Ticino 7 N13

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Parole sole. La dura vita del traduttore

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L’orecchio della scrittura

“Ogni testo e ogni scrittore ha un suo ritmo. Penso alla prosa di Cormac McCarthy, che Raul Montanari ha definito ‘dondolante’.

In effetti è proprio così, la sua scrittura ha un andamento che ricorda il cavallo della prateria. Se riconosci il suo stile e riesci a riprodurlo, sei proprio a cavallo e procedi lasciandoti condurre.

In Suttree (Einaudi 2009, ndr) questo ritmo è così caratterizzante che preservarlo era una priorità, a costo di lavorare per sottrazione, a volte tagliando persino degli aggettivi. Quando traduco faccio una serie di scelte a una velocità folle, la mia mente scarta e propone automaticamente. Non credo si possa teorizzare granché sul proprio gesto, ed è naturale, perché tradurre è un atto creativo che comporta una buona dose di istinto. Non ho una ricetta, ma sempre due direttrici fondamentali: la prima è riuscire a sentire il testo;

la seconda è riprodurre ciò che sento. È una questione di orecchio, come per una musicista o per una cantante che deve essere in grado di intonarsi, di intonare quello che legge. Quando prendo per la prima volta un testo tra le mani ho sempre paura. Un po’ come quando vai a un appuntamento con una persona che ti piace. Insomma, sai che stai per fare un incontro che nel bene o nel male ti segnerà. E spesso, quando cerco le parole nel dizionario, mi commuovo: ogni traduzione è un viaggio molto privato in un mondo di parole, e capita che cercando un lemma rintracci il solco di un viaggio precedente”.

Da “Maurizia Balmelli”, intervista di Stefania Briccola apparsa nella rubrica “Vitae”, Ticino7 n. 35/2010.

sabato 1 aprile 2023 1 Ticino7 numero 13 A CURA DELLA REDAZIONE

Tacere La scrittura è insocievole, è solitaria. Quella della canzone non lo è o lo è molto meno. La parola della canzone è la parola socievole. La scrittura tende all’isolamento. La canzone al contrario, almeno nella sua seconda fase, è pubblica. Quando la scrittura, l’altra, trova il destinatario, lui pure solo, è troppo tardi. La parola della canzone è la parola che non tace. Non tace in tre modi (dal che si vede che la parola scritta tace tre volte): è detta, pronunciata; non è pronunciata semplicemente, ma cantata; e poi nel concerto, nel video, vi si aggiunge l’immagine. La parola della canzone a differenza della scritta è la parola estroversa. Anche tradurre è meno insocievole che scrivere, dato che siete in due. E il traduttore è una specie di scrittore che non scrive da solo.

Tentativi

Arriva un momento in cui tradurre sembra ridursi allo scegliere tra quindi e dunque. Soltanto, solo e solamente. Adesso oppure ora, niente o nulla… La distanza tra le due o tre scelte è breve solo in apparenza. È un fatto di misure o di suoni e di qualcos’altro di più indefinibile. Al traduttore capita di vedersi cambiati dal correttore i qua in qui, spesso. Che pare un mutamento minimo, ma se il correttore corregge non lo sente così. Il qui sembra più raffinato, il qua grossolano? Forse il qua è parlato, il qui è scritto? Tradurre consiste nel mettersi al servizio di queste giunture della lingua, si va avanti per avvicinamenti, approssimazioni e nella semi-oscurità. In questo cammino qua e là devi scegliere. Alla bontà della scelta non ti persuade nulla di razionale. Semplicemente fai un tentativo, se non ti convince ne fai un altro. Finché dici: così va bene. Perché sia la scelta giusta lo sai confusamente o non lo sai, ma non ci pensi perché in quel momento non importa. Questo potrebbe voler dire che nel tradurre entra tanta ragione quanto nello scrivere. Che lo scrivere funziona e va più o meno lontano secondo che parta poco o molto dalla testa. Se parte poco, va più lontano. Anche nel tradurre si ricorre alle facoltà della ragione fino al limite oltre il quale non cominci ad ammazzare ogni cosa, coi suoi strumenti assennati, esatti, approssimativi e corti.

Quale che sia lo stato della tua lingua, senti che in quei mattoni innumerevoli senza i quali non è possibile costruire una sola frase (allora, ecco, forse, anche, proprio, già, poiché, così, davvero…), è ancora sana. La lingua è un luogo in cui si sta, il primo luogo in cui stiamo. Siamo costretti a viverci nello stato in cui la teniamo. “Come ti rifai il letto, così vai a dormire”, dice un proverbio. Se quel luogo lo curiamo, diventa una specie di fortezza in cui andare a ripararsi nei momenti di necessità.

“Raggiungibile, vicina e non perduta – scrive Paul Celan – in mezzo a tante perdite, una cosa sola: la lingua”.

Testa

Un uomo si trova in un bar della catena Starbucks, a Berlino, seduto davanti a una tazza di caffè, quasi in fondo a un corridoio. Nel giro di mezz’ora vede entrare, ognuna per conto suo ma anche due insieme, sette persone che cercano il bagno. Nota che queste sette persone si comportano tutte allo stesso modo. Entrano e si dirigono, un po’ guardandosi intorno, verso il fondo del corridoio, dove si intravede un disegno sul muro. Con lo stesso passo esitante tornano indietro, perché quello non era il bagno, continuando a guardarsi intorno, ma già piuttosto sfiduciate.

Poi escono.

Il bagno era al secondo piano. Nessuno ha avuto il coraggio, non si sa perché, di chiedere dov’era. Ma il perché forse si sa: gli uomini e le donne in partenza esitano. Si ritrovano l’esitazione come punto di partenza. Anche i primi apprendimenti di una lingua, di un Paese straniero, accadono tra mille esitazioni, cantonate pubbliche o private, gaffe… E in una lentezza simile alla lentezza dell’apprendimento del bambino. Andare a stare in un nuovo Paese è come ricominciare daccapo a rinominare il mondo.

La nostra lingua la impariamo prima a casa che a scuola, più dalle voci che dai libri. Forse nessuno l’ha detto più brevemente di Giordano Bruno, anche se si riferiva allo stile: “Chi mi insegnò a parlare fu la balia”. Il bambino legge col dito, lentamente, pronunciando le parole. Ogni parola, ogni sillaba lo colmano, aspetta che si depositino prima di passare alle successive. Leggere lentissimamente è come scrivere ciò che stai leggendo. Leggere ad alta voce rallenta la lettura. Poi la rallenta copiare. Leggere in una lingua non propria costringe ad andar piano. Rallentando la impari come i seienni di quella lingua, per assorbimento. Il guaio maggiore della traduzione, ripeterlo non sarà superfluo, è che devi cominciare dalla testa (dalla tua testa); poi cerchi, come puoi, di mettere riparo a questo guaio.

Tic

Ogni traduttore traduce qualcosa per il puro gusto di farlo. Avendo cominciato a scrivere questa voce a penna, e rileggendo ad alcuni giorni di distanza, dove ho scritto “gusto” leggo “gesto”. Sono le buone venture della cattiva grafia. Sicché è molto meglio riprendere così: ogni autentico traduttore traduce

qualcosa per il puro gesto/gusto di farlo. Tre pagine, o trenta o un libro intero. Un libro intero è più raro. A meno di NON essere un traduttore. Allora sì, puoi farlo davvero per il puro gesto/gusto. José Salas Subirat era un assicuratore argentino con la passione (o tic?) del tradurre. Tra un’assicurazione e l’altra, mise in spagnolo-argentino l’Ulisse di Joyce, a tempo perso. Un po’ come tradurre l’Uomo senza qualità o la Recherche a tempo perso. Si dà il caso che Santiago Rueda, editore argentino commerciale e illuminato, indica un concorso per una traduzione dell’Ulisse. E Salas Subirat può presentare la sua già pronta, dopo pochi giorni. La inviò, probabilmente, o la lasciò nella segreteria dell’editore. Ma è più suggestivo vederlo che si presenta da Rueda in persona col pacco sotto il braccio. Questa storia eccezionale, però, una storia di purezza letteraria, non ha bisogno di suggestioni. Così è nata la prima traduzione dell’Ulisse in lingua spagnola.

sabato 1 aprile 2023 2 Ticino7 SCRITTURA
DI MARCO STRACQUADAINI; ILLUSTRAZIONE © DORIANO SOLINAS
“Il guaio maggiore della traduzione (...) è che devi cominciare dalla testa (dalla tua testa)”
Tcome ‘tradurre’

Toccare (1)

C’è qualcosa di commovente nell’atleta che ripete per ore lo stesso esercizio. Anche con dieci anni di carriera alle spalle. Ho sentito da un maestro di scherma che per imparare la tecnica della sciabola – quelle del fioretto e della spada sono meno complesse – ci vogliono cinque allenamenti a settimana per dieci anni. A un giovane che ha preso il vizio di muovere appena la spalla prima di tirare, dice, per farglielo perdere ci vuole un anno; se dopo un anno ce l’ha ancora, si lascia perdere. La semplicità dell’azione fatta con lentezza, poi più rapidamente, ma sempre la stessa. La semplicità del credere che si deve passare per quell’atto semplice, e per tutti gli altri simili, per mirare all’impeccabilità. È forse anche questo una rinuncia a sé. Dipendere da un atto elementare che in quel momento ha tutto il comando. Per il tempo della preparazione, non ci si appartiene, in vista della gara in cui si spera di appartenersi al più alto grado possibile. Ma, anche lì, dov’è l’oggetto dell’azione? Forse a metà strada tra lui – l’atleta – e il mondo esterno. Ancora fuori di lui. Lui però ne tiene un’estremità. La gara è il tempo del contatto. Bisogna essere all’altezza di un evento così raro: noi che tocchiamo il mondo fuori di noi.

Toccare (2)

Tradurre è un atto che assomiglia ai più essenziali atti della vita. Agli atti, ai gesti che ci mettono in contatto col fuori da noi. Non facciamo che tradurre costantemente il mondo che è fuori nel mondo che abbiamo dentro, e viceversa. Quando guardo, traduco. Traduco quando ascolto. Quando parlo. Le parole sono il noi fuori di noi. Con le parole tocchiamo il mondo, e il mondo può toccarci. Sono come un tatto pubblico. Un surrogato del tatto. Quando traduci senti che puoi essere gli altri e che gli altri, di là dalle differenze, sono te.

Toccare (3)

Sono curiose le introduzioni che stroncano il libro che introducono. Alcune, oltre che stupirti o divertirti, ti scoraggiano del tutto. Per anni mi è stato impossibile leggere le Odi di Orazio per il tenore dell’introduzione di Ramous che ne è anche il traduttore. L’album fotografico su Hesse, presentato da Chiusano, ho deciso di regalarlo perché letta l’introduzione, molto bella, sapevo che non l’avrei più riaperto. Il saggio di Sartre su Jules Renard (o i saggi?), per definirlo non c’è altra parola che demolizione. Editori italiani, col candore più grande del mondo, lo prendono e lo mettono all’inizio di Poil de carotte o di una scelta del Journal. Le parole di Carena sui Ricordi di Marco Aurelio hanno lasciato segni più fuggevoli (anche quelle di Sartre su Renard), perché niente finora può incrinare ai miei occhi quel libro. Dopo un’illustrazione di che cos’era lo stoicismo, prima di una mezza pagina finale piuttosto lusinghiera, Carena pare commiserare l’autore tutto il tempo. L’elenco si può allungare certamente.

Si può tradurre un autore, mi chiedo di riflesso, una scrittura, senza amarla? O senza in qualche modo esserne coinvolti, toccati? O che incuriosisca, che muova qualcosa dentro di noi, anche confusamente? In una scrittura già da noi giudicata o sentenziata, che nemmeno la detestazione può più avvicinarci, è possibile entrarci in modo vitale, ritrasmetterla vitalmente?

Trasformare

Quando penso a Vittorio Sereni prigioniero in Algeria, mi viene in mente che negli stessi mesi Ennio Flaiano era prigioniero in Etiopia. Sereni dice che non aveva mai pensato di tradurre poesia, fino a quando un compagno di prigionia gli dà un foglio in cui ha tradotto, seguendo la lettera, The Conqueror Wor di Edgar Allan Poe, e gli chiede di farne di nuovo dei versi confrontando l’originale. Negli stessi mesi o negli stessi giorni, in Etiopia Flaiano traduceva Il corvo

Pensi ai poeti nelle carceri e nelle trincee occupati a cavare dal male il bene. A José Hierro incarcerato a 17 anni, e fino a 21, che in prigione scrive due delle sue poesie più belle, Canción de cuna para dormir a un preso e Reportaje. Non si tratta d’altro; non di cercare una vaga consolazione, ma letteralmente di “questo essenziale compito umano” (Sergio Solmi), trasformare il male in bene. In certi periodi più che in altri, bisognerebbe rinchiudersi a tradurre, imprigionarsi di proposito come quei poeti prigionieri; come i monaci che si ammazzavano a copiare, che si sono ammazzati a copiare per secoli.

Tre (dimensioni)

Che cosa si può scrivere senza costrizioni, senza limiti? Male che va ti soffocano, ti strozzano e ti impediscono di scrivere o di fiatare. Che non sarebbe l’ultima virtù degli obblighi a cui deve legarsi lo scrittore. Sonetti splendidi, in un mare di altri illeggibili, penosi. Il sonetto fallito ti fa sentire dentro una gabbia. Quello riuscito in un bellissimo chiostro, aperto verso il cielo. Che cosa si può fare nella vita senza costrizioni? Ti aggiogano e ti aprono la strada. Tu da un lato, dall’altro le cose, il mondo; dall’altro, che è lo stesso, le persone. Tu sei una di queste tre dimensioni. Che cosa puoi fare da solo, e senza quei due limiti certi?

Niente. Balbettare.

Tedesco (un)

“Le cose bisogna farle adacio – diceva un tedesco – allaccia un pottone, poi, spetta poco, allaccia l’altro pottone, poi, spetta poco…” (Carlo Dossi).

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“(...) per imparare la tecnica della sciabola ci vogliono cinque allenamenti a settimana per dieci anni”
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DONNE vs UOMINI (in Grecia e a Roma)

Il tema della parità di diritti tra i sessi è sempre di attualità, segno che la questione rimane aperta malgrado i cambiamenti e i progressi degli ultimi secoli a favore della condizione femminile. Sulla carta, in buona parte del mondo non ci sono più sostanziali differenze, tant’è che nella vita civile (politica, professionale, artistica, scientifica ecc.) troviamo donne in posizioni di vertice: a capo di regni, governi nazionali, di istituzioni internazionali e di grandi partiti politici, come successo in Italia recentemente.

Poi certo nel mondo ci sono realtà sorprendenti ai nostri giorni e per la nostra sensibilità, che fanno sì che alle donne sia per esempio precluso l’accesso all’istruzione e perfino la guida di un’automobile; segni evidenti di ben più profonde diseguaglianze. Anche nella nostra vita quotidiana, le discriminazioni più o meno palesi continuano a sussistere, a livello materiale e di percezione sociale; un conto sono le regole un altro la loro applicazione e il fatto che vengano acquisite nella mentalità comune.

Ma le leggi non dovrebbero precedere e anzi informare il sentire generale e le idee-guida, poiché è la società nel suo complesso che deve condividere certi valori, sentirli come essenziali, altrimenti le buone intenzioni rimangono parole vuote sulla carta?

Fari della cultura (ma maschile)

Recentemente e proprio su queste pagine, un contributo citava un libro che sono andato a riprendere, perché utile per tentare di capire le radici del problema: L’ambiguo malanno. Condizione e immagine della donna nell’antichità greca e romana (Feltrinelli) di Eva Cantarella (nell’immagine a destra). L’idea è che partendo da lontano si possono imparare nozioni utili per comprendere il presente, con la speranza (in verità piuttosto flebile) di non cadere negli errori fatti in passato, sempre tenendo presente che comunque la storia non si ripete, malgrado certe persistenze nel tempo e nello spazio. L’autrice è artefice di numerosi testi scientifici e divulgativi fondamentali sull’argomento, e anni fa

Omero fa dire queste parole a Telemaco, figlio di Ulisse, che si rivolge alla madre: ‘Orsù, torna alle tue stanze e pensa all’opere tue, telaio e fuso; all’arco penseran gli uomini, e io sopra tutti. Mio, qui in casa, è il comando’.

E Penelope, docilmente, obbedisce, perché in assenza del padre è il figlio maschio il padrone di casa. ‘Zeus, perché hai dunque messo fra gli uomini un ambiguo malanno, portando le donne alla luce del sole?’, scrive Euripide nel V secolo a.C.

E Seneca romano: ‘L’uomo saggio deve amare la moglie con giudizio, non con affetto. Nulla è più sbagliato che amare la propria moglie come se fosse un’adultera. Tre brevi passaggi per delineare un problema: la ’questione femminile’.

ha aperto la strada a questo tipo di studi. Eva Cantarella ha insegnato Diritto greco e romano all’Università di Milano e negli Stati Uniti, e appunto in questa prospettiva giuridica tratta l’argomento della questione femminile; non limitandosi però alla teoria, bensì partendo da questa per allargare lo sguardo sulla società in generale e sulla vita quotidiana delle donne di allora. Lo fa analizzando principalmente due momenti ritenuti per molti versi fondamentali nello sviluppo della nostra civiltà: il mondo della Grecia classica e quello romano tra Repubblica e Impero; con puntuali citazioni di personaggi, documenti letterari e giuridici, fatti storici documentati o semplicemente tramandati

dalla tradizione. Con qualche sorpresa negativa quando si riferisce ad autori illustri e filosofi, in genere considerati per l’Occidente ‘fari della nostra cultura’; che certo non vanno per questo gettati via come merce avariata, ma solo letti con attenzione critica, soprattutto quando affrontano temi oggi sensibili, in un quadro di riferimento il più possibile completo; senza con questo accettare in toto quel procedimento ambiguo di giudicare il passato con il metro del presente che usa talvolta in modo esasperato la cosiddetta cancel culture

Le “funzioni” della donna

Lo scopo dell’analisi di Eva Cantarella, tutto sommato piuttosto pessimistica, è di rendere attento il lettore “confrontato con altre ricostruzioni che, dando per scontate le discriminazioni, tacendole o minimizzandole, si preoccupano di mettere in evidenza il ruolo della donna nella vita familiare, esaltandone l’importanza e la dignità”; non tacendo tuttavia i casi di donne emergenti, i momenti di apertura, i riconoscimenti e le conquiste giuridiche e sociali, soprattutto nel mondo romano.

La storia della donna nel passato classico – teniamo conto che si parla di donne appartenenti alle classi privilegiate – è una storia di sottomissione che si svolge all’interno di periodi storici per altri versi illuminanti. Le conclusioni dell’autrice si soffermano su alcuni punti fondamentali: in Grecia “la funzione delle donne era quella di riprodurre cittadini, se libere, e di forza lavoro servile, se schiave”. Era il solo modo concesso di partecipazione, mediata, alla vita della polis. Gli schiavi e le schiave invece, come dappertutto, non erano persone, ma oggetti dei quali il padrone poteva disporre liberamente. Aristotele definiva la donna come ‘materia’ , mentre attribuiva all’uomo ‘forma e spirito’, da cui il principio eterno della loro diversità ‘naturale’ e quindi della logica e necessaria esclusione della donna. L’educazione dei figli era quindi compito degli uomini, protagonisti del mondo della ragione e dell’intelletto, che dovevano iniziare i giovani alla vita da tutti i punti di vista, compreso quello affettivo. A Roma invece la donna, pur rimanendo sottomessa dapprima al padre, poi al marito ed eventualmente al figlio maschio, si occupava in prima persona dell’educazione dei figli, anche se questo “impediva alle donne romane di uscire dai confini di un ruolo rigorosamente codificato, e determinava inflessibilmente e inesorabilmente le linee della loro esistenza, divenendo lo strumento del loro annullamento come persone”. In epoca imperiale ci saranno grandi cambiamenti nel diritto e conquiste di libertà, spesso interpretate come licenza e dissolutezza da parte delle matrone romane. “Ma con la crisi dell’impero (che non a caso coincise col riemergere di una misoginia al cui recupero contribuì in modo tutt’altro che indifferente la predicazione dei Padri della Chiesa) il terreno guadagnato venne perduto e le donne furono sospinte di nuovo nei confini di un mondo caratterizzato come sempre dalla subalternità”

Questo per rendere attenti sul fatto, conclude Eva Cantarella, che le conquiste in materia di diritti e di uguaglianza, non sono date una volta per tutte, ma vanno difese ogni giorno e ovunque, come la storia ci insegna, o dovrebbe insegnarci.

CUOREMENTE DI MARCO HORAT sabato 25 marzo 2023 4 Ticino7
PENELOPE E ARISTOTELE.

Roberta Lippi

È nata a Milano nel 1974 e la sua vita orbita intorno al mondo della scrittura. Ha scritto per la TV, la radio, il web (ha seguito la nascita del sito di ‘Vogue Italia’, di cui è stata caporedattrice), autrice di alcuni libri e da una manciata d’anni, giusto per non annoiarsi troppo, si è tuffatanel mondo del podcast. Con Storielibere.fm, piattaforma editoriale di podcast, ha pubblicato: “Soli, i bambini di Osho”, “Dragon Lady, l’ultima testimone” e “Love Bombing”. Col tempo e con le tante ore di interviste raccolte nei suoi podcast, si è resa conto che una delle sue missioni – senza peccare di falsa modestia – era far sentire meno sole persone che, loro malgrado, hanno vissuto momenti di vita tortuosi e a tratti densi di sofferenza.

Il segreto della gioia e Il segreto del tantra sono solo alcuni dei saggi di Osho – maestro spirituale indiano - in cui mi sono immersa quando, poco più che ventenne, cercavo spasmodicamente risposte esistenziali. Oggi, fortunatamente, ho qualche risposta in più, soprattutto grazie alle esperienze che ho vissuto, non tanto per le migliaia di pagine intrise di spiritualità e filosofia indagate, anche se, a dirla tutta, mi hanno sempre fatto del bene all’anima. A proposito di segreto, parola che deriva dal latino secretum - participio passato del verbo secernere – mettere da parte. Roberta Lippi, narratrice militante, ha aperto un sarcofago pieno di verità nascoste e dolorose. Come? Creando la serie audio “Soli” in cui ha raccolto le storie dei bambini che sono stati portati dai loro genitori nelle comuni di Osho tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. Adulti – oggi - che hanno rivelato di non sapere chi sarebbero diventati senza quell’esperienza, perché i loro genitori, all’improvviso, decisero di lasciare tutto e metterli in comune, in tutti i sensi.

Ossessione

Roberta aveva già sentito parlare di Osho, ma la scintilla che l’ha portata a macinare ore di lavoro intorno a questa figura tanto controversa è scoccata dopo aver visto Wild Wild Country. Docuserie targata Netflix in cui si raconta il periodo della comune di Rajneeshpuram in Oregon (USA). “Il mio interesse per Osho era pari a zero, scorgevo i suoi saggi in libreria nel settore new age e basta”. Sono però “caduta nella tana del bianconiglio” dopo aver guardato ossessivamente tutta la serie (che ho guardato consecutivamente due volte in due giorni). C’era qualcosa che richiamava la mia attenzione, come un sesto senso. Ho iniziato a fare ricerche e c’erano delle cose che non mi tornavano. La serie non rispondeva a una marea di quesiti. Più cercavo e più mi si aprivano delle finestre nella mente e più andavo avanti e più prendevo appunti. Da lì ho pubblicato un e-book che rispondeva a una serie di tasselli mancanti: Wild Wild Sheela. Le domande non si esauriscono nella testa di Roberta: ma dove sono i bambini nella comune di Osho? Perché non si vedono mai nella serie? Lì si è aperto un portone ed è nato il podcast “Soli”.

Rompere le catene

Personalmente ho sempre fatto tesoro degli insegnamenti che mi hanno portato determinate figure considerate spirituali: Osho, Mooji, Goenka. Ho praticato le loro meditazioni, cantato i loro mantra ma non mi sono mai identificata in loro. Per me sono sempre stati solo esseri umani, non li ho mai idolatrati fuori misura. Sono indubbiamente grata per quello che ho saputo cogliere sapendo definire i confini tra me e loro. Non posso negare che dopo aver ascoltato “Soli” e “Dragon Lady” un po’ mi sono sentita indignata e soprattutto dispiaciuta per le persone che hanno sofferto durante quegli apparenti anni d’oro. “È un po’ come se fosse stato distrutto il mito del patriarca. È stato toccante ricevere messaggi di persone che, dopo aver ascoltato le serie, hanno buttato via libri, fotografie, mala (collana formata

da 108 palline di legno) con l’effigie di Osho. Non provo gioia, anzi. Deeksha – la protagonista di ‘Dragon Lady’ (molto vicina al guru tra gli anni Settanta e Ottanta) – ha deciso di parlare quando si è resa conto che tacere era più grave che non dire. Non parlare avrebbe significato per lei essere complice di reati criminali: abusi reiterati per anni e taciuti che stanno lentamente venendo a galla ora. Per me la frase biblica è: la verità rende liberi Nessuno vuole portare fuori dal movimento di Osho i suoi sannyasin (seguaci) ma è importante sapere che ci sono persone che si stanno liberando da catene che per anni è stato faticoso rompere, proprio grazie all’ascolto dei podcast”.

Bambino interiore

Bindu De Stoppani, attrice e regista, è una delle protagoniste di “Soli”. Durante l’intimo dialogo con Roberta Lippi afferma: “Siamo tutti bimbi nel centro del nostro cuore ed è per questo che ci piacciono le storie”. Giro la domanda a Roberta chiedendole che rapporto aveva con le storie da bimba visto che oggi, raccontarle, è diventata una professione. “Sono sempre stata introversa e timida. Da piccola trovavo rifugio tra le pagine dei libri che leggevo a profusione. Era naturale perdermi in questi mondi ed isolarmi nei racconti letti. Di riflesso ascoltavo molto volentieri le storie raccontate dagli altri. Sono sempre stata la migliore amica di tutti perché preferivo ascoltare che parlare di me. Parallelamente ho sviluppato la capacità di osservare e cogliere i particolari: uno sguardo, un gesto”.

Roberta – sorridendo - si chiede come mai le persone si fidino così tanto di lei. “Spesso dopo le interviste che raccolgo le persone mi ringraziano per la sensibilità e la cura con cui ho trattato il tema ma, a dirla tutta, penso che così farebbe chiunque, non mi sento così speciale. Forse riesco a sintonizzarmi sulle frequenze dell’altro perché mi connetto con il loro bambino interiore”.

Vulnerabilità

Spesso è figo (e forse pure conveniente) apparire forti, performanti, infaticabili, ma quando ci permettiamo di mostrarci nella nostra vulnerabilità? Roberta Lippi nei suoi lavori dona spesso voce a quelle persone poco supereroi ma molto vulnerabili: “Vorrei che potessimo permetterci di dare spazio a quella vulnerabilità che è di ognuno di noi perché siamo esseri umani, non siamo robot”.

sabato 1 aprile 2023 5 Ticino7 INCONTRI DI NATASCIA
BANDECCHI; FOTOGRAFIA © LORENZA DAVERIO
Ascolta il podcast ‘Soli’ Ascolta il podcast ‘Dragon Lady’

Il vento di Spotorno

Domani parto per Spotorno. Ed ecco che mi capita in mano, dal piccolo mare della mia scrivania, un relitto approdato allo scoglio: un’agenda color sabbia, proveniente dalla Cartolibreria P. Romerio, Locarno, Piazza Grande. Che sarà mai, questa sirena cartacea degli anni Cinquanta del secolo scorso?

Ci sono appunti stilati di fretta con la penna a inchiostro.

“Domenica 12. Prova la mattina. Mirandolina è su di forma, ed è bella. La sera andiamo all’Oratorio a prendere i costumi.

Lunedì 13. Agitazione prima della recita. La sera prova dei costumi. Non voglio fumare ma non riesco a farcela perché si fa il secondo atto e io non faccio niente.

Mercoledì 15. Recita. Non mi sono mai fatto così bene la barba! Successo”.

Il pensiero va alla Scuola Magistrale. La mia breve carriera di attore, la Locandiera di Goldoni, il mio compagno - che è già ombra - con il vestito da marchese d’Albafiorita sul palco dell’Oratorio. E lei, Mirandolina, che sembrava la Lucia del Manzoni? È ancora viva?

“Gennaio 31: Il mio personaggio è quello del Conte e io sono portato a drammatizzarlo, a prendere sul serio i suoi amori che non sono che un gioco mondano, leggero. Sento il personaggio, ma lo sento in una maniera sbagliata. Capisco che Goldoni è difficile da recitare, perché bisogna raggiungere un grado di artificiosità senza mostrare di esser artificiosi. Non sono fatto per recitare Goldoni”. Questo appunto, scritto da adolescente, mi fa pensare, oggi, a Giacomo Leopardi, che dice male dell’affettazione.

senza respiro, terra di fiori, di fatiche, di sudore. Una Liguria, nei libri di Sbarbaro, così autentica, da diventare un’allegoria del mondo, dico di tutto il mondo. E pochi come Sbarbaro hanno saputo vedere il mondo con occhio appassionato e disincantato”, scriveva Giorgio Caproni, pochi anni prima della mia giovanile scorrazzata in Gilera, aggrappato alla schiena di Angelo.

presa da Pianissimo, il secondo libro di versi del poeta al quale mi propongo di dare la caccia sulla Riviera di Ponente, perché sento di avere qualcosa in comune con lui, forse l’anelito di andare incontro agli altri. In quegli endecasillabi c’è già tutto il poeta ligure amico di Montale (o meglio quasi tutto, manca lo Sbarbaro “maledetto”): “Tutto quello / che vedo è come per la prima volta”. Una dichiarazione di poetica che vorrei far mia.

Conoscevo già il testo. Ma ciò che colpisce è la grafia minuta, con la quale l’autore ci presenta “gli aspetti più umili e consunti” della realtà, la sua “attrazione irresistibile per le minime esistenze”, come afferma lui stesso nei frammenti di prosa dei Fuochi fatui Una grafia quasi da bambino. I primi successi del poeta furono la pubblicazione di alcuni sonetti su “Pagine libere”, del nostro Francesco Chiesa originario di Sagno: paesino vicino a quello, ancora più piccolo, dove abito oggi. Dunque c’è un filo sottilissimo, segreto, sotterraneo che mi lega a lui, se si vuole stabilire un rapporto storico-geografico fra quelli che si ostinano

Poi scorro la mia agenda-relitto e arrivo ai primi giorni di agosto. “Vado a Chiavari con Angelo, sulla sua Gilera. Casco e giaccone di pelle del Peppo, a dormire in casa di Angiulin ed Elide. A mangiare un po’ qui, un po’ dallo zio di Angelo. Mi piace. La prima volta che vado in mare devono tirarmi fuori. Belle ragazze. Vado a Montegli, paese nativo di Angelo. Bino, sterratore, ci parla di un’Italia nuova che deve nascere e fuma le Alfa. Parla convinto di ciò che dice e la sua faccia ha il colore dei mattoni cotti, è rugosa e simpatica. Bestemmia e beve un vinello bianco che sa di niente. Anche noi ne beviamo. Ha lì pronta una cassetta di pesche per la vendita ma vuole che ne mangiamo, non gliene frega niente se non le vende. È socialista. Dice che dovrà venire il momento che una parte degli italiani, quelli che gli mangiano il pane e non fanno niente, dovrà scomparire. Verrà il momento. Suona la chitarra. Mi dicono che l’ha sempre portata con sé, anche in guerra. Una sera andiamo a una festicciola; c’è un’americana che suona la fisarmonica. Bel paese, la Liguria, terra di sole e di pesche, di belle ragazze e di colori caldi, di costruzioni d’un’architettura quasi navale. A Riva c’è una ragazzina che mi guarda con occhi sbarrati e che mi piace. Giriamo con la moto Sestri Levante, Rapallo, Santa Margherita, Portofino ecc. Sotto la nostra finestra c’è tutte le mattine il mercato del pesce. Un ragazzino tutte le mattine alle sette passa in bicicletta con una cassetta di sardine e canta ‘Come prima’ Ci fa svegliare”.

“Aprire una pagina di Sbarbaro è aprire una finestra sulla Liguria terra di sassi e di acque d’un infinito celeste, terra di mediterranei aromi e di tanfi portuali - terra di ozi e di traffici

Stamattina, prima di partire metto nello zaino qualche libro e do un’occhiata all’angolo della mia biblioteca dove conservo cose preziose. Mi balza all’occhio un volume formato grande, copertina di cartone color violetta. Sul frontespizio: AUTOGRAFI di alcuni poeti italiani contemporanei, scelti da Falqui per l’editore Colombo. Data di edizione 1947. Sfogliandolo, mi soffermo su “Terra” di Camillo Sbarbaro, poesia

a scrivere versi. Ma temo che sia un rapporto tirato per i capelli, inventato dalla mia ammirazione per il ligure. Perché lo ammiro? Perché le poesie di Pianissimo (pubblicate nelle edizioni della rivista “La Voce” nel 1914 e ripubblicate quarant’anni dopo, ma facendole precedere da una nuova redazione profondamente mutata rispetto a quella vociana) e le prose poetiche di Trucioli (1920) sono fra le opere più suggestive del Novecento italiano. E si muovono su quella linea, estranea all’ermetismo, che io prediligo. E perché questo poeta, appartato e silenzioso, dice cose nelle quali anch’io credo; come, nella lettera del 23 gennaio all’amico Angelo Barile: “Al poeta spetta dire cose nuove, mai dette, o almeno mai dette a quel modo”. Prendiamo, per esempio, il testo di “Talor mentre cammino per la strada”: c’è il tema, baudelairiano, dell’estraneità agli altri uomini. Ma Sbarbaro lo coniuga in modo originale, descrivendo espressionisticamente i volti della folla che incrocia nel suo vagabondare: le “fronti calve dei vecchi”, le “facce volpine stupide beate”, le “facce ambigue di preti”, le “pitturate / facce di meretrici”.

Stanotte ho sentito il mare, che non posa mai, non tace mai. Il rumore del mare la notte inquieta, il mattino culla. Ora lo vedo da vicino, con il fronte delle onde che avanza senza fretta e deposita spume bianche sulla battigia; ma improvvisamente si rompe l’idillio e mi viene in mente l’altra spiaggia del Mare Nostrum, infernale, dove hanno trovato corpi senza vita, che nessuno ha soccorso nella notte tempestosa di Cutro, pochi giorni fa. Mi siedo su una panchina appoggiata al tronco di un pino d’Aleppo, che fra i pini di Spotorno credo sia quello più soggetto al contorsionismo. Cercando il sole si storta, aiutato dal vento: al quale è intestato il festival degli aquiloni venuti qui da ogni dove (come belli quelli che precipitano multicolori, ma come orribili quelli a forma di pupazzo!).

sabato 1 aprile 2023 6 Ticino7
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PENSIERI & VERSI DI ALBERTO NESSI; FOTOGRAFIE © SHUTTERSTOCK

Il vento. Che immediatamente richiama Shelley e la sua ode al vento di Ponente. E Shelley, a sua volta, fa volgere il pensiero all’altra Riviera, quella di Levante: alla spiaggia sulla quale, una mattina di luglio del 1822, fu trovato cadavere il grande poeta inglese, vittima di un naufragio nel golfo di Lerici. Che poi fu arso sulla sabbia mentre tre suoi amici, in un romantico rituale pagano, versavano sul fuoco incenso, sale e vino. Questo vento, che ora m’investe qui sul lungomare, mi porta non il tumulto glorioso delle armonie di Shelley, ma sentore di nafta; ma forse è solo la puzza delle vernici con le quali gli operai stanno ripassando le intelaiature e le cabine dei bagni, in vista della stagione balneare.

Questo vento, dal quale un po’ mi difende l’amico pino dal grosso tronco di corteccia screpolata, ha ispirato altri poeti liguri della stagione post-sbarbariana: come Giuseppe Conte (niente a che fare con l’uomo politico) in questi versi:

Il vento bisognava sentirlo sul mare alzare i marosi, stracciare le nuvole e ritesserle, staffilare le alberature, rauco, fiorito di salino, buio, inumano.

Vento inumano. Come quello che ha appena scatenato la tempesta in un’altra parte del Mediterraneo, distante più di mille chilometri da qui, dove continuano le stragi dei migranti. Ma non è il vento ad essere inumano, come dice il poeta dalle reminiscenze mitologico-romantiche. È l’uomo che è disumano. È la politica che è disumana, se non sa salvare le vite di bambine e bambini innocenti.

Oggi la passeggiata comincia con le scritte pubbliche. Al Villino Adele, leggo su una targa, in area sorvegliata con allarme collegato e intervento armato 24 ore su 24:

“A ricordo del soggiorno di sua Altezza Reale Ferdinando Umberto Filippo Adalberto di Savoia Genova, Principe di Udine, Duca di Genova, Senatore del Regno d’Italia”. Troppi nomi e titoli, per la sobrietà che mi accomuna al poeta di cui sono sulle tracce. Il pensiero va alla scritta anarchica, sobria, che ho visto nello squallido sottopasso della stazione, dove alloggia un escluso. Poco oltre, all’Hôtel Miramare, leggo:

“È un amabile giorno di sole, c’è un mare turchino ed io siedo a scrivere fuori sul balcone, giusto sopra la spiaggia. 16 novembre 1925 D.H. Lawrence”.

Penso a L’amante di Lady Chatterley, che Lawrence in parte scrisse proprio qui e che io leggevo di nascosto alla Magistrale, con il libro sotto la predella del banco, mentre il professore di pedagogia straparlava dell’educazione ad Atene e a Sparta. Me l’aveva passato un compagno di trasgressione, anche lui già in ombra.

Sulla facciata del Municipio, due targhe: una ricorda il garibaldino che “lasciò nome glorioso nell’epopea dell’italico riscatto”; l’altra la “liberazione dall’oppressione nazifascista” dei giovani che “hanno dato la vita per un mondo migliore”. Si vede il viso sofferente di un partigiano che spezza la catena e il mio pensiero va a Bino, lo sterratore di Montegli che suonava la chitarra: ma l’Italia nuova che lui sperava non è venuta. “Verrà il momento”, diceva...

La casa ha le imposte chiuse. Inaccessibile. Intravedo il terrazzino, visto in certe foto documentarie, e m’incanto davanti all’azzurro del cielo. L’azzurro delle sue poesie, anche quelle cupe. Ma ciò che più m’impressiona è il silenzio di questa parte della città: disertata dalla massa dei turisti che rumoreggiano davanti ai negozi del centro.

Nella pensione dove soggiorno c’è la casalinga zoppa di Lecco, venuta al mare in bassa stagione a respirare l’aria buona; la magra autistica che si disinfetta continuamente le mani, non parla con nessuno e si toglie la mascherina solo per mangiare; l’adolescente pallido che quando parla con un adulto muove la gamba avanti e indietro come fosse interrogato dal professore; la maestra in pensione che beve avidamente il suo quartino di vino rosso; la vedova del bancario innamorata di Berlusconi; l’operaio che sembra Jack Palance; il vecchissimo di Alba che si muove con il deambulatore, accompagnato dalla moglie storta come un pino d’Aleppo. Ma la mia prediletta è Bianca Rosa da Dalmine. Ha compiuto ottant’anni, si muove a stento, parla in modo confuso, ci mostra la foto con la torta del compleanno e si guarda in giro con innocenza. Come gli uccelli di Luciano De Giovanni, poeta ligure di umile famiglia:

Stamattina leggo sui giornali:

“Dunque ci risiamo. Il mare sta ancora restituendo i corpi dei bimbi innocenti annegati lungo la spiaggia di Cutro, e già ne ingoia altri poche miglia più in là”.

“Si riempie di nuovo di morti il Mediterraneo sotto gli occhi inerti delle autorità costiere di tre Stati”.

“Aveva addosso vestiti nuovi, che la mamma gli aveva fatto mettere in vista dell’arrivo in Italia, il bambino di cinque anni il cui corpo è stato recuperato l’11 marzo nel mare davanti a Steccato di Cutro”...

Ma qui nessuno legge i giornali. Portano a spasso i cani. Tutti insieme, il sabato e la domenica, come in una sfilata di moda. Una specie di rituale narcisistico sul lungomare. Cinomania. Forse perché è più facile voler bene a un cagnetto che a un essere umano.

In un bar del centro chiedo di Sbarbaro e una ragazza mi dice: - Sì. La maestra delle elementari ci faceva studiare a memoria i suoi versetti.

Le chiedo quali. Non ricorda. Forse la poesia che comincia: La bambina che va sotto gli alberi non ha che il peso della sua treccia, un fil di canto in gola.

La ragazza del bar ha proprio detto: versetti. Un termine che di solito si usa per la Bibbia. Ma nessuno è più lontano di Sbarbaro dalla religione praticata. Piuttosto, la sua è una forma di attenzione religiosa per persone comuni e cose minime, alle quali nessuno bada. Come i licheni, che lui raccoglieva e collezionava. Ma nel bar, di fronte a questa ragazza, constato che la sua poesia non ha lasciato che una traccia effimera, labile come acqua sulla sabbia.

Nel borgo antico, “creuse” in salita, limoni, strelitzie e un gran cespuglio di Echium candicans. Gabbiani che s’inazzurrano in alto e si posano sulle rovine del castello strangolato dall’edera. E al numero 9 del “caruggio” (questo il termine usato dal passante che interpello) la casa di Camillo Sbarbaro,“estroso fanciullo”- la definizione è di Montale - come si legge nella lapide che lo ricorda.

Stanotte il mare si è lamentato a lungo. Le onde portavano dall’altro mondo gli ultimi gemiti degli annegati, il rotolio dei corpi senza vita, dei rottami, delle conchiglie trascinate dalla risacca. Il vento urlava. Gli aquiloni colorati lasciavano il posto agli uccellacci del lutto.

Questo mare, così inquinato, che ci illude con la bellezza del suo azzurro smeraldo, del suo “infinito celeste”. La bellezza è verità, ha scritto uno dei poeti che hanno amato questi paesaggi. Sì, ma la bellezza della superficie nasconde un’altra verità, che non si vuol conoscere: la verità racchiusa in quei gemiti notturni portati dalle acque.

Canta Shelley:

Vento, se l’Inverno viene, può tardare troppo la Primavera?

sabato 1 aprile 2023 7 Ticino7
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possono volare perché
non è
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Gli uccelli
sono innocenti
questione d’ali.

Orizzontali

1. Briccone, canaglia 7. Un saluto arabo 12. Allo stesso modo 13. Difficoltà, intoppo 15. Corpetto, panciotto 17. Simpatiche, amabili 18. Medico responsabile di un reparto 20. Simbolo chimico dello scandio 22. Iniziali del Tasso 24. Il Santo di Poitiers 25. Devota, misericordiosa 26. Pieno, saturo 28. Thomas, scrittore premio Nobel 29. Nazione asiatica 30. Possono essere elicoidali 32. Automobil Club Svizzero 33. Guastati, traviati 34. Località tra Disentis e Coira 36. Locali… inutili 38. Il nome di Federer 40. Lo è la persona con le stesse generalità 43. Hans, artista lucernese 44. Località della Riviera 45. Principio di ibernazione 46. Appare due volte in una mosca

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47. Località del Malcantone 48. La firma di Sergio Tofano 49. Sulle nostre targhe 50. Un cane grande 51. Squadra all’inglese 52. Veicoli su rotaie 53. Messi verticalmente 54. Perpetua, imperitura 56. John, che scrisse Il paradiso perduto 57. Cespugli di regine dei fiori 58. I frutti di una palma 59. Sporadico, occasionale 60. Giudicato colpevole.

Verticali

1. Laura, copresidente del PS 2. Giorni del calendario romano 3. Cittadina alla periferia di Berna 4. Dietro a A di USA

5. Preposizione semplice 6. Politologo svizzero 7. Austero, grave 8. Un famoso eresiarca 9. Con pere fan perline

10. Riferiti al fiume Adige 11. Particella

dubitativa 14. Quartiere romano 16. Una scritta sui treni 19. Denis, nazionale CH di hockey 21. Un concerto di abbaiatori 23. Precede il trac 25. Giuseppe, che scrisse Il giorno 27. Eccelso, egregio 28. Un gas 29. Passa per un individuo volgare e ignorante 31. Attività, impiego 33. Analizza situazioni sportive dubbie (sigla) 35. Un pronome di riguardo 37. Seguace, emulo 39. Stanno in una fossa a Berna 41. La si dà per aiutare 42. Disgusto, disprezzo 44. Località dell’Onsernone 47. Una valle ticinese 48. Cane da caccia 50. Vi nacque Robespierre 51. Lo segnala il flipper troppo scosso 52. Nervosi, tirati 53. Cerimonia 55. Una canottiera succinta 56. Particella di cognomi scozzesi 58. Preposizione semplice.

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Alpe Fieud

Il trekking tra una costellazione di corti

Alpe Fieud

Corte principale Cascina del Buco, 1’883 m

Corti Cascina Nuova, 1’915 m / Val di Pécian, 2’045 m / Rosso di Fuori, 2’128 m / Rosso di Dentro, 2’090 m

Ubicazione Regione del San Gottardo

Periodo carico Da metà giugno agli inizi di settembre

Ultimo paese Airolo

Coordinate 686.821 / 154.361

Proprietà Patriziato di Airolo

Gestore Boggesi Alpe Fieud

Tipo formaggio Semiduro grasso, 100% latte di mucca

Altri prodotti Burro

Dicitura scalzo Fieudo

Animali Un centinaio di mucche e una decina di maiali

Produzione Ca. 1’400 forme all’anno

Mungitura Mungitura meccanica (carro mobile con spostamento nei corti)

Una costellazione di cinque corti (Cascina del Buco, Cascina Nuova, Val di Pécian, Rosso di Fuori e Rosso di Dentro) dà vita all’Alpe di Fieud, di dimensioni importanti. Il caseificio principale si situa lungo la strada del San Gottardo, in posizione agevole subito sotto al tornante panoramico detto “Bellavista”.

Una toponomastica ben meritata, dato il panorama che include a 180 gradi tutta la Val Leventina, dalla Novena alla piana di Ambrì, arrivando ad abbracciare il Monte Pettine e l’imbocco della Val Canaria. Dai quasi 1900 metri del corte principale (Cascina del Buco)

Itinerario corte principale

→Da «Airolo» si percorre la strada cantonale che porta al «Passo del San Gottardo», dopo circa 10 km, poco prima del belvedere posto a 1’931 m, vi è un ampio posteggio, dal quale una strada sterrata di 250 m conduce al corte principale dell’Alpe «Fieud» ovvero «Cascina del Buco» (1’883 m).

→Da «Airolo»: in auto 15 minuti. Strada cantonale del «Passo del San Gottardo». Posteggio a lato della strada cantonale.

Itinerario corte principale

Corti: Val di Pécian, Rosso di Fuori e Rosso di Dentro: dall’Alpe «Fieud», «Cascina del Buco» (1’883 m) si prende il sentiero che passa sotto il ponte della strada cantonale e poi sale di 100 metri sino all’entrata della «Galleria dei Banchi» (ca.

i pascoli dell’alpe si spingono fino a oltre 2’100 metri di altitudine. La diversa elevazione e disposizione dei prati garantisce la biodiversità della flora, che a sua volta si riflette in un formaggio aromatico e capace di stupire: ogni forma, infatti, arricchisce la qualità complessiva dell’esperienza gastronomica con elementi specifici e ben differenziati.

Il caseificio è raggiungibile in auto, mentre i prodotti vengono venduti esclusivamente tramite terzi e su ordinazione.

1’980 m), da qui si segue una strada sterrata pianeggiante (chiusa al traffico) molto panoramica, che conduce ai vari corti sino all’ultimo che è «Rosso di Dentro» (2’090 m) Strada sterrata, 250 m disl, 3,3 km, 40 min.

Escursioni

→ Capanna Piansecco: si segue la strada sterrata che, passando dal corte «Rosso di Fuori» (2’128 m), conduce a «Cascina Nuova di Pesciora»; da qui la strada lascia il posto ad un sentiero bianco-rosso che supera la valle «Ri di Ronco» e conduce alla Capanna «Piansecco» (1’982 m).

Strada sterrata e sentiero biancorosso, 400 m disl., 12,5 km, 3 ore. Passo del San Gottardo: dall’Alpe «Fieud», «Cascina del Buco» (1’883 m) si sale alla «Galleria dei Banchi», e poi alla casermetta posta

Ricetta

sulla cresta a 2042 m. Seguendo prima il filo della cresta e poi il sentiero affacciato sulla «Val Tremola», che passa sotto le finestre della galleria stradale, si raggiunge l’Ospizio del «San Gottardo» (2’091 m). Strada sterrata e sentiero biancorosso, 200 m disl., 5 km, 1 ora e 20 min.

Risotto al Fieudo e pere

Ricetta originale di Gabriele e Katya Genoni

Dosi per 4 persone

1 cipolla piccola

q.b. * burro

1 l circa brodo manzo

400 gr * riso

150 ml vino bianco

0,5 dl * panna

200 gr * Fieudo

2 pere mature

q.b. pepe

Tagliare la cipolla soffriggerla leggermente nel burro; aggiungere il riso, mescolare e bagnare col vino bianco, far evaporare e poi aggiungere piano piano il brodo fino a cottura del riso. Aggiungere il formaggio d’alpe Fieudo, panna e pere. Lasciare mantecare nella pentola. Servire nei piatti fondi ben caldi decorando con un po’ di pepe.

* Per la ricetta originale ci vogliono:

– il burro e la panna prodotti dal Caseificio del Gottardo;

– il riso per risotto prodotto dall’azienda Terreni alla Maggia;

– il formaggio d’alpe prodotto dall’azienda di Gabriele e Katya Genoni (ma è possibile utilizzare anche un altro formaggio d’alpe).

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9 Ticino7 sabato 1 aprile 2023
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sabato 1 aprile 2023 10 Ticino7 TIPO UN FUMETTO DI ALESSIO VON FLÜE
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L’averla piccola

È un piccolo volatile che nidifica tra siepi e arbusti, necessita di prati magri con molti insetti e altre prede per la ricerca dell’alimentazione. In Svizzera è migratrice e nidificante e sverna in Africa orientale e meridionale.

Il maschio dell’averla piccola è inconfondibile per la sua mascherina nera, dorso brunorossiccio, testa grigia, e ventre rosa chiaro. La femmina, con il suo piumaggio perlopiù marrone e grigio, è invece perfettamente mimetizzata.

Habitat

Occupa aree aperte o semi-aperte, come zone ad agricoltura estensiva, pascoli, praterie con arbusti, brughiere e ampie radure, generalmente soleggiate, calde, prevalentemente asciutte o anche semi-aride. Favorisce aree pianeggianti o in leggera pendenza, evitando generalmente versanti precipiti. Richiede la presenza simultanea di aree a vegetazione erbacea, preferibilmente bassa e/o rada, di cespugli o piccoli alberi utilizzati come posatoi per la caccia e di macchie di cespugli o siepi. Si riproduce dalle pianure e fondovalle fino quasi ai 2’000 metri di altitudine.

Alimentazione

L’averla piccola si nutre principalmente di ragni, grilli, cavallette, coleotteri, bombi, vespe e piccoli vertebrati. Avvista la sua preda da un posatoio rialzato e la cattura in volo o la afferra a terra. Se c’è abbastanza cibo, infilza una parte delle sue prede sulle spine di arbusti, come la Rosa selvatica, comune il Biancospino ecc. Queste scorte le saranno utili quando la disponibilità di prede sarà ridotta, per esempio durante i giorni di pioggia.

Riproduzione

All’inizio di maggio, le averle piccole tornano dai loro quartieri invernali dell’Africa meridionale e orientale. Subito dopo il loro arrivo all’inizio di maggio, i maschi occupano un territorio e attirano una femmina con il loro canto discreto. Praticano anche voli di corteggiamento e offrono cibo per impressionare le femmine. Entrambi i componenti della coppia visitano i potenziali siti di nidificazione, ma è sempre la femmina a scegliere l’ubicazione definitiva del nido.

Scelto l’arbusto dove nidificare costruiscono un nido imbottito e la femmina vi depone da 4 a 7 uova che si schiudono dopo 15 giorni, mentre i nidiacei rimangono nel nido per circa due settimane. Nei primi giorni dopo la schiusa la femmina cova i giovani, che vengono nutriti da entrambi i genitori.

La migrazione

A metà luglio gli adulti fanno ritorno verso l’Africa meridionale e orientale, come detto, mentre i giovani li seguono poco dopo. Peculiarità dell’averla piccola è che compie una migrazione ad arco, ossia gli individui dall’Europa occidentale tornano in Africa attraversando l’Italia o i Balcani verso il Sudafrica, mentre torneranno in Europa sorvolando l’Egitto e la Turchia.

Situazione in Svizzera e in Ticino

Con l’intensificazione dell’agricoltura, già a partire dagli anni Sessanta, siepi e gruppi di arbusti hanno iniziato a essere eliminati dai terreni coltivati, con conseguenze devastanti per l’Averla piccola e molte altre specie. Ciò ha indotto BirdLife Svizzera a lanciare la sua campagna a favore delle siepi sin dal 1979, in seguito alla quale, in quegli anni, la popolazione di averla piccola è nuovamente aumentata. Tuttavia, successivamente, i prati magri e i bordi estensivi dei campi sono stati fertilizzati in modo sempre più intenso e le popolazioni di insetti sono state irrorate con pesticidi. L’abbondanza di insetti, e quindi le risorse trofiche dell’averla piccola, hanno subìto un calo massiccio. Di conseguenza, negli ultimi 30 anni la popolazione di Averla piccola in Svizzera è nuovamente diminuita e si è addirittura dimezzata raggiungendo un minimo storico stimato in 10mila coppie riproduttive nel 2015. Per questo nel 2020 l’Averla piccola è stata designata uccello dell’anno da BirdLife Svizzera (birdlife. ch/averla-piccola). BirdLife Svizzera e Ficedula si occupano della conservazione dell’Averla piccola e di molte altre specie

delle zone agricole negli ultimi 20 anni e in Ticino hanno ottenuto ottimi risultati per la promozione di questa specie. L’averla piccola è ambasciatrice dell’infrastruttura ecologica.

sabato 1 aprile 2023 13 Ticino7 ANIMALI
DI CHIARA PICCALUGA; FOTO GRANDE © PATRICK DONINI IN COLLABORAZIONE CON FICEDULA

L’ansia di essere fuori

In molti parlano della FOMO, Fear of Missing Out, definita come la paura e l’ansia sociale di essere esclusi da esperienze ed eventi. Nel mio caso la paura è una certezza: sono assolutamente (e non serenamente) consapevole di essere esclusa da eventi ed esperienze sociali. Soprattutto, sono certa che quand’anche mi capitasse di essere nel posto giusto al momento giusto, di essere alla riunione di classe quando effettivamente essa si verifica, di essere alla domenica insieme del catechismo con tutti gli altri genitori pronti ad accompagnare la prima comunione della propria figlia; di essere a casa a fare l’angelo del focolare e della Tachipirina quando qualcuno sta male, sarei lì a consumarmi per le altre decine di posti in cui potrei o dovrei essere. Forse è proprio questo il livello più grave della famosa FOMO: quell’essere costantemente altrove con il pensiero a pensare a tutto quello che potresti o dovresti fare in alternativa a ciò che stai facendo in quel momento.

Alla riunione di classe, mentre io pensavo a quanto avrei preferito e dovuto essere in ufficio, i genitori erano sul piede di guerra. Pare che i bambini maschi occupino sempre il campo del cortile della scuola giocando a calcio. Un giorno

alcune femmine hanno deciso che non era giusto e hanno raccolto delle firme per sfrattare i maschi. Poi è arrivato l’8 marzo e qualche genitore ha pensato di associarlo a un legittimo desiderio delle istanze di rivendicazione sociale

SOPRA LA PANCA

È una di quelle giornate in cui tutto è mobile, arioso. I rami degli alberi, anche in assenza di vento, sembrano ondeggiare, così come i paracarri e il palo per giocare a pallacanestro. L’acqua del torrente Laveggio sembra spumeggiante, le nuvole volteggiano nel cielo e anche i miei pensieri faticano a stare fermi. La panchina è senza schienale, quindi posso scegliere se guardare la facciata della scuola media o la fila di rettangoli colorati sul muro della palestra. Passa un insegnante di mezza età, accompagnato da un corteo di allievi. Sta dicendo qualcosa sull’importanza di stare in gruppo, “se non volete che succeda come all’inizio dell’anno”. Mentre si allontanano, medito sul fatto che non saprò mai che cos’era accaduto all’inizio dell’anno. Poi c’è un momento di quiete. I ragazzi sono a scuola o in palestra, i genitori sono al lavoro. Mi guardo intorno: non c’è nessuno. Ho l’impressione di essere tornato alla mia infanzia, a quei mercoledì pomeriggio che, quando tornava la primavera, erano lunghi come intere settimane…

IN VIA VINCENZO VELA

★☆☆☆☆ Vista: ★★☆☆☆ Ideale per… misurare la vastità del pomeriggio.

ticino7

di parità tra i sessi. Poi è arrivata la metà di marzo e mentre io stavo ancora pensando a quanto folle fosse scomodare il femminismo di fronte a un semplice confronto tra bambini a ricreazione, le maestre ci hanno informato che tra gli obiettivi didattici c’è quello di insegnare a lavorare in gruppo. Quindi è arrivato il magico momento della ricerca e delle presentazioni in Power Point, delle ricerche su internet, dei disegni da ritagliare e incollare sul cartellone che ci siamo dimenticati di comprare in cartoleria. I bambini devono imparare, ma da soli è impossibile, ci vogliono i genitori. E così ho deciso di lavorare da casa e staccare prima per farmi una cultura sugli dèi egizi. Ovviamente pensando a quanto avrei dovuto essere in palestra, dove personal trainer inflessibili ti fanno sentire in colpa ogni volta che annulli una seduta (perché, ricordate, la rivoluzione si fa centimetro dopo centimetro e i centimetri incriminati sono sempre quelli del girovita).

ALTRI SCHERMI

LA SCINTILLA

Tutto inizia con un lieve formicolio alle clavicole… Il mondo delle Ragazze elettriche corrisponde al nostro tranne che per un piccolo scherzo della natura. Improvvisamente, e senza preavviso, le adolescenti sviluppano il potere di folgorare gli altri a piacere. Da Londra a Seattle, dalla Nigeria all’Europa dell’Est, mentre la scintilla del potere distruttivo femminile evolve, si assiste a un rovesciamento totale nell’equilibrio delle gerarchie e dei rapporti di genere nel mondo.

POTERE PER TUTTE

Le adolescenti sviluppano il potere di sganciare cariche elettriche a volontà. È ereditario, è insito e non può essere loro tolto. Le ragazze hanno la capacità di ferire o addirittura uccidere rilasciando scosse elettriche dalla punta delle dita e capiscono ben presto che possono risvegliare il “Potere” anche nelle donne più grandi o anziane. Rapidamente quasi tutte le donne del mondo possono farlo, e niente sarà più come prima. La serie The Power ha debuttato ieri su Prime Video con i primi tre episodi.

TUTTO COME PRIMA

La serie è basata sul premiato romanzo della scrittrice britannica Naomi Alderman, Ragazze elettriche uscito nel 2016, che ora ne ha anche curato l’adattamento per la TV. Nel libro Naomi Alderman immagina un mondo dominato dalle donne, in cui gli uomini sono ridotti in semischiavitù. Dopo un primo momento di smarrimento ed euforia per il dono del “Potere” le donne iniziano a distruggere, violentare, seviziare e uccidere proprio come prima di loro avevano fatto gli uomini. Questo è l’atroce risultato.

ASPETTATIVE

L’universo distopico di Alderman cresce e si sviluppa attorno a una questione attualissima e disturbante: perché le persone (al di là del genere, dell’età e dell’etnia) abusano del potere? La notizia dell’uscita della serie ha creato molte aspettative tra gli appassionati lettori di Naomi Alderman, la quale nella veste di scrittrice anche di videogiochi vanta un vasto numero di persone che seguono le sue produzioni. Leggendo tra i numerosi commenti sui social spicca una speranza: che la serie sia all’altezza del romanzo!

sabato 1 aprile 2023 14 Ticino7
LA FICCANASO
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DI ALBA REGUZZI FUOG
The Power Ragazze
TESTO E FOTOGRAFIA © ANDREA FAZIOLI

IN PRIMO PIANO

Quando la tivù fa radio

Era un martedì quando venne inaugurata la Stazione radio nazionale onde medie del Monte Ceneri, era martedì 18 aprile. Era il 1933. Giuseppe Motta era Consigliere Federale, in Italia governava Benito Mussolini, negli Stati Uniti c’era Franklin Delano Roosevelt. La Pasqua e il Lunedì dell’Angelo avevano spinto l’inaugurazione a quel martedì, incrinando la proverbiale precisione elvetica che vede, come altrove, nel lunedì il giorno degli inizi.

A ben guardare però, la Radio della Svizzera italiana i suoi inizi li ebbe già nel 1932 quando iniziò a trasmettere i suoi programmi attraverso il radiotelefono, un sistema che raggiungeva solo gli abbonati, a quel tempo quasi tutti oltralpe. Da quel martedì i programmi, poche ore al giorno per cominciare, hanno raggiunto tutte e tutti. Son passati 90 anni, Ignazio Cassis è Consigliere Federale, in Italia governa Giorgia Meloni e negli Stati Uniti c’è Joe Biden. Nel mezzo Radio Monteceneri, la RSI, ha fatto ciò che ogni radio seria deve fare: ha informato, ha raccontato, ha approfondito, ha divertito, ha unito, ha fatto ridere, ballare ed arrabbiare qualcuna e qualcuno. Migliaia di programmi, migliaia di voci, migliaia di idee e migliaia di ricordi, perché ognuno ha della radio un suo personalissimo ricordo.

Farsi gli auguri da soli non è bello, ma un compleanno così va festeggiato. Ci toglie dall’imbarazzo la sorellina minore, la televisione, che sabato 15 aprile alle 20.40 su LA 1 ci regalerà una grande serata TV, con i volti e le voci di ieri e di oggi, la musica Radiosa, il radio teatro, la cultura, l’informazione, lo sport, il gioco e la spensieratezza.

Una serata a festeggiare quello che siamo stati, quello che siamo, e quello che vogliamo essere anche domani: tre reti al servizio del pubblico.

Noi, come radio, vi invitiamo, sabato 22 aprile a casa nostra, negli studi di Lugano Besso, dove dalle 10 alle 17 potrete vederci in funzione, con le redazioni e gli studi delle tre reti aperti e “On Air” perché la radio non si ferma mai. Una giornata informale per incontrare giornaliste e giornalisti, animatrici e animatori e tecniche e tecnici, passando dai nastri negli archivi e arrivando fino alla creatività digitale. In fondo in questi 90 anni siam passati dal radio telefono al telefono cellulare. Vi aspettiamo! Tutti i dettagli su rsi.ch/eventi

Sabato 15 aprile, alle 20.40 su LA 1

Tempo di spiritualità

Il periodo pasquale con la RSI

La festività della risurrezione è il momento ideale per rivedere una serie di film che esplorano il tema della spiritualità e della capacità di rinascere. La RSI vi propone cinque pellicole che ricordano il senso di questa ricorrenza.

• L’apparizione

Giovedì 6 aprile alle 23.55 su LA 1

Un giornalista indaga sul caso di una ragazza di 18 anni che sostiene di aver avuto un’apparizione della Vergine Maria.

• Intreccio di destini

Venerdì 7 aprile alle 21.10 su LA 1

Due coppie legate entrambe da un amore profondo vivono la loro storia in tempi e luoghi differenti, finché una latente connessione non le unirà in modo prodigioso.

• Fatima

Venerdì 7 aprile alle 22.30 su LA 2

Tratto dagli eventi della Madonna di Fatima

del 1917, il film racconta la storia dei tre celebri pastorelli portoghesi.

• Miracoli dal cielo Sabato 8 aprile alle 16.10 su LA 1 Basato sull’omonimo libro di Christy Beam, la vera storia della sua giovane figlia guarita da una malattia incurabile passando attraverso esperienze incredibili.

• Unbroken - La via della redenzione Domenica 9 aprile alle 00.25 su LA 1 La vita del tenente e atleta Louis Zamperini, sopravvissuto a un campo di prigionia giapponese e capace di ritrovare la propria strada.

Venerdì 7 aprile si svolgerà l’annuale concerto spirituale del Venerdì Santo alla Chiesa Collegiata di Bellinzona alle 20.30, in diretta radiofonica su Rete Due. Informazioni su rsi.ch/eventi

In occasione della 18ª edizione di Zerovero, stiamo preparando dieci puntate speciali in cui le protagoniste e i protagonisti saranno le nate e i nati insieme allo storico quiz della RSI.

In ogni puntata una o un diciottenne sfiderà una coetanea o un coetaneo insieme a una o a un “supporter” (amica o amico, compagna o compagno di scuola, una o uno dei genitori, nonna o nonno, ...) che assisterà al gioco e interverrà in aiuto per completare la “Catena finale”. Per loro ci sarà in palio un bottino - verrebbe da dire ovviamente - di CHF 18’000

La sequenza dei giochi di Zerovero – Speciale 18 rimarrà fedele al game show originale della stagione 2022-2023, fatta eccezione per il gioco “L’abbinamento” che non verrà proposto.

Se compirai 18 anni entro il prossimo 24 maggio, la nostra conduttrice Daiana Crivelli ti aspetta in studio per festeggiare alla grande!

Noi due Domenica 2 aprile alla 01.00 su LA 1

Giornata Mondiale della Consapevolezza sull’Autismo

Il 2 aprile è la Giornata Mondiale della Consapevolezza sull’Autismo, istituita nel 2007 dall’Assemblea Generale dell’ONU.

La ricorrenza richiama l’attenzione sui diritti delle persone nello spettro autistico e promuove la ricerca e la diagnosi, contrastando la discriminazione e l’isolamento di cui sono ancora oggi vittime le persone che soffrono di questo disturbo e le loro famiglie.

Il contributo proposto da RSI per l’occasione è Noi Due, film israeliano diretto da Nir Bergman. La storia racconta di Aharon che ha abbandonato la sua carriera da disegnatore per dedicarsi completamente al figlio Uri, affetto da autismo.

Gli equilibri si incrinano quando Tamara, la madre, insiste affinché il figlio venga trasferito in un istituto specializzato. Aharon non è convinto che sia la soluzione giusta e intraprende con Uri un viaggio verso l’America.

Dal 19 al 30 giugno alle 18.10 su LA 1

sabato 1° aprile 2023 Ticino7 • Programma Radio&TV • dal 2.4 all’8.4 15
I
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90 anni di Radio Monteceneri in una serata su RSI LA 1
ZEROVERO Speciale 18
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