L'Altrameta n.7

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52 speciale pink run 44 gloria emeghebo Il sorriso è la miglior risposta 38 vera gheno Il fascino indiscreto dell’iperconnessione 24 annalisa baraldo È tutto un altro campionato 28 anna rigoni Dal debutto al successo 32 elisa briarava Gli incantesimi di Elisa 60 le pagine di antenore 50 Melody biasiotto Come un buon caffè 54 Afsoon Neginy e annalisa celeghin Il rosa in azienda 04 piccole donne 20 anna cortelazzo Parola di p.iva nel sacco 14 aria di romagna in questo numero
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DONNE

Perché un libro scritto nel 1865, e le sue 17 versioni cinematografiche, continuano ad interessare le donne di generazione in generazione? Forse perché racconta dei rapporti autentici fra quattro donne che pur essendo unite da un legame di sangue non potrebbero essere più diverse.

Jo, Louise, Greta e Lady Bird.

Questi i nomi delle protagoniste di questo articolo. Un omaggio al film Piccole Donne (2019), alla sua regista Greta Gerwig, alla protagonista del suo primo film Lady Bird e alla scrittrice Louise M. Alcott, autrice di romanzi che continuano a parlare ad un pubblico fatto non solo di donne.

La prova di questo sta nel fatto che alcuni articoli molto interessanti di critica cinematografica portano la firma di autori uomini che non hanno potuto fare a meno di esprimere il loro autorevole parere riguardo all’ultima versione di Piccole Donne. Un film che ha saputo coinvolgere un pubblico di diverse generazioni, sia maschile che femminile.

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Greta Gerwig, regista e attrice 36enne, da sempre protagonista di pellicole indipendenti, con questo film è divenuta una delle cinque donne in tutta la storia dell’Academy ad aver ricevuto la candidatura all’Oscar.

Del resto, la nostra Greta aveva già fatto molto parlare di sé con il suo film di esordio Lady Bird, dal nome della protagonista, la cui vicenda non può lasciare indifferente chiunque abbia vissuto un periodo più o meno lungo della propria esistenza in forte conflittualità con la figura materna (se non con la propria intera famiglia di origine).

Lady Bird è interpretata dalla stessa Saoirse Ronan che ritroveremo nel ruolo di Jo March in Piccole Donne.

La vicenda di Lady Bird si svolge nel 2003 e di quest’epoca seppur così vicina a noi si assaporano aspetti che potrebbero già sembrare “nostalgici” come l’ascoltare, durante un viaggio in auto, musicassette e radio da cui escono prepotenti le note di Hand in my pocket di Alanis Morissette.

Ma come accade per la Jo di Piccole Donne (ambientato nell’America secessionista del 1868) così quello che Lady Bird vive nei suoi 17 anni ci sembra del tutto familiare, a prescindere dal momento storico.

E familiari ci sono dunque le sue scoperte, o meglio, le sue esplorazioni in ambito sentimentale e non solo; familiare ci è il suo disagio fra l’essere (sebbene inconsapevolmente) orgogliosa della propria famiglia e, al contempo, il desiderare una vita dal “lato giusto” della strada, quello dove vivono le famiglie borghesi e cattoliche, in case rivestite di assi azzurre con tanto di Union Jack sventolante in giardino.

Da questo disagio nascerà il suo desiderio di andare oltre quel futuro immaginato dalla madre, che la vorrebbe iscritta al college più vicino a casa e di serie “B” mentre lei, di nascosto, studia per superare le prove di ammissione per frequentare il college a New York.

Città dove approderà andando contro a quella madre fiera e corag-

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#PiccoleDonne

giosa grazie alla quale, però, la stessa Lady Bird si trasformerà in una giovane donna guerriera e avversa alle convenzioni.

Esattamente come Jo!

È proprio questa la magia di cui la regista Greta Gerwig è artefice: portare sullo schermo vicende ambientate in periodi diversissimi fra loro rendendole “contemporanee” perché evocatrici di dinamiche e situazioni che sembrano appartenere a tutte le età.

L’eterno conflitto generazionale per realizzare compiutamente il proprio ideale di felicità, messo in discussione dalla visione di vita della famiglia di origine.

Qui si celebra il sacrosanto diritto di ogni essere umano a rincorrere i propri sogni sentendosi allo stesso tempo sostenuto dai legami creati con la propria famiglia.

In Piccole Donne e in Lady Bird sono proprio le madri ad avere in loro il germe di quella stessa rivoluzione contro le convenzioni che anche le figlie si impegneranno a portare avanti successivamente.

Infatti, nel primo caso, c’è una madre che tiene in piedi la famiglia mentre il marito è al fronte; nel secondo, la figura materna è un’infermiera che mantiene il proprio nucleo familiare perché il marito (con una propensione naturale alla depressione) viene licenziato ad un passo dalla pensione.

Le sorelle March aspirano ciascuna ad una felicità del tutto diversa dall’altra.

Jo si vede felice solo come scrittrice affermata e dileggia la sorella Amy che sembra desiderare una felicità fatta di pizzi, merletti e vita agiata da donna sposata con un uomo benestante.

Ma Greta Gerwig fa dire a quella stessa Amy che ognuno ha il diritto di desiderare la felicità che più gli appartiene,

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#PiccoleDonne
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elevando così un personaggio che nei libri e nelle precedenti versioni cinematografiche ci era sempre sembrato frivolo, ovvero la sorella “leggera” che Laurie sposa per ripiego.

Il matrimonio: il punto nodale di Piccole Donne. Quello sul quale la critica cinematografica si è abbattuta, per così dire.

In molti infatti hanno visto la scelta di Greta Gerwig di “accettare” l’happy ending, che vede Jo sposata al professore di tedesco, come una sorta di sconfitta visto che per tutto il film Jo ripete quanto le sembri ridicola una società che consideri l’Amore come l’unica cosa per la quale le donne sono adatte. Ho sempre pensato che Jo si sia sposata per amore; ad un’età in cui nessuno pensava che l’avrebbe più fatto, proprio quando era riuscita a diventare economicamente autonoma grazie alla scrittura.

Per il 1868 questa era già una grande rivoluzione.

Ammetto che, come molti, anche io penso che Jo avrebbe potuto sposare Laurie se solo lui avesse saputo aspettarla…

Del resto Laurie è interpretato da Timothée Chalamet, la cui delicata bellezza è forse il vero motivo per cui ai botteghini dei cinema si sono presentate così tante coppie di mamme e figlie.

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#PiccoleDonne

Le Piccole donne e la ciclicità femminile

L’energia della donna è molto differente da quella dell’uomo; lo è nella misura in cui possiede delle sue specificità che la rendono unica, insostituibile. Questa energia femminile si respira intensamente all’interno del romanzo di Louise May Alcott, dove si declina in molteplici forme, incarnandosi e prendendo vita nei caratteri delle quattro sorelle March. Meg, Jo, Beth ed Amy rappresentano ciascuna un modo diverso di esprimere la femminilità e di portarla nel mondo.

Amy è capricciosa come una pioggerellina di marzo, vanitosa e raffinata come i narcisi, che sbocciano proprio sotto la carezza di queste pioggie primaverili.

Beth è modesta e semplice come l’estiva ginestra, che nel suo coraggio e nella sua fragilità richiama la celebre Ginestra leopardiana, precaria sulle pendici del Vesuvio tanto quanto la terzogenita delle sorelle March fu nella sua vita, che precocemente abbandonò.

Jo è vivace ed aspra come il corbezzolo, che in autunno esplode in grappoli di fiori bianchi e frutti rossi. Plinio il Vecchio chiamava il corbezzolo arbutus unedo, che significa “ne mangio uno solo” alludendo così al gusto dei suoi frutti, pungente ed arguto come solo Jo sapeva essere.

Meg è elegante e femminile come una camelia, fiore invernale che nella cultura orientale allude al patto d’amore e devozione tra un uomo ed una donna, quello stesso patto che Meg March stringerà con John Brooke, l’istitutore del caro amico Laurie Laurence.

E se mi sono divertita a paragonare le Piccole donne alle quattro stagioni e ad altrettanti fiori, non è stato solo per compiere un esercizio di stile. È piuttosto perché le quattro sorelle March, proprio come le quattro stagioni, esprimono perfettamente la natura ciclica della donna. Questa ciclicità non si attesta solo sull’evidente piano biologico, ma è destinata ad andare oltre.

Perchè la donna nei suoi cicli vitali attraversa tutte queste quattro fasi, transita lungo le stagioni, diventa Amy, Beth, Jo e poi Meg in un ciclo continuo di eterno ritorno.

Forse in questo senso possiamo pensare alle quattro sorelle March come a degli archetipi del femminile, unici ma tuttavia complementari. Tali archetipi si tengono la mano, per tramandare la saggezza dell’essere donna di madre in figlia, affinchè l’energia fluisca e scorra. Proprio come in un circuito elettrico. Quando il circuito è chiuso e le mani sono intrecciate insieme in un girotondo l’energia gira e la lampadina si accende.

Mai come oggi abbiamo bisogno di questa energia femminile, solidale, accogliente, in un mondo fin troppo maschile e agonistico, lineare. Un mondo fatto di circuiti aperti e di persone che non sanno tenersi per mano. Abbiamo bisogno, grazie a questa speciale energia, di accendere il più alto numero possibile di lampadine, vere o metaforiche: abbiamo bisogno di illuminare questo Mondo.

Non potrei immaginare modo migliore per concludere che con una citazione della stessa

Louise May Alcott:

Aiutarsi l’una con l’altra fa parte della religione della sorellanza.

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#PiccoleDonne

ARIA di

Testo e foto di Elisa Lanconelli

#elisafrancesbean

Inizia tutto a Lugo di Romagna, il cuore della mia terra. Nasco lì, il 9 maggio del 1991. Romagnola non solo sulla carta ma proprio nel mio cuore. Profondamente fiera di esser nata in una terra considerata da tutti come la patria del sorriso e dell’accoglienza, parte di questa “faccenda” fatta di positività innata.

Fin da quando ho memoria avevo dei pastelli in mano e giocavo con le diapositive fotografiche mettendole controluce. Il mio amore per le immagini e per il disegno credo siano nati con me, e quando ho 14 anni prendo in mano una Canon e ci vivo in simbiosi per gli anni a seguire. Ho studiato Ingegneria Edile, ma nel mentre, un po’ per scherzo, ho incominciato ad illustrare le mie foto, vedendoci dentro mondi e personaggi che le completavano, che davano un senso a quelle foto ed piano piano è diventata una passione che condividevo sui social.

Una volta laureata ed entrata nel mondo del lavoro però sentivoche non tutte le corde suonavano la stessa sinfonia, c’era qualcosa di stonato. Così riprendo in mano la macchina fotografica, ora una Sony, riprendo in mano la matita, ora è l’apple pencil dell’IPad e ricomincio a sentir una musica giusta.

FINALMENTE.

Ma eccola la grande sfida: il COVID. La “carta imprevisto” del monopoli che ti insegnano che c’è e che ci devi fare i conti ma nella vita vera non te l’aspetti mai. Io, del covid, ho cercato di farne il mio personale “punto di svolta”.

Ho letto la frase “Gli alberi resistono alle tempeste più forti grazie alle loro radici”. Ed è nato così so∙la∙tì∙a. Da quello che per me significa radici, dalla mia terra, che è famosa per vivere con e per l’estate. Noi che ne abbiam fatto un modo di essere, sempre solari e propositivi. Continui a sorridere, anche se dietro ci son preoccupazioni e ansie, perché devi far star bene quelli che da 40 anni vengono in vacanza da te perché sei il loro porto sicuro, perché quel fare, quel sorriso gli serve. E serve anche a te che lo doni. so∙la∙tì∙a nasce da quel sorriso che anche se nascosto da una mascherina c’è e si sente... come il sole che bacia questa mia terra instancabile.

La mia estate 2020 è iniziata a fine maggio con Enrico del Torakiki a Lido di Classe, che sono andata a trovare non appena gli stabilimenti balneari potevano riaprire. Era tutto indaffarato a

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sanificare, spostare, progettare i percorsi emi ha confessato che non dormiva da giorni… ma un sorriso, rassicurante, non me l’ha negato.

Poi mison spostata a Rimini dove ho incontrato Stefano, balzato alle cronache nazionali per la sua passerella arcobaleno. Lui è stata una iniezione di positività. La passerella non era solo un “ANDRA’ TUTTO BENE” oramai ripetuto all’infinito nei mesi antecedenti, ma era anche un supporto alla comunità LGBT: “Per noi romagnoli è un modo di fare questo, non una imposizione o un dovere. Siamo così, dobbiamo dare una mano a tutti a star meglio”.

Mi son poi spostata nell’entroterra romagnolo, perché non di solo mare e sabbia è fatta questa terra.

A Lugo di Romagna ho incontrato Giulia, stella romagnola, campionessa mondiale per tre volte di beach tennis. Una ragazza esplosiva che sta combattendo contro il fermo imposto nel mondo dello sport, che non sia il calcio.

Abituata a girare il mondo, la sua medaglia più sofferta però l’ha vinta sulla sabbia romagnola, lei che sotto quel sole ci è nata, la fatica l’ha sentita ma non l’ha fatta vedere. E ha vinto attraversando la fatica e non vede l’ora di risentirla, perché

infondo è il suo habitat naturale. Che Romagnola!

Ultima tappa per questo giugno il bagno Corrado da Enrico dove ogni mattina da 50 anni si balla il liscio alle 6,30

del mattino e poi via di bomboloni.

Fino all’anno scorso quelle mattine erano vere e proprie guerre per accaparrarsi un posto sulla pista…e la ballerina

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#elisafrancesbean

più bella. Oggi la pista era più vuota, ma certi irriducibili ci son sempre. E son loro a dar fiducia ad Enrico e a me.

E la mia estate è solo all’inizio. Continuerò a raccontare nuove storie, a aggiornare quelle già raccontate. Voglio vedere

il cambiamento, non solo nei volti ma anche nelle loro parole.

Non vedo l’ora di poterle mettere tutte insieme e raccoglierle in un libro per potermi ricordare, sempre, che le strade saranno in salita, ma l’impor-

tante è come le sali. Se sorridendo o lamentandoti.

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Se sorridi, come diciamo qui in Romagna, “ne hai metà della fatta”.

Approdare ai Social solo come ultima spiaggia è praticamente inutile così come pensare di costruirsi un futuro contando solo su Instagram. Dietro una strategia di comunicazione di successo c’è molto di più. Parola di Anna

Cortelazzo meglio nota come Pivanelsacco

nna

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@p.ivanelsacco
Parola di P.ivanelsacco

Siamo tutti vittime dello scrolling, ovvero lo scorrimento

- ormai quasi compulsivo

- dei nostri social che ci ha trasformati in avidi divoratori di immagini, sulle quali però riusciamo a soffermarci solo per alcune frazioni di secondo, ansiosi di passare all’immagine successiva. Da quando il web è diventato il luogo principe dove i freelance e le aziende devono imparare a promuoversi, le professioniste come Anna Cortelazzo sono le nuove eroine. In fondo, il mestiere di Anna consiste nell’ammaliare i navigatori del web per poi catturarli e fare in modo che si trattengano il più a lungo possibile su una pagina o profilo per poter trasmettere contenuti di VALORE.

Esiste infatti il rischio che concetti importanti, se non sono veicolati nel modo più opportuno, sfuggano a quelle stesse persone che, invece, stanno cercando proprio quel particolare servizio, quell’evento o quel professionista, che magari sta dietro ad una foto mal confezionata o ad una frase poco efficace.

Detto così potrebbe sembrare facile, ma per essere capa-

ci di conquistare un pubblico ci vuole molto di più. Serve prima di tutto talento, ma è altrettanto necessaria una formazione accademica a cui si aggiungono esperienze concrete di vita che, nel caso di Anna Cortelazzo, vanno dalla comunicazione politica al giornalismo, senza tralasciare sincere passioni quali quella per il fantacalcio, i romanzi thriller e un mal celato amore per la Fiorentina.

Il nome del sito di Anna Cortelazzo è Pivanelsacco e, già da qui, intuiamo la scelta precisa per quanto riguarda il target a cui ha deciso di rivolgersi. Sbaglio a pensarla così? Risponde Anna:

“Ogni piattaforma va pensata per un target specifico: sul mio sito, ad esempio, mi rivolgo ai freelance, quindi non metto l’accento su lavori per me altrettanto importanti, come possono essere le collaborazioni con le aziende e l’insegnamento universitario. Piccola consulenza non richiesta: quando qualcuno sceglie di fare il salto promuovendosi sul web, la tendenza è quella di voler essere ovunque, ma, a meno di non avere già uno staff, questo rischia di essere controproducente per-

ché studiare fin da subito una strategia per ogni canale e poi metterla in pratica implica l’uso smodato del Giratempo di Hermione Granger”.

Che consigli daresti a chi pensa di puntare tutto sul diventare un Instagrammer di successo?

“Se una persona mi dicesse che vuole puntare tutto sul diventare una Instagrammer di successo le risponderei che è una pessima idea. Instagram è una piattaforma di cui non abbiamo il controllo, non è “casa tua”, come può esserlo, per esempio, un sito web. Detto in soldoni, se domani Instagram chiudesse la baracca, tu perderesti il lavoro. Oppure, e questo è molto più plausibile, se Mark Zuckerberg decidesse che per mostrare agli utenti i tuoi post devi pagare 10 euro (o 100, o 500) per ogni contenuto, potrai continuare a lavorare soltanto se hai un discreto budget di sponsorizzazione. In parte, questo è già successo: a meno che un contenuto non sia virale, la portata organica (cioè le persone raggiunte dal post senza l’impiego di soldi) si è fortemente ridotta. A meno che quella di Instagrammer non sia un’attività a tempo determinato, io consiglio sempre

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di avere un sito web: possono esserci cambiamenti anche nel funzionamento di Google o di WordPress, ma sono molto più lenti e comunque, in caso di emergenza, i contenuti si possono sempre esportare altrove. Forse, addirittura più importante è la newsletter: se qualcuno si fida di noi al punto da darci il suo indirizzo mail, il canale con quella persona sarà sempre aperto e avremmo così la possibilità di comunicarle dove ci siamo spostati se Instagram non ci piace più”. Che cosa pensi invece degli influencer?

“C’è una sorta di stigma nei confronti di questi ultimi (che di recente hanno cambiato il loro nome in Creator, ma è la stessa cosa), cioè di chi promuove prodotti, location e via dicendo. In realtà questo è un lavoro vero e proprio: i contenuti promozionali che una volta si vedevano in televisione, sui giornali o sui manifesti ora passano anche sul web. Ci vuole tempo e molta creatività per realizzarli e in questo senso è un lavoro a tutti gli effetti.

È passata l’idea che possono farlo tutti, magari comprando follower o, in generale, usando mezzi poco etici. Ci sono gallerie di immagini di

“influencer improvvisati” che sono un continuo spot, senza alcuna strategia alle spalle, e il problema è che alcune aziende ci cascano: guardano i numeri e non l’aderenza della comunicazione dell’influencer ai valori dell’azienda. Oppure, succede anche che se un’azienda deve scegliere se pagare un influencer con la I maiuscola o collaborare con uno che si improvvisa tale semplicemente mandando un prodotto, preferiscono la seconda. Questo, comunque, succede con tutti i lavori: c’è chi li fa con cura e chi cerca scorciatoie”.

Anna e il lockdown. Una grande avventura?

“Naturalmente il lockdown è stato un periodo strano anche per me. Alcuni clienti hanno messo in pausa il marketing, altri sono venuti da me perché vendere online era diventato di colpo necessario. Questi ultimi stanno ottenendo ora, dopo tre mesi, buoni risultati. Se durante il lockdown l’online gli ha permesso di tenersi a galla, magari anche faticosamente, è adesso che raccolgono i frutti del lavoro: in generale, le persone si ricordano di chi è stato loro vicino nei momenti di difficoltà, e i brand, presenti ma non assil-

lanti, saranno i primi a beneficiare di un lavoro di marketing strutturato quando la tempesta passa. Paradossalmente in questo periodo le cose sono state più veloci: di solito una strategia di marketing comincia a dare buoni risultati dopo

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circa sei mesi di rodaggio, specie se si parte da zero. Personalmente ho l’impressione che il lockdown abbia amplificato sia i sentimenti che la propensione all’acquisto”.

Ma tu da piccola cosa sognavi di fare?

“La scrittrice, ma sono ancora in tempo vero?”

l’altrameta 23 @p.ivanelsacco

annalisa baraldo

24 l’altrameta @annalisabaraldo

Io e Annalisa ci siamo incontrate più volte nell’arco del periodo che va da luglio 2019 a gennaio 2020. La prima volta è stata al raduno di Anmil Sport Italia a Spilimbergo, dove ho conosciuto anche molte sue compagne di squadra e l’ho vista in sella alla bici, capelli mossi e un notevole spirito goliardico. Ci siamo “frequentate” sui social per mesi, come succede in quest’epoca, e grazie ai suoi post ho scoperto che oltre al ciclismo, quando è in forma, corre anche a piedi partecipando a manifestazioni sportive di ogni ordine e grado. Una volta ho anche pensato di iscrivermi visto che mi invitava sempre ad unirmi a lei per una corsa a piedi. Era la corsa della Befana, l’unica in cui pensavo non avrei sfigurato accanto agli “accaniti praticanti del running a qualunque costo e in qualunque posto”. Poi ovviamente la mia pigrizia ha prevalso, ma ho colto l’occasione di porgerle le mie più sentite scuse per averle dato buca proponendole un’intervista per L’Altrameta.

Annalisa ha reso facile il mio compito. Mi ha spiegato che lei corre con GLI SCLERATISCLEROBIKERS. Un’espressione che chiarisce tutto subito e mi sottrae all’ingrato compito di fare domande con il timore di

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urtare la sensibilità altrui. Lei e gli atleti con questo tipo di patologia gareggiano in categorie particolari a seconda delle limitazioni che la malattia impone loro. È complesso misurare quanto la loro prestazione venga pregiudicata dai vincoli causati dalla malattia; vincoli che variano da persona a persona. È comunque fatta salva per loro la possibilità di gareggiare in competizioni contro atleti normodotati. Ed è proprio nel cercare di capire questo complesso meccanismo o, per meglio dire, questo paradosso che secondo me si palesa una verità.

Si corre a piedi o in bici per sfidare sé stessi e i propri limiti, ma soprattutto per divertirsi.Mai come in questo caso lo sport mi appare per quello che è veramente. Una sfida ad andare “oltre”. Oltre le classifiche e i campionati.

Oltre i riconoscimenti e tutto quello che caratterizza la carriera di uno sportivo, professionista o dilettante che sia.

C’è un altro aspetto delle conversazioni che ho avuto con Annalisa che mi ha colpito molto. Annalisa mi dice che, ad un certo punto, durante le gare perde in parte la sensibilità di gambe e piedi, ma ciò

nonostante riesce comunque a continuare a spingere sui pedali. Le ho chiesto: scusa ma con cosa spingi? Lei mi ha risposto: “con tutto il resto”.

Ecco, io quel “tutto il resto” me lo immagino così: un cervello

che, come il Gladiatore, ordina ad ogni singola fibra del corpo di scatenare l’inferno e recuperare ogni infinitesima risorsa per pedalare.

Potenza del cervello, ma forse anche del cuore! Che ti fa

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correre sempre in un altro campionato.

Le foto di questo servizio sono state scattate a Eroica Caffè, in via S.Lucia a Padova. È, senza dubbio un posto che in pochi mesi è entrato nel cuore di

tanti appassionati di bicicletta che sanno di poter arrivare in questo luogo in sella alla propria bici e di poterla portare con sé all’interno del locale.

Eroica Caffè è frequentato da persone di tutte le età che

si trovano a proprio agio in questo angolo di Padova dall’arredamento vintage, che ci fa tornare indietro ai tempi in cui i tifosi si riunivano nei bar davanti alla tv per guardare le imprese eroiche dei ciclisti.

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@annalisabaraldo
Quando durante le gare si perde in parte la sensibilità di gambe e piedi, si spinge con tutto il resto

rigoni

dal debutto al successo

Una tournée in Cina insieme ad una collega violinista, l’esame per accedere ad una prestigiosa scuola di musica negli States. Obiettivi solo posticipati per questa pianista che ha scelto Schumann per presentarsi al pubblico per il suo crowfunding, presto on line per permettere ai suoi fans di sostenerla nella scalata al successo.

Succede che un amico regista ti segnali che ha incontrato una giovane pianista e ti dica che devi assolutamente conoscerla. Io ammiro sempre moltissimo chi si dedica in modo professionale all’arte in generale, ed in special modo chi desidera costruirsi una carriera come musicista perché, diciamocelo, se in Italia è difficile emergere in qualsiasi settore, diventare pianista e poter vivere di questa professione lo è ancora di più.

Il motivo me lo spiega proprio Anna Rigoni alla prima occasione che abbiamo di incontrarci. Lei ha iniziato per un motivo molto semplice: l’emulazione nei confronti di sua madre, insegnante di pia-

noforte che, molto coscienziosamente, capisce subito che il talento della figlia va coltivato sotto la direzione di qualcuno che sia estraneo al nucleo familiare. Inizia così un lungo percorso, fatto di anni di esercizi ripetuti all’infinito attraverso cui raggiungere il livello altissimo al quale un professionista deve ambire. Il tutto è stato vissuto come un’evoluzione assolutamente naturale, perché in casa c’è anche un’altra sorella musicista, che sceglie invece di dedicarsi al violino. Le esecuzioni in coppia sono tanto spontanee quanto il giocare, fra due sorelle che sono coetanee.

Il diploma di pianoforte al Conservatorio di Vicenza e poi un

anno di Erasmus a Bruxelles, durante gli studi universitari, hanno permesso ad Anna Rigoni di capire come funzionano le cose in ambito musicale all’estero. In Italia per chi vuole farsi conoscere i concorsi sono l’unico strumento veramente utile. Un tempo i concorsi erano pochissimi e garantivano ai vincitori di ciascuna edizione una certa celebrità, che permetteva loro di essere richiesti nell’arco di quell’anno come esecutori in svariati concerti e di avviare dunque la propria carriera professionale. Negli ultimi anni sono stati istituiti tantissimi nuovi concorsi ai quali si può accedere solo pagando una somma che spesso non è di entità trascurabile.

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@
rigoni_anna

Tale investimento diventa un ulteriore impegno economico se pensiamo che prima ancora ci sono anni e anni di studio. Quindi gli stessi Concorsi hanno perso quella funzione che avevano negli anni passati.

Sono pochi i Concorsi che garantiscono ai loro vincitori di entrare in quel circuito virtuoso di cui abbiamo parlato

sopra. Eppure Anna così come tanti altri colleghi non può fare a meno di affrontare questa dura “gavetta”. Ecco quindi da dove arriva l’idea di questa giovane vicentina di iniziare ad organizzare concerti in modo autonomo nella sua città di origine. Del resto, quale migliore cornice della Chiesa di San Vincenzo in Piazza dei Signori a Vicenza, ospite del-

la Fondazione Monte di Pietà, per presentarsi e far conoscere le proprie abilità?

Anna racconta di come i mesi che hanno preceduto il concerto di settembre 2019 siano stati molto complessi. “Non è stato esattamente un gioco da ragazzi organizzare un concerto dal vivo soprattutto perché, oltre a prepararmi a lungo per

30 l’altrameta @rigoni_anna

sponsor

la perfetta esecuzione di più brani, ho dovuto fare fronte alle numerose incombenze che devono essere affrontate. Adempimenti legislativi, promozione pubblicitaria e ricerca degli sponsor”.

Eppure lei ci è riuscita, ed è salita sul palco radiosa e rilassata. La tensione di cui gli ascoltatori sono stati parteci-

pi è solo quella che Anna ha trasmesso empaticamente per effetto del ritmo e delle note. E perché ha scelto una scaletta di esecuzione che non può certo dirsi rilassante quanto piuttosto coinvolgente. Come per il suo CD di esordio, intitolato “Keisleriana” che ho ascoltato subito dopo il nostro primo incontro e che mi ha fatto capire quanta determinazione e

quanta forza ci sia dietro questa giovane vicentina.

La sua prossima meta sono gli Stati Uniti, dove vuole andare a studiare in un istituto “antico” quanto prestigioso, dove è attesa per sostenere il difficile esame di ammissione.

“KEISLERIANA” - sulla piattaforma per il crowfunding Eppela, link: bit.ly/AnnaRigoni

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Non è un gioco da ragazzi organizzare un concerto dal vivo, perché oltre a prepararmi a lungo per l’esecuzione dei brani, devo fare fronte agli adempimenti legislativi, alla promozione e alla ricerca degli

elisa briarava

Una pelle di porcellana che si è trasformata in una tela per accogliere quasi 60 tatuaggi per lo più ispirati alla mitologia greca e romana, materia della quale è appassionata e al cui studio si è dedicata anche durante gli anni universitari. Elisa Briarava è arrivata a Padova per conseguire una laurea magistrale in mediazione linguistica e culturale con una tesi sulla teoria di Sapir-Whorf, conosciuta anche come “ipotesi della relatività linguistica”, secondo la quale lo sviluppo cognitivo di ciascun essere umano è influenzato dalla lingua che parla. Ovviamente durante questo percorso non poteva restare con le mani in mano, per cui ha iniziato a lavorare come bartender pensando, come succede a molte persone, che sarebbe stato un lavoro temporaneo per mantenersi agli studi. Ma è grazie al popolo della notte che scocca la vera scintilla e i cocktail diventano le pozioni magiche con le quali conquistarlo.Ogni notte va in scena un incantesimo diverso e le ore dietro al bancone scorrono veloci, ric-

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Si possono creare raffinati cocktail che siano anche in grado di trasmettere la conoscenza della ricchezza della lingua italiana? La risposta è sì, se dietro al bancone c’è una bartender come Elisa Briarava.

che di felicità, tanto da portare Elisa a scegliere questa come professione. Un lavoro dove non ci si può improvvisare e per cui è necessaria una conoscenza approfondita della materia che si va a miscelare, per comporre quegli straordinari cocktail grazie ai quali si è conquistata la popolarità fra gli intenditori padovani.

Forse il fascino dei suoi cocktail, oltre che da una selezione e unione attenta degli ingredienti, deriva anche dalla scelta dei nomi, sapientemente creati ad arte. Come il “Saggitabondo” che Elisa ha composto davanti

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Una pelle perfetta che diventa una tela per ospitare tantissimi tatuaggi, passione che ha trasmesso anche ai suoi genitori che per l’ anniversario di matrimonio hanno deciso anche loro di tatuarsi

ai nostri occhi e che abbiamo degustato alla fine del servizio fotografico realizzato all’interno del suo regno: il Monkey Business a Padova. Ce ne parla mostrandoci la scheda tecnica che ha realizzato, grazie alla quale lettrici e lettori potranno cercare di emulare la maestria di Elisa. Oppure più semplicemente recarsi al Monkey Bussiness per saggiare uno o più cocktail della lista di creazioni realizzata insieme ai suoi colleghi bartender.

Il Monkey Business si conferma uno dei luoghi della città che vuole vivere a tutte le ore. È grazie alla presenza di locali come questo che il Comune di Padova cerca di ridare vita alle zone di via Trieste e Piazza De Gasperi. Luoghi, non dimentichiamoci, nei quali sta nascendo una comunità di artisti, dove i negozi sfitti si trasformano in atelier e start up di imprese. La rinascita di un quartiere passa anche attraverso un avamposto - in questo caso un locale accogliente

- aperto dall’orario di pranzo fino a tarda notte. Un bel cartello invita i propri ospiti, una volta usciti, a rispettare il diritto al riposo delle persone che abitano nei dintorni.

In posti come questi non si cerca lo sballo. Si degusta e si impara a conoscere ciò che si sta bevendo prima di salire a bordo del tram o di un taxi, per non rischiare di rovinare quell’attimo perfetto che segue una serata trascorsa a degustare gli incantesimi di Elisa.

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il SAGITTABONDO

Insieme ai miei colleghi ho creato una drink list scegliendo parole italiane ormai in disuso così da riscoprire la ricchezza della nostra lingua attraverso dei cocktail che riescano a cogliere il loro significato. La parola che mi è stata assegnata è “sagittabondo” che descrive “colui che scocca sguardi che fanno innamorare”. Nello specifico, questo termine deriva dal verbo latino “sagittare” cioè “lanciare frecce”. Da appassionata di mitologia greca e romana ho pensato a Cupido, meglio conosciuto come Eros, dio dell’amore divino e per questo ho scelto di utilizzare ingredienti afrodisiaci caratterizzandolo con qualcosa che ricordasse il colore della passione per eccellenza: il rosso.

Il mio cocktail “Sagittabondo” è quindi composto da:

• Mezcal: distillato d’agave famoso per la presenza, nella bottiglia, del Gusano, un bruco che abita all’interno della pianta e che, secondo la credenza popolare messicana, dona virilitá. Vermouth rosso: dal color rosso rubino. Ho infuso questo liquore con cannella, cardamomo e pimiento per poi, successivamente, renderlo uno sciroppo aggiungendo dello zucchero.

• Tabasco: elemento piccante e quindi afrodisiaco per antonomasia

• Spremuta di lime

Il cocktail è servito in coppetta con una crusta di sale e aromatizzato con profumi che ricordano gli ingredienti presenti all’interno dello stesso: chiodi di garofano, cannella e cardamomo.

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@monkeybusinesspadova
ll Saggitabondo. Un cocktail per sedurre anche le menti più colte ed esigenti, evoca scenari onirici e piaceri sofisticati dello spirito.

Avremmo voluto che questo articolo fosse firmato dalle cinque donne detenute che hanno intervistato Vera Gheno il 22 febbraio 2020, il giorno prima dell’emergenza Coronavirus in Veneto. Dal 23 febbraio, però, tutti gli ingressi di persone esterne all’istituto sono stati ridotti per non correre il rischio di contagiare le donne ristrette. Per questo motivo, anche noi di Closer abbiamo sospeso le nostre attività. Non essendo quindi riusciti a incontrare le donne e a scrivere l’articolo con loro, abbiamo deciso di raccontarvi quello che è accaduto durante IAS – Interrogatorio Alla Scrittura, riportando qui sotto quello che Vera Gheno ha raccontato sui suoi social, insieme all’intervista che le è stata fatta dalle donne della Giudecca.

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“Ieri pomeriggio sono entrata in carcere. In particolare, nel carcere femminile della Giudecca, a Venezia. Ci sono entrata per presentare #FemminiliSingolari, “interrogata” da un gruppo di detenute e davanti a un pubblico di

Pubblichiamo il resoconto di un incontro che si è tenuto il 22 febbraio all’interno di uno spazio molto ristretto dove grazie ai volontari dell’Associazione Closer, la sociolinguista Vera Gheno ha presentato l’ultimo dei suoi libri .

“esterni”, grazie all’associazione Closer.

Ora, non so voi come vi immaginiate un carcere, per di più femminile. Io non sapevo esattamente cosa aspettarmi, perché fino a ieri la mia unica idea di carcere veniva dai mezzi di comunicazione di massa.

La prima cosa che fa impressione è l’ingresso. La porta, automatica, è in vetro blindato. Ed è strano vedere quel materiale trasparente dare l’illusione dell’inesistenza delle sbarre. Eppure, è uno sbarramento impossibile da superare, se non in base alla volontà

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@a_wandering_sociolinguist
Il fascino indiscreto dell’iperconnessione

dall’addetta preposta alla sua apertura.

Proprio dall’incontro con tale signora inizia la mia permanenza alla Giudecca. Lei e la collega ci ritirano il documento di identità e ci fanno spegnere i cellulari: adesso siamo un po’ meno “noi” e sconnesse dall’esterno. Lasciamo le borse negli armadietti in portineria, e così andiamo in biblioteca per un incontro preliminare con le detenute.

La struttura è invasa dal sole, le pareti sono colorate. Se ti distrai un attimo, potresti pensare di essere in un reparto ospedaliero di maternità. Ma mancano i bambini. In compenso ci sono donne: alte e basse, giovani e vecchie, grasse e magre, incupite e sorridenti, silenziose e ciarliere, italiane e straniere, alcune che si affacciano incuriosite dalla nostra irruzione, altre che si ritraggono nervosamente nelle loro celle.

Già, le celle. Il corridoio che porta alla biblioteca passa davanti alle loro porte, e a me dispiace invadere così il loro spazio già troppo poco privato. Scusate, penso tra me e me. Scusate, non volevo.

In biblioteca conosco le “mie” donne. Hanno letto il libro, almeno alcune di loro, hanno

preparato delle domande, ma hanno soprattutto curiosità nei miei confronti, e anche tante cose da raccontare. Hanno anche preparato un piccolo glossario dei termini che si usano dentro il carcere, e che “fuori” raramente si conoscono: “concellina”, ossia la compagna di cella; “scopina”, colei che fa le pulizie; “bianchina”, la persona che mangia “in bianco”, senza intingoli; conoscevo invece il termine “battitura”, che è da una parte il controllo della consistenza delle sbarre effettuato giornalmente da parte degli agenti e dall’altra uno dei modi di protestare che hanno i detenuti (a loro volta battendo sulle sbarre, e in generale facendo rumore con qualsiasi oggetto a loro disposizione).

Non potrei certo dire che abbiamo immediatamente legato, però ci siamo annusate a vicenda quanto bastava. Dopodiché siamo scese di sotto, nella sala dei colloqui. L’abbiamo allestita assieme, formando una sorta di semicerchio di sedie. Poi sono arrivate le persone: una cinquantina di “esterni”, entrati in carcere per assistere all’incontro, alcune altre detenute scese ad assistere.

Ed è andata così: sono stata interrogata dalle “tose”, o “si-

gnore”, o “ragazze” (la triestina ha proposto “mule”), come sempre ho parlato, forse anche straparlato. Abbiamo riso, in un paio di occasioni. Sono volate parole grosse (si fa per dire). Abbiamo discusso di #FemminiliSingolari, certo, ma anche di vocabolario in generale, di turpiloquio, di gerghi, di scelte di vita, di sfiga, di opportunità e dell’importanza di avere il dominio della parola. Mentre raccontavo dei lavori di William Labov, uno dei padri riconosciuti della sociolinguistica, a una delle detenute più giovani e più silenziose si è accesa una luce negli occhi. Spero di averle dato una buona idea.

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Così Vera Gheno ha descritto su Facebook la sua esperienza con IAS – Interrogatorio Alla Scrittura. I pensieri, le opinioni, le curiosità e anche le polemiche delle donne che l’hanno interrogata sono state alla base dell’intervista che qui riproponiamo.

Come nasce la tua passione per la lingua e quando hai capito che saresti diventata una linguista? Sicuramente, mi ha aiutata il fatto di crescere bilingue. Mio papà è italiano, veneto per l’esattezza, e mia madre ungherese, e sin dalla più tenera età tutta la famiglia ha sempre parlato due lingue... anzi tre: ungherese, italiano e veneto! Dicono che i cervelli dei plurilingui siano più portati alla riflessione metalinguistica: magari la mia passione dipende anche da questo. Ci aggiungo anche il fatto di essere cresciuta in campagna per i primi dieci anni della mia vita, e senza televisione: questo mi ha quasi “costretta” a leggere come un’ossessa. Ma che sarei diventata linguista l’ho capito tardi: prima, ho frequentato i corsi della facoltà di ingegneria per due anni pieni, perché proprio non volevo fare quello in cui mio padre eccelle (è un linguista anche lui, ahinoi!). E

invece, proprio come dice il famoso modo di dire, la mela non casca lontana dall’albero, ed eccomi qua.

Abbiamo visto che il focus principale del tuo studio sono i social. Perché pensi che sia importante studiare i social media da una prospettiva linguistica?

I social sono un contesto in cui comunichiamo tutti, o

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quasi, e con le parole, quasi sempre. È la prima volta nella storia dell’essere umano che a tutti viene data la possibilità di comunicare il proprio pensiero pubblicamente, ed è per me affascinante vedere quanti problemi questo si porti appresso: nessuno ci ha insegnato a maneggiare bene il megafono che ci è stato messo a disposizione. Vedere, quindi, il cammino difficile e pieno di inciampi degli esseri umani alle prese con la cosiddetta “iperconnessione” è per me fonte di fascino inesauribile.

E siccome la mia prospettiva è sempre didattica, nel frattempo mi chiedo come far sì che tutti possano diventare esseri umani “felici e connessi”.

Il carcere è il luogo chiuso per eccellenza: come cambia la lingua a seconda del luogo in cui si trova, e come influisce la limitazione fisica di un ambiente chiuso come il carcere sullo sviluppo di una lingua?

Come avete notato voi, abitanti del carcere, in questo ambiente si creano parole “nuove”, che fuori da queste mura non sono note: la coinquilina della cella è la “concellina”, la persona che mangia in bianco è la “bianchina”, la resistenza a rientrare nella cella è definita “fare fuori cella” e così via. In pratica, esattamente come succede in tutte le comunità, è nato un gergo condiviso dalle persone che si trovano a condividere un certo spazio. Premesso che la lingua si adatta e subisce sempre l’influenza del posto in cui viene parlata, in un contesto particolare come quello del carcere questo accade in maniera ancora più evidente, perché è come se la lingua rimarcasse la differenza tra il “dentro” e il “fuori”. In un contesto chiuso, circoscritto, la lingua tende a “gergalizzarsi” ancora più del solito: è il vostro personale atto di identità che rimarca la vostra apparte-

nenza a una precisa microcomunità.

Perché la questione di declinare al femminile nomi di mestiere tradizionalmente al maschile ha portato a discussioni così accese e ha incontrato una così forte opposizione da parte di molti? Intanto, non è una decisione, ma piuttosto la conseguenza di un mutamento avvenuto nella realtà: il fatto che siano aumentate, nel corso degli ultimi anni, le donne che svolgono lavori prima appannaggio quasi esclusivo degli uomini. E siccome la lingua deve sempre descrivere la realtà che deve rappresentare nella maniera più precisa, ecco che sono entrate nell’uso molte forme femminili “inedite”. Il fatto che diano fastidio non è strano: gli esseri umani sono sempre molto possessivi e reazionari nei confronti della loro lingua e i cambiamenti sono spesso sentiti come un “impiccio”. In

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La cosiddetta “iperconnessione” è per me fonte di fascino inesauribile.
Mi chiedo come far sì che tutti possano diventare esseri umani “felici e connessi”

più, che molti si scaglino contro il loro impiego è anche una triste cartina di tornasole dello squilibrio ancora esistente tra maschi e femmine nel nostro paese. Tra uomini che ci dicono quali sono i problemi di cui noi donne ci dovremmo occupare e donne che spesso si rivelano più maschiliste dei maschi, c’è ancora molta strada da fare. Io cerco semplicemente di sfatare alcuni “falsi miti” legati alla questione di genere, ma non voglio imporre nulla a nessuno. Faccio solo un esempio: quelli che affermano che “architetta” non si può sentire perché ricorda troppo “tetta” non credo che si trovino in confusione se durante una partita di calcio qualcuno chiama un fallo; nessuno si aspetta che in campo compaia un gigantesco membro maschile! Questo esempio può far sorridere, ma

è sintomatico: molto spesso, i problemi riguardanti l’uso dei femminili è tutto nella nostra testa.

Il pubblico, attentissimo, prendeva appunti. Ha fatto un sacco di domande. Ci siamo ritrovati a parlare di burocratese come antilingua, del rinnovato sistema dei media e delle sfide cognitive che pongono, ma anche di sociolinguistica dei confini (per i curiosi: cfr. Federico Faloppa), perché in fondo anche il carcere è una sorta di confine, oltre che di confino.

Per concludere, i ragazzi di Closer hanno portato i galani (o frappe, crostoli, chiacchiere, bugie, cenci, fate voi) per festeggiare il sabato di Carnevale. Abbiamo mangiato, ho firmato libri, ho parlato ancora, e ancora, e poi ho finito le parole, ho abbracciato le mie nuove

amiche, ho lasciato loro i libri che avevo. Ho ripreso documenti, borsa e cellulare. Abbiamo salutato le signore della portineria. La porta blindata si è aperta per noi, per richiudersi lestamente alle nostre spalle. E quindi uscimmo a rivedere le stelle, in una Venezia bella da morire. Noi fuori, loro dentro. Per chissà quanto.

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#VeraGheno
questo articolo è stato realizzato grazie a Giulia Ribaudo di Associazione Closer

GLORIA EMEGHEBO

Quante domande imbarazzanti poniamo alle persone solo perché hanno un aspetto diverso dal nostro ?

Risponde Gloria Emeghebo, giovanissima cantante di Moviechorus, realtà sostenuta da Antenore Energia che riunisce cantanti e musicisti di tutte le età. Il

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#GloriaEmeghebo
è
mio sorriso
sempre la risposta migliore

Ho sempre pensato che essere curiosi e aperti verso il mondo, fossero qualità vincenti in una persona probabilmente perché io, il mondo, me lo sono trovata in casa fin da piccola.

Io sono italo-nigeriana e ne vado fiera, sono più scura di mia mamma e più chiara di mio papà, ci scherzo sopra e sono contenta quando d’estate al mare mi basti davvero poco per abbronzarmi.

Una delle mie grandi passioni

è il nuoto. In acqua sono stata catapultata all’età di tre anni e fin da piccola ho capito quanto questo elemento mi facesse stare bene e mi rasserenasse.

È stato proprio alla fine di una lezione di nuoto che una bambina mia coetanea, vedendo mia mamma ad aspettarmi alla fine del turno in piscina, mi ha domandato se fossi stata adottata. Una domanda, questa, all’apparenza innocua, soprattutto perché fatta da una bambina. All’epoca ero impreparata alla curiosità infantile e non sapevo cosa rispondere. Non mi era mai passato per la mente che, avendo la mamma con la pelle più chiara di me, molti potessero essere incuriositi riguardo la mia origine e dubitare del fatto che fossi italiana.

Nel corso della mia vita la stessa domanda mi è stata proposta diverse volte. Riconosco che molto spesso viene fatta in buona fede ma, immaginatevi di tornare bambini, come rispondereste?

Chi riceve una domanda del genere avverte subito esclusione perché, evidentemente, per alcune sue caratteristiche, risulta diverso.

Ciò che ho capito nel tempo è che chi pone tale richiesta, si aspetta una risposta affermativa. Di conseguenza, nel mio caso, quando rispondo che non sono stata adottata mi diverte un po’ il disorientamento che provoco.

Di fronte alla fatidica domanda “Da dove vieni?” ho sempre fatto il paragone con la carta d’identità. Il documento contiene i tuoi dati, informazioni che ovviamente non si mostrerebbero ad uno sconosciuto, perché sono, appunto, “personali”. Dover spiegare le mie origini e quelle dei miei genitori, anche a persone che non mi conoscono veramente, mostra come sia necessario che racconti proprio per provare che sono italiana. Io rispondo sempre sorridendo, perché è bello sapere che altre

persone vogliano conoscermi e comprendo la curiosità, però, ritengo ci sia sempre un momento opportuno per domande così delicate.

Ho appena terminato il Liceo Classico e superato la fatidica “Maturità”. Devo sicuramente ai miei studi la fluidità con cui parlo l’italiano che suscita spesso apprezzamenti! Quante volte mi è successo di ascoltare persone meravigliate dal fatto che io parli bene la lingua italiana.

Quando ero più piccola rimanevo sorpresa per questi complimenti ma poi, con il passare degli anni, ho pensato di replicare elegantemente a queste osservazioni, sfoggiando il mio sorriso a trentadue denti e complimentandomi a mia volta per l’italiano del mio interlocutore.

Come tutti i miei coetanei, utilizzo i mezzi pubblici e vado nei negozi a fare shopping con gli amici. Talvolta mi è successo di essere stata la sola ragazza sul mezzo pubblico a cui sia stato controllato il biglietto, nonostante ci fossero anche altri passeggeri, biglietto che ovviamente acquisto e oblite-

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Quando ero più piccola rimanevo sorpresa per questi complimenti ma poi, con il passare degli anni, ho pensato di replicare elegantemente a queste osservazioni, sfoggiando il mio sorriso a trentadue denti e complimentandomi a mia volta per l’italiano del mio interlocutore.

ro sempre prima di salire. Mi è anche capitato di essere seguita dai commessi dei negozi per vedere se acquistavo o facevo altro con la merce esposta.

Forse molti penseranno che questi controlli possano succedere a tutti, questo è vero, lo riconosco, purtroppo però si rimane feriti quando ci si accorge che, nella stessa situazione, le tue amiche, con la carnagione più chiara della tua, ricevono un trattamento differente.

Il mio essere “diversa” lo considero come una ricchezza di cui essere orgogliosa e di cui mostrare sempre il lato positivo attraverso le qualità e

i pregi che ho ricevuto dalle culture dei miei genitori. Per questo se mi trovo ad assistere ad azioni offensive o razziste, nei confronti di chiunque, cerco sempre di rispondere attraverso il dialogo per dimostrare come queste siano inutili.

Sono fiduciosa nella mia generazione che sta crescendo a contatto con molte culture. Inoltre, sono contenta di vedere come, a Padova, città universitaria e dunque ricca di studenti provenienti da paesi diversi, sono sempre più numerose le contaminazioni straniere come, ad esempio,

quelle culinarie che portano ad apprezzare ristoranti di etnie diverse, giapponesi, messicani, cinesi, turchi o hawaiani frequentati non solo dalle nuove generazioni. La bella diversità passa anche dalla tavola.

Se il futuro per me comincia adesso, io sono pronta, sono positiva e penso che la situazione in Italia e nel mondo possa cambiare in meglio.

l’altrameta 47 #GloriaEmeghebo
L’Altramèta no stress disegna gli abitanti del palazzo
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