, di prendere in mano un’arma automatica.

Il drago Figura allegorica, creatura disordinante e incarnazione del male, il drago ha spaziato nel corso dei secoli dall’ambito del fantastico a quello psicologico e religioso. È San Giovanni nell’Apocalisse a dare una precisa descrizione di questo essere orrifico, emanazione di Satana, in costante lotta contro il bene. Il genere fantasy è quindi solo l’ultima tappa del lungo percorso intrapreso dalla “bestia” che si presenta in forma già evoluta in tutte le antiche religioni, da Babilonia all’Egitto dei faraoni, dal cristianesimo all’iconografia dei bestiari scaturita dalla scolastica medievale. Residuo di una visione manichea del mondo, il drago – pur nascendo da uno sfondo mitico e archetipico – si manifesta sempre nel momento in cui l’organizzazione sociale si consolida in Stato, inteso come aspirazione a un ordine e a una pace superiori. Simbolo di distruzione, dunque, esso mira ad annichilire ogni tentativo umano di sollevarsi dalla originaria, e purtroppo mai del tutto risolta, condizione di caos.

sabato 8 ottobre 2022 6Ticino7
MEDIA DI DANIELE MANUSIA
L’OGGETTO
DI FABIO MARTINI

Con l’invasione russa dell’Ucraina la comunicazione dei media è cambiata e la geopolitica ha assunto un ruolo centrale nella narrazione del conflitto. Ma cosʼè e quando nasce questa disciplina oggi sulla bocca di tutti?

La rivincita della GEOPOLITICA

Nel corso della pandemia i media ci hanno aggiornato sui progressi compiuti dalla ricerca scientifica nella lotta al virus. Immunologi ed epidemiologi sono stati tra gli ospiti più richiesti nei talk show, pronti a sciogliere dubbi e non di rado a crearne, rassicurando o ammonendo a seconda delle diverse decisioni dei governi. Ma dal 24 febbraio 2022 lo scenario è cambiato: oggi è la guerra al centro della comunicazione dei media occidentali e al virologo di turno è subentrata una nuova figura, quella dell’analista geopolitico. Che si tratti di giornalisti, accademici o esperti in ambito militare, a guadagnare popolarità è dunque una disciplina di cui (in molti) sanno poco.

3. Il caso tedesco

Con la pubblicazione a Monaco nel 1924 di una delle prime riviste di geopolitica – Zeitschrift fur Geopolitik – la nuova disciplina diviene presto popolare in Germania. Firma di spicco e in seguito direttore della pubblicazione fu Karl Haushofer, ufficiale dell’esercito e professore di geografia, che nel nazismo vide la possibilità di unificare il popolo tedesco, oltre confine, nelle regioni dell’Est Europa a predominanza germanica. Haushofer riteneva infatti che per risollevare la Germania dalla grave crisi postbellica fosse indispensabile conquistare uno spazio vitale di vaste dimensioni (il tristemente noto Lebensraum), una panregione destinata ad accogliere le popolazioni germaniche. Ma la passione per la croce uncinata ebbe vita breve: disgustato dal fanatismo antisemita – aveva sposato una donna di origini ebraiche –se ne distaccò, pur riuscendo a mantenere il ruolo di direttore del Zeitschrift fur Geopolitik. Sospettato nel 1944 di aver preso parte al complotto per uccidere Hitler, fu arrestato dalla Gestapo e qualche mese dopo suo figlio Albrecht, attivo nella resistenza antinazista, fu catturato e giustiziato. Devastato dal collasso della sua nazione, dalla perdita del figlio e da prospettive di vita deprecabili (aveva testimoniato al processo di Norimberga), Haushofer si tolse la vita assieme alla moglie Martha nel 1946.

5. Attori emergenti

La geopolitica contemporanea si trova quindi a fare i conti con la rilevanza assunta dalle grandi compagnie private in campo energetico e tecnologico. Si pensi al ruolo che ha avuto Starlink in Ucraina, il servizio di connessione internet sviluppato da SpaceX. Raggiungendo più di 100mila cittadini ucraini, Starlink, grazie a un sistema di antenne satellitari mobili, ha permesso a infrastrutture e a privati di continuare nelle loro attività. Un altro esempio interessante è rappresentato dalla China Communications Construction Company (CCCC), una multinazionale cinese attraverso la quale il governo della Repubblica Popolare si assicura il controllo di infrastrutture commerciali in posizioni strategiche. Negli ultimi decenni

1. Le origini

Nata ufficialmente negli ultimi decenni del XIX secolo nell’ambito delle scuole militari anglosassoni, la geopolitica è una disciplina tutto sommato giovane. Tracce di un approccio geopolitico erano peraltro già presenti nelle strategie militari inglesi in Asia Centrale a partire dall’inizio dell’800. Frutto di un neologismo coniato dal politologo svedese Rudolph Kjellén, la materia analizza la politica e le relazioni fra gli Stati tenendo conto dei diversi contesti geografici e spaziali. L’aspetto interessante è che essa si avvale di strumenti di indagine derivati da molteplici discipline, in particolare la geografia, la storia e la sociologia.

4. Nuove dimensioni

Con la caduta del Terzo Reich la geopolitica (anche come lemma in ambito accademico) venne di fatto bandita. Ovviamente sia al Pentagono sia nelle sedi dell’MI6 e degli altri servizi di intelligence, gli analisti e i militari continuavano a svilupparne l’approccio e le metodiche, ma la parola restò a lungo un tabù. Il termine inizia a ritornare in auge verso la fine degli anni Settanta, per essere col tempo accettato e ripreso in tutto l’Occidente grazie agli studi di Yves Lacoste (1929), importante geografo francese. Oggi la geopolitica è una disciplina di ambito accademico che ha sviluppato uno stretto rapporto di complementarità con la tecnologia: alle tre dimensioni originali (terra, mare e aria) si sono aggiunti lo spazio cibernetico e lo spazio extraplanetario, peraltro strettamente connessi. Se l’ambito digitale, con i frequenti fenomeni di hackeraggio a danno di attori pubblici e privati, si è trasformato in un ulteriore terreno di scontro, lo spazio extraplanetario è diventato oggetto di conquista con la presenza di migliaia di satelliti che orbitano intorno al pianeta per garantire il flusso di informazioni.

la CCCC ha creato lo scheletro per l’attuazione della ‘String of Pearl’, una strategia mercantile cinese complementare alla “nuova via della seta”, con lo scopo di svincolarsi dall’egemonia marittima americana grazie a una serie di porti e infrastrutture lungo le coste dell’Oceano Indiano.

Sono dunque molti i fattori di cui oggi un analista deve tener conto, fattori che è necessario inquadrare in un contesto globale dinamico, indagando sui rapporti causali che delineano la politica internazionale contemporanea.

Il grande gioco

L’Asia Centrale è una regione rimasta a lungo ignota agli occidentali. Lungo le vie esplorate prima da Marco Polo e in seguito controllate dall’orda d’oro mongola, a partire dal XIX secolo inizia una accesa competizione fra le due più grandi potenze del tempo: la Russia imperiale e l’Impero britannico. Nel suo celebre saggio (Il grande gioco, Adelphi, 2010) Peter Hopkirk indaga le origini di questa rivalità, dalla caduta di Napoleone Bonaparte sino al primo decennio del XX secolo.

2. Stati del mare vs Stati continentali

La fase storica in cui matura la teorizzazione del pensiero geopolitico vede l’emergere dell’egemonia liberale americana, parallelamente al lento declino dell’impero britannico. A queste due grandi potenze talassocratiche – in fondo due isole, se si considera il Canale di Panama come estremità meridionale del continente nordamericano – si contrapponeva il successo militare ed economico della Germania guglielmina, potenza continentale in rapida ascesa. Secondo Alfred Thayer Mahan (1840-1914), teorico e ammiraglio americano, è la contrapposizione fra questi due blocchi a condizionare le proiezioni strategiche e le aspirazioni di Stati continentali come Russia e Germania da un lato e quelle di Stati insulari come Gran Bretagna e Stati Uniti dall’altro. Non è quindi un caso che proprio Inghilterra, Germania e Stati Uniti abbiano dato i natali ai primi grandi teorici della geopolitica classica.

L’India, la più preziosa tra le colonie britanniche, inizia dunque a essere minacciata dall’espansionismo zarista verso sud. Questo timore anima vivaci dibattiti tra gli intellettuali e gli ufficiali dell’esercito di Sua Maestà coinvolti nel Grande Gioco. Sono storie di spie, di mercanti e soldati, il cui scopo era quello di raccogliere il maggior numero di informazioni per muoversi in anticipo sull’avversario. E sono proprio gli ostacoli naturali di quel territorio a glorificare le imprese dei protagonisti, uno scenario di terre aride dove il freddo continentale incontra l’ostilità dei deserti e delle steppe oggi situati tra Belucistan, Afghanistan, Turkmenistan e Uzbekistan.

L’opera di Hopkirk, pubblicata in Inghilterra per la prima volta nel 1990, delinea con chiarezza l’importanza della geografia e della topografia, sia a scopo militare sia commerciale e può essere considerata un esempio di un approccio geopolitico a una vasta realtà regionale.

sabato 8 ottobre 2022 7Ticino7
TENDENZE DI TOMMASO MARTINI
Mappa delle Americhe realizzata nel 1796 da Conrad Mannert. Soldati afghani ritratti nel 1879 durante la Seconda guerra Anglo-Afghana. Karl Haushofer. Teoria delle panregioni di Haushofer: il globo diviso in sfere di influenza. Vignetta edita dal Philadelphia Press a fine Ottocento rappresentante la proiezione marittima americana sugli oceani limitrofi. La sede dell’MI6 a Londra, lungo le rive del Tamigi. La
penisola di
Gwadar,
nel Pakistan
meridionale.
Importante snodo mercantile progettato dalla China Communications Construction Company. Il Canale di Panama che “spezza” le Americhe.
sabato 8 ottobre 2022 8Ticino7 VINCI Ci siamo Soluzionipubblicitarie. ViaGhiringhelli 9 6500 Bellinzona T+41 91 821 11 90 pub@regiopress.ch regiopress.ch laregione Spedisci un SMS al 434 (CHF 1.–/SMS) scrivendo TI7<spazio> SOLUZIONE e partecipa all’estrazione. Termine di partecipazione: giovedì prossimo. PREFERISCI GIOCARE ONLINE? Vai su laregione.ch/giochi © ceck Orizzontali 1. Località leventinese 5. Località pres so St. Moritz (in tedesco) 12. Un profeta maggiore 13. Montagna tra Maggia e Ossola 14. Abbrevia una città brasilia na 15. Addome, pancia 16. Iniziali di Re spighi 17. Il sottoscritto 18. Lo è il pranzo 19. Venuti alla luce 21. Pirata, predatrice 23. Lo era Giunone 24. Migrazioni in massa 26. Daniel, scrittore francese 28. Un’opera di Omero 30. Alexandre, scrittore (1802-1870) 32. Casta, classe sociale 33. Relativo ai pesci 35. Insetto laborioso 36. Località in Val Morobbia 37. Isola senza vocali 38. Particella dubitativa 39. Affluente della Maggia 40. Fratello di Cam 41. Località del Luganese 42. Località mesolcinese 43. Una schiava di Abramo 45. Un ca nide africano 47. Abiti per monaci 48. Si esibisce senza accompagnatori 50. Ingorda, gretta 52. Un elemento del poligono 53. Sei romani 54. Gran Turismo 55. È bonita per Madonna 57. Il nome di Cechov 59. Bernoccolute 61. Fer mo, immobile 62. Lo garantisce un N. N. 63. Cortile della fattoria. Verticali 1. Una parte di Croglio 2. Liquido che unge 3. Il Creatore 4. I confini di Intra gna 5. Cascata a Biasca 6. Un uccello rapace 7. Morigerato all’inizio 8. Città dello Yemen 9. Preposizione semplice 10. Non è un negozio per astemi 11. Una ruota idraulica 13. Fa coppia con Porgy 15. Diversificata, eterogenea 18. Pulpi to, palco 20. Il primo uomo 21. Erudite, sapienti 22. Fabio, scrittore ticinese 25. Barriera vegetale 27. Parte poste riore della testa 29. Lo è Satana 31. Lo calità della Calanca 32. Località della Bregaglia 34. Caparbietà, costanza 36. L’auto per gli Americani 37. Si getta nel solco 39. Un Monte del Luganese 40. Non malata 41. Si cita con Tizio e Sempronio 42. Una fibra tessile 44. Il nome del personaggio Lagaffe 46. Lo calità del Malcantone 48. Pietre 49. Ri ga, tratto 51. Una capitale cantonale 53. Suffragi 56. Il modulo lunare, in bre ve 58. Preposizione semplice 60. Nota musicale 61. In vita. 7 62 56 18 50 59 40 46 34 35 SOLUZIONE DEL 24.9.2022 LAGOLEMANO Soluzione completa su laregione.ch/giochi Al vincitore facciamo i nostri complimenti! 2x2 ingressi per ‘Il Compleanno’ al Teatro Sociale di Bellinzona, il 20 ottobre 2022 GIOCA CON TICINO7 © ceck 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 46 47 48 49 50 51 52 53 54 55 56 57 58 59 60 61 62 63 SENZA PAROLE © DORIANO SOLINAS

L’ulivo in Ticino

Una rarità nel patrimonio culinario svizzero

Ricetta

Biscotti all’olio d’oliva e limone

Facile | 25 min.

200 gr farina

50 gr di miele ticinese

100 gr di zucchero, in alternativa al miele 70 ml olio d’oliva leggero

1 uovo

1 limone

1 bustina di lievito

1 pizzico di sale

1 bustina di zucchero vanigliato

Il Canton Ticino si contraddistingue da sempre per il suo paesaggio caratteristico e variegato, fatto da montagne e laghi, ma anche da valli e fiumi, il tutto accompagnato da un clima decisamente mite che rende il Ticino il cantone più mediterraneo della Svizzera. Mediterraneo: come la sua vegetazione, non è infatti difficile trovare oltre alle famosissime camelie, palme, alberi da frutto e… ulivi. L’ulivo in Ticino è sempre più presente sul territorio, esso non è un semplice ornamento, ma con le olive raccolte viene prodotto l’olio d’oliva ticinese. Un prodotto raro e di nicchia che fa parte del patrimonio culinario svizzero.

La raccolta in Ticino viene fatta perlopiù manualmente e per ogni chilo di olive si ottiene fra il 10 e il 15% d’olio. Grazie alla spremitura a freddo vengono mantenute le qualità fisico-nutrizionali, così

Sentiero dell’Olivo

Gandria-Castagnola

Il sentiero dell’Olivo si snoda tra Castagnola e Gandria attraversando una zona dove esistono i resti di antichi oliveti e dove è stato reintrodotto recentemente l’olivo.

Il sentiero è percorribile nei due sensi, da Castagnola nelle vicinanze dell’ex municipio o dal posteggio sulla strada cantonale di Gandria.

Il ritorno da quest’ultima è possibile grazie alla linea di bus che collega il romantico e pittoresco borgo arroccato sulle pendici di Brè a Lugano. Oppure in battello, passando per le caratteristiche Cantine situate sull’altro versante del lago. Ogni anno tra settembre ed ottobre l’Associazione Vivi Gandria organizza la tradizionale raccolta delle olive sui terrazzamenti di Gandria. L’iniziativa è aperta a tutti, basta annunciarsi all’Associazione Vivi Gandria.

come le proprietà antiossidanti, vitaminiche e minerali del prodotto. Per stabilire a quale categoria appartiene l’olio, esso viene sottoposto ad analisi chimiche e organolettiche. Quando si parla di olio d’oliva la prima cosa che risalta ai nostri occhi è il colore, ma attenzione: esso non è un criterio che ne determina la qualità. Ovviamente l’assenza di impurità visive è importante, ma ci sono altre caratteristiche organolettiche a cui bisogna prestare attenzione che possono essere riconducibili a olfatto, palato e gola. Fruttato, amaro e piccante sono i tre attributi positivi che vengono valutati per determinarne la categoria. Quello ticinese è generalmente considerato un olio “leggero” ed è acquistabile in piccole quantità da alcuni produttori. Come noto, il consiglio è di conservarlo in luogo fresco e al riparo dalla luce.

Le olive raccolte vengono poi impiegate per la realizzazione di un olio a km 0, prodotto in pochissime bottiglie, e che viene poi venduto presso la Bottega di Gandria. Il sentiero dell’Olivo è stato progettato dall’associazione “Amici dell’Olivo” in collaborazione con il Fondo per il sito naturalistico e archeologico di Gandria, che fa parte della Fondazione della Svizzera italiana per la ricerca scientifica e gli studi universitari.

Itinerario

→ Sentiero: Gandria / San Domenico / Castagnola

Durata: 1 h Difficoltà: facile Info: Lugano Region (luganoregion.com/it)

Sbattere l’uovo con il miele, il succo e la scorza di limone e l’olio. Aggiungere la farina setacciata e il resto degli ingredienti ed amalgamare fino ad ottenere un impasto liscio ed omogeneo. Con l’aiuto di un cucchiaio formare i biscotti sulla carta forno.

Cuocere a 180° per circa 10-12 minuti.

L’olio d’oliva conferisce a questi biscotti un sapore particolare, si consiglia di usare un olio delicato per non sovrastare gli altri ingredienti.

Attività

Parco e sentiero dell’Olivo Tutto l’anno

Cantine di Gandria Grotti aperti nel periodo estivo, in seguito su prenotazione per gruppi

Esplora il territorio e scopri l’Olit Su prenotazione

Raccolta collettiva di olive Ass. Amici dell’Olivo Domenica 30.10.2022

Autunno gastronomico

Maggiore e Valli

Rassegna Gastronomica

e Basso

Rassegna d'autunno e mercato dei formaggi

Bellinzona

Autumn Flavours in Lugano

City tour gratuito

13.9

21.10

16.10.2022

sabato, dal 5.11 al 26.11.2022, su prenotazione

Museo delle dogane svizzero Chiusura 23 ottobre. Entrata gratis; gruppi da annunciare

sabato 8 ottobre 2022 9Ticino7
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Chi ha paura del vuoto?

I giovani e il tempo, un delicato equilibrio tra esigenze personali, sociali e lavorative

La generazione Z

L’argomentazione secondo cui i giovani si siano disaffezionati al mondo del lavoro per una tendenza edonistica ed individualistica può essere corretta, ma quali altre interpretazioni possiamo dare a questo fenomeno? Con il termine “giovani” mi riferisco alla generazione Z, ovvero le persone nate tra il 1995 e il 2012. Una branca della sociologia divide la popolazione in generazioni, evidenziando come ciascuno sia figlio del proprio periodo storico e di come esso abbia influito in modo diverso nel creare una determinata “mentalità di massa”. La generazione Z viene contraddistinta dalle altre per la volontà di lasciare un segno e per l’aspetto virtuale vissuto a tutti gli effetti come la continuità della quotidianità materiale. Hanno una visione imprenditoriale di loro stessi e non sono pronti ad aspettare che qualcuno “scopra” il loro talento: hanno i mezzi per farsi notare autonomamente. Il concetto di “self made man” ha quindi fatto presa ed essi riescono ad avere una visione perlopiù idealistica della realtà, dove sanno che se vogliono possono afferrare i loro desideri e trasformarli in realtà. Questo approccio mentale va considerato per ciò che è, con pregi e difetti, ricordando sempre che ciascun individuo è unico e fare generalizzazioni trae in inganno.

Il tempo non è denaro

Le generazioni che stanno entrando ora nel mondo del lavoro sembrano prediligere un impiego part-time, sono più selettivi nella scelta del lavoro e prediligono la flessibilità alla fedeltà nei confronti dell’azienda. L’orario ridotto permette di conciliare più interessi ed obiettivi personali, che questi siano di natura lavorativa, formativa, familiare o personale. Dal momento in cui il tempo viene monetizzato tramite il compenso salariale, va da sé che esso possa assumere un determinato valore e quindi si possa trasformare in un bene. Le nuove generazioni, forse, hanno interiorizzato che il tempo non è un bene come altri perché ha delle caratteristiche particolari che non possono essere scambiate con un compenso salariale. Nessuno sa quanto ne abbiamo a disposizione, non è possibile accumularlo o cederlo e una volta “perso” non è più possibile recuperarlo, il fascino della possibilità di fare delle esperienze diverse assume quindi un valore inestimabile.

Scacco matto al concetto di produttività

L’ora di entrata ed uscita dal luogo di lavoro non ci dice nulla rispetto alla qualità del lavoro e alla produttività del tempo che investiamo. Secondo uno studio di Christopher Barnes – assistant professor of management alla University of Washington’s Foster School of Business – si tende a premiare coloro che lavoravano nella fascia oraria compresa tra le 7 e le 11 di mattina perché associamo il lavoro mattutino ad una più alta produttività. È stato però dimostrato come non tutte le persone abbiano lo stesso ritmo circadiano e, quindi, va da sé che non sia possibile stabilire uno standard di produttività divisa per fasce orarie. Oltre al dato relativo alla produttività va però fatta un’ulteriore riflessione rispetto al concetto medesimo e alle sue radici: perché essere produttivi? In una cultura che cerca di valorizzare l’essere umano come individuo, in una logica minimalista ed esistenzialista, c’è davvero bisogno di focalizzarsi su un concetto come la produttività? Forse le nuove generazioni hanno una concezione diversa dell’esistenza e hanno integrato un concetto secondo il quale è possibile uscire dalla logica di un sistema a ingranaggio che ci vuole sempre più performativi, per entrare in una concezione del “sentire” la vita al di là dei risultati. Queste nuove visioni però si scontrano tuttora con una società che mette come prioritaria la questione della produttività, l’efficienza e l’impegno; sembriamo quindi incapaci di considerare il tempo libero come una risorsa anziché una sorta di spreco. Forse la creatività e le idee capaci di sorprendere arrivano proprio quando si entra in contatto con noi stessi senza la paura del vuoto.

Una questione di tempo, identità e stimoli La neuropsicologa Ylenia Canavesio definisce il tempo libero come quella parte della nostra quotidianità in cui siamo liberi dai nostri obblighi, che sia il lavoro, lo studio, o le attività domestiche. Sottolinea come questa sia un’attività al pari di tutte le altre che ha una propria valenza e una sua utilità. Se trascorriamo del tempo libero di qualità ne traiamo beneficio sia a livello fisico che psichico. Spesso rischiamo di sovraccaricarci di cose da fare per rispondere all’immagine di autoefficacia di cui abbiamo bisogno.

I giovani sono attivi su più livelli e spesso anche sovrastimolati dall’ambiente circostante, che si tratti di molte attività extrascolastiche o di notifiche e notizie sul cellulare. Rischiamo di sottovalutare come il tempo dei giovani trascorso sui social sia a tutti gli effetti dedicato alla socializzazione e quindi utile rispetto alle competenze sociali. Crescere in un mondo pieno di stimoli è qualcosa di impegnativo; non possiamo cadere nella svalutazione dell’ambiente circostante, dove riteniamo che i giovani siano delle persone incapaci. Essi si stanno adattando all’ambiente circostante al meglio che possono, così come ciascun essere vivente si adatta all’ambiente circostante. E, che ci piaccia o no, anche noi siamo parte delle condizioni ambientali. Forse, visto che le sfide del presente non assomigliano a quelle del passato, si può pensare che il percorso sia meno difficile, senza considerare di come sia complesso elaborare una propria identità personale in una realtà così interconnessa e così velocemente in cambiamento. Riflettendo sotto quest’ottica si finisce nel paradosso secondo il quale sembra che la “generazione Z” sia una generazione di fannulloni che predilige il proprio tempo libero rispetto al tempo lavorativo, ma se andassimo ad analizzare la questione sotto altri punti di vista potremmo scoprire come questa sia la generazione più impegnata di sempre, con un sentimento di horror vacui così pervasivo che rischia di avere un retroscena depressivo e una realtà così piena di possibilità che l’ansia rischia di fare lo sgambetto quando meno ce lo si aspetta.

sabato 8 ottobre 2022 10Ticino7 CORPO & MENTE DI JESSICA BOLLATI; FOTOGRAFIE © SHUTTERSTOCK
‘Forse le nuove generazioni hanno una concezione diversa dell’esistenza’

Nato in Svezia nel 1869, Nils Gustaf Dalén fin da giovane elaborò una serie di complesse invenzioni. Studiò presso la scuola agraria della sua città, avviò poi un negozio di semi, un’attività di apicoltura e si dedicò alla costruzione e riparazione di varie macchine agricole. Nel 1892 presentò una sua innovazione che determinava il contenuto di grasso del latte, affinché gli allevatori ottenessero un compenso dal caseificio anche in base alla qualità. Riuscì a essere ammesso al Chalmers Tekniska Högskola di Göteborg, dove si laureò in ingegneria civile nel 1896. Proseguì gli studi in Svizzera per un anno, al Politecnico di Zurigo, a quell’epoca una delle principali istituzioni tecniche in Europa, con il professor Aurel Stodola (1859-1942, ingegnere, fisico e inventore di origine slovacca, insegnante anche di Albert Einstein), lavorando nella sezione di ingegneria meccanica, sulle turbine a vapore.

Il faro Blockhusudden (vicino a Stoccolma) fu inaugurato nel 1912. Quando nel 1980 il faro fu elettrificato, si constatò che la valvola solare aveva funzionato per quasi 70 anni senza interruzioni e manutenzione.

Un ingegno ‘illuminato’

Nel 1906 Dalén venne assunto dalla società Aga (Gas Accumulatori) e in breve tempo guidò l’azienda verso la leadership mondiale nella produzione degli Agafyren, fari che potevano funzionare per un anno senza supervisione né uso di elettricità. L’unica fonte energetica era data dalla combustione di gas di carburo (acetilene), combinata con un sensore solare che attivava automaticamente la luce solo durante l’oscurità, da cui la luce di Dalén. Una piccolissima fiamma bruciava 24 ore su 24, con un consumo minimo durante il giorno, limitando l’erogazione del solvente. La luce ad acetilene, più bianca e ultra-brillante, sostituì il GPL come combustibile per l’illuminazione dei fari, e venne utilizzata anche per i segnali ferroviari e all’interno delle miniere. Nel 1911, questi fari coprivano tutto il Canale di Panama. L’anno seguente vide la costruzione del faro all’ingresso del porto di Stoccolma. Quando fu elettrificato nel 1980, si scoprì che la valvola non aveva mai avuto bisogno di essere riparata. Nel 1918, l’azienda iniziò a produrre anche lampade per proiettori cinematografici e lavorò allo sviluppo di apparecchiature per film sonori. Nel 1922, Dalén inventò la cucina AGA, peculiare ancora oggi. Negli anni 30, l’azienda sviluppò il gas per uso medico, compreso il protossido di azoto e le apparecchiature per l’anestesia.

Dalén davanti alla sua invenzione.

Gustaf Dalén

Un faro della fisica

Premio Nobel nel 1912, studìò al Politecnico di Zurigo ed è stato l’inventore del faro automatico con accumulatori di gas. La cosiddetta luce di Dalén rivoluzionò il sistema di illuminazione costiera dai primi del Novecento e venne utilizzata fino agli anni Sessanta.

Un faro

Il nonno di Robert Louis Stevenson, Robert (1772-1850), inventò le luci intermittenti e lampeggianti per i fari, ricevendo una medaglia d’oro dal re dei Paesi Bassi. Il padre, Thomas, desiderava che il suo unico figlio diventasse anch’egli ingegnere del faro, ma l’autore de L’isola del tesoro voleva invece fare lo scrittore. “Anstruther è un luogo sacro alla Musa [...] e io stesso l’ho servito con molta devozione. Questo è stato quando sono arrivato da giovane per raccogliere esperienza ingegneristica dalla costruzione del frangiflutti. Quello che ho spigolato, sono sicuro di non saperlo; ma in verità avevo già la mia personale determinazione ad essere un autore; amavo l’arte delle parole e le apparenze della vita; e viaggiatori, e testate, e macerie, e conci levigati, e pierres perdues, e persino l’eccitante questione del marcapiano, mi interessavano solo (se mi interessavano affatto) come proprietà per qualche possibile storia d’amore o come parole da aggiungere al mio vocabolario”.

Il fisico svedese si preoccupò inoltre delle condizioni di lavoro e degli standard abitativi dei dipendenti Aga. Nel 1914, fece costruire degli alloggi secondo un modello molto moderno a quel tempo, con elettricità, WC, bagno e lavanderia nel seminterrato.

L’incidente e il riconoscimento Nel 1912, a 48 anni, Dalén si ustionò gravemente e perse la vista da entrambi gli occhi a causa di un’esplosione di gas durante un test con tubi di acetilene, per provare la massima resistenza alla compressione. Ciò non gli impedì di continuare a operare nell’azienda fino alla sua morte, nel 1937, a sessantotto anni. Sempre quell’anno, fu insignito del Nobel per la Fisica: il premio in denaro venne devoluto ai dipendenti e alla creazione di un fondo presso la Chalmers Tekniska Högskola a Göteborg. Il discorso di presentazione elogiò il fisico per il coraggio nel sacrificare la sicurezza personale per la sperimentazione scientifica, paragonandolo a Nobel, che pure ebbe a che fare con gli esplosivi. Questa fu la dicitura: per le “invenzioni di regolatori automatici da utilizzare in combinazione con accumulatori di gas per l’illuminazione di fari e boe luminose”. E navi faro.

Un romanzo curioso

Durante l’ultimo festival ‘I Boreali’ di Milano, è stato presentato il libro La nave faro di Mathijs Deen, che prende spunto dalla storia di una delle tre navi ancorate al largo delle coste olandesi fino a venticinque anni fa, dove la marea ondosa cambia di molto il pescaggio da un punto all’altro e la nebbia è fitta. Il compito della Texel, questo il suo nome, era quello di segnalare la rotta alle imbarcazioni in transito – perlopiù grandi navi da carico – e annotarne nomi e provenienza. Ora è diventata un museo, i cui volontari sono gli stessi marinai degli equipaggi che lavoravano sulla nave faro. Uno di loro si occupava di scrivere i bollettini, gli altri si avvicendavano nei turni di guardia, mentre tutti attendevano impazienti la fine delle quattro settimane di servizio. L’autore cerca di immaginare la vita, lenta e monotona, a bordo di questa nave che non può andare da nessuna parte, e di catturare le psicologie dei membri dell’equipaggio, ognuno a suo modo intrappolato nel proprio passato.

Il romanzo pubblicato da Iperborea che narra la vita a bordo di una nave faro

In rime

da ‘Ad un paese lasciato’

“(…) Tra questi uomini ho appreso grevi leggende di terra e di zolfo, oscure storie squarciate dalla tragica luce bianca dell’acetilene. È l’acetilene della luna nelle notti calme (…)”

Leonardo Sciascia

da ‘Arsenio’

“(…) Una notte di globi accesi, dondolanti a riva, – e fuori, dove un’ombra sola tiene  mare e cielo, dai gozzi sparsi palpita l’acetilene – (…)”

Eugenio Montale

sabato 8 ottobre 2022 11Ticino7 SCIENZA & TECNOLOGIA DI ALBA MINADEO
della letteratura
Copertina di un libro per ragazzi dedicato a Dalén e alla sua invenzione.
Un ritratto del 1926.
sabato 8 ottobre 2022 12Ticino7 TIPO UN FUMETTO DI ALESSIO VON FLÜE

Nel mese di ottobre, con il restringersi dei giorni, ogni tanto il pensiero corre a chi non c’è più. Del resto il primo novembre è la festa di Ognissanti e il 2 novembre la Commemorazione dei defunti. A parte le tradizioni cristiane, fin dall’antichità in questo periodo dell’anno si celebrano riti di passaggio e si ricordano i propri antenati. A Lenzerheide, in romancio Lai, una frazione del Comune grigionese di Obervaz, c’è un’usanza particolare: è possibile donare una panchina al Comune in segno di memoria per una persona scomparsa. Mi capita di avvistare una di queste panchine in mezzo ai campi, dove offre un punto di ristoro all’ombra per chi cammina sotto la sferza del sole estivo o anche nella luce tagliente di quello autunnale. Sullo schienale si legge: “Cathy ‘at her best’ ”. Non vengono offerte altre spiegazioni, ma non ce n’è bisogno. In qualche modo mi sembra di stabilire un legame non solo con la sconosciuta Cathy, ma anche con tutti i miei morti, con tutte le persone che porto nel cuore e che saluto intimamente, nel tempo di una sosta su una panchina.

Nuotare (in piscina)

Alle sette del mattino la piscina è frequentata da soli uomini. A dirmi che è così e che molti di loro sono eccessivamente tatuati è più che altro l’intuito: le lenti a contatto ritrovate nel fondo della borsa e indossate per l’occasione non mi permettono di distinguere ulteriori dettagli. Evidentemente confido che anche loro siano in analoga situazione quando decido di buttarmi in vasca nonostante la serie di imprevisti di cui mi sono resa conto nel momento di fare la borsa. Gli occhialini sono introvabili: rimedio con quelli di una delle bambine che sono piccoli anche a lei. Sembrerò una cretina, ma fuori è ancora buio. Il costume, che fino a pochi giorni fa era ben riposto nella borsa, oggi è introvabile. Rovisto nelle cose del mare, mi salva un vecchio costume che non metto più perché mi sta malissimo. Al massimo si abbinerà con la cuffia, che scivola ogni volta che faccio una bracciata. Le ciabatte – e di questo mi accorgo quando sono già nello spogliatoio – non ci sono. Spero in qualche rimasuglio di attenzione sanificatrice dal Covid e me ne frego, avanzando a piedi nudi verso la vasca dei nuotatori più lenti. Tra una bracciata pigra e l’altra penso a quanto le mie figlie

si vergognerebbero di me, a quanto io stessa lo avrei fatto dieci anni fa, quando pensavo che per andare in piscina a nuotare bisognasse persino essere a posto con la depilazione. Cosa mi succede, mi domando mentre passo dallo stile libero al dorso? Una volta ci tenevo di più, ero più attenta a quello che gli altri potevano vedere di me. Sto diventando sciatta? Tutt’altro. Ho un guardaroba di tutto rispetto e ho persino imparato a pettinarmi. Eppure, ho comprato due pantaloni praticamente identici in due colori diversi. La morte dello stile, ho sempre detto. Ma contraddirsi è importante. L’amica mi dice di non preoccuparmi, che questa non è la mezza età ma il ventennio d’oro: quel tempo magico e irripetibile in cui, semplicemente, di tutto ti frega un po’ meno. E, come se fossi sempre reduce da un mezzo bicchiere di Franciacorta, tutto appare più leggero, meno definitivo. I problemi della vita sono altri, ci diciamo con le amiche con cui ahinoi ci scambiamo bollettini di funerali. Mezz’età, qualunquismo o saper vivere. In fondo i confini sono difficilmente nitidi. Come i contorni delle cose che vedo in vasca con gli occhialini di mia figlia e le lenti a contatto scadute. L’importante è non fermarsi con le bracciate.

ALTRI SCHERMI

FUGA E REDENZIONE

Basata sull’omonimo romanzo del 2003 di Gregory David Roberts, Shantaram segue le peripezie di Lin Ford (Charlie Hunnam), un rapinatore di banche tossicodipendente che, fuggito dalla prigione in Australia, cerca di far perdere le sue tracce nella vibrante e caotica Bombay degli anni 80. Dopo essersi innamorato di una donna enigmatica e intrigante di nome Karla, Lin penetra sempre di più nel tessuto sociale della città sino a trasformarsi in dottore per gli abitanti di una fra le più grandi baraccopoli dell’India e del mondo.

ASPETTATIVA

Shantaram farà il suo debutto con i primi tre episodi (della sua prima stagione di 12 episodi) venerdì 14 ottobre, seguiti da un nuovo episodio settimanale ogni venerdì, fino al 16 dicembre, su Apple TV+. Il ruolo principale, dopo che per molti anni era stato prerogativa di Johnny Depp, è affidato a Charlie Hunnam, noto per il ruolo di Jackson ‘Jax’ Teller in Sons of Anarchy. Tra i milioni di lettori di Shantaram c’è molta aspettativa e, dopo una attesa così lunga, si può solo sperare che alla fine tutto ripaghi.

GREGORY DAVID ROBERTS

L’autore Gregory David Roberts ha sempre definito Shantaram un romanzo, ma l’opera è in realtà fortemente autobiografica. È un’epopea monumentale (1’175 pagine nella traduzione italiana) seguita nel 2015 da L’ombra della montagna (altre 1’080 pagine) dove l’autore chiude il cerchio e illumina su tante vicende lasciate aperte nel primo romanzo. Shantaram è il nome che i primi amici indiani diedero a Lin, il narratore, e significa “uomo di pace”. Ma Lin non sempre si sentì degno di questo nome.

BATTUTE D’ARRESTO

Quando il romanzo Shantaram fu pubblicato nel 2003, nacque subito l’interesse per un adattamento cinematografico. Warner Bros. se ne accaparrò i diritti, coinvolgendo Johnny Depp per il suo palesato amore verso il romanzo. Diversi sceneggiatori e registi si sono succeduti nell’impresa come Peter Weir e Mira Nair, senza portare a termine l’opera. Dopo numerose battute d’arresto, abbandoni e colpi di scena, nel 2018 la Paramount ne acquisì i diritti, con l’intenzione di adattare il romanzo per una serie televisiva.

sabato 8 ottobre 2022 13Ticino7
LA FICCANASO DI LAURA INSTAGRAM: @LA_FICCANASO Coordinate: 2’721’940.9; 1’116’524.9 Comodità: ★★☆☆☆ Vista: ★★☆☆☆ Ideale per… ricordare chi non c’è più Settimanale inserito nel quotidiano laRegione ticino7.ch • #ticino7 • facebook.com/Ticino7 Direttore Beppe Donadio Caporedattore Giancarlo Fornasier Grafica Variante agenzia creativa Editore Teleradio7 SA • Bellinzona Amministrazione, direzione, redazione Regiopress SA, via C. Ghiringhelli 9 CH-6500 Bellinzona tel. 091 821 11 11 • salvioni.ch • laregione.ch Servizio abbonamenti tel. 091 821 11 86 • info@laregione.ch Pubblicità Regiopress Advertising via C. Ghiringhelli 9, CH-6500 Bellinzona tel. 091 821 11 90 • pub@regiopress.ch ticino7
ASCOLTA I SUONI DI QUESTA PANCHINA SU ANDREAFAZIOLI.CH/BLOG IN VIA PEDRA GROSSA
DI ALBA REGUZZI FUOG
Shantaram Un australiano nello slum SOPRA LA PANCA TESTO E FOTOGRAFIA © ANDREA FAZIOLI

30 anni di Gotthard

svizzero a 30 anni dall’esordio

al mondo la band e le sue coordinate

Mi invitano a Londra per il concerto finale. Tre giorni e tre notti a spiluccare parmigiano e affettati ticinesi su quel bus che era stato la loro casa tra concerti, servizi fotografici, in terviste e i loro sguardi stupefatti e luccicanti, spalancati sul mondo e sulla strada che le loro vite stavano percorrendo.

Steve, Leo, Hena e Marc non hanno ancora 30 anni, sono cresciuti a pane e rock e una voglia infinita di cavalcare quel sogno che coltivano da sempre. In Ticino Leo e Steve sono già conosciuti per animare la scena rock in band e proget ti di un certo rilievo. La seconda parte degli anni ’80 sono effervescenti per la scena regionale che vanta una miriade di gruppi, locali dove suonare, piccoli e grandi festival affa mati di musica.

Palchi da cui dispiegare le ali e spiccare il volo. Senza bru ciarsi. I capelli sono folti e lunghi, i jeans strappati, le borchie lucci cano. Si mettono di buzzo buono, lavorano sodo cercando di far qua drare vita professionale e incli nazioni artistiche, che ormai pre mono, rivendicano una centralità maggiore.

E accade il miracolo, che poi di ar cano non ha proprio nulla.

È la somma di molti fattori, tra i quali l’indubbio talento sempre e comunque da arare e affinare, la cocciutaggine, la coerenza, l’istinto di scegliere e attorniarsi delle giuste persone. Ma è un’al chimia che se fosse orfana della passione infinita per la musica, il vero propellente che ancora oggi li muove, non garantirebbe quelle magie che invece ha generato copiosa mente. Non avrebbe loro permesso di licenziare 13 album in studio oltre a una serie di raccolte e dischi dal vivo e di infiammare i palchi del globo. E soprattutto di proseguire sulla strada del rock lastricata anche da immani sofferenze. La loro è davvero una storia virtuosa, conosciuta e già tra mandata ai posteri. Che si è arricchita e nutrita di volti e voci e nuovi compagni di viaggio, Nick Maeder in primis.

A lui, romando d’Australia l’onere e l’onore di raccogliere un’eredità ingombrante e vestire le canzoni con la sua voce. Ed è un compito svolto a meraviglia. E come ogni poema epico che si rispetti racconta 30 anni di gioie e dolori, di luci (molte) e qualche ombra. In sostanza è la vita che si mani festa compiutamente e con potenza.

Che spesso è madre benevola ma a volte matrigna, beffarda e irrispettosa. In cui si intrecciano affetti e passioni, tour née internazionali, concerti-evento, premi e addii dolorosi. Decenni da incorniciare per la scrittura musicale fedele al verbo dell’amato rock muscoloso e viscerale, che non di sdegna di sperimentare un catalogo di suoni e stilemi per respirare al passo coi tempi. Senza scordare l’assoluta ma estria nel regalarci ballate intense che toccano le differenti corde dell’anima.

Se la musica è un ponte per comunicare e facilitare la comprensione i Gotthard sono dei provetti ingegneri ca paci, soprattutto dal vivo, di colpire dritto al cuore.

Ricordando Steve

“Noi crediamo nella vita, nella sua bellezza, nella sua potenza.” Steve me lo ripeteva spesso, con la luce negli occhi certo, perché era così: solare, ma con annidati grappoli di nuvole, ottimista, goloso e rispettoso della vita; attento al prossimo e alla cura costante della propria anima. Lo era agli inizi del la sua carriera, lo è stato fino all’ultimo. Lo frequentai come molti dall’epoca dei Forsale e del loro splendido concerto in piazza Grande a Locarno. E non sapeva ancora, Steve, che in quella piaz za sarebbe tornato anni dopo per registrare, con l’affetto di una folla oceanica e l’ugola siderale di Montserrat Caballé, Defrosted Anzi da prima ancora, dall’av ventura coi Trouble quando allo ra percuoteva piatti e tamburi e supportava la voce di Flavio.

Poi la genesi dei Gotthard e la pos sibilità finalmente di esprimere compiutamente la propria anima musicale attraverso una straordinaria vocalità; che andava a irrobustirsi, caricandosi di colori e di un’energia dirompente che gli permetteva di vincere alcune leggi della fisica. E delle intime frizioni esi stenziali.

I primi programmi, il primo disco presentato in assoluta an teprima alla nostra radio e di cui conservo ancora una “lac ca” autografata, i primi concerti. Ed eccoli spiccare il volo. E tra i mille ricordi e chiacchierate, le condivisioni fradice di musica, vita, ambizioni e speranze uno tra i più vividi risale al dicembre del ’92, al loro primo tour inglese quale suppor to dei Magnum

Mi invento una diretta, con loro, dagli studi della BBC di Whiteall. Ciò che successe tra i corridoi, gli uffici e le segre tarie dei paludati funzionari britannici che ci ripresero per la nostra “esuberanza latina” appartiene ormai alla leggen da. La notte la consumammo fino alle prime luci dell’alba in un club a far festa, a parlar di musica, anima e vita.

E di come i loro sogni, coltivati con impegno e sacrifici si stavano materializzando. Ed era uno spettacolo osservarli ed ascoltarli avvolti dall’adrenalina, dal sudore e dalle la crime di gioia. Un altro, importante gradino della loro per sonale stairway to heaven era scalato.

Ricordi indelebili, emozioni che attraversando il tempo ancora riverberano. Mischiandosi a successive altre con divisioni, concerti, incontri, interviste, chiacchiere banal mente quotidiane. Fino al veloce sms che ci scambiammo nell’agosto del 2010, dopo l’incidente autostradale in To scana, quando l’angelo del rock allora gli venne in soccorso.

E fu davvero beffardo il destino che ci tolse poco dopo una persona buona davvero, affabile, rispettosa della vita al trui. Sempre in prima fila quando lo si chiamava per aiutar i più bisognosi. Rispettoso e grato alla musica e a ciò che la musica gli aveva e gli stava dando. Un dono, una voce, un lungo brivido che fortunatamente noi ancora possiamo condividere.

Nel 1992, col loro primo omonimo album, la loro musicala musica di Leo, Steve, Hena e Marc - entrava con prepo tenza nelle nostre vite per non lasciarle più. Trent’anni in cui la formazione, pur mutando pelle, ha firmato canzoni, concerti e “meraviglie” confermando sull’arco del tem po una qualità artistica cristallina avvallata dai premi e dai riconoscimenti anche interazionali. Ma ciò che più conta è quell’affetto popolare che non cessa di manifestarsi da trent’anni. Una festa era quindi doverosa per ringraziarli: un cast artistico importante, con ospiti a sorpresa e im magini d’archivio per una serata dedicata ai nostri benia mini: auguri Gotthard, buona e lunga vita!

sabato 8 ottobre 2022 Ticino7 • Programma Radio&TV • dal 9.10 al 15.10 14 SERATA EVENTO
di Gian Luca Verga Mercoledì 12 ottobre: grande festa RSI per celebrare il gruppo
discografico con “Gotthard”, l’album eponimo che svela
artistiche: chiare, precise, “granitiche”
Presentano
Sandy Altermatt e Gian Luca Verga Una serata di festa, musica, ospiti e sorprese per celebrare i 30 anni dei Gotthard! Mercoledì 12 ottobre alle 20.00 Auditorio Stelio Molo RSI a Lugano Besso La serata-evento Scopri come vincere ibigliettid’entrata su rsi.ch/eventi

Fotovoltaico, dal passato al futuro

I prezzi del gas e dell’elettricità sono schizzati alle stelle e gli aumenti mordono ai talloni famiglie e aziende ma, senza bi sogno di spendere cifre enormi e con poco sforzo, è possibile tagliare i costi in bolletta aiutando anche la natura: il risparmio è “verde”, oltre che necessario, per affrontare la crisi energetica che sta investendo il mondo intero.

L’autunno sarà “freddo” secondo l’opinione delle federazioni di settore, che mettono in guardia contro i rialzi di gas ed elettricità causati dalla guerra in Ucraina.

Proprio per questo motivo, bisogna fin da subito cambiare strada e dirigersi verso forme di approvvigionamento energetico soste

nibile che utilizzino fonti energetiche inesauribili e pulite, come ad esempio l’energia solare.

Ma non solo: si guarda con sempre maggior interesse anche ad edifici progettati con materiali innovativi, ai fondali marini che possono diventare depositi di anidride carbonica e alle sempre più affidabili tecnologie impiegate per vivere in modo consape vole e sostenibile. Infatti l’utilizzo massiccio dei combustibili fossili è adesso, più che mai, non sostenibile: per far fronte alla crescente e costante domanda di energia, dobbiamo guardare al trove, a risorse energetiche rinnovabili e non inquinanti: il ven to, l’acqua, il sole.

Nella nuova puntata de Il giardino di Albert, in compagnia di Ce cilia Broggini e Christian Bernasconi, scopriremo il passato, il presente e il futuro della ricerca nel campo dell’energia solare. E non mancheranno altre interessanti curiosità: avete mai sentito parlare dell’Umami? E sapete come reagisce il nostro cor po quando (se ne abbiamo il coraggio!) affrontiamo un giro sulle montagne russe?

Il giardino di Albert Domenica 9 ottobre alle 18.10 su LA 1

Snowboarders

“Se scolpisci un tuo sogno nel ghiaccio, non dovrai svegliarti mai.”

Thomas e Walter, due snowboarders con un passato dedito alla competizione, de cidono di compiere un’impresa che li po trà rendere immortali, come una foto che nessuno potrà mai rifare.

Per raggiungere questo scopo i cambiamen ti climatici giocano a loro favore in val Be dretto dove, a causa dello scioglimento di un ghiacciaio, si formano degli iceberg Un fenomeno rarissimo, che l’estate si porterà via per sempre. I nostri protagoni sti decidono così di immortalare con delle foto i loro sogni dentro quelle montagne di ghiaccio, ma non saranno poche le difficol tà da affrontare, portandoli anche a rischia re la propria vita pur di raggiungere il loro obbiettivo.

La Storia infinita

...e dopo l’impero romano, comincia davvero la nostra Storia

Il Medioevo nella Svizzera italiana

Il secondo appuntamento con La Storia in finita, l’affascinante viaggio nel passato del nostro territorio proposto da RSI il lunedì in prima serata, vede il conduttore Jonas Marti alle prese con Medioevo nella Svizzera italiana: la storia di una terra contesa

Gli ospiti: Marino Viganò, esperto di storia militare; Vera Segre, storica dell’arte; Pa olo Ostinelli, direttore Centro di dialetto logia ed etnografia della Svizzera italiana. Con loro l’arpista Kety Fusco e la sua mu sica sospesa e sognante, e l’attore Claudio Moneta che leggerà testi dell’epoca. Rigo re storico da un lato, linguaggio semplice, accattivante, comprensibile a tutti dall’al tro: sono questi gli ingredienti di un pro gramma che dedica le sue quattro puntate rispettivamente a quattro epoche diverse.

Ne La Storia infinita Jonas Marti e gli ospiti che ritroveremo in studio, valorizzeran no gli elementi del nostro passato, spesso sconosciuti ai più, qualche volta sotto for ma di aneddoti curiosi, riproponendoli al grande pubblico.

L'Africa delle donne

Un viaggio attraverso il continente africano - in Senegal, Ruanda, Mozambico, Ghana, Kenya, Costa d’Avorio e Burundi - all’in contro di donne determinate che si battono per offrire un futuro migliore al proprio Pa ese.

Lottano contro decenni di dominazione ma schile con l’obiettivo di inserirsi nell’eco nomia locale e internazionale e sradicarsi da meccanismi atavici di sottomissione. Una realtà in trasformazione, che viene rac contata dalle protagoniste nella macroecono mia, nell’imprenditorialità, nella protezione della salute pubblica e nella salvaguardia del la biodiversità. Sono donne che dimostrano che un altro sguardo è possibile, che un futuro migliore è percorribile. L’ultimo documenta rio di Mohammed Soudani, scritto a quattro mani con la moglie produttrice Tiziana, scom parsa nel 2020 e alla quale è dedicato, è stato presentato in prima mondiale alle Giornate ci nematografiche di Soletta 2022

Sguardi Domenica 9 ottobre alle 22.55

LA 2

sabato 8 ottobre 2022 Ticino7 • Programma Radio&TV • dal 9.10 al 15.10 15
IN PRIMO PIANO
su
Ospiti del programma saranno il filosofo Leonardo Caffo – autore della recente pub blicazione Velocità di fuga - e lo scrittore e docente Nicola Pfund
Lunedì 10 ottobre alle 21.10 su LA 1
Documentario di Artur Schmidt Documentario di Mohammed Soudani in prima TV
Storie Domenica 9 ottobre alle 20.40 su LA 1

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