Ticino 7 N09

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Esci

ticino7

il miocant-to li-be-ro re - spi-ria-moli - be-ri io e tee

Svizzera tedesca, primi anni 70. “Noi attacchiamo, lui entra ed è un’ovazione: s’inchina, poi ci chiede di suonare più piano, si mette le mani nelle tasche, estrae i pugni chiusi e con gli occhi lucidi esclama: ‘Ecco, tenete, vi ho portato un po’ della vostra terra!’, e lancia questo terriccio tra il pubblico. Oh, piangevano tutti...”. È uno dei tanti aneddoti di un chitarrista che chiameremo Chitarrista, nome noto alla Redazione e pure alla storia dei turnisti, quelli che accompagnano il cantante in tournée. Anche all’estero, dove l’italiano, “l’italiano vero” (per dirla col poeta), in anni di soprusi, per una sera si sentiva a casa. Potrebbe sembrare, ma quello che lanciava la terra al pubblico non era Toto Cutugno,

da sempre amato più dagli italiani all’estero che da quelli d’Italia (“Sento che ti sto antipatico”. “Sì”. “Perché?”. “Perché ti trovo arrogante”. “Mi trovi presuntuoso?”. “Sì, e non mi piace la tua musica”; schermaglie televisive di quando ‘L’italiano’ era già manifesto e Mia Martini diceva in faccia a Toto Cutugno, su richiesta dello stesso, cosa pensasse di lui). Ma parlavamo della terra d’Italia: “Se la portava da casa?”, chiediamo al Chitarrista. “Macché, la prendeva ogni volta dal giardino dell’hotel in cui alloggiavamo”. “Possiamo scrivere il nome?”. “Meglio di no, mi sento sempre un po’ stronzo quando lo racconto”. Come si dice in America, quello che accade a Las Vegas resta a Las Vegas. Vale anche per Zurigo.

sabato 4 marzo 2023 1 Ticino7 numero 9 DI BEPPE DONADIO
dalla tua terra e va’

LUCIO BAT

Il mio canto libero (50 anni dopo)

In quegli anni Settanta così ricchi di stili e tendenze di ogni genere, la musica italiana ebbe in Lucio Battisti – che domani avrebbe ottant’anni – l’artista in grado di riscrivere completamente la forma canzone. Quell’equilibrio che da sempre regolava musica e parole divenne per Battisti una continua alchimia di coppia con Mogol. Una sfida che, canzone dopo canzone, fissava l’asticella creativa sempre un po’ più in alto. Era impossibile dire con certezza se la musica fosse fatta per quelle parole o quelle parole fossero scritte per quelle musiche. Non si era mai vista e ascoltata tanta innovazione e tanta fusione.

Il ricordo di un amore ‘La luce dell’est’ è un titolo meraviglioso che racchiude un pezzo di vita tra passato e presente. Un viaggio nell’Europa Orientale (“oltrecortina”, come si diceva), la storia tra un ragazzo italiano e una ragazza slava, il ricordo di un amore, di una passeggiata insieme in un bosco, seduti accanto in un’osteria. Ma questo ricordo è interrotto da due bruschi rumori: “Un ramo calpestato” e “un colpo di fucile”. E infine, la trovata geniale: “Ed ecco che ritorno col pensiero”. Forte anche l’immergersi nella natura che per entrambi, Mogol e Battisti, era un’esigenza vitale: la nebbia che respira, il sole che sale ad est, le foglie ancor bagnate, l’odore dei funghi, lo smarrirsi in un bosco…

Arrangiamenti

Mogol aveva tradotto decine di testi inglesi e americani nel periodo del beat, della psichedelia e delle protest-song. Aveva sperimentato costruzioni linguistiche fino a quel momento inesplorate. La sensibilità per le tematiche ambientali, per la libertà, per confini sempre più ampi, per la profondità delle relazioni, la riversò tutte nelle melodie che Battisti scriveva con meravigliosa creatività per Il mio canto libero. Un Battisti che aveva messo a frutto l’esperienza dal vivo con le orchestre, gli ascolti infiniti e l’amore incondizionato per il rhythm’n’blues e i suoi protagonisti: Otis Redding, James Brown, Sam Cooke. E l’interesse per il progressive, che si stava imponendo e che atomizzava in un sol colpo la durata delle canzoni. L’importanza dell’impatto strumentale: le lunghe suite dei Genesis, dei Pink Floyd, degli Yes, fecero maturare la scelta di arrangiamenti e orchestrazioni sinfoniche che vennero affidate a Gian Piero Reverberi. Arrangiamenti spiazzanti e originalissimi come in ‘Luci-ah’, un pezzo honky tonk per la ragazza ribelle che fa follie anticonformiste e ha sempre risposte irriverenti per tutti. Ma quel “Luci, Luci di solito così non si fa” è il sorridente rimprovero di un adulto sornione. Il rimprovero alla fine sembra venire dall’alto. Da un coro solenne che richiama ‘Luci-ah’, sapendo però che – così come nell’altra canzone divertente di Battisti e Mogol, ‘Il leone e la gallina’ – non servirà.

Un passo avanti

Il mio canto libero fu il secondo disco pubblicato nell’arco di un anno, ulteriore passo in avanti rispetto a ‘Umanamente uomo’, uscito solo sette mesi prima. Difficile dire, in così tanta

abbondanza, quale fosse il brano di punta di tutto l’album. Quello che gli conferisce il titolo ebbe una immediata visibilità e promozione ma, con il passare dei mesi, ognuno scoprì il proprio preferito, o i propri preferiti, dalle grandi melodie che con le loro aperture di archi incantavano all’istante. ‘Vento nel vento’ è la trasformazione del veleno in medicina, dalla sofferenza della perdita alla rinascita, con un nuovo incontro e un amore che sboccia potente. L’inizio coraggioso è efficacissimo: solo voce e pianoforte, con l’ingresso poi di un suono d’organo catartico che anticipa l’esplosione orchestrale, di una tale potenza che a distanza di dieci anni Francesco De Gregori decise di inserirne una parte nella sua ‘Leva calcistica della classe ’68’, il famoso refrain di “Nino non aver paura di tirare un calcio di rigore”.

Sono rari i dischi di cui, a distanza di decenni, ancora si parla e che, soprattutto, ancora si ascoltano. ‘Il mio canto libero’ è l’album che ha coinvolto decine di generazioni, protagonista assoluto di tutto il 1973, con vendite record in ogni formato: vinile, musicassetta, stereo8, per non parlare delle selezioni dei juke-box. Se si entrava in un negozio di dischi era quasi sempre per acquistare questo disco, che è poi risultato il più regalato del decennio.

d’incastri tra le note lunghe del basso, i funambolismi della batteria e i colori della chitarra ritmica. Lo spirito del disco venne catturato nella foto delle mani sollevate al cielo di Cesare Montalbetti, quel “Caesar Monti” che con Lucio Battisti ha firmato alcune delle sue copertine più belle. A proposito di quella del Mio canto libero, Montalbetti disse: “Radunai un po’ di amici e chiesi loro di alzare le braccia in aria. Solo in quel momento mi accorsi che la distanza della testa dalle mani sacrificava l’inquadratura, così l’unica soluzione era farli sdraiare. Ma non era facile tenere le braccia sollevate così a lungo e iniziarono a scatenarsi battute e gag che raggiunsero il massimo quando si trattò di fotografare gambe e piedi nudi. Per cui, via calze, calzini, gonne e pantaloni e potete immaginare l’atmosfera. Però quella foto raccontava lo spirito e il contenuto del disco” (si veda le immagini a sinistra della versione originale in vinile con copertina apribile, ndr).

‘Music Is Lethal’

Brianza, estate 1972

Il mio canto libero venne registrato nell’estate del 1972 una parte a Milano, alla Fonorama, e un’altra parte in un vecchio mulino immerso nel verde sul lago di Como che Mogol aveva ristrutturato e riadattato a factory musicale. Un’atmosfera magica: al piano terra la sala di registrazione e un grande salone con camino dove trascorrere insieme le ore serali; al piano superiore, le camere da letto per i musicisti. Nel cuore della Brianza, Lucio Battisti aveva ritrovato l’atmosfera di casa. Viveva immerso nella natura, cosa che anche per Mogol era di vitale importanza. La sensibilizzazione verso gli argomenti e le tematiche ambientali nacque contemporaneamente in entrambi. E anche questo aspetto rappresentò un elemento di profonda innovazione e trasformazione nel linguaggio delle canzoni. Tra i solchi torna quella passione per il rock-blues che già aveva reso indimenticabile ‘Il tempo di morire’, la voce di Lucio Battisti con tutte le sue sfumature soul.

Fotografie

‘Confusione’ è sicuramente il testo più inesplorabile di tutto l’album, ma ancora una volta ogni singola parola è funzionale alla progressione ritmica e a quella delle note, un gioco perfetto

Il mio canto libero ha in ‘Io vorrei… non vorrei… ma se vuoi’ una piccola sinfonia tascabile nella quale ogni nota, incastrata alle altre, crea un ’architettura perfetta, dove anche la voce di Lucio Battisti raggiunge un’espressività unica. Qualcuno ha detto che Battisti è stato per l’Italia quello che i Beatles sono stati per il mondo, ovvero esplorare e percorrere una creatività musicale senza schemi: gettare le fondamenta per tutto quello che verrà dopo. ‘Io vorrei… non vorrei… ma se vuoi’ racconta di come l’amore non si possa fermare, di come anche lo scoglio di una relazione precedente finita non possa arginare il mare di un sentimento forte che sta nascendo. E si torna a volare: l’arrangiamento orchestrale di Gian Piero Reverberi ha tratti sinfonici con aperture fino a quel momento mai ascoltate in un brano pop italiano, per una fusione perfetta tra parole, musica e canto; tanto che David Bowie, grande ammiratore di Battisti, decise di tradurla e inserirla nell’album di debutto di Mick Ronson, suo chitarrista di fiducia negli Spiders from Mars, nonché session man per Lou Reed, Van Morrison, Bob Dylan ed Elton John. Fu così che ‘Io vorrei… non vorrei… ma se vuoi’ divenne ‘Music Is Lethal’.

Lo dice il titolo

A chiudere questo disco, che rimane ancora oggi uno dei più significativi degli anni Settanta e del pop italiano, è il brano da cui l’album prende il titolo. È l’inno alla libertà, alla libertà più profonda, più personale, più consapevole, con quelle parole intense che ancora siamo in grado di cantare a memoria sulla perfetta linea melodica. “Nuove sensazioni, giovani emozioni, si esprimono purissime in noi”, parole che come sempre, nelle canzoni di Lucio Battisti, contenevano molto di più di quanto sembrasse al primo ascolto, e che hanno lasciato un’impronta emotiva e musicale inscalfibile dal tempo.

sabato 4 marzo 2023 2 Ticino7
DI TUTTO UN POP DI SERGIO MANCINELLI
Leggi e ascolta

Dischi dal retrobottega

Massimo Volume

Lungo i bordi (1995)

Ci sono due modi di scrivere canzoni che non contemplino il fattore “canto”: si può ricorrere all’ormai onnipresente cantato rap (magari con un paio di strati di autotune). Oppure scegliere di trasformare il canto in narrazione, con la parola che per una volta, Montale ci perdoni, squadra l’animo nostro informe. È quello che fanno i Massimo Volume, band di culto dell’indie italiano che nel 1995 dava alla luce Lungo i bordi: una poetica colonna sonora del male di vivere, che ondeggia fra momenti di quiete e sfuriate rock sui quali il frontman Emidio Clementi dipinge quadri fatti di parole. L’album si apre con ‘Il primo Dio’, dedica a Emanuel Carnevali, dimenticato scrittore bolognese dei primi del Novecento autore dell’omonimo libro e considerato uno degli ultimi “poeti maledetti”. La consapevolezza del crollo del sogno americano, affrontato con la forza delle parole: “Sopra le portate lasciate a metà, i tovaglioli usati / Sopra le cicche macchiate di rossetto / Sopra i posacenere colmi / Sapevi di trovare l’uragano”. E poi, uno dei versi più belli che la musica italiana abbia prodotto negli ultimi decenni: “Dire qualcosa mentre si è rapiti dall’uragano / Ecco l’unico fatto che possa compensarmi di non essere io l’uragano”. Lungo i bordi è un viaggio in scorci urbani quasi metafisici, senza spazio né tempo, popolati da figure vaghe come quella che confessa in ‘Per farcela’: “ ‘Ho ucciso molti uomini’, mi hai detto / ‘È come se lo avessi fatto / e non averlo fatto è stato proprio come averlo fatto’ ”. C’è l’incubo (“Improvvisamente stanotte / la stanza s’è riempita dei miei amici d’infanzia / Ognuno di loro teneva con una mano / quello che restava dell’altro braccio / amputato fino al gomito” in ‘La notte dell’11 ottobre’), la solitudine (“Mi sento come il soffitto di una chiesa bombardata” in ‘Inverno ’85’), la carnalità (“Tra i negozi del centro tu mi hai detto / ‘Ho passato vent’anni ignorando di avere un corpo’ / Poi è stato come se un’auto entrasse a 180 all’ora / Dentro una di queste vetrine” in ‘Meglio di uno specchio’). E tanti versi ancora, a volte leggeri come carezze e altre con la forza di un pugno. Troppi per riportarli qui, abbastanza per consigliare uno, dieci, cento ascolti di quest’album.

Suoni & rumori

DI GIANCARLO FORNASIER

Blonde Redhead In An Expression Of The Inexpressible (1998)

Nella New York della metà anni Ottanta/inizio Novanta il gruppo di riferimento per gli ardimentosi della chitarra e delle cavalcate sonore si chiama Sonic Youth. Tra i cuori spezzati da Thurston Moore e Lee Ranaldo ci sono anche quattro ragazzi (poi rimasti in tre) da poco arrivati a Brooklyn. Siamo nel 1993: Amedeo e Simone Pace – fratelli milanesi trasferiti in Canada ancora adolescenti e poi a Boston per studiare jazz –, conoscono la cantante/chitarrista Kazu Makino. Pubblicano un paio di singoli, che catturano l’attenzione di Steve Shelley (batterista dei SY, appunto), incontro che li porterà a pubblicare il primo omonimo album (1995), a cui seguirà il notevole La mia vita violenta, lavoro dedicato a Pier Paolo Pasolini... E non sarà il solo riferimento culturale italico che i Pace (batteria e chitarra) porteranno nel gruppo, come vedremo. Accasatisi già col precedente e maturo Fake Can Be Just as Good (1997) all’etichetta

Touch & Go di Chicago – una garanzia per chi cercava un certo suono indie già dalla metà degli anni Ottanta –, nel 1998 esce

In An Expression Of The Inexpressible. Forse non il migliore del trio (son gusti, si sa), l’album si snoda tra delicate partiture e urticanti cavalcate noise-rock, e segna soprattutto l’inizio della collaborazione con Guy Picciotto dei Fugazi (chi ha orecchie per intendere ha già capito). Chi se ne intende scriverà: “Le chitarre stridule di Makino e di Amedeo, i ritmi sghembi di Simone costruiscono un vortice di tensione, in cui però si infilano anche riferimenti a colonne sonore anni Sessanta, sprazzi da cocktail lounge, temi western rivisitati in salsa progressive”. La stessa Makino dichiarerà: “Non siamo no wave, né tantomeno avantpop. La nostra musica tende a raggiungere lo stato di bellezza e di estasi. Partendo dal punk-rock, tracciamo delle linee melodiche dolci che esplodono in irruzioni di violenza. Sia la musica che l’uso della mia voce tendono a enfatizzare la nostra ricerca del bello, senza le barriere dei generi”. Come, per esempio, la musica d’autore francese e italiana (si veda l’originale EP Melodie Citronique del 2000). E su tutti Serge Gainsbourg e Lucio Battisti, che i Pace citeranno in almeno un paio di brani: ‘Pier Paolo’ (1997) che ricorda molto da vicino ‘La mia canzone per Maria’ del 1968; e la geniale ‘Le tre verità’ del 1971, che compare qui e lì nella semi-strumentale ‘Futurism vs Passeism’ (parti 1 e 2; tracce uscite tra il 1997 e il ’98). Passati alla 4AD col patinato Misery Is a Butterfly (2004), i Redhead non si vedono ufficialmente in Europa in concerto dal 2018. Il loro ultimo lavoro esteso (Baragán) risale al 2014.

I miei migliori cento

DI ALESSANDRO ‘TONDO’ BASSANINI

Lucio Dalla

Lucio Dalla (1979)

Definito comunista e gay da mio padre, Lucio Dalla e la sua musica era severamente vietata in casa nostra. A pensarci oggi, sembra impossibile, ma crescendo in un piccolo villaggio del nord Italia in una famiglia italiana conservatrice, questa era la norma. Ricordo ancora come fosse ieri quando mio padre ha preso d’assalto la mia scuola media e mi ha allontanato dall’aula perché ha scoperto che il giorno prima la classe era stata “esposta” a una replica di Jesus Christ Superstar di Andrew Lloyd Webber. Mentre mi trascinava via, le sue ultime parole allo staff furono “God Damn Hippies” e non avrei mai più rivisto i miei compagni di classe. Qual è stato il risultato di questa rigida censura su di me? Chiaramente l’assoluta necessità per me di inseguire ogni idea comunista, ogni forma d’arte profana e una curiosità infinita per tutto ciò che era proibito, in fondo ho CONSUMATO gli album di Lucio Dalla, e questo è un album gigante. Ai miei amici americani, cosa posso dire? C’è chi dice che Jim Morrison e Bob Dylan siano poeti, beh, Lucio Dalla per noi italiani cresciuti negli anni Settanta è semplicemente il film della nostra vita e ogni canzone dipinge in infiniti dettagli quello che era la vita quotidiana per molti di noi. Prendi la traccia 1 dal lato B ‘Anna e Marco’, a un certo punto il testo va: “… poi c’e qualcuno che trova una moto, si può andare in città…”. “… e poi qualcuno trova uno scooter, possiamo andare in città…”. Parole innocue, eppure chi è cresciuto nella disperazione che era la periferia o la campagna italiana SA che semplicemente non avevi niente da fare tutto il giorno, tempi immensi pieni di noia… poi c’e qualcuno che trova una moto, si può “andare in città”… e noi tre salivamo su un Ciao 50cc e come pagliacci da circo sputavamo verso la città, pieni di gioia immensa e al pensiero che avremmo potuto incontrare una ragazza, o al massimo prendere un gelato. L’album omonimo di Lucio Dalla del 1979 è un disco memorabile, e rimarrà tale per il resto della mia vita, e ogni canzone continuerà ad avere un significato speciale per la maggior parte degli italiani che sono cresciuti ascoltandola. A parte le meravigliose melodie, i magnifici arrangiamenti del maestro Gian Piero Reverberi, la vera forza di questo disco sono i testi e il modo in cui catturano un piccolo momento insignificante, oppure un concetto gigantesco come il futuro (‘L’anno che verrà’), o meglio eppure la vita stessa (‘L’ultima luna’). Ascolto questo disco da oltre 40 anni, non ricordo una sola volta in cui ho saltato una canzone, l’ho interrotta o non mi è piaciuta. Ogni volta evoca felicità, tristezza, amore, dolore e gioia ed emotivamente per me questo disco è per sempre nella mia Top 10 e musicalmente facilmente nella mia Top 100.

Guarda e ascolta ‘Harbor Lights’

Figli delle stelle (vintage edition)

DI BEPPE DONADIO

Per il pubblico europeo, Bruce Hornsby sarà sempre “quello di ‘The Way It Is’”, un classico del miglior pop applicato al pianoforte e viceversa. È il 1986, e in vetta alle classifiche statunitensi, canadesi e olandesi svetta un brano altamente strumentale, con testo dai forti contenuti sociali ma soprattutto (prima della fine) con dentro un assolo di pianoforte, cosa difficilmente permessa nell’odierno pop, se non blasfema. La storia dice che Huey Lewis di Huey Lewis & the News (quelli di ‘The Power Of Love’, la canzone di Ritorno al futuro) avrebbe fatto carte false per cantare ‘The Way It Is’, ma Bruce Hornsby da Williamsburg, Virginia, cresciuto a pane, pianoforte e bluegrass, a Huey Lewis regalò al massimo ‘Jacob’s Ladder’ (n. 1 della Billboard Hot 100 nel 1987) e si tenne per sé ‘The Way It Is’, per il bene suo e di quello dei suoi The Range, all’interno dei quali vinse il Grammy come Best New Artist. Quella formazione – George Marinelli (chitarre, mandolino), Joe Puerta (basso), John Molo (batteria) – durò per un altro paio di dischi, e cioè Scenes From The Southside (1988, Grammy al miglior album bluegrass) e A Night On The Town (1990, con il singolo ‘Across The River’ n. 1 della Billboard Album Rock Tracks), ulteriori due episodi di cosiddetto ‘soft rock’ foraggiato di elementi jazzistici. Poi, in ritardo su Sting di quasi un decennio, Bruce Hornsby – i cui figli si chiamano Keith da Keith Jarrett e Russell da Leon Russell – si mise in proprio per pubblicare la sua prima dichiarazione d’amore al jazz intitolata ‘Harbor Lights’.

American life

Dal 1993 in poi, e cioè dall’uscita di Harbor Lights, Hornsby dice addio alle Billboard per scrivere il suo personale trattato pianistico, portando la figura del pianoman in ambiti raffinatissimi, fondendo jazz, folk e songwriting nell’imprescindibile stile con il quale si presentò da giovane alla Berkeley School, lo stile di uno spilungone che suonava il pianoforte come fosse un banjo. Harbor Lights è uno spaccato di vita americana che ha Edward Hopper in copertina (Rooms By the Sea, 1951) e Pat Metheny nella title-track, ma pure Jerry Garcia dei Grateful Dead, la cui ‘Dark Star’ è spunto per la di Hornsby ‘Talk of the Town’, illuminata dal sax soprano di Branford Marsalis. Il sassofonista torna in ‘Long Tall Cool One’, con Phil Collins ai cori, anch’egli qua è là nel disco tra percussioni e backing vocals. Va e viene anche Bonnie Raitt (Grammy 2023 alla miglior canzone) in ‘Rainbow’s Cadillac’ e ‘The Tide Will Rise’, e torna pure Garcia, nella conclusiva e medievale ‘Pastures of Plenty’. La collaborazione con Marsalis produrrà nello stesso anno un terzo Grammy, l’ultimo di Hornsby a oggi, quello per ‘Barcelona Mona’, brano scritto nel 1992 e dedicato alle Olimpiadi di Barcellona.

sabato 4 marzo 2023 3 Ticino7
DI MARCO NARZISI
MUSICA A CURA DELLA REDAZIONE

Ascoltare il suo lavoro Ange Terrible (uscito di recente Sony Music)e pensare alla guerra in Ucraina è struggente. Sì, perché Anastasiya Petryshak (“una violinista di grande talento in possesso di una intonazione perfetta, un suono molto affascinante, una tecnica brillantissima e una musicalità pura”, ha detto di lei il suo mentore Salvatore Accardo), sta vivendo con grande sofferenza e con il pianto nel cuore la devastazione del suo Paese d’origine. La sua speranza è di portare un po’ di luce in questi tempi particolarmente bui.

La incontro a Zurigo e mi interessa sapere subito come tutto è incominciato nella sua città natale di Ivano-Frankivs’k, nella parte occidentale dell’Ucraina: “Non provengo da una famiglia di musicisti professionisti, comunque i miei genitori erano appassionati di musica, che eseguivano e ascoltavano per diletto. Così, quando avevo cinque anni, mi incitarono a suonare il pianoforte, a fare canto e danza, ma scoprii ben presto che la mia vera passione era il violino. Un giorno, mentre passeggiavo per strada, vidi un violinista suonare le Quattro stagioni di Vivaldi e fu per me una vera e propria folgorazione. Non più tardi dell’indomani, insistetti perché mia mamma mi iscrivesse a una scuola di violino, dove ebbi la fortuna di incontrare un’insegnante eccezionale, Marta Kalynchuk, molto severa, esigente, ma buona, con la quale sono tuttora in contatto”.

Anastasiya Petryshak

Violinista italo-ucraina, è nata a Ivano-Frankivs’k (Ucraina) il 12 aprile 1994. All’età di otto anni inizia a esibirsi in pubblico vincendo numerosi concorsi nazionali e internazionali. Nel 2004 si trasferisce in Italia per proseguire gli studi di violino con il maestro Salvatore Accardo all’Accademia Walter Stauffer di Cremona. Nel 2016 si trasferisce a Zurigo e dopo due anni ottiene il “master soloist” alla Zürcher Hochschule der Künste, sotto la guida del maestro Rudolf Koelman. La sua carriera la porta a suonare nelle più prestigiose sale concertistiche in Europa, Stati Uniti, Corea del Sud, Arabia Saudita, Libano e Sudafrica. Oggi vive sempre a Zurigo col marito, il finanziere francese Edouard Hurstel, col quale è sposata dal 2019, e con il figlioletto. Suona regolarmente un violino costruito appositamente per lei dal liutaio bolognese Roberto Regazzi nel 2012.

continuamente e non riuscivo ad adattarmi a una mentalità completamente diversa da quella cui ero abituata. Dopo tre mesi insistetti con grande determinazione affinché i miei genitori mi lasciassero tornare in Ucraina, dove ritrovai la mia insegnante, con la quale con grande gioia ripresi le mie lezioni quotidiane. Mi ci volle un anno per capire che sarebbe stato meglio raggiungerli nuovamente a Bologna. Mi preparai mentalmente e tutto si svolse un po’ più facilmente rispetto alla prima volta, sebbene notassi una certa freddezza e diffidenza, in particolare a scuola, nei confronti di me straniera”.

Gli 11 anni che seguiranno saranno molto intensi e la porteranno a completare il massimo degli studi possibili in Italia per il violino, segnatamente sotto la guida di Salvatore Accardo.

“Oltre a essere un grandissimo violinista, il maestro Accardo ha un modo di insegnare che tende a valorizzare con il massimo rispetto il talento di ciascun musicista, lasciando gli allievi ‘fiorire’ secondo la loro natura. Infatti dà loro grande libertà, per cui ognuno ha veramente modo di trovare sé stesso. Per otto anni è sempre stato presente, anzi lo è tuttora”.

Dal 2016 a Zurigo

Nel 2016 Anastasiya si trasferisce a Zurigo, alla ZHdK, e due anni dopo, ottenuto il diploma di “soloist master” – che, mi precisa, è stato impegnativo perché il corso è riservato a pochissimi e per completarlo le esigenze della giuria sono molto alte - decide di rimanere nella città sulla Limmat. “Mi sono piaciuti molto, qui, l’ordine, il rispetto delle persone, l’interesse che si riscontra per la musica, per l’arte, per la cultura. Certo, è una città che bisogna conoscere a fondo per amarla. Un altro motivo per il quale sono rimasta è stato l’incontro con quello che sarebbe poi diventato mio marito”.

Debussy, Ravel e Messiaen, scritti nel periodo che include le due Guerre mondiali. Ma perché Ange Terrible? “Il titolo si presta a molti significati, a tante interpretazioni e il bello è proprio la possibilità di lasciare spazio all’immaginazione, alla fantasia. Per quanto mi riguarda, siccome nella mia carriera spesso vengo paragonata a un angelo (lo fa, per esempio, Andrea Bocelli, con il quale ha tenuto decine di concerti, nda) perché gli angeli sono messaggeri e con il mio violino porto anche dei messaggi, con l’aggettivo “terrible” volevo dare un tocco di drammaticità, soprattutto dopo il Covid, il lockdown e con la guerra in Ucraina, e far vedere tutti i lati di Anastasiya, non solamente quello… angelico”.

Il trasferimento in Italia

La passione e la motivazione la portano subito a dedicarsi a fondo a questa attività e ben presto arrivano concorsi e concerti, ma con la sua famiglia si accorge che l’Ucraina non è in grado di assicurarle quel futuro da professionista cui aspira, quindi con la mamma, il papà e il fratello maggiore nel 2004 si trasferisce in Italia, precisamente a Bologna. “Non sarò mai abbastanza grata ai miei genitori per aver fatto questo non facile passo –accettando anche lavori più umili perché il titolo universitario che avevano conseguito in Ucraina non aveva nessun valore in Italia - per agevolare i miei studi e ovviamente per la musica non c’era Paese migliore. Ma l’impatto fu problematico: piangevo

italiano Lorenzo Meo, interpreta brani dei tre compositori francesi più importanti del ventesimo secolo,

Un forte messaggio

Questo progetto è nato prima dello scoppio della guerra in Ucraina, ma chiaramente, alla luce del dramma che sta conoscendo ormai da più di un anno il suo Paese natale, adesso porta un messaggio ancora più forte. “Mi piacerebbe che questa musica potesse far riflettere le persone su quanto sta accadendo in Ucraina. Una parte dei miei familiari – in particolare mia nonna – ha voluto rimanere là e naturalmente seguo con molta apprensione gli eventi, tanto più che ho dei cugini al fronte. Tra l’altro con mia nonna mi sento tutti i giorni. Spero vivamente che tutto finisca il più presto possibile perché questa guerra è già durata fin troppo”.

Tra l’altro, Anastasiya Petryshak è impegnata a raccogliere fondi per l’Ucraina tenendo concerti negli Stati Uniti, in Spagna, in Francia e in Italia: “Collaboro in particolare con la TulSun Foundation in Olanda e con la Carano 4 Children Foundation in Belgio. La prima aiuta i bambini ucraini orfani, che spesso sono dimenticati. Molti di essi vengono portati fuori dal Paese e affidati a delle famiglie. La seconda, invece, promuove giovani talenti e raccoglie fondi a favore dei rifugiati ucraini con l’Unicef”. Quando con la musica ci si mette al servizio di una giusta causa, non si può che rimanere ammirati di fronte a una persona che, nonostante il suo notevole talento, dà indubbiamente prova di una grande modestia e di un encomiabile slancio umanitario.

sabato 4 marzo 2023 4 Ticino7 INCONTRI DI GINO DRIUSSI; FOTOGRAFIE ©
SONY MUSIC
L’angelo terribile Come detto, il suo secondo cd si intitola Ange Terrible nel quale, insieme con il pianista
“Mentre passeggiavo per strada, vidi un violinista suonare le ‘Quattro stagioniʼ di Vivaldi (...)”

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Viaggio in Jugoslavia

A volte devi prendere un piccolo, ozioso battello o imboccare una strada secondaria che sembra sbagliata che ti dice che sei arrivato solo quando incontri un minareto distrutto dalla guerra e un cartello minaccioso che ti dice che non puoi entrare. Eppure devi entrare, se vuoi vederla. A volte servono un po’ di volontà, pazienza e fiato mentre guardi da sottinsù una scalinata, la volta dopo magari sono solo sei-sette gradini di un anonimo palazzo qualunque. Poi c’è la volta, nella periferia più abbandonata di Belgrado, che nemmeno impegnandoti sembra che vogliano fartela vedere, la Jugoslavia: un posto che ti ripetono tutti che non c’è più, quando viaggi per i Balcani, eppure presentissimo negli occhi e nei ricordi degli ex bambini nati e cresciuti all’ombra del Novecento. E anche in giro, a cercare bene. Finire in Jugoslavia, per calcolo o per caso, può ancora accadere a oltre trent’anni dalla sua dolorosa e scomposta dissoluzione. Ma questo non vuole essere un manuale di storia che distribuisce patenti e colpe, né una guida esaustiva di città, musei e ristoranti imperdibili, piuttosto un viaggio parziale verso luoghi rimasti intoccati, riscoperti o minuziosamente ricreati, anche solo per il piacere di rivivere un tempo che sembrava più semplice anche se poi, magari, non lo era affatto. Gli anni di Tito, della stella rossa sulla bandiera, dell’estetica brutalista in cui il socialismo si faceva carne e cemento e dei poster minimalisti con colori acidi, che ti facevano subito capire che sì, c’erano i comunisti, ma erano comunisti a modo loro, con gusti loro, diversi dai sovietici.

Choc sensoriale

Questo viaggio in Jugoslavia è bene iniziarlo su un’isola, Brioni Maggiore, allontanandosi via mare da tutto quel bagaglio storicoestetico che rischia di appesantire e schiacciare le aspettative. Per arrivare nella più grande delle Isole Brioni bisogna prendere un traghetto da Fasana, pochi chilometri a nord di Pola, in Istria. Arrivare è uno choc sensoriale: ci sono rovine romane, alberi e scorci di verde che sembrano rubati alla campagna toscana e baie turchesi da cartoline caraibiche: si può passeggiare, noleggiare una bicicletta oppure uno di quei cart che si usano sui campi da golf. C’è anche una macchina parcheggiata in una specie di tecagarage: è la Cadillac di Tito, se vuoi, per 500 franchi puoi anche guidarla per una mezz’oretta per le strade di Brioni, uno dei posti preferiti dall’uomo che fece la Jugoslavia fino a incarnarla. A Brioni, Tito passava ogni anno settimane e mesi, a tal punto da avere tutto quel che gli serviva per guidare il Paese, come se fosse a Belgrado. Sull’isola, oltre alla Cadillac, sono rimasti alcuni animali esotici, figli dei regali di alcuni capi di Stato africani, che per non presentarsi a mani vuote portavano in omaggio zebre, elefanti e bufali. Oggi un’area di Brioni Maggiore è adibita a zoo ed è visitabile, come è visitabile la voliera di un altro animale indissolubilmente legato all’ex leader jugoslavo, il pappagallo Koki, un cacatua dal ciuffetto giallo che Tito regalò alla nipotina Sasha e che oggi è diventato il simbolo chiacchierone dell’isola.

‘Made in Jugo’ Lasciando la Croazia e andando a sud e poi verso l’interno, in Bosnia-Erzegovina, si può vedere invece il bunker antiatomico di Tito: arrivarci non è semplice, e per entrare bisogna prima mandare in anticipo una mail a chi gestisce la struttura. Ti danno appuntamento poco fuori da Konjic, una città – più o meno a metà strada tra Mostar e Sarajevo – ancora fortemente segnata dalla guerra degli anni Novanta, il bunker invece è perfettamente integro nonostante il primo ingresso sia una saracinesca di un box per auto. Dentro c’è il meglio della tecnologia jugoslava che fu: ogni cosa, dai filtri anti-atomici per l’aria alle lampadine fino alle viti è “Made in Jugo”.

Tito non riuscì mai a vedere finita quella che è la terza opera più costosa della Jugoslavia (4,3 miliardi di franchi) dopo l’aeroporto militare di Bihac e il porto di Lora. Il bunker fu completato, con grande ritardo, solo nel 1979, pochi mesi prima della sua morte, sopraggiunta il 4 maggio 1980.

SOPRA: UNA DELLE STANZE DELLO YUGODOM (YUGODOM.COM), NEL CENTRO DI BELGRADO. OGNI AMBIENTE È ARREDATO CON PEZZI ORIGINALI DEGLI ANNI SESSANTA, SETTANTA E OTTANTA. IN BASSO: SPILLETTE, UNA MUSICASSETTA E SVEGLIE D EPOCA, QUI È COME SE IL TEMPO SI FOSSE FERMATO.

La fortezza sotterranea è stata progettata per tenere in vita i suoi occupanti per ben sei mesi (spesso i bunker governativi del blocco occidentale non superavano la soglia dei trenta giorni). La manovalanza, che arrivava da ogni parte del Paese, si narra venisse portata qui bendata, per non capire dove si trovasse esattamente. La mitologia jugoslava e comunista in generale si basa su questi segreti. Ma nessuno ha mai smentito questa versione, che ancora circola. E la popolazione civile ha scoperto il bunker solo nel 1990, nel caos della Federazione ormai implosa. Oggi il bunker resta un esempio di luogo cristallizzato nel tempo, un museo della nomenklatura jugoslava, con camere spartane per tutti fuorché per Tito e la moglie Jovanka, tra i pochi ad avere a disposizione anche un televisore. E poi tanti telefoni rossi, un’infinità di ritratti del leader appesi ai muri insieme a foto –dozzinali – di luoghi aperti (mare, montagna, qualsiasi cosa potesse tenere lontana la claustrofobia del posto). E una stanza dominata da un grande Risiko dell’Europa con pedine non dissimili da quelle del gioco in scatola: solo molto più grosse. Infine un piccolo ufficio che era la vera frontiera di quel bunker, dove un soldato metteva un timbro a tutto quel che usciva o entrava. Sopra la sua testa, e degli altri 349 prescelti, otto aperture nella roccia su cui potevano posarsi otto elicotteri il giorno in cui si fosse deciso di sfidare gli effetti dell’atomica mai arrivata.

Porta temporale Arrivati a Sarajevo – museo a cielo aperto del massacro seguito alla fine della Jugoslavia – c’è il Caffè Tito, dove vengono esposti oggetti e armi d’epoca: ha un’atmosfera meno datata e più glamour, nonostante i cimeli e il posto in cui si trova, a due passi da “Sniper Alley”, lo stradone su cui si accanivano i cecchini durante l’assedio della città. Quella zona, piena di palazzoni d’epoca comunista, rimanda immediatamente agli anni della Jugoslavia. Poco più in là c’è il centro sportivo Skenderija, creato ex novo per le Olimpiadi invernali del 1984 e – sebbene fatiscente – ancora utilizzato per ospitare i grandi eventi, comprese le partite della Nazionale di basket. L’ingresso sembra una porta temporale, tu entri e il XXI secolo resta fuori. Sulle alture cittadine si trova invece quel che resta degli impianti sciistici, il più famoso è la pista di bob, ormai diventata una tela per writers e un’attrazione turistica. Lì puoi vedere la grandeur sarajevese e jugoslava dell’epoca sbriciolarsi letteralmente: da centro del

sabato 4 marzo 2023 6 Ticino7 REPORTAGE TESTO DI ROBERTO SCARCELLA; FOTOGRAFIE © MONIKA PAVLOVIĆ E R. SCARCELLA

mondo e novella Olimpia a luogo dimenticato, mangiato prima dalla guerra e poi dalla natura, che si riprende i suoi spazi. Dimenticate e molto jugoslave sembrano quasi tutte le panetterie di provincia che s’incontrano andando verso Tuzla e poi in Serbia, con dentro signore anziane che sembrano sempre la stessa signora venuta dal passato.

A Belgrado si concentrano gli hotel che hanno fatto la storia della città e del Paese: il Moskva, sebbene costruito nel 1908 (in stile russo), è diventato uno dei simboli del potere, rientrando tra gli edifici direttamente controllati dallo Stato nel 1968; ancor più iconico, con quell’aria dimessa e il cemento geometrico ovunque, è l’Hotel Jugoslavija, ormai l’ombra di sé stesso, con recensioni tragicomiche su Tripadvisor e dintorni. Sta a due passi dal quartiere bohémien di Zemun e a uno dal Danubio, eppure sembra un oggetto ingombrante e dimenticato, fuori tempo massimo.

Il Treno Blu di Tito L’esperienza si può completare in uno dei tanti musei sulla Jugoslavia (a Belgrado come a Zagabria, a Dubrovnik come a Ormoz, in Slovenia), ma è ancora meglio recarsi nello scalcagnato deposito dei treni alla periferia della capitale serba: lì c’è il Treno Blu di Tito, il convoglio blindato ed extralusso usato dal Maresciallo per spostarsi. Il biglietto non si può comprare sul posto, ma in un’altra stazione, non si sa bene quale, visto che ce ne sono due con lo stesso nome. Tutt’intorno solo sterpaglie e un branco di cani semi-randagi, ormai adottati da questi lavoratori del deposito che non si capisce bene che lavoro facciano, cosa ci sia da fare lì che giustifichi un qualche stipendio. Certo, ci sarebbe da visitare il treno, ma gli orari non sono chiari, la macchina va lasciata in uno spiazzo fangoso, il biglietto – se sei riuscito a farlo – non è detto che sia quello giusto, e la guida non è detto che parli inglese. Va un po’ a fortuna, parecchio a caso. Mentre aspetti puoi farti venire il nervoso oppure prendertela comoda, annusare l’aria, come fanno i cani, vedere il tempo che scorre, come un paesaggio dal finestrino, come fanno loro: pura Jugoslavia.

‘Yugodom’

Per chi vuole soggiornare a Belgrado in un’atmosfera decadente e autentica (magari portandosi pure via un pezzo, a pagamento s’intende) deve invece andare nei dintorni di Skadarlija, un pezzo di Montmartre scivolato nei Balcani. Lì c’è quello che i suoi ideatori chiamano “stay over museum”, ovvero un museo dove si può dormire: si chiama Yugodom e ha tre stanze, ognuna arredata esattamente come si arredavano le case in Jugoslavia negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta. Ci sono orologi, lampadari e poster d’epoca, con i film che - almeno là - hanno segnato un’epoca. Nulla è lasciato al caso, tappezzeria compresa. E se c’è qualche difetto, meglio, sennò che casa jugoslava sarebbe?

A rendere l’esperienza ancor più immersiva c’è una playlist con musica d’epoca e soprattutto c’è il mobile all’ingresso dell’appartamento, una specie di espositore dove i proprietari lasciano oggetti d’epoca, ognuno con il cartellino del prezzo attaccato. Sveglie, asciugacapelli, bicchieri, tazze, tovaglie, libri, cornici: tutto è in vendita. E per quel che non lo è, si può sempre provare a fare un’offerta.

Da lì, se si vogliono fare altre compere, basta fare una passeggiata per finire da Smizla: una specie di paradiso del modernariato dove perdersi per ore: ci sono perfino i libri di scuola d’epoca e abbastanza per ricreare da zero un ambiente stile Yugodom.

A quel punto può anche venire fame: proseguendo la passeggiata si arriva a una lunga scalinata che ospita la Kafana Sfrj, vale a dire la trattoria della Jugoslavia di Tito: lì, come in molti altri locali del centro, si trova una cucina tipica fatta di ricette tradizionali, accompagnata da oggetti e soprammobili d’epoca. Mangi e Tito dal muro ti osserva, che ti faccia piacere o no. A seconda del tavolo in cui ti siedi, ti osserva anche Fidel Castro.

SOPRA: IL TUNNEL DEL BUNKER ANTI-ATOMICO DI TITO È STATO COSTRUITO TRA IL 1953 E IL 1979. DELLE 100 STANZE DEL COMPLESSO, CINQUE ERANO PER IL MARESCIALLO. SOTTO: ASCIUGACAPELLI (‘FUNZIONANTE’, VIENE INDICATO) IN VENDITA, UNO DEI TANTI SOUVENIR CHE VI POTETE PORTARE A CASA...

SOPRA: UN ANGOLO COTTURA CON TUTTO IL NECESSARIO (D’EPOCA NATURALMENTE).

SOTTO: TITO CON UN CAMMELLO REGALATOGLI PROBABILMENTE DA UNO DEI TANTI CAPI DI STATO CHE GLI FACEVANO VISITA. IL PAPPAGALLO KOKI, UN CACATUA DAL CIUFFETTO GIALLO, È INVECE UN REGALÒ CHE TITO FECE ALLA NIPOTINA SASHA E CHE OGGI È DIVENTATO IL SIMBOLO CHIACCHIERONE DELL’ISOLA.

IN BASSO: ALTRI SUPPELLETTILI DI UN TEMPO CHE FU E ALCUNE FOTOGRAFIE DI TITO CON FIDEL CASTRO APPESE AL KAFANA SFRJ DI

sabato 4 marzo 2023 7 Ticino7
SOPRA: IL TRENO BLU DI TITO È STATO INAUGURATO NEL 1946 E HA PRESO UFFICIALMENTE IL NOME (E IL COLORE) NEL 1956. MOLTI DEGLI ARREDI INTERNI RIPRENDONO IL BLU DELL'ESTERNO. IL 5 MAGGIO 1980, IL CORPO SENZA VITA DI TITO FU TRASPORTATO VIA TRENO DA LUBIANA A BELGRADO TRA DUE ALI DI FOLLA.
BELGRADO.

Orizzontali

1. Notorietà 4. Agitare, scuotere 11. Lo sono le rondini 13. Maurice, famoso per il Bolero 14. Negativo in breve 16. Svegliate 18. Località sotto il Camoghè 20. Località presso Coira 22. Regione della Libia orientale 24. Un lago presso il Cadagno 26. Liquido che unge 27. Un colubro 29. Legge sulle Imprese Artigianali 30. Colpevole pure lei 31. Centro di volo 32. Le vocali di Franco 33. Scherzi, dileggi 34. Una varietà di gomma 36. Serve per il cioccolato

37. Un undici rossonero 38. Li sostengono i candidati 40. Thomas Stearns, poeta (1888-1965) 42. Dura sessanta minuti 43. Ponte di comando della nave

45. Nascondono esche 46. Un lago so-

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pra Pesciüm 47. Simbolo chimico del sodio 49. Particella dubitativa 50. Un giorno della settimana 51. Imperava in Russia 52. Lo è chi s’è fatto la barba 53. Pira, fuoco 54. Comportamenti molto coraggiosi 56. Laura, ex consigliera di Stato 57. Saccoccia 58. Una tonalità di rosso 60. Località malcantonese 61. Località leventinese.

Verticali

1. Unisce Paradiso con la cima del San Salvatore 2. Una piazza a Bellinzona 3. Simbolo chimico dell’alluminio 4. Queste in breve 5. Un titolo di Marcel Barelli 6. Ordite, macchinate

7. Jacques, attore e regista (1907-1982)

8. Caso, fatto 9. Nota musicale 10. Una

parte di Glarona 12. Città e porto dello Yemen 15. Lo subì anche Dante Alighieri 17. Non parlare 19. Un piccolo difetto 21. Fragorosa, rumorosa 23. Il buco per il bottone 25. Località sul Ceresio 28. È ricavata dalla manioca 30. Legumi che sembrano noccioline 33. Località mesolcinese 35. Non bassi 36. Località leventinese 37. Ama Topolino 39. Si caricano sui basti 41. Immondo, lercio 43. Grande compagnia aerea USA 44. Controllo accurato 45. Eremiti 46. Una donna di Mosca 48. Località malcantonese 50. Non religioso 51. Un personaggio di Voltaire 52. Regine tra i fiori 53. Bisogno di mangiare 55. Un capo abissino 56. Sezione degli Enti Locali 59. Iniziali di Leoncavallo.

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Alpe Fümègna

Un trekking all’alpe senza padrone

Alpe Fümègna

Corte principale Corte di Fondo, 1’627 m Corti Corte di Cima, 1’810 m / Fornaa, 1’978 m / Pincascia, 1’155 m

Ubicazione Val Verzasca

Periodo carico Ca. metà giugno –ca. metà settembre

Ultimo paese Lavertezzo

Coordinate 712.182 / 127.950

Proprietà Compadroni Alpe Fumegna

Gestore Alpe non caricato al momento

Tipo formaggio Semiduro grasso, 100% latte di mucca

Altri prodotti Burro

Dicitura scalzo Fümègna

Animali Alpe non caricato al momento

Produzione Ca. mille forme/anno

Mungitura Mungitura meccanica

Caseificio Corte di Fondo (trasporto latte da Pincascia con teleferica, da Corte di Cima e Fornaa con lattedotto)

Questa volta scriviamo di un alpe storico, di quelli che ancora conservano le caratteristiche di un tempo e che dal 2020 è in cerca di un gestore. L’ultimo casaro è stato Adriano Acquistapace che ha lasciato l’alpe il 19 ottobre del 2020, appunto.

Il percorso per raggiungere l’alpe è impegnativo ma bellissimo quello che da Lavertezzo ci conduce a Fümègna, una vera e propria ascesa attraverso tutti i paesaggi classici della montagna sopracenerina: dai faggeti del fondo, attraverso i nuclei che un tempo davano rifugio alle famiglie provenienti dal fondovalle, sui saliscendi della Val Pincascia e superando rivoli e torrenti, per conquistare infine le sparute cascine di Corte di Fondo, a 1627 metri sul livello del mare. Di fronte a noi si ergono in lontananza, avvolte dal mantello verde della solenne vallata, le creste che separano la Vallemaggia dalla

Itinerario corte principale → Da «Lavertezzo» (536 m) si sale alla frazione di «Verzöö» (618 m) dove si prende il sentiero che parallelo a una strada agricola porta a «Cognera» a quota 758 m. (Si può anche percorrere la strada agricola lunga 1,2 km in auto sino a dove finisce – pochi posteggi – e da lì a piedi lungo un sentiero salire a «Cognera»). Si prosegue sul sentiero in parte lastricato che porta al maggengo di «Forno» (824 m); poco dopo si attraversa un ponte e si passa sul versante orografico sinistro della «Val d’Agro». Qualche metro dopo il ponte, invece di inoltrarsi in «Val d’Agro», si prende il sentiero di destra che porta in «Val Pincascia». Il sentiero si tiene a lungo sul fondovalle passando da «Pincascia» a quota 1’155 m (dove si trova il primo corte dell’Alpe «Fümègna») e

Verzasca, con elevazioni che spaziano dalla Cima della Trosa al Madom da Sgiof. Da qui i pascoli si estendono fino al Corte di Cima (1’810 m) e perfino oltre Fornaa (1’978 m), dischiudendo così l’intera gamma aromatica che dal sottobosco di bassa quota sale in tonalità fino all’inebriante flora alpina. Al visitatore, Corte di Cima offre uno scorcio unico sul Monte Rosa, sulla caratteristica piramide del Poncione Rosso e sul confine fra Val Verzasca e Riviera. La famiglia responsabile, storica tenutaria dell’alpe fino al 2014, si è fatta anche custode di questi aromi, producendo e stagionando con grande attenzione al dettaglio un prodotto 100% vaccino, con sentori lattici e vegetali che evolvevano col tempo verso direzioni più fruttate e animali. Oltre al formaggio, sull’alpe era possibile acquistare anche il burro, ma ora questi preziosi tesori aspettano nuovamente di essere prodotti.

«Costa» (1’404 m). Passato il torrente principale della valle si raggiunge il «Corte di Fondo» dell’Alpe «Fümègna» (1’627 m).

Sentiero bianco-rosso, 1’300 m disl., 7,2 km, 4 ore.

Strada cantonale della «Val Verzasca» sino a «Lavertezzo». Posteggi a «Lavertezzo».

Escursioni

Capanna Cornavosa: dal «Corte di Cima» (1’810 m) si percorre il sentiero per 50 metri sino ad una costruzione isolata in mezzo al prato, da qui partono due sentieri pianeggianti, si prende quello superiore che attraversa un primo torrente e sempre a mezzacosta lungo il lato sinistro orografico della «Val Pincascia» raggiunge

un caratteristico passaggio che permette di superare la cresta rocciosa che scende dalla «Cima di Precastello». Da qui si prosegue sempre in traversa sino a raggiungere la Corte di Cima dell’Alpe «Cornavosa» dove si trova l’omonima capanna (1’991 m). Sentiero bianco-rosso, 140 m disl., 2,3 km, 45 min.

Gratin di verdura

1 kg di cavolfiore, broccoli e romanesco, mondati, divisi in cimette (ne risultano ca. 800 g)

q.b. burro per i piatti o le pirofile

SALSA:

1 dl di vino bianco

3 dl di latte

2 cucchiai di farina

¾ cucchiaino di sale e pepe

q.b. poca noce moscata

1 pizzico di curry

50 g di formaggio d’Alpe grattugiato

2 cucchiai di Sbrinz

2-3 cucchiai di mandorle a scaglie,

IMPIATTAMENTO:

4 piatti resistenti al forno o piccole pirofile

Cuocere le verdure al dente nel cestello per cottura al vapore. Distribuire nei piatti o nelle pirofile imburrate.

SALSA: portare a ebollizione il vino bianco, il latte e la farina mescolando continuamente con la frusta. Cuocere a fuoco basso per 5-10 minuti, aggiungere gli ingredienti rimanenti, mescolare. Versare sulla verdura.

Cospargere con il formaggio grattugiato e mandorle a scaglie. Gratinare nella parte superiore del forno preriscaldato a 220 °C per 10-15 minuti.

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9 Ticino7 sabato 4 marzo 2023
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Toto Cutugno

Nei quarant’anni dalla sua uscita, il 4 febbraio del 1983, ‘L’italiano’ di Toto Cutugno ha superato tutte le tappe d’obbligo per diventare un classico, un po’ come certi intellettuali che secondo Alberto Arbasino passano da “bella promessa” a “solito stronzo” per poi assurgere – ma è concesso a pochi eletti – al ruolo di “venerato maestro”. ‘Lasciatemi cantare’ – così molti di noi tornano a cercarla su Spotify e affini – ha attraversato gli anni con lo stesso imprevedibile destino di un’autoradio rubata, con buona pace del protagonista che per sicurezza se la portava “sempre nella mano destra”: prima successone pop; poi malinconica reliquia d’un passato di cui vergognarsi un po’, come di certe Polaroid del matrimonio; infine opera che racchiude come nell’ambra non solo un’epoca, ma appunti per un’identità di popolo, per quanto confusa e contraddittoria.

Il segreto è la rima

Il segreto è probabilmente nelle rime, opera di quel Cristiano Minellono al quale si devono centinaia di canzoni e parecchie hit tra le quali ‘Felicità’ (Al Bano e Romina) e ‘Il gatto puzzolone’ (Zecchino d’Oro). È lì che s’incontrano l’alto e il basso dell’italianità intesa come categoria dello Spirito, lo yin e lo yang del tao nazionalpopolare: “gli spaghetti al dente” che imboccano “un partigiano come presidente” (l’immenso Sandro Pertini), l’“Italia che non si spaventa” (degli anni di piombo) ma si rade “con la crema da barba alla menta” (degli anni di Squibb). E poi quel misto di cattolicesimo da sacrestia e vittimismo che solo contraddistingue l’“italiano vero”, scrivente compreso, espresso da un distico in acrobatico equilibrio tra Giobbe e Calimero: “Buongiorno Dio / Lo sai che ci sono anch’io?”. Mentre ci si strugge – in questo costante ancheggiare tra lo spirituale e il carnale – per la lontana “Maria con gli occhi pieni di malinconia”, basta chiudere gli occhi ed è subito Alfasud, permanenti cotonate e pizzerie della provincia bavarese, là dove inossidabili paisà avrebbero garantito la sopravvivenza di Cutugno ben oltre la sua data di scadenza. E dove sarei tornato vent’anni dopo – pischello universitario con più spocchia che cultura, evidentemente traviato dalla “troppa America sui manifesti” – per inciampare nella commozione. Perché lassù c’erano ancora, il “vestito gessato sul blu” e il “canarino sopra la finestra”. E anche la “bandiera in tintoria”, sebbene la “Seicento giù di carrozzeria” fosse stata sostituita da improbabili Golf GTI – rigorosamente nere – con minigonne laterali, assetto ribassato e scarico truccato. Il riflusso, ovviamente È anche una canzone intima, ‘L’italiano’, una canzone “col caffè ristretto” e “le calze nuove nel primo cassetto”, in ossequio a quello che all’epoca si chiamava, soprattutto a sinistra, il “riflusso” nel privato. Dagli poi torto, dopo gli anni delle gonadi sfrante dagli Inti-Illimani alle Feste dell’Unità, dei “compagni dai campi e dalle officine” il cui inventore passò poi alle tivù di Berlusconi, del bombarolo che in De André rimava tragicamente con tritolo. Dopo il piombo, i cornetti caldi: l’Italia del Totocalcio e dei Bar Sport, risposta ruspante alle Case del Popolo un attimo prima che tutto, ma proprio tutto fosse inghiottito dall’edonismo berlucraxiano (anticipato d’altronde, in quello stesso 1983, dalle profetiche Vacanze di Natale dei fratelli Vanzina, coi loro bauscia “da casello a casello in un giro di Rolex”).

Una chitarra, gli spaghetti al dente e un partigiano come presidente

L’Italia, nonostante tutto

Era anche, ed è ancora, l’Italia nonostante tutto , gran titolo di quel genio che fu Edmondo Berselli. E pazienza se adesso alcuni bordi di quella cartolina si sono ingialliti, se ci pare buffo il videoclip con Cutugno tra i grissini e l’acquario d’una locanda d’emigranti, stucchevole il suo dare buffetti alle cameriere in divise tricolore e schitarrare in playback su un’aiuola davanti all’Arc du Triomphe (l’avesse fatto in Svizzera, l’avrebbero arrestato). Perché in fondo lo sappiamo che quel Toto lì – monociglio, capellone carenato, abbigliamento a metà tra un Latin lover e un meccanico poco raccomandabile – è anche noi: noi che non vogliamo più essere chiamati emigranti, ma expat. Noi che però rientriamo da Brogeda con la bagnarola in impennata per via delle provviste di mammà, ridiamo con Pasquale Amitrano e c’incazziamo se qualcuno ci dà dei badini. Noi che “lasciatemi cantareeeeeeee…”.

sabato 4 marzo 2023 11 Ticino7 COSTUME & SOCIETÀ DI LORENZO ERROI
PS: SI RINGRAZIANO PER LA PAZIENZA I COLLEGHI E VICINI DI SCRIVANIA CHE HANNO SOPPORTATO IL REITERATO ASCOLTO DE ‘L’ITALIANO’ – SPESSO CON ANNESSO KARAOKE – SENZA CHIAMARE GLI AGENTI DI POLIZIA.
TOTO INSIEME AD ALCUNI AMICI NELLA VILLA DI ADRIANO CELENTANO. TRA ESSI MEMO DITTONGO COL PALLONE SOTTOBRACCIO E, IN BASSO DA SINISTRA, GIACOMO E ADRIANO CELENTANO, E CRISTIANO MINELLONO (AUTORE DEL TESTO). Guarda e canta ‘L’italiano’

La meraviglia del lamento

Non i mesi di vacanza d’estate, l’entusiasmo per il carnevale, la garanzia di avere sempre qualcosa di impacchettato a dovere per Natale e per il compleanno. Non le figurine, i fumetti, il metabolismo amico. Tra le beatitudini di cui possono godere i bambini non c’è solo tutto questo, ma prima di tutto e soprattutto l’aver diritto a fare i capricci. Sbattere i pugni sul tavolo e avere una sorella minore con cui prendersela. Tirare calci contro il niente, stropicciare i cuscini e maltrattare il divano. Inveire ripetutamente contro le ingiustizie dei maestri, i dispetti degli amici. Piangere, frignare. Puntare i piedi contro l’ingiustizia degli adulti. A mia figlia in crisi di pianto per la paura del dentista (che di lì a poco le avrebbe tolto un dente) ho offerto un abbraccio, perché pare che le mamme servano a questo, e insieme a quello un treno carico di invidia.

Come ogni brava madre avrei preso volentieri il suo dolore sulle mie spalle, ma ancor più volentieri avrei rivendicato per me stessa la possibilità di piangere e strillare. La possibilità di farlo non solo da piccoli, quando farlo è concesso, tollerato e addirittura incoraggiato. Dai spazio alle tue emozioni, non tenerle dentro, siamo soliti dire alle creature. Leggiamo loro libri

Daisy Jones & the Six Gioie e dolori di una rock band

Fin dal momento della nostra nascita non riusciamo a comprendere il mondo. In quei primi istanti, forse, a stupirci era l’aria, lo spazio, l’improvvisa luce, la mancanza di tutto ciò che sembrava eterno nel ventre di nostra madre. Poi l’impressione viene confermata negli anni successivi. Tutto è disordinato, confuso, le cose si mischiano l’una con l’altra; e non è mai possibile dire: io sono proprio qui. Suppongo che sia anche per questo che hanno inventato la geometria. Quelle linee tracciate dall’insegnante sulla lavagna, quegli angoli da calcolare con precisione e quelle circonferenze in qualche modo riparano il caos del mondo. A volte, camminando per le strade della mia città, mi capita di vivere un “momento geometria” (li chiamo così). In questo parco nuovo e arioso, per esempio, vedo la forma dell’albero diritta, perpendicolare alla panchina bassa, parallela alle finestre del palazzo sullo sfondo. Sembra un problema scritto alla lavagna: fin troppo perfetto. Per fortuna poi ci sono io, storto, sregolato, e quando mi siedo sulla panchina il mondo torna quello di sempre.

SOPRA LA PANCA

TESTO E FOTOGRAFIA © ANDREA FAZIOLI

su libri che parlano del fatto che non si debba censurare nulla di ciò che si prova.

Poi un giorno ti ritrovi adulto e questo significa che non sai più le date esatte del Carnevale, che non fai merenda alle quattro, che chi ti fa un regalo per il compleanno non lo incarta. E soprattutto che non puoi piangere e frignare quando ti pare e piace. Perché se anche provi a farlo c’è sempre qualcuno che ti ricorda che lamentarsi non serve a niente ed è certamente più adulto utilizzare il proprio tempo e i propri sforzi a trovare delle soluzioni anziché frignare prendendosela con il niente. “Mamma a me piace tanto lamentarmi”, dice mia figlia ogni giorno quando racconta, per almeno 3-4 volte, un qualche litigio avvenuto a scuola. Ora, immaginate di avere la possibilità di inveire e sbattere i piedi contro tutte le ingiustizie. Contro i falsi, gli antipatici, i capi che non si prendono le proprie responsabilità e i colleghi insopportabili.

Immaginate, soprattutto, di poter piangere mezza giornata per la paura di andare dal dentista. Non sarebbe, semplicemente, tanto inutile quanto meraviglioso?

ALTRI SCHERMI

UNA FAMA IMPROVVISA

Nel 1977, Daisy Jones & The Six erano un fenomeno mondiale. Guidata da due carismatici cantanti

- Daisy Jones (Riley Keough) e Billy Dunne (Sam Claflin) - la band era passata dall’oscurità alla fama. E poi, dopo uno spettacolo da tutto esaurito al Soldier Field di Chicago, decisero di sciogliersi. Ora, decenni dopo, i membri del gruppo accettano finalmente di rivelare la verità. Questa è la storia di come una band iconica è implosa al culmine del suo successo. La serie ha debuttato ieri su Prime Video con i primi tre episodi.

MAI SENTITI….

“La loro musica li rese famosi, la loro rottura li trasformò in leggenda” recita il comunicato stampa per la presentazione della serie, eppure chi li hai mai sentiti nominare? In realtà non sono mai esistiti e la serie Daisy Jones & The Six è basata sull’omonimo romanzo best-seller della scrittrice americana Taylor Jenkins Reid che racconta gli alti e bassi di un gruppo rock immaginario degli anni Settanta. La band in occasione dell’uscita delle serie ha preso però vita incidendo un album con contributi, tra gli altri, di Jackson Browne.

IL BELLO IL BRUTTO DEI ’70

Senza sminuire l’iconico “Sesso, droga e Rock & Roll” che permea il periodo, la serie vuole esplorare la chimica dapprima costruttiva e in seguito corrosiva che caratterizza la nascita e il successivo crollo di una band. L’autrice Taylor Jenkins Reid ha dichiarato di aver preso spunto per il suo romanzo dalle vicende del gruppo rock britannico-americano Fleetwood Mac, che nel 1977 registrò il suo undicesimo album, Rumors, ottenendo un successo planetario, caratterizzato però da forti attriti all’interno del gruppo.

NIPOTE DI ELVIS

Il ruolo della carismatica cantante

Coordinate: 2’721’908.1; 1’116’650.3

Comodità: ★☆☆☆☆ Vista: ★★☆☆☆

Ideale per… pensare alla geometria.

Daisy Jones è stato affidato a Riley Keough, figlia di Lisa Marie Presley e Danny Keough. Lisa Marie, unica figlia di Elvis Presley è morta lo scorso gennaio proprio dopo aver partecipato ai Golden Globes per la premiazione del film biografico di Baz Luhrmann su suo padre Elvis. La nipote maggiore del re del rock and roll non è nuova al ruolo di una cantante rock, nel 2010, all’età di 20 anni, Riley ha recitato in The Runaways basato sull’omonima rock band di sole ragazze degli anni Settanta.

sabato 4 marzo 2023 12 Ticino7
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IN PRIMO PIANO

Scopriamo chi sono i Sognatori

Il programma dedicato a chi ha saputo reinventarsi approda anche in TV

In un momento di grande crisi si riconoscono i Sognatori Sono quelli che non mollano, quelli che si reinventano, quelli che in ogni momento della giornata cercano di trovare rima alla parola “resilienza”.

A farci strada in questo viaggio ci sarà lui, il padrone di casa, Fabrizio Casati, accompagnato da Axel Belloni e il life coach Filippo Ongaro Un team poliedrico che scaverà nelle vite delle e dei protagonisti per raccontarci tutti i dettagli e i retroscena delle loro imprese.

Il triennio 2020-2022 ha portato grossi cambiamenti al nostro modo di essere umani: famiglia, lavoro, rapporti interpersonali...

Ogni aspetto della nostra vita ha cambiato forma, si è frantumato, e c’è chi ancora tenta di rimettere insieme i pezzi.

Non da ultimo, la pandemia ha messo in ginocchio l’economia di tutto il mondo, poi è arrivata anche la guerra.

Ma c’è sempre speranza per chi sogna. Si trova sempre il modo per riprendersi, lo si trova dentro ognuno di noi, è un modo per dare fiato alla voce che da anni suggerisce “cambia vita, ascoltati e scopri cosa ami fare, trasformalo in qualcosa di concreto!”

Dietro ogni sognatrice e sognatore c’è una storia, e siamo qui per raccontarla.

Con il team del programma entreremo nelle vite di otto neoimprenditori. Scopriremo chi erano prima, chi sono adesso, chi li sostiene, chi al contrario li sconsiglia. La loro immaginazione, i sogni che finalmente volano via dai cassetti, parole di incoraggiamento, frustrazione, momenti belli e meno belli. Ingredienti che caratterizzano un racconto degno di essere narrato.

Ogni settimana racconteremo la storia di due di loro, seguendone il percorso, le difficoltà, la crescita personale. Affiancati da un piccolo team di esperti che contribuiranno ad aiutarli nelle varie tappe del loro progetto – dal superamento dei limiti personali all’aiuto negli aspetti più concreti – i nostri protagonisti capiranno chi sono, e che la resilienza nasce e si nutre sempre in noi stessi.

Cliché: la terza stagione

Riprende il viaggio nel nostro immaginario di Cliché, il magazine culturale della RSI di e con Lorenzo Buccella, che di puntata in puntata cerca di rovesciare i luoghi comuni di cui molti nostri concetti si ammantano.

Sei temi – sporco, taglio, solitudine, muro, ombra e gola – verranno declinati nei modi più svariati con un approccio narrativo innovativo. Anche quest’anno verrà collegato a ogni tema un film della mezzanotte: Cattive acque, Ghost Dog – Il codice del samurai, Cast Away, Insyriated, The Wife – Vivere nell’ombra e La cuoca del presidente

Il nuovo ciclo ripartirà in un racconto a più voci, partendo dalla parola “sporco”, da ciò che s’infila negli angoli più quotidiani della nostra vita. L’attrice Lella Costa ci condurrà a scoprire i luoghi dove si rintanano le nostre sporcizie, mentre con la scrittrice Chiara Tagliaferri rovisteremo tra i veleni che si insinuano nei rapporti umani e personali e nelle storie di famiglia.

Partecipa al casting

Ami la montagna, conosci i laghetti alpini e hai voglia di raccontarci la tua passione? Iscriviti ai casting, singolarmente oppure in coppia con qualcuno. Ti stiamo aspettando!

RSI apre il casting per la prossima stagione del suo programma dedicato all’alta montagna. Le selezioni si terranno nei fine settimana del 18-19 marzo, del 25-26 marzo e del 1-2 aprile

Dopo il successo de La via Idra, di In cammino sul crinale, In cammino sulle creste e di In cammino tra i ghiacciai, la produzione RSI dedicata alla montagna porterà quest’estate le e i partecipanti a scoprire le gemme incastonate nelle nostre Alpi: i laghetti.

Le riprese si svolgeranno tra giugno e settembre 2023 Il termine per l’invio della propria candidatura è l’8 marzo Per partecipare sono richieste: una spiccata passione per la montagna e una buona condizione fisica.

Iscriviti al casting su rsi.ch/partecipa

A tutto rock con i Verdena

Con Edith Bruck, la scrittrice ungherese sopravvissuta ad Auschwitz, entreremo nel buio più terribile della storia del secolo scorso: l’Olocausto.

Ma il viaggio di Cliché non si ferma alle interviste. Tommaso Soldini, nel suo monologo, ci presenterà e commenterà un classico della letteratura entrato a far parte del nostro immaginario, Il Profumo, di Patrick Süskind Seguirà il film a tema Cattive acque, di Todd Haynes.

Lo Studio 2 RSI di Lugano-Besso apre le porte a una rock band italiana dalla lunga storia intensa e di grande qualità artistica.

I Verdena ci regaleranno un’esibizione carica di suono e significato.

Il gruppo nasce nel 1995 grazie ai fratelli Alberto (voce, chitarra) e Luca Ferrari (batteria) e la chitarrista Roberta Sammarelli Nel settembre 1999 esce il loro album di debutto, Valvonauta, prodotto da Giorgio Canali. Dopo sei album e diverse tournée di successo, nel gennaio 2022 la band presenta America Latina, una raccolta di brani strumentali composti e orchestrati per la colonna sonora dell’omonimo film dei fratelli D’Innocenzo. A settembre, sempre del 2022, tornano con Volevo Magia, il loro ultimo album in perfetto stile Verdena

Il concerto sarà visibile anche in diretta su rsi. ch/streaming e prossimamente su Rete Tre.

Vi ricordiamo inoltre che oggi, sabato 4 marzo, alle 20.00 avrà luogo la serata omaggio a Lucio Dalla all’Auditorio Stelio Molo RSI di Lugano-Besso e potrà essere seguita in diretta su rsi.ch/streaming.

Da mercoledì 8 marzo alle 21.55 circa su LA 1

Entrata gratuita con prenotazione su rsi.ch/eventi

#ShowcaseRSI

Venerdì 10 marzo alle 20.00

Studio 2 RSI, Lugano-Besso

sabato 4 marzo 2023 Ticino7 • Programma Radio&TV • dal 5.3 all’11.3 13
sabato 4 marzo alle 20.40 su LA 1 e alle 8.30 su Rete Uno
Da
... alla scoperta dei laghetti alpini
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