Ticino 7 N07

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Occupazione: alla ricerca del minimo sforzo

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A Sergio. Un ricordo personale

Ci sono persone che entrano nella tua vita e te la cambiano. Di solito è una questione di cuore e di sentimenti; altre volte toccano ambiti meno romantici, ma di certo non meno profondi e intimi. Come la passione per uno sport, la scoperta di un hobby o l’amore per un mestiere. Pochi giorni prima della morte dell’editore Libero Casagrande, il mondo del libro ha perduto Sergio Quarta, storico libraio di Giubiasco che nella sua personalissima Libreria Quarta ha ascoltato, consigliato, cresciuto e fatto sognare migliaia di lettori. Per alcuni un po’ burbero, di certo schietto, diretto, generoso e di grande onestà, un po’ filosofo un po’ psicologo, formatosi nel mondo della tecnica ma con i libri e la curiosità nel cuore, ho avuto il piacere di trascorrere buona parte degli anni Novanta (quelli migliori, quelli della giovinezza) lavorando tra gli scaffali e la moquette

di quello spazio a due passi da Piazza Grande. Più che un negozio, in verità, era casa sua, con quell’inconfondibile profumo di bidi e le note di Leonard Cohen. Le sue camicie di jeans, il foulard al collo e un libro sempre sottomano (al bar, in auto, ovunque). E poi quella passione per la fantascienza e il fantasy (quando in Ticino certe cose della Fanucci e delle Edizioni Nord non le trovavi proprio), Sergio è stato un vero punto di riferimento e una fonte di conoscenza per molti (tutti) i librai del nostro cantone, mentre internet era una promessa e i libri dovevi cercarteli e leggerli per davvero se volevi poi consigliarli. Sergio e l’inseparabile Silvia, senza la quale la sua miracolosa libreria forse non sarebbe mai stata quel luogo un po’ magico e un po’ alieno fatto di silenzi, pagine aperte, poche parole ma molti confronti. E tanti, tanti bellissimi ricordi.

sabato 18 febbraio 2023 1 Ticino7 numero 7 DI GIANCARLO FORNASIER

LAVORO & IMPIEGO Andarsene rimanendo: dalle Grandi Dimissioni al

Quest’anno, il meeting del World Economic Forum di Davos dello scorso gennaio aveva un titolo suggestivo: “Cooperation in a Fragmented World” (Cooperazione in un mondo frammentato) con riferimento alle “molteplici crisi che stanno approfondendo le divisioni e segmentando il paesaggio geopolitico”. Significativamente, oltre che di energia, ambiente, inflazione e guerra, si è parlato anche di “quiet quitting”. Dico “significativamente”, perché tendo a pensare che le crisi dei macrosistemi procedano da crisi interiori, psicologiche, morali; crisi individuali che si sommano e si condensano fino a raggiungere una massa critica che le trasforma in fenomeni collettivi.

Tradotta talvolta come “dimissioni silenziose”, l’espressione quiet quitting si riferisce alla tendenza – certo non nuova, ma che parrebbe essere in crescita – a svolgere sul lavoro soltanto lo stretto necessario, limitandosi cioè a fare quanto previsto dal contratto (entro le ore previste dal contratto) evitando programmaticamente straordinari, responsabilità e qualunque manifestazione di quello che una volta si sarebbe chiamato “spirito d’iniziativa”. Un’ulteriore estremizzazione del quiet quitting è invece rappresentato dal “coasting”, ovvero l’attitudine a “costeggiare” il lavoro sfiorandolo soltanto, facendo quindi il minimo indispensabile per non venire licenziati e incassare lo stipendio ogni mese.

QUIET QUITTING

Sai che novità…

Potrebbe commentare qualcuno che non si tratta di nulla di nuovo: in fondo, quelli che sul lavoro “tirano a campare” ci sono sempre stati. Vero, ma in questo caso non si tratterebbe semplicemente dell’attitudine, più o meno congenita, a schivare la fatica. Il quiet quitting sarebbe espressione del progressivo scollamento del sistema valoriale degli individui da quello proposto (o imposto) dai contesti organizzativi: una divaricazione che polarizza il mercato del lavoro in maniera sempre più netta e apparentemente inconciliabile. Da una parte, la cosiddetta hustle culture che predica la virtù intrinseca del lavorare costantemente, alacremente, con impegno ed energia al fine di perseguire i propri obiettivi e “fare la differenza”, con tutto il corredo di retorica motivazionale al seguito (cfr. Elon Musk: “Ci sono senz’altro contesti più facili in cui lavorare [con riferimento a Tesla], ma nessuno ha mai cambiato il mondo lavorando [soltanto] quaranta ore alla settimana”). Dall’altra, un sentire sempre più diffuso, soprattutto presso le generazioni più giovani, caratterizzato dalla perdita di credibilità di un impianto esistenziale basato prevalentemente sul lavoro – visto anche gli effetti che produce a livello ambientale e di salute individuale – e la ricerca di un maggiore equilibrio rispetto a ciò che lavoro non è... oppure non dovrebbe essere (interessi, affetti, appartenenza eccetera).

Cambio

di mentalità

Non a caso, il quiet quitting è stato associato al fenomeno delle “Grandi dimissioni”, di cui si è parlato in queste pagine più volte (si veda, per esempio, in Ticino7 n. 5/2022), quasi i due trend fossero manifestazioni di un unico movimento evolutivo, o involutivo, a seconda dei punti di vista... La pensa così Adam Grant, psicologo delle organizzazioni intervenuto appunto a Davos lo scorso gennaio: “Credo che in qualche modo il quiet quitting sia la naturale conseguenza delle ‘Grandi dimissioni’ […] Alla fine, dopo avere provato a cambiare lavoro, o la propria situazione, senza riuscirci, è come se alcuni lavoratori si fossero detti, visto che non posso andarmene fisicamente, mi assenterò mentalmente per un po’ ”. (“Quiet Quitting and the Meaning of Work” in weforum.org, 17.1.2023). Allo stesso tavolo, Thierry Delaporte, CEO di Wipro Limited, aggiunge: “Una delle ragioni per le quali le persone potrebbero essere un po’ meno ingaggiate nel proprio lavoro di quanto lo fossero prima o di quanto vorrebbero esserlo è costituita dalla difficoltà a conciliare l’attività professionale con la vita privata” (Ibidem). In altri termini, più che una disaffezione al lavoro in sé, il quiet quitting sarebbe una reazione alle giornate lavorative troppo lunghe, al tempo extra che non viene retribuito e alla richiesta, il più delle volte implicita, di una reperibilità continua. “In molti casi, i lavoratori stanno ridefinendo cosa il lavoro significhi per loro e quanto spazio dovrebbe occupare nelle loro vite” (A. Christian, “Why ‘quiet quitting’ is nothing new”, BBC Worklife, 29.8.2022). Un esempio particolarmente eclatante di questo “cambio di mentalità” è rappresentato dalle recenti dimissioni di Jacinda Ardern dal ruolo di primo ministro della Nuova Zelanda, una scelta che ha suscitato molti commenti nell’ambito dell’attuale dibattito. La quarantaduenne ex primo ministro, che ha guidato il Paese negli ultimi cinque anni attraverso la peggiore sparatoria di massa avvenuta in Nuova Zelanda, un’eruzione vulcanica e la pandemia da Covid-19, ha affermato lo scorso 19 gennaio di non avere più “abbastanza benzina nel serbatoio” per rendere giustizia al suo lavoro: “I politici sono umani. Diamo tutto quello che possiamo, più a lungo che possiamo, e poi viene il momento di lasciare. Per me, quel momento è arrivato”. Il fatto che Ardern sia diventata

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L’APPROFONDIMENTO DI MARIELLA DAL
FARRA; ILLUSTRAZIONI © SHUTTERSTOCK
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“... nessuno ha mai cambiato il mondo lavorando quaranta ore alla settimana”

madre durante il mandato ha spinto molti a interpretare la sua decisione come determinata da un burn-out da super lavoro (considerato anche il doppio ruolo), ma è sempre più difficile tracciare la linea di demarcazione fra esaurimento professionale e una più ampia ridefinizione del bilanciamento fra impegno lavorativo e vita privata.

ha alimentato il senso d’insicurezza di molti manager, e gli esperti sostengono che la pandemia abbia dato origine a una nuova generazione di capi-elicottero” (in assonanza ai ben noti genitori-elicottero, quelli che sorvegliano costantemente i propri figli dall’alto, per così dire, delle nuove tecnologie: GPS, telefono, social eccetera; M. Tatum, “The remote ‘helicopter bosses’ who stunt worker resilience”, BBC Worklife, 1.12.2022).

Da uno studio pubblicato nel luglio del 2020 sulla Harvard Business Review (S.K. Parker et al. “Remote managers are having trust issues”, 30.7.2022) condotto su un campione di 1’200 lavoratori residenti in ventiquattro Paesi, risulta che un quinto delle persone che lavorano in smart-working sentono che i propri responsabili controllano costantemente il loro operato, mentre un terzo riporta commenti che evidenziano mancanza di fiducia nelle loro capacità lavorative. Coerentemente, lo stesso studio evidenzia come il 38% dei manager intervistati senta che il lavoro da casa sia meno produttivo di quello svolto in sede e il 40% nutre seri dubbi sulla capacità dei propri collaboratori di gestirsi autonomamente da remoto. Tuttavia, “i lavoratori in smartworking che si sentono ‘micro-gestiti’ dai loro referenti sono meno coinvolti, meno motivati e meno capaci che mai”. “[…] Nell’epoca del lavoro da remoto, [l’effetto] è amplificato perché le persone sono già fisicamente disconnesse dall’azienda e dai colleghi, e la micro-gestione non fa che aumentare questo senso di demotivazione” (M. Tatum, BBC Worklife, 1.12.2022).

I dolori dei ‘capi-elicottero’ Che si tratti di un cambio di sensibilità che ha consentito di parlare più apertamente di “burn-out” o di una “visione del mondo” che si sta modificando, la pandemia sembra avere funzionato come un potente catalizzatore facendo emergere tendenze che fino a poco tempo prima agivano ancora sotto soglia. Prendiamo per esempio il caso del “micromanagement”, o “micro-gestione”: un approccio manageriale che consiste nel controllare minuziosamente la produttività dei propri collaboratori attraverso continue richieste di resoconti, chiamate, mail, briefing molto dettagliati e lunghe riunioni. Analogamente al quiet quitting, neppure la micro-gestione è un fenomeno nuovo: “I capi che monitorano attentamente lo staff ci sono sempre stati. Ma l’aumento dei lavoratori che operano da remoto

Dal quiet QUITTING al quiet DUMPING

Si può fare quiet quitting anche nelle relazioni e... No, non è una bella cosa. Si chiama quiet dumping (“piantare silenziosamente”) e consiste nello stare con qualcuno ma facendo soltanto il minimo indispensabile per non farsi lasciare. Il primo a parlarne è stato Daniel Hentschel su TikTok, a cui rimandiamo per tutte le specifiche del caso.

Effetti della “grossa crisi” Dal disinvestimento al fare il minimo necessario (quiet quitting) il passo è breve; poco più lungo quello che porta alle dimissioni vere e proprie. Insomma, “c’è grossa crisi” come direbbe Guzzanti, oppure è in atto un cambiamento del paradigma culturale; e l’esigenza che sembra emergere, in maniera trasversale, è quella di un atteggiamento più responsabile. Se il quiet quitting rappresenta una risposta funzionale a un contesto lavorativo disfunzionale, allora c’è un solo modo per uscirne: promuovendo un clima improntato al rispetto, alla fiducia e alla collaborazione reciproci, nella chiarezza di regole esplicite che prevengano abusi da una parte e scantonamenti dall'altra.

Riaccendere la scintilla

Anche senza raggiungere i livelli di demotivazione che possono portare a una condotta da quiet quitter, è vero che il grado d’impegno sul lavoro può talvolta subire delle deflessioni, anche quando si tratta di un’attività che abbiamo scelto e che ci interessa particolarmente. Un periodo di stanchezza, motivi di preoccupazione contingenti, la nostra stessa tendenza ad appiattirci su prassi già consolidate concorrono a farci sentire meno ingaggiati e “curiosi”. In questi casi, è possibile ricorrere a delle strategie, come suggerisce anche una ricerca condotta di recente sul tema (Chen, P. et al., “Fanning the flames of passion: A develop mindset predicts strategy-use intentions to cultivate passion” in Frontiers in Psychology, 2021). Alcune di queste sono:

Soffermarsi sull’importanza rivestita dal proprio lavoro sul piano personale, per esempio in termini economici (mi consente di essere autonomo/a, di realizzare dei progetti), esistenziali (conferisce uno scopo a quello che faccio; mi permette di convogliare il mio potenziale), o altro.

Soffermarsi sull’importanza rivestita dal proprio lavoro sul piano sociale, con riferimento alle implicazioni o ricadute sulla collettività (feedback ricevuti da utenti, colleghi, superiori; valori fondativi dell’azienda o dell’attività svolta).

Imparare a fare bene qualcosa, diventare “bravi”, ampliare e migliorare le proprie competenze: svolgere un compito “a regola d’arte”, qualunque esso sia, dall’apparecchiare una tavola all’eseguire un’operazione di matematica strutturale, tende infatti ad essere sperimentato come intrinsecamente soddisfacente.

Individuare mentori, predecessori/precursori o colleghi che possano ispirarci e motivarci per rispecchiamento.

Variare l’ambiente fisico in cui lavoriamo: ufficio, casa, postazioni di co-working, al chiuso o all’aperto... alternare gli “sfondi” ci aiuta a vedere meglio la “figura” in primo piano.

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“Diamo tutto quello che possiamo, più a lungo che possiamo, e poi viene il momento di lasciare”

Marie Lise Devrel

Nata nel 1961 a Istanbul, in Turchia, si trasferisce con la sua famiglia all’età di 5 anni prima in Italia e in seguito a Mendrisio, dove frequenta le scuole fino al liceo. Si ricorda di essere stata accolta con molta curiosità dai compagni di scuola, poco abituati all’epoca alla presenza di stranieri, ma anche con molto calore. Dopo gli studi di assistente sociale presso la Facoltà di lettere dell’Università di Friborgo, decide di consacrarsi a Dio in una comunità di laici, quella dei Focolari, conosciuta nel 1974. Trascorsi due anni di formazione nella casa madre di Loppiano, in Toscana, le viene proposto di far parte del Focolare di Atene, dove rimarrà per vent’anni; in seguito trascorre altri due in quello di Istanbul. Dal 2014 vive nel Focolare del Libano, vicino a Beirut. È impegnata nel sostegno a distanza (che tocca circa 300 famiglie) e nellʼIstituto IRAP, uno dei primi centri destinati ai bambini audiolesi in Libano.

“Non è facile spiegare cosa sia una missionaria laica”, mi risponde Marie Lise Devrel a precisa domanda quando la raggiungo a Beirut. “Forse perché questa parola mi fa pensare, il più delle volte, a qualcuno che parte per evangelizzare in un altro Paese. Ma l’esempio di Biagio Conte, il missionario laico scomparso lo scorso gennaio, per me è la migliore risposta. Fratel Biagio, come lo chiamavano, è rimasto nella sua Palermo, alla quale ha voluto dare un volto umano. Per me, missionario è chi sta vicino a colui che si sente lontano, per le sue condizioni di vita o perché sta passando un momento difficile. Lo esprime bene Chiara Lubich in una meditazione nella quale dice tra l’altro: “Penetrare nella più alta contemplazione e rimanere mescolati fra tutti, uomo accanto a uomo”.

Il trasferimento a Beirut

Dopo due anni a Istanbul, nel 2014 una nuova svolta. “Inaspettatamente mi è stato chiesto dal centro del movimento se fossi disposta a trasferirmi a Beirut. Grande gioia e sorpresa! Il Libano lo avevo infatti sempre nel cuore, in particolare perché durante i nostri incontri internazionali avevo conosciuto diversi giovani libanesi che con le loro esperienze di vita sotto le bombe durante la guerra civile (tra il 1975 e il 1990) mi avevano toccato per la loro fede e il loro impegno in favore dei più bisognosi. E così vedevo realizzarsi un sogno – quasi dimenticato – che avevo messo in un cassetto. In Libano la mia attività principale è all’IRAP (Institut de rééducation audio-phonétique), che non è solo un istituto per bambini audiolesi, ma una realtà impegnata in moltissimi altri ambiti, ad esempio in corsi di doposcuola, formazione socio-professionale, un asilo nido, animazioni per i giovani, laboratori protetti destinati in particolare ai più indigenti per permettere loro di integrarsi nel mondo del lavoro, sviluppare le proprie capacità ed essere indipendenti, tutto questo nell’ambito di una naturale convivenza e collaborazione tra cristiani e musulmani”.

E su questo bell’albero, ricco di frutti, si è innestato anche il cosiddetto sostegno a distanza. “È nato proprio durante gli anni della guerra civile, per lasciare i bambini nelle loro famiglie, aiutandoli nel contempo a crescere con dignità. Esso consiste nel dare la possibilità a delle famiglie di aiutare economicamente questi bambini per gli studi o altre necessità. Ma quasi più importante dell’aiuto economico è l’amicizia che si crea attraverso la corrispondenza e lo scambio di doni e di preghiere. È un progetto che realizziamo attraverso AFN onlus (per saperne di più: afnonlus.org), rappresentato anche in Ticino”.

La tragica situazione del Paese

Il movimento dei Focolari

Chiara Lubich (1924-2008) è certamente un personaggio importante nella vita di Marie Lise. È stata infatti lei a fondare il movimento dei Focolari nel 1943, movimento attraverso il quale la nostra interlocutrice ha consacrato la sua vita a Dio. “Già nell’adolescenza avevo conosciuto i Focolari, che mi hanno fatto scoprire come vivere nel quotidiano le parole di Gesù. Quello che mi ha pure attirato è stato l’aspetto comunitario – molto spiccato – con il quale si cerca di realizzare il testamento di Gesù: “Che tutti siano uno”. Con il passare degli anni, dopo diverse esperienze che mi hanno fatto vedere la bellezza di tutte le vocazioni, dal matrimonio a una vita anche più ritirata in un convento di clausura, si è fatta chiara in me la chiamata al Focolare. Essere in mezzo al mondo come tutti, lavorando, studiando, pulendo la casa, invitando amici, insomma una vita normale a cui però l’amore reciproco fra i membri della comunità, e la presenza del Risorto che cammina ancora oggi con noi, danno un senso completo, in tutti i campi in cui ciascuno è chiamato ad operare”.

Una parte importante della sua vita, Marie Lise Devrel l’ha trascorsa nel Focolare di Atene: “Oltre a condividere la vita quotidiana delle persone con le quali ero in contatto, mi sono occupata anche dei più diseredati, con delle attività che abbiamo portato avanti soprattutto con i giovani. Inoltre, vista la configurazione della Grecia, molto importante è stato il dialogo ecumenico con gli ortodossi e forse questo è stato l’aspetto che ha richiesto lo sforzo più grande da parte mia e delle altre persone della comunità. Dopo vent’anni è stato bello vedere i tanti passi che sono stati compiuti: posso dire che si è passati dalla diffidenza, dovuta spesso a pregiudizi, al desiderio di conoscersi realmente e personalmente, fino ad arrivare a dare una testimonianza comune dell’amore che ci unisce malgrado le diversità, che diventano così un arricchimento reciproco”.

Il 4 agosto 2020, Beirut fu devastata da un’esplosione nell’area del porto che fece 220 morti e 7’000 feriti, e provocò ingentissimi danni. Marie Lise Devrel conserva ancora un ricordo molto vivo di quella tragedia, che ha vissuto in prima persona e che l’ha profondamente segnata. Da allora, anche a causa della pandemia, il Libano, che tra l’altro porta il peso di due milioni di profughi tra siriani e palestinesi, sta vivendo una situazione politica e socio-economica a dir poco drammatica. Eppure lei vi vede anche segni di speranza: “Dobbiamo avere l’audacia della speranza. Senza di essa, il mio essere qui cercando di portare aiuto e incoraggiamento non avrebbe alcun senso. Certo, da un punto di vista politico potrei essere delusa: un Paese da tempo senza presidente in carica e senza la volontà di arrivare a un accordo dimostra di per sé la difficoltà di essere unito e di voler uscire dalla crisi. D’altra parte, però, quello che vivo quotidianamente mi fa scoprire un’altra faccia del Libano, quella della solidarietà in mezzo a mille problemi quotidiani”.

I legami con il Ticino

Marie-Lise è assente ormai da moltissimi anni dal Ticino, ma conserva solidi legami con questo cantone... “Sì, sia attraverso la mia famiglia sia con i molti amici che ritrovo con piacere ogni volta che torno in Ticino e che – dando prova di una grande sensibilità – mi riempiono in tanti modi di aiuti finanziari e materiali per quella martoriata popolazione. A loro vada la mia più profonda gratitudine”.

Al termine di questa arricchente conversazione, non posso nascondere la mia ammirazione per una persona che si impegna quotidianamente e con tutte le sue forze per i più bisognosi. Un bell’esempio per molti di noi, non c’è che dire!

sabato 18 febbraio 2023 5 Ticino7 INCONTRI DI GINO DRIUSSI; FOTO PRINCIPALE © M. L. DEVREL
5 AGOSTO 2020: VOLONTARI LIBANESI AIUTANO NEL POST-ESPLOSIONE DI BEIRUT.
“Dobbiamo avere l’audacia della speranza. Senza di essa, il mio essere qui cercando di portare aiuto e incoraggiamento non avrebbe alcun senso”

ASINO CHI LEGGE

“Accipicchia! E così lei è un poeta? E, ci dica, le piace scrivere poesie? Ne scrive molte?”. Il giovane Mike Bongiorno era appena sbarcato dall’America e non aveva la più pallida idea di chi fosse Giuseppe Ungaretti. E inoltre non conosceva il francese: quando gli piazzarono davanti al microfono il regista Marcel Carné – che per parte sua non spiccicava una parola in italiano –l’intervista si risolse in un patetico dialogo tra sordi. I dirigenti della neonata televisione italiana si raccomandarono allora che gli ospiti della trasmissione Arrivi e partenze (1953-1955) fossero italofoni o, tutt’al più, anglofoni. Ma l’autore dell’emissione, quella lenza di Ugo Gregoretti, escogitò una delle gregorettate per le quali si stava guadagnando la fama del guascone ingestibile: scrisse ai superiori di aver saputo da fonte attendibile che il celebre pittore aragonese Francisco Goya – autore di capolavori come la ‘Maja desnuda’ e il ‘Ritratto dell’infanta Maria Josefa’ – si trovava a Roma in stretto incognito ma, incuriosito dalla televisione, che in Spagna ancora non c’era, si sarebbe fatto intervistare volentieri, però in castigliano, non parlando purtroppo altre lingue. La risposta, sussiegosa e imbarazzata, fu più o meno questa: onorati dalla disponibilità del maestro Goya, la cui importanza nella pittura contemporanea è a tutti nota, non possiamo tuttavia invitarlo per ragioni tecnico-linguistiche.

Cubisti che non lo erano

Pochi anni dopo, un altro spagnolo, lo scrittore Max Aub, ne combina una peggiore: pubblica la monografia di un altro pittore, il cubista Jusep Torres Campalans, amico di Picasso e della sua cerchia. Aub lo incontra casualmente in Messico, lo intervista e ne ricostruisce la biografia, l’estetica e le vicissitudini, inquadrandole nella storia degli avvenimenti artistici, letterari e musicali a cavallo tra il XIX e il XX secolo, corredando il tutto con riproduzioni delle sue opere più rappresentative. Il libro scatena l’entusiasmo degli storici dell’arte: alla riscoperta del pittore dimenticato fanno seguito mostre, articoli, saggi accademici. A nulla valgono gli avvertimenti e gli indizi disseminati da Aub (dopo una citazione di Gracián, il libro si apre con una frase, “Come può esserci verità senza bugia?”, attribuita al fantomatico Santiago de Alvarado; poco più avanti, nel prologo è maliziosamente scritto: “Gli amanti delle prefazioni – ce n’è di quelli che si sforzano di scoprirvi quel che non è del tutto scoperto nei libri – si rifacciano pure alla migliore di tutte: quella del Don Chisciotte”), che confesserà di essersi inventato tutto e di aver dipinto lui stesso, insieme alla nipotina, gli ormai celebrati e quotatissimi quadri di Torres Campalans.

Il colpo di Gary

La presa in giro suprema è però quella architettata da Romain

Gary: già vincitore nel 1956 del Prix Goncourt (che per statuto non può essere attribuito più di una volta allo stesso scrittore), riesce nuovamente ad aggiudicarselo nel 1975 con La vita davanti a sé, firmato con lo pseudonimo di Émile Ajar. Per vedere di nascosto l’effetto che fa, incarica il nipote, Paul Pavlovitch, di reggergli il gioco impersonando Ajar nelle inevitabili occasioni pubbliche. Funziona talmente bene che a nome di Ajar escono altri due libri, tra cui un’autobiografia beffardamente intitolata Pseudo, scritta

per non insospettire i giornalisti che hanno scoperto la vera identità (e la parentela con Gary) di Pavlovitch. Il protagonista è uno zio tirannico, in cui è facile riconoscere lo stesso Gary. Non un capolavoro, secondo il recensore de L’Express, che anzi lo definisce “un libro vomitato frettolosamente da un giovane scrittore che è diventato famoso e si è montato la testa”. La finzione verrà svelata soltanto nel 1981, un anno dopo il suicidio di Gary, nel libro-testamento Vita e morte di Émile Ajar.

Spettristi poetici

E se lo scherzo sfugge di mano? Può ritorcersi contro l’autore. Quante volte il poeta americano Witter Bynner avrà ripensato a quella cena in cui, sfinito dalle chiacchiere dei commensali, che vantavano le virtù e l’originalità della nuova ondata modernista, domandò loro se avessero mai sentito parlare dei poeti spettristi? Ringalluzzito dalla curiosità che aveva scatenato, in combutta con l’amico Arthur Davison Ficke, anch’egli poeta, redasse addirittura un manifesto poetico della nuova corrente, che si proponeva di “vedere lo spettro nella nostra vita e catturare le varietà di luce dello spettro”: una solenne assurdità che non attirò tuttavia alcun sospetto. La pubblicazione dei primi (fantomatici, è il caso di dire) versi, volutamente orribili (“Se dovessi entrare nella sua camera / e lo toccassi all’improvviso, / svanirebbe in una sottile nebbia / o risplenderebbe in una palla di fuoco / o esploderebbe come una sfera di luce bucherellata? / È impossibile che si limiti a sbadigliare e a stropicciarsi / dicendo: Cosa c’è?”) procurò anzi allo spettrismo una fama improvvisa. E quando Bynner, che aveva pure dovuto occuparsene da critico letterario della New Republic, rivelò la contraffazione, i lettori gli scrissero di preferire le poesie scritte per gioco a quelle che aveva, più seriamente, firmato col suo nome. E qui sta il punto: un pubblico

che si beve tutto. Va bene la beffa all’establishment letterario, ai tromboni delle università, ai venerati maestri e agli aspiranti tali, ai giurati dei premi, ai giornalisti-e-scrittori che pubblicano più libri di quanti ne leggano, recensendoseli a vicenda, ma quando si tratta di noi lettori, che come poveri cornuti ci lasciamo irretire dagli articoli elogiativi e dai superlativi delle fascette pubblicitarie, chi ci risarcisce dei tiri che ci gioca l’industria editoriale, quando spaccia ciofeche per capolavori, sciatteria per essenzialità, storielle rosa per coraggiose indagini sui sentimenti?

‘Fiat voluntas asinae’

Anche il vostro umile cronista, l’usurpatore di questa pagina, ha i suoi scheletri nell’armadio, per avere più volte sfangato i temi di letteratura al Liceo, attribuendo all’ignaro Contini, all’incolpevole De Sanctis, all’indifeso Sapegno immonde efferatezze sul Foscolo e sul Leopardi; ma la causa era nobile e, a parte un buon voto, non se ne ricavava altro. Il lettore, peggio se pagante di tasca propria, deve invece potersi rivalere, possibilmente colpendo i cattivi scrittori dove fa più male: nel loro narcisismo. Tempo fa proponemmo in questo spazio l’istituzione del Premio AIA (Alberi Inutilmente Abbattuti; si veda Ticino7 n. 13/2022).

Più elegante ci sembra, però, la trovata della Secolare Accademia del Parnaso, istituzione goliardico-letteraria che decenni fa animava la vita culturale della cittadina siciliana di Canicattì. Una congrega di burloni, tra i quali un prete che girava il paese su un’asina che, essendo usata come mezzo di locomozione, aveva coerentemente battezzato col nome Fiat. Ogni anno gli Arcadi (così si chiamavano i membri), indossata un’apposita toga, si recavano in pompa magna nella “sede rurale ove l’asina tiene l’alloggio” (citiamo dallo Statuto), ossia nella stalla, per celebrarvi la designazione della migliore opera letteraria tra le vincitrici dei maggiori premi nazionali. I libri venivano coperti da uguali mucchi di fave; quello su cui per primo si avventava la somara, si aggiudicava il concorso. Una sentenza inappellabile, essendo dettata da un movente arcano e imperscrutabile come la volontà della Provvidenza. Fiat voluntas asinae, dunque, e che i somari si leggano e si elogino tra di loro.

sabato 18 febbraio 2023 6 Ticino7 LA STANZA DEL RICCIO DI VALERIO ROSA
MIKE INCONTRA GIUSEPPE UNGARETTI (© FONDAZIONE M. BONGIORNO)
“Chi ci risarcisce dei tiri che ci gioca l’industria editoriale, quando ci spaccia ciofeche per capolavori? ”
ROMAIN GARY, ‘MEGLIO NOTO’ AI CRITICI COME ÉMILE AJAR.

LEGGERE GUARDARE INSEGNARE Le Edizioni Svizzere per la Gioventù

È successo così: abbiamo scritto un articolo sui fondi d’investimento ESG, quelli giudicati sostenibili sul piano dell’ambiente (‘E’ per ‘environment’), sociale (la ‘S’) e gestionale (la ‘G’ sta per governance). La sigla ha sbloccato il ricordo di un lettore, che ci ha ricordato come essa designi anche le Edizioni Svizzere per la Gioventù, impegnate dal 1931 ad avvicinare i bambini alla lettura attraverso la diffusione di fascicoletti illustrati d’una trentina di pagine. All’epoca – spiega il sito dell’associazione – “i romanzetti in formato di fascicoli che si vendevano allora nelle edicole, che raccontavano storie avventurose ed eroiche, erano amati dai ragazzi, ma per gli insegnanti rappresentavano letture riprovevoli. I fondatori decisero quindi di pubblicare storie per ragazzi nel formato dei fascicoli in serie tanto disdegnati, ma con soggetti ritenuti pedagogicamente validi”. “Giovare alla gioventù svizzera dal lato spirituale e fisico” è d’altronde uno dei propositi vergati ancora a inizio anni Sessanta sulla seconda di copertina di quei volumetti, la stessa sulla quale si legge che: “L’ESG rivolge un caldo invito perché si acquistino i suoi opuscoli per la gioventù, i quali stanno alla pari con quelli stranieri sotto ogni aspetto e coi quali si appoggiano i nostri scrittori e la nostra industria”.

‘Il nostro vinello’ Moralismo e sciovinismo? Piano. Il catalogo era già per molti versi eclettico e pregevole, e nel frattempo si è aperto al cambiamento dei tempi, mantenendo però intatto lo spirito pedagogico e l’accessibilità (nel ’31 un volume costava 20 centesimi ciascuno, e ancora oggi se ne possono acquistare per pochi franchi). Le edizioni ESG restano insomma un importante strumento per far crescere, un po’ alla volta, il focherello della passione alla lettura.

La collezione che ci ha fatto sfogliare il signor Giancarlo Maria Fontana contiene alcune perle. Per esempio i Sei racconti dinanzi al focolare che Francesco Chiesa – brillante fustigatore dei vizi ticinesi nelle sue Lettere iperboliche – dedicò agli studenti delle medie (“categoria: letture amene”), illustrato da Aldo Patocchi. Ci sono Piero Bianconi e Alberto Nessi, ma anche Il ponte di Rosa Clemente-Lepori, il cui insegnamento ai ragazzini di metà Novecento le procurerebbe oggi, se non una denuncia penale, di certo qualche rimprovero da parte dei soliti neopuritani: “La sede naturale del nostro vinello è il grotto”, si legge nell’istruttivo compendio di aneddoti e informazioni locali. E ancora, sugli anziani: “Vecchi, sì, ma intanto i padroni del grotto e del tino e del torchio e delle botti allineate sotto le volte e di ciò che nelle pance delle botti riposa sono ancora loro, sì o no? Rinfrancati da questi pensieri i vecchi prendono un piccolo trotto ardito…”. C’è anche La storia di un melo (1978), cambiato in ‘pelo’ da mano anonima di remoto Gian Burrasca. E poi quei titoli che saltano all’occhio soprattutto per la particolarità delle illustrazioni: è il caso d’un fascicolo dedicato nel 1971 a Vincenzo Vela, coi disegni di Piergiorgio Piffaretti e i testi di Mario Medici. Oppure de La grande avventura, apologo di Giovanni Bonalumi coi disegni di Livio Bernasconi. Senza dimenticare i vecchi albi da colorare (Per la mia arca di Noè; Aeroplani d’ieri e d’oggi).

Da Franscini a Joyce Dalla selezione che abbiamo sottomano – variegata e ‘spalmata’ su vari decenni – si nota soprattutto la varietà: si spazia dalla vita di Stefano Franscini a quella delle formiche, dalla pesca all’economia poetica (Storia di un 5 centesimi), dall’energia atomica alla corsa alla luna, passando per i 650 anni di storia patria (“In tempi difficili questo ricordo è offerto alla gioventù ticinese”). E oggi? Anche oggi le ESG – con sede centrale a Zurigo e antenne

in tutte le regioni linguistiche – continuano ad alimentare un ampio catalogo trilingue, coinvolgendo autori, grafici e altri professionisti sull’intero territorio nazionale. Le pubblicazioni in italiano sono quasi un centinaio, e gli argomenti spaziano dal cambiamento climatico (A mente fredda in un mondo che si scalda) a I castelli di Bellinzona, passando per favole e leggende che arrivano perfino a includere la firma di James Joyce (Il gatto e il Diavolo).

“Nonostante le difficoltà comuni alla stampa e all’editoria, la nostra attività continua a pieno regime e siamo in grado di pubblicare ogni anno diversi nuovi titoli”, ci spiega il responsabile per il coordinamento ESG in Ticino, Micha Dalcol: “Ci rivolgiamo prevalentemente alle scuole e il nostro scopo è quello di avviare alla lettura i bambini delle scuole elementari”. Un pubblico di soli bambini può sembrare ristretto, in realtà è estremamente variegato e richiede dunque una grande flessibilità nell’approccio comunicativo e tematico: “Tra un bimbo di sei anni e uno di dieci c’è un’enorme differenza in termini di capacità di lettura, dunque occorre lavorare su progetti differenziati. In ogni caso è essenziale prestare molta attenzione anche all’aspetto grafico. A prescindere dall’età, ci concentriamo tanto sulla qualità della lettura tout court quanto su quella delle immagini”, evidentemente rilevante per nativi digitali ben avvezzi alla dimensione multimediale. Dalcol, grafico di mestiere, sa quanto sia “importante coinvolgere autori e illustratori in un disegno coerente, originale e inclusivo, che non subordini un aspetto all’altro”. In questo senso, il coinvolgimento di molti professionisti operanti in Ticino si completa grazie alla collaborazione con le altre aree linguistiche del Paese, “che permette anche di integrare sensibilità e modalità espressive diverse”.

sabato 18 febbraio 2023 7 Ticino7 EDITORIA & SOCIETÀ A CURA DELLA REDAZIONE
BRUNO MACHADO, LA TESSITRICE DI PAROLE BARBARA GRAF ECKERT I LUPI CARLA VICARI LE AVVENTURE DI GOCCIA D'ORO OLMO CERRI GIOVANNI BASSANESI. IN VOLO PER LA LIBERTÀ GIAN PIERO BIANCHI CON TE, NENA!
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di Barbara Graf Eckert Illustrazioni di Anna-Lea Guarisco Adattamento testo di Monica Rusconi
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DI OLMO CERRI ILLUSTRAZIONI DI MICHA DALCOL GIOVANNI BASSANESI IN VOLO PER LA LIBERTA
“La sede naturale del nostro vinello è il grotto...”
ELENA SPOERL VÖGTLI SIRI E I SUPER POP-CORN ELISA CASTIGLIONI, UNA BELLISSIMA GIORNATA DI NIENTE

2X2

BIGLIETTI PER IL TEATRO SOCIALE

Spettacolo “Bonanocc ai sonadoo” del 1° marzo

Orizzontali

1. Stéphane, poeta e scrittore (18421898) 7. Prefisso accrescitivo 11. Capitale di un cantone 12. Altrimenti detto

13. Cordogli, perdite 15. Reparto, zona 17. Insieme, di comune accordo 19. Decilitro in breve 20. L’anima della matita 21. Lunghissimi periodi di tempo 22. Prodotto Interno Lordo 23. Metallo prezioso 24. Michael, autore de La storia infinita 25. Atomo dotato di carica 26. Nota musicale 27. Abitazioni, dimore 28. Una frazione di Campo Vallemaggia 29. Località del Mendrisiotto

31. Una parte di Glarona 33. Località del Malcantone 34. Attività, fervore

36. Località del Malcantone 37. Patire, tribolare 38. Starnazza nel cortile

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39. Certa, indubbia 40. Gioco senza vocali 41. Simbolo chimico del rutenio

42. Un veleno per Socrate 43. Strade, percorsi 44. Relativa a dopo il tramonto 45. Ha sede a Meyrin (sigla) 46. La montagna più alta 48. Sostengono teste 49. Città della Dalmazia 50. Patire, soffrire 52. Fratelli dei genitori 53. Vicini al passo finale 55. Dotati per volare 56. Non indigeno, proveniente da lontano.

Verticali

1. Cruccio, insoddisfazione 2. Una lingua antica 3. Materiale per barattoli 4. La respiriamo 5. Divinità solare egizia 6. C’è a Lugano 7. Non basse

8. Città brasiliana in breve 9. Alti prelati 10. Località italiana ai piedi del Sem-

pione 12. Parti della recita 14. Mettere insieme 16. Segue la emme 18. Refettorio 22. Non ricche 24. Figlio di Egina e Zeus 25. Due romani 27. Località mesolcinese 28. Città del Norditalia 29. Località del Gambarogno 30. Ricche di vello 32. Uno dei comuni italiani meno abitati 33. Lo può fare un orologio 35. Vale come adesso 36. Cittadina italiana sul Ceresio 37. Pablo, artista (1881-1973) 39. Appellativo per il sovrano 40. Sta con il boy 42. La si dà al pavimento 43. Sostanze nocive 44. Austera, grave 45. Jean-Baptiste Camille, pittore (1796-1875) 47. Località sciistica del Colorado 48. Si assume mangiando 51. Si chiede a teatro 53. Nota musicale 54. Seicento romani

SOLUZIONE DEL 4.2.2023

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VERTICALI
SENZA PAROLE © DORIANO SOLINAS
1 Stéphane, poeta e scrittore (1842-1898) 7. Prefisso accrescitivo 11 . Capitale di un cantone
1 Cruccio, insoddisfazione 2 Una lingua antica 3. Materiale per barattoli

Alpe Grossalp

Il trekking da Bosco Gurin fino alle corti di Naatscha e Teil

Alpe Grossalp

Corte principale Naatscha, 1’789 m Corti Teil, 1’870 m / Grossalp, 1’907 m

Ubicazione Valle Rovana

Periodo carico Da metà giugno a metà settembre

Ultimo paese Bosco Gurin

Coordinate 679.968 / 130.184

Proprietà Patriziato di Bosco Gurin

Gestore Michele Arcioni

Tipo formaggio Semiduro grasso misto, 70% latte di mucca e 30% latte di capra

Altri prodotti Burro, formaggella, formaggini, ricotta, yogurt

Dicitura scalzo Grossalp Vallemaggia

Animali 60 mucche da latte, 220 capre da latte

Produzione Ca 1’150 forme/anno

Mungitura Mungitura meccanica

Caseificio Naatscha (trasporto latte con veicolo)

Acquisto All’alpe è possibile acquistare tutti i prodotti

Nel cuore della tradizione Walser, dove ancora si parla il Ggurijnartitsch, troviamo Bosco Gurin, il paese più alto del Cantone Ticino a quota 1’506 m.s.l. Attraversato il paese e arrivati al ponte che supera il torrente che sgorga dal Wandfluhhorn si sale, seguendo il sentiero escursionistico, attraversando dense macchie di conifere, per arrivare fino alla radura di Naatscha che ospita il moderno alpe (1’789 metri sul livello del mare).

Da qui la vista si allarga in una generosa prospettiva sulla vallata, protetta e sorvegliata dalla corona di pietra delle vette del Pizzo d’Orsalia, Piz Bìela, Pizzo Stella e Madone.

L’alpe di proprietà del patriziato di Bosco Gurin è stata oggetto, nel 2016, di un’importante opera di miglioria grazie al sostegno di diversi

Itinerario corte principale

→ Da «Bosco Gurin» (1’503 m), nella parte bassa del paese in prossimità della lunga stalla, parte un sentiero che inizialmente costeggia il solco del fiume «Rovana», poi raggiunto il ponticello di una strada sterrata si segue sempre il sentiero che piega a destra e attraverso una rada vegetazione incrocia la strada carrozzabile in prossimità di

«Naatscha» (1’789 m) che è il corte principale dell’Alpe «Grossalp».

Strada: da «Bosco Gurin» (1’503 m), nella parte bassa del paese a lato della lunga stalla e della stazione di partenza della seggiovia parte una strada che si inoltra nella «Valle di Bosco» costeggiando il fiume «Rovana», dopo 900 metri di strada pianeggiante in prossimità di una cappelletta a quota 1’529 metri, sulla destra, parte una strada sterrata che

BancaStato èlaBanca di riferimento

enti e del patriziato stesso. Le corti di Naatscha e di Teil si estendono in altezza a garantire un foraggio ampio ed abbondante alle loro mucche e capre, produce una significativa quantità di forme secondo la tradizionale miscela di latte vaccino (70%) e caprino (30%).

La specificità che contraddistingue tale prodotto è il vivace contrappunto che si crea fra le note inconfondibili del sottobosco di conifera e il marcato, ma mai invadente, apporto degli acidi grassi caprini. La stagionatura rivela inoltre aromi di frutta secca, soprattutto nocciola. Sull’alpe è possibile acquistare non solo formaggio e burro, ma anche formaggella, formaggini, ricotta e yogurt.

sale sui pascoli di «Pränn» e dopo 6 tornanti e 3,1 chilometri arriva all’Alpe «Grossalp».

Sentiero: sentiero bianco-rosso, 300 m disl., 1,3 km, 1 ora.

Strada: strada asfaltata e poi sterrata, 300 m disl., 4 km, 1,5 ore. Strada asfaltata e sterrata chiusa al traffico (barriera al bivio presso la cappelletta). Posteggio a «Bosco Gurin».

Escursioni

→ Capanna Grossalp, Passo Guriner Furggu: da «Naatscha» (1’789 m) si sale diritti lungo il sentiero che porta al nucleo di case di «Grossalp» dove si trova pure l’omonima capanna (1’907 m). Da qui si procede lungo ampi pascoli seguendo indicativamente il tracciato dello skilift, sino a «Sandiga Boda», sempre verso l’alto si raggiunge la

Curiosità

bocchetta «Guriner Furggu» (2’323 m), valico che fa confine con l’Italia, sul colle vi è anche un laghetto che nei periodi di siccità tende a prosciugarsi.

Sentiero bianco-rosso, 450 m disl., 2,3 km, 1 ora e 20 min.

“Lu

Bosco de Quarino”

Del piu alto comune del Cantone Ticino abbiamo già detto, ma che sia anche l’unico comune in cui la lingua ufficiale sia il tedesco è una vera peculiarità. Del villaggio walser si dice anche che le popolazioni che lo hanno fondato, i walser appunto, provenissero dalla vicina Val Formazza attraverso il Guriner Furka e che abbiano portato con loro la propria cultura, le proprie tradizioni e la propria lingua che ancora oggi viene insegnata e parlata dalla popolazione di Bosco.

Uno dei primi documenti rinvenuti, redatto dal notaio Bonifacio Zanelli di Ascona attesta, scritto in latino medioevale, che Bosco Gurin fu fondato nel 1253, nome da considerarsi recente poiché alle origini il nome fu dapprima “Lu Bosco de Quarino” e successivamente, sino al 1934 “Bosco-Vallemaggia”.

Scopri il percorso

Dell’impronta walser sono presenti molti altri particolari, primo fra tutti l’architettura che con le tipiche costruzioni dal basamento in pietra e la parte superiore in legno rendono il villaggio assolutamente unico.

Estratto dal portale ‘Saliinvetta.com’.

Abbiamo tuttibisogno di puntifermi, di certezze edisicurezze. Noi vi offriamo il costante impegno di esseredasemprecon il Ticino eper iticinesi.

9 Ticino7 sabato 18 febbraio 2023
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Ticino
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noi per voi
ALPE NAATSCHA, 1’789 M (© ELY RIVA, FABRIZIO BIAGGI)
4 6 ° 18 ’ 56 ’ ’ N ; 8˚28 ’ 10 ’ ’ E
sabato 18 febbraio 2023 10 Ticino7 TIPO UN FUMETTO DI ALESSIO VON FLÜE

“Inespugnabile alle onde marine e ogni giorno più resistente del giorno precedente”. Così Plinio il Vecchio descriveva nel suo ‘Naturalis Historia’ (77 d.C.) le caratteristiche di quell’impasto per le costruzioni che le avrebbe conservate pressoché intatte per migliaia di anni. Ancora più antico è il trattato ‘De Architectura’ (15 a.C.), dove Marco Vitruvio già identificava la conclamata resilienza, la tenuta e l’impermeabilità del cemento romano. Tutt’oggi è oggetto di studio da parte di scienziati d’ogni parte del mondo, affascinati dalle peculiari proprietà del conglomerato; tant’è che strutture quali ponti, canali, acquedotti, anfiteatri, porti ed edifici di altra natura dopo duemila anni mostrano (sovente) ben pochi segni di cedimento...

La ricetta misteriosa

A storici e ricercatori è noto che i costruttori romani producevano una malta cementizia combinando la calce (ottenuta cuocendo pietre calcaree) all’acqua (meglio se dolce e pura) in quantità che poteva essere variabili; poi si mescolava l’impasto con della pozzolana (materiale scoperto per caso, in data imprecisata; è una fine cenere estratta tradizionalmente a Pozzuoli) contenente silice e allumina, formato dalle eruzioni del vulcano Vesuvio. Ottenuta la malta, si aggiungevano sabbia e cocci di mattoni o tufo, proprio come oggi vengono aggiunti aggregati agli impasti destinati all’edilizia. Vitruvio e altri trattatisti definivano extincta la natura della calce usata, implicando che si trattasse di un materiale spento (idrossido di calcio), ovvero calce viva (ossido di calcio) a cui era già stata aggiunta acqua per farla reagire. Tuttavia, la pasta ottenuta, se non entrava in contatto con l’aria, non si induriva: da qui deriva il nome di calce aerea.

Dunque, signor Di Tommaso, secondo voi la calce romana non era affatto ‘extincta’ o spenta?

“Per niente. In controtendenza con il credo comune abbiamo trovato la pistola fumante: questi grani di calce viva, quando entrano in contatto con l’acqua, non solo creano una fonte di calore importante (da qui il termine hot mixing), ma li ritroviamo ancora oggi nella stessa forma. Nel produrre calcestruzzo moderno, utilizzando questa antica tecnica, è possibile conferirgli la proprietà di riparare le crepe che si creano durante la vita di servizio delle strutture. Come le nostre ossa che, se rotte, producono carbonato di calcio in grado di sigillare le fessure, così questo processo richiude le fessure nel muro ed evita all’acqua di penetrare nel materiale corrodendo i ferri d’armatura. Era noto da tempo che nelle malte romane ci fossero granelli di calce viva, ma si era sempre pensato che si trattasse solo di uso di calce spenta male. Invece costituiscono il vero meccanismo autorigenerante che rallenta il degrado”.

Quindi è per questo specifico requisito che il calcestruzzo dell’antichità dura così a lungo?

“Certamente, ma non solo. Il calcestruzzo moderno, prima di tutto, non contiene quei preziosi grani di calce. Inoltre, per esigenze progettuali, viene spesso rinforzato con ferro d’armatura il quale, con acqua e ossigeno atmosferico, si arrugginisce e corrode. Abbiamo trovato che se vengono aggiunti questi clasti, la ormai accertata produzione di idrossido di calcio cicatrizza le eventuali fessure, rallentando la propagazione dell’acqua e la corrosione del ferro”.

Ma il cemento di nuova produzione verrà modificato?

E con quali ripercussioni?

“Le ripercussioni sono potenzialmente notevoli. Con meno degrado si avranno meno cicli di manutenzione del materiale e quindi meno impatto ambientale in termini di emissione di CO2

Non solo, la vita di servizio, ovvero gli anni in cui la struttura resiste prima di essere dismessa, aumenta, estendendo la longevità delle strutture e riducendo la necessità di nuove costruzioni a favore di quelle già esistenti. Ciò si traduce ancora in un notevole calo delle fatidiche emissioni”.

Quando è previsto l’arrivo sul mercato del nuovo calcestruzzo?

“La fase seguente alla pubblicazione consisterà nel procedere allo studio di ricette di calcestruzzo moderno che, usando questi concetti antichi come base di lavoro, possano essere prodotte a livello industriale soddisfacendo così i requisiti indispensabili alle costruzioni moderne. Ovvero: resistenza meccanica, stabilità volumetrica eccetera”.

Immagino che gli antichi costruttori romani non fossero consapevoli della portata della loro ‘scoperta’?

“No, lo straordinario conglomerato è stato scoperto per puro caso. Tuttavia noi, che siamo consapevoli delle sue proprietà, possiamo solo prendere esempio dalla loro ‘inconsapevole’ tecnologia”.

Istituto Meccanica dei Materiali Sa

Come uvette nel panettone

Per molto, molto tempo, si è creduto che la resistenza del calcestruzzo così ottenuto derivasse dall’uso della miscela di materiale pozzolanico (ceneri vulcaniche). Cosa che oggi non si esclude. Ma un’analisi approfondita e con un occhio rivolto ad altre proprietà mineralogiche della matrice di campioni di quelle antiche strutture – per la precisione l’Istituto Meccanica dei Materiali di Grancia ha analizzato reperti di un muro del sito archeologico di Priverno, Lazio – ha rilevato, dopo millenni, la presenza di particelle di calce intatte. “Certo, si tratta di grani o clasti di calce sparsi nella matrice come le uvette nel panettone”, conferma Michel Di Tommaso, geologo e ingegnere, direttore dell’istituto ticinese: “Al microscopio, non solo i grani di calce sono visibili, ma si sono pure formate specie minerali nuove, cosa possibile solo se le temperature sono elevate”.

Con sede a Grancia e fondato nel 1992, è uno dei laboratori accreditati di prova sui materiali più grandi della Svizzera, con una filiale a Sion (Vallese), una nella lontana Kuala Lumpur (Malesia) e infine una succursale in Francia. Si occupa di prove di laboratorio e di consulenza sulla tecnologia dei materiali. Opera in Svizzera, Europa e resto del mondo.

sabato 18 febbraio 2023 11 Ticino7 SCIENZA & EDILIZIA
DI MARISA GORZA
GLI INCONFONDIBILI ARCHI DI UN ACQUEDOTTO ROMANO. PARETE CON LA TECNICA DELL’OPUS MIXTUM RETICULATUM. GRANI DI POZZOLANA.

Chi l’ha mai detto che i fantasmi si trovino solo nei vecchi manieri inglesi, e che appaiano solo nelle notti buie, magari quando infuria la tempesta? Ci sono fantasmi che passano la loro vita tranquillamente, magari con abitudini un po’ piccolo borghesi: un viaggio in un paese esotico, la macchina nuova, una cena in un ristorantino chic. Ci sono fantasmi che vivono nel paese di Suzzara, in provincia di Mantova, e hanno occupato una casa diroccata poco lontano dal centro, accanto a un centro medico e a uno stabile moderno. Da una panchina contemporanea, in cemento e a forma di “S”, contemplo la facciata della vetusta dimora, i segni del tempo, le finestre che sembrano aprirsi sul vuoto. Invece… Quello è un riflesso? Il volo di un uccello? No, è un volto evanescente, sbiadito, come se affiorasse da un pozzo profondo di tempo e oblio. Dovrei avere paura? Forse.

Invece il contrasto fra la mia panchina in cemento (a forma di S) e l’antica casa (quasi) disabitata mi fa sorridere. Posso sbagliarmi, ma mi pare che il fantasma abbia risposto al mio sorriso con un cordiale cenno di saluto.

La canzone di Marco Mengoni sentita in loop alla radio, quella di Anna Oxa riscoperta, quella dei Coma Cose meditata, quella di Colapesce e Di Martino imparata a memoria e quelle di Mr. Rain e Lazza consapevolmente dimenticate. Il ballo di Furore provato e riprovato, per rendere onore al sensazionale ritorno di Paola e Chiara. La nostalgia di Grignani, che ci ha fatto piangere, ridere e stare in pena come i grandi rocker. Ogni serata a incrociare le dita sperando che arrivasse in fondo, reggesse la canzone, scendesse intero da quel palco. A ormai una settimana dalla fine del 73esimo Festival di Sanremo non sappiamo su quale palco Gianluca stia tentando la sopravvivenza e questo ci fa stare in pena. A ormai una settimana dalla fine dell’edizione 2023 non ricordiamo poi quasi nulla del monologo di Chiara Ferragni, se non che sembrava scritto da David Foster Wallace in confronto al pensierino di Paola Enogu. Il terzo monologo, quello dell’attrice Chiara Francini, l’abbiamo perso in diretta e non abbiamo ritenuto valesse la pena recuperarlo. Siamo ancora qui a domandarci quando, esattamente, si sia stabilito che i monologhi fossero necessari per calcare il palco dell’Ariston con dignità.

Ma prima ancora quando, esattamente, Instagram sia diventato media partner di Sanremo. E quando, esattamente, si sia stabilito che avessero diritto di cittadinanza in una diretta televisiva i momenti di alfabetizzazione digitale di Amadeus da parte di Chiara Ferragni. Quando, esattamente, abbiamo ritenuto un momento degno di una diretta televisiva l’apertura di un profilo Instagram, la spiegazione di cosa siano i meme, l’apprendimento dei rudimenti della diretta.

A ormai una settimana dal 73esimo Festival di Sanremo restano nella memoria diverse canzoni, pochissimi momenti di televisione (un delitto aver valorizzato così poco Gino Paoli che raccontava i consigli per vivere da cornuto richiesti da Little Tony) e nient’altro. Tutto il resto è durato il tempo di una storia di Instagram. Ed è molto, molto meglio che sia così. Nell’immagine: un indimenticabile Blanco intrattiene il pubblico dal palco del Festival.

ALTRI SCHERMI

TI VENDO LA LUNA

Ambientata in un retrofuturo, Hello Tomorrow! racconta le vicende di un gruppo di commessi viaggiatori che vendono multiproprietà lunari. Billy Crudup veste i panni di Jack, un venditore di grande talento e ambizione, la cui incrollabile fiducia in un domani migliore riesce a ispirare i colleghi e a rinfrancare clienti disperati. La serie di 10 puntate, di mezz’ora ciascuna, è stata lanciata ieri su AppleTV+ con i primi tre episodi. I restanti sette episodi usciranno settimanalmente fino al 7 aprile.

ENTUSIASMO SPAZIALE

La serie è incentrata su una società utopica in cui la tecnologia è avanzata a livelli sorprendenti, e i protagonisti rivelano un entusiasmo alla Elon Musk per il futuro dell’umanità lanciata nello spazio. L’estetica è però ferma ai nostri anni Cinquanta, quando in effetti il tema dello spazio affascinava e dominava le scienze, le arti e la tecnologia. E quindi via libera ad auto fluttuanti, cravatte che si allacciano da sole, dispositivi che portano a spasso il cane e spostamenti con zaini volanti in stile Ritorno al futuro.

RETROFUTURISMO

Il termine è abbastanza giovane e secondo l’Oxford English Dictionary il suo primo utilizzo appare in una pubblicità del 1983 sul New York Times. Oggi è inteso come un movimento delle arti creative caratterizzato da una miscela di stili retrò con una tecnologia futuristica. Benché apparentemente improntato verso una visione ottimista del futuro, il retrofuturismo sottolinea anche gli effetti alienanti della tecnologia. In Hello Tomorrow! l’entusiasmo iniziale si sgretolerà come i riflessi della luna sul mare.

BILLY CRUDUP

L’ottimismo di Jack nel tentare di vendere le sue parcelle lunari minaccia di lasciarlo pericolosamente perso proprio in questo suo sogno. L’attore che lo interpreta (Billy Crudup)

Coordinate: 44°59’34”N; 10°44’51”E

Comodità: ★☆☆☆☆ Vista: ★★☆☆☆

Ideale per… parlare con un fantasma.

ticino7

è il protagonista di un’altra serie di successo, The Morning Show, ambientata nel mondo dei programmi televisivi del mattino con Jennifer Aniston e Reese Witherspoon, sempre su AppleTv+. In Hello Tomorrow! Crudup è affiancato da un’attrice avvezza ai temi spaziali: Alison Pill vista in Star Trek: Picard (in streaming su Prime Video).

sabato 18 febbraio 2023 12 Ticino7
LA FICCANASO DI LAURA INSTAGRAM: @LA_FICCANASO
Settimanale inserito nel quotidiano laRegione ticino7.ch • #ticino7 • facebook.com/Ticino7
Editore Teleradio7 SA • Bellinzona Amministrazione, direzione, redazione Regiopress SA, via C. Ghiringhelli 9 CH6500 Bellinzona tel. 091 821 11 11 • salvioni.ch • laregione.ch Servizio abbonamenti tel. 091 821 11 86 • info@laregione.ch Pubblicità Regiopress Advertising via C. Ghiringhelli 9, CH-6500 Bellinzona tel. 091 821 11 90 • pub@regiopress.ch
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Beppe Donadio Caporedattore Giancarlo Fornasier Grafica Variante agenzia creativa
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IN PRIMO PIANO

Serata speciale

A un anno dall’inizio della guerra

Il TG, Falò e DOC ci raccontano i primi 365 giorni del conflitto russo-ucraino

Dopo la puntata di Falò (alle 21.25), anch’essa dedicata alle ostilita in corso, alle 23.30 andrà in onda il documentario Russian VoicesDiario di un anno di guerra, proposto da DOC Il reportage, realizzato da una giovane cineasta russa che per ovvi motivi ha deciso di mantenere l’anonimato, è un’immersione nella Russia diventata ormai inaccessibile ai media stranieri dopo l’invasione dell’Ucraina, lo scorso 24 febbraio 2022.

La regista accompagna il telespettatore nella Russia profonda, invisibile, attraverso il suo sguardo personale e critico di persona contraria alla guerra. Incontra soldati russi al rientro dal fronte, che le raccontano degli orrori dei combattimenti, le menzogne della propaganda e la mancanza di preparazione dell’esercito.

Missione Asclepios

Negli ultimi anni il tema dell’esplorazione spaziale è tornato a catturare l’attenzione dell’opinione pubblica. Aziende private come SpaceX e Blue Origin hanno accelerato esponenzialmente la ricerca e lo sviluppo dei mezzi tecnologici. La Nasa intende mandare ancora una volta degli uomini sulla Luna.

A un anno di distanza dall’invasione militare russa dell’Ucraina, il Telegiornale della RSI dedica un’edizione speciale il 23 febbraio al conflitto che sta segnando in modo indelebile l’Ucraina, la Russia, l’Europa e il mondo.

Con reportage, testimonianze, analisi e commenti, daremo ampio spazio ai protagonisti – ucraini ma anche russi – di questo dramma, alle riflessioni e alle azioni della comunità internazionale e al ruolo della Svizzera, cercando allo stesso tempo di delineare prospettive future in un contesto di grande complessità.

Oltre alla serata del 23 febbraio, il conflitto in tutte le sue sfaccettature, sarà raccontato dal Telegiornale in una settimana tematica, dal 18 al 25 febbraio, con inserti tematici proposti nelle edizioni principali.

Giovani che rientrano a casa sotto choc e in preda a forti dubbi, riguardo la presenza russa in Ucraina, ma anche sul senso della guerra. La vita per loro è cambiata radicalmente nel tempo di un anno.

Mi chiamo Francesco Totti

È la sera del 27 maggio 2017, è il momento del tramonto che con la sua luce dorata rende ancora più bella e struggente Roma. Al centro dello stadio Olimpico c’è un uomo, ha il viso coperto dal cappuccio della felpa ed è solo.

Ma qui, al centro del campo e sotto la curva Sud, quest’uomo ha rappresentato al meglio e per più di vent’anni la Roma.

È il Capitano, Francesco Totti, che alla vigilia della festa d’addio, decide di raccontarsi a volto scoperto, in modo intimo e spontaneo. Inizia così il docu-film di Alex Infascelli che nel 2021 ha ottenuto il Nastro d’Argento per il Cinema del reale e il David di Donatello per il miglior documentario.

Un giocatore dal talento straordinario, entrato nella storia del calcio, si rivela attraverso la propria voce raccontando le scelte personali, il rapporto con la sua città, i momenti della gloria e della sconfitta.

Nel momento delicato in cui Totti lascia la carriera, si pone una serie di domande. Inizia così un racconto di preziose immagini private e pubbliche che ripercorrono tutta la sua vita.

Vita!

Mercoledì 22 febbraio alle 21.05 su LA 2

E c’è chi pensa addirittura di colonizzare Marte. Le giovani generazioni di oggi saranno protagoniste della nuova era nello spazio. Al politecnico di Losanna un gruppo stundentesco molto intraprendente ha così deciso di realizzare un progetto davvero ambizioso: organizzare una missione analogica spaziale che simuli una colonia sul nostro satellite. È così che è stata fondata Asclepios Si tratta della prima iniziativa al mondo concepita in questo modo, fatta totalmente da studenti per studenti. Per un anno intero il regista Patrik Soergel ha seguito la genesi della missione, il cui scopo è quello di simulare una base lunare nella vecchia fortezza militare del Sasso San Gottardo.

Il Carnevale in piazza e in cucina

Dal Rabadan di Bellinzona a Timer

In questo 2023 che segna il ritorno in grande stile dei Carnevali, non poteva mancare Bellinzona con il suo Rabadan

Il tradizionale corteo, commentato da Fabrizio

Casati, sarà anticipato da collegamenti all’interno del programma Domenica di Carla Norghauer, per tastare il polso della situazione e scaldare i motori. Appuntamento domenica 19 febbraio dalle 14.00 su LA 1.

Alla sera, intorno alle 19.30, ci sposteremo in Piazza Nosetto per Echi da un carnevale, la trasmissione che tira le somme di quanto successo. Scopriremo insieme i vincitori del concorso, rivivremo i momenti salienti di questo carnevale 2023 e vi faremo vedere i dietro le quinte con immagini e servizi inediti.

Ma non è finita qui: da lunedì 20 a venerdì 24 febbraio su LA 1 alle 19.45 torna Timer

Questa volta presentatrici e presentatori della RSI sono alle prese con una sfida ulteriore: cucinare in 8 minuti una ricetta assegnata dai regnanti di alcuni nostri carnevali (Rabadan,

Lingera, Stranociada, Re Naregna, Nebiopoli) Scherzi, interruzioni e una mano beffarda del destino cercheranno di ostacolare l’impresa. E non perdetevi le anticipazioni e i contenuti speciali su rsi.ch/food!

sabato 18 febbraio 2023 Ticino7 • Programma Radio&TV • dal 19.2 al 25.2 13
Storie
Domenica 19 febbraio alle 20.40 su LA 1
Prima TV
Giovedì 23 febbraio dalle 20.00 su LA 1 Docu-film di Alex Infascelli
Da domenica 19 febbraio su LA 1
Presentano la serata Pietro Bernaschina e Francesca Mandelli

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