L'Altrameta Natale

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L'Energia della Festa

www.antenore.it

Energia, che bella parola.

Una parola bella, una parola responsabile. Antenore è semplice, chiara, comprensibile. E soprattutto seria. Ama le parole buone, i fatti concreti. Da Antenore potete chiedere una verifica, un preventivo o anche solo un confronto. L’Energia è più bella, dove le parole sono sincere.

L’ENERGIA DI ANTENORE. PARLIAMONE BENE.

PUNTI ENERGIA ANTENORE

RUBANO (PD) via della Provvidenza, 69 tel 049 630466

CAMPONOGARA (VE)

piazza Marconi, 7 tel 041 0986018

LIMENA (PD) via del Santo, 54 tel 049 768792

CHIOGGIA (VE) via Cesare Battisti, 286 tel 041 4762150

PADOVA (PD) via del Vescovado, 10 tel 049 652535

CASCINA (PI) via Tosco Romagnola, 133 tel 050 7350008

speciale Natale 2019

L’Altrameta è racconti, interviste, storie di Donne.

Persone che nella loro di vita di ogni giorno cercano di aggiungere qualcosa di speciale alla realtà che le circonda. Abbiamo infatti raccontato la vita particolare di chi ha scelto il Circo portando messaggi “in codice” carichi di nostalgia, indispensabili per un futuro di Pace, e la vita della fotografa Irene Ferri, che ci ha regalato scatti di una America lontana dal solito immaginario oltre ad averci presentato Vanja Venuti, attivista ambientalista da poco rientrata da un viaggio di sei anni tra America del Sud e America del Nord, in parte compiuto in solitaria a bordo di un van Volskwagen.

Abbiamo intervistato le volontarie di Asd Pet Project che, dopo una lunga e accurata formazione, si dedicano ad avvicinare animali ed esseri umani per migliorare la vita degli uni e degli altri, attraverso un approccio innovativo di collaborazione e rispetto reciproco.

La parola d’ordine per queste pagine è senza dubbio COLORE

Qui potrete leggere di chi il colore lo fabbrica, lo usa, di chi lo “insegna” e di chi ci aiuta a leggerlo. È un vero onore raccontare il percorso professionale dell’illustratrice Nicoletta Bertelle e i suoiconsigli per chi vuole avvicinarsi a questo mondo.

Chi, non ha mai desiderato entrare in una fabbrica magica come quella di Willy Wonka, anche se non produce cioccolato bensì colore? E pensare che c’è anche un metodo di origini giapponese per produrre un colore che sia quanto più vicino a ciò che ognuno di noi desidera rappresentare...

Silvia Fabris, poi, ci racconta come nasce una realtà come M-Children, il laboratorio dedicato ai bambini di M9, dove la tecnologia più innovativa si mescola a gesti e passaggi del tutto “analogici”, per introdurre all’arte e alla storia futuri appassionati di queste materie.

Infine una lunga lista di libri suggeriti dall’esperta Roberta Favia, dedicati ai più piccoli ma che di sicuro incuriosiscono anche i più grandi.

Ciò che auguriamo a tutti con questo numero del nostro giornale è che questo tempo natalizio (e di lettura!) sia fatto di occasioni per lasciarsi stupire in modo autentico dai colori e dalle storie che abbiamo voluto offrirvi, come succede solo ai bambini!

E di essere circondati da una nuova e buona energia per il 2020.

editoriale

scappiamo con il

CIRCO ?

Non è un’esortazione per chi è insofferente al clima delle Feste, ma è il racconto di come l’incontro con una realtà circense possa rievocare ricordi d’infanzia e far riscoprire il proprio senso innato di autonomia insieme a un desiderio profondo di libertà

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Non so voi ma io da piccola sognavo di scappare con il Circo. Non perché mi trovassi male con la mia famiglia, anzi. Ma sono stati proprio i miei genitori a spingermi a desiderare, anche solo segretamente, una vita “nomade”. Fin dalla più tenera età infatti, mi portavano a fare le vacanze in campeggio e io adoravo dormire in roulotte. Amavo così tanto quel piccolo guscio in vetroresina che fui felice anche quando ci furono delle scosse lievi di terremoto. Temendo si facessero più intense, quella volta, passammo la notte nella roulotte in giardino. Nella mia testa, i circensi erano dei nostri colleghi, amici, complici di un destino da girovaghi ai quali desideravo affiliarmi. Ci provai in tutti i modi. Un giorno quando avevo 3 anni, feci anche fagotto, nel vero senso della parola. Dopo un bisticcio con mia madre, raccolsi poche cose dentro a un sacchetto e presi la porta di casa decisa a cercare un circo dove sognavo che amici clown e acrobati mi avrebbero accolta a braccia aperte. Non feci che poche centinaia di metri, che a me sembrarono chilometri, mentre mia madre mi seguiva a vista senza che io la potessi vedere. Infatti mi si parò davanti e mi obbligò a fare ritorno a casa senza che io avessi il coraggio di dirle il mio segreto desiderio. Tutti questi ricordi mi sono tornati in mente la sera in cui, in primavera, sono andata a vedere lo spettacolo del Circo Patuf.

Questo piccolo, quanto incredibile, gruppo di artisti non poteva immaginare quale gioia potesse significare per me incontrarli dopo lo spettacolo, per conoscerli e raccontare la loro la mia storia. Complice il luogo dove si trovava il tendone e una pioggia fitta caduta per giorni, tutto evocava una atmosfera nostalgica e fuori dal tempo. Il Circo Patuf era arrivato in un paese lontano dalla città, al centro di una piccola isola circondata da canali che un tempo servivano a irrigare una risaia. C’erano alberi altissimi con chiome fatte di foglie maestose a punteggiare un viale al termine del quale si intravedeva la luce calda della roulotte rossa dove c’era la cassa, e che illuminava la grande insegna “CIRCO PATUF”. In sottofondo andavano vecchie canzoni come “Maramao perché sei morto” e una voce annunciava: “Venghino, venghino signori! Lo spettacolo sta per cominciare!”. C’erano persone di tutte le età, allegramente in fila, mentre due “intrusi” animavano l’attesa con piccoli dispettucci che tanto coglievano impreparati i genitori quanto facevano ridere i figli. Due deliziose ragazze, vestite come donne degli anni ’40, alla cassa,

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Ho vissuto l’incanto di una fiaba, con il suo senso profondo nascosto in un filmato proiettato sul soffitto del tendone.

Lascerò tutti ad aspettare che il Circo Patuf torni in città...

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#circo_patuf

distribuivano biglietti, bibite e zucchero filato. Pochi minuti e ci saremmo immersi in un mondo lontano. La mimica la fa da padrona e vengono pronunciate poche parole oltre a quelle delle canzoni che una delle attrici canta in alcuni passaggi. La cosa incredibile è che questo spettacolo potrebbe essere recitato ovunque, in qualsiasi paese del mondo.

I personaggi sono vestiti con abiti lisi e impolverati, secondo stili sovrapposti e se i cappelli e le calzature dei tre uomini fanno pensare solo lontanamente a quelle di un clown, il trucco dei loro visi è invece chiaramente di stampo circense. Ci sono poi due fantastiche attrici, delle quali una cantante e ballerina e l’altra incredibile acrobata aerea.

La trama è quella di un gruppo di persone che si sono rifugiate in una cantina e aspettano che un non meglio precisato nemico smetta di incombere su di loro. La scenografia è costruita con materiale di ogni genere, che la compagnia del Circo Patuf ha reperito ovunque e dosato sapientemente. Ma non è la tristezza a incombere, quanto la nostalgia alternata alle risate. Per esempio quando una delle due attrici è seduta sotto una luce fioca a scrivere una lettera impiegando un cerino, tra sospiri e sguardi languidi rivolti a un amato che chissà dove si trova. Si fanno spazio le risate, invece, quando uno dei cinque trova una mela e la divide in cinque piccoli pezzi e ognuno di loro interpreta l’appetito in modo diverso: c’è chi la ingoia avidamente, chi la annusa e chi se la spalma sul viso e sulle mani per conservarne il profumo.

Quest’esperienza era fatta di pianoforti scordati e pianisti distratti, piccole scharamouche più per passare il tempo che per sfidarsi sul serio, consapevoli tutti che la notte non può durare per sempre. E prima che la notte passasse, l’acrobata sarebbe salita appesa a una fune per volteggiare come una creatura fantastica, tanto che nessun bambino fiatava e per un attimo nessuno osava nemmeno estrarre un cellulare dalla tasca.

Ho vissuto l’incanto di una fiaba, con il senso profondo nascosto in un filmato proiettato sul soffitto del tendone. Non svelerò il finale e lascerò tutti ad aspettare che il Circo Patuf torni in città.

Come nel film Chocolat si attende l’arrivo dei girovaghi lungo il fiume…

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E prima che la notte passasse, l’acrobata sarebbe salita appesa a una fune per volteggiare come una creatura fantastica

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io viaggio SOLA

#ire.ferri
irene ferri

Irene Ferri nasce in provincia di Reggio Emilia nel 1991 e per il mondo di Instagram è @ire.ferri, fotografa selezionata da Nikon Italia per il 2020, consulente di comunicazione e content creator. Autrice anche degli scatti che ritraggono Vanja Venuti, ci ha permesso di raccontare due percorsi paralleli di scelte di vita “altrove”. Una nativa digitale che scrive: “Da piccola il mio primo album fotografico su Facebook si chiamava In ogni momento aspetto che qualcosa venga a distrarmi”.

Cosa ti ha spinto ad andare all’estero?

Nel 2013 frequentavo la Iulm a Milano quando mi hanno proposto di trasferirmi a Los Angeles, per proseguire gli studi in cinema e televisione all’UCLA. Ho preso un volo per la California di sola andata.

Quanto ti ha cambiato la vita quel volo?

Credo di essere diventata una persona migliore vivendo negli Stati Uniti. In California la crescita personale e il continuo lavoro su di sé non sono un optional ma una priorità. In Italia avevo studiato danza classica fin da piccola e poi hip pop. Una volta negli States mi sono fatta un po’ prendere dalla “smania” che caratterizza tutti coloro che vivono in California, ovvero il desiderio di una forma fisica perfetta come premessa necessaria per un equilibrio interiore mentale e spirituale. Ho praticato lo yoga e mi sono focalizzata sul crossfit di cui sono anche diventata istruttrice. Questo ha fatto sì che ora io non riesca a vivere un solo giorno senza praticarlo, o almeno fare yoga, perché li sento indispensabili per il mio benessere fisico e spirituale. I nuovi amici americani hanno contribuito molto al mio cambio di mindset, che mi ha portato a vedere sempre il bicchiere mezzo pieno e a capire che “la vita ti porta sempre dove devi andare”.

Tornare in Italia, cosa ne pensi?

Mi sono molto arrabbiata quando, nel 2016, dopo la scadenza del mio visto lavorativo americano, è stato obbligatorio per me rientrare. Ho sofferto nel ritrovare qui, fra le persone, una negatività dilagante oltre al fatto che ho dovuto combattere contro

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un atteggiamento diffuso che mi considerava “meno” solo perché giovane e donna. Ammetto di aver rimpianto Los Angeles. Poi ho deciso che ero stanca delle lamentele mie e degli altri e ho lanciato IT LIA, un progetto fotografico personale e al contempo collettivo. Chiedo agli italiani tramite il mio blog di inviarmi una storia o un ricordo di cosa amano ancora dell’Italia, cosa gli manca quando sono lontani o perché non la lascerebbero per nulla al mondo. E poi vado a fotografare le loro risposte in giro per il Paese. Inutile dire che questo progetto mi ha guarita. Le storie che mi stanno arrivando sono potenti e molto toccanti, e ho ricominciato a focalizzarmi su quello che davvero abbiamo di bello qui in Italia (che è immenso!).

La tua famiglia di origine cosa pensa della tua scelta di vita?

Non nego che abbiano passato momenti di grande preoccupazione sapendomi in giro per il mondo in luoghi sperduti.

È capitato che passasse anche un anno intero senza che ci vedessimo. Ma hanno sempre cercato di supportarmi al meglio. In particolar modo mi hanno aiutata moltissimo durante i miei anni a LA mentre facevo l’università, e senza di loro non sarei dove sono oggi.

Progetti per il futuro?

Dopo 12 anni di fotografia, ho ricevuto una grandissima soddisfazione ovvero essere selezionata da Nikon Italia, riconoscimento che l’azienda attribuisce solo ad alcuni professionisti. Potrò disporre di nuove attrezzature che non vedo l’ora di provare per scattare ancora più foto. Organizzerò viaggi di gruppo con workshop ngli Stati Uniti occidentali e del Sud, per far

Nelle foto:

In basso: Irene Ferri, fotografa selezionata da Nikon Italia per il 2020.

A destra: una partecipante al Burning Man, manifestazione che si tiene nel deserto del Nevada, alla quale partecipano persone fortemente motivate a condividere una settimana in stretta connessione con gli altri partecipanti.

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#ire.ferri

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scoprire agli italiani tutti i miei posti del cuore mentre condivido con loro la passione per la fotografia. Emotivamente parlando, cerco di “vivere una vita che [mi] somiglia”, come dice Enrica Mannari [n.d.r., illustratrice e influencer] e di far sì che le mie foto rispecchino i miei gusti e la mia visione del mondo, anziché seguire le tendenze del momento su Instagram.

Viaggiare per me è crescita, apertura mentale, realizzare che posso anche ammettere di non capire qualcosa perché non fa parte della mia cultura d’origine. Non devo per forza “capire” per poter rispettare qualcosa o qualcuno diverso da me. I miei posti del cuore sono Roma, Los Angeles e Sedona, per motivi completamente diversi.

Sono innamorata di Roma per l’atmosfera magica, l’amore e la storia che respiri nell’aria. Los Angeles – in modo particolare Venice Beach – è la mia casa e il posto dove credo si possa avere lo stile di vita più bello del mondo, tra sole, palme, persone sorridenti e possibilità infinite. Sedona (in Arizona) è la capitale spirituale degli Stati Uniti, una piccola città circondata da rocce rosse dove si può stare in silenzio e meditare.

Di recente sono potuta tornare in America e vivere l’esperien-

Nelle foto:

In alto: una delle installazioni realizzate al Burning Man 2019.

A destra, in alto: scena dal Burning man 2019.Tutto quello che viene realizzato durante l’evento verrà smantellato alla fine per non lasciare alcun tipo di “contaminazione” allo sguardo dei futuri visitatori oltre che all’ambiente.

A destra, in basso: Venice Beach, sole e palme, luoghi di aggregazione e campi sportivi dove tutti gli abitanti si rigenerano senza differenza di sesso ed età.

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za del Burning man. Qualcosa che ritengo riduttivo chiamare festival, manifestazione o evento. Sono dieci giorni in cui migliaia di persone si danno appuntamento in una zona del deserto del Nevada e vivono in comunità in condizioni essenziali. La finalità principale è quella dell’incontro fra persone con percorsi e provenienze diversissime, lo scambio spontaneo di conoscenze e consapevolezze attraverso performance artistiche di ogni genere. Sono centinaia le installazioni artistiche presenti e a molte viene dato fuoco durante i 9 giorni di Burning Man. L’ultima a bruciare è appunto “The Man”. Tutto viene smantellato alla fine dell’evento perché non deve rimanere alcuna traccia della permanenza delle persone che hanno partecipato.

Nelle foto: Nella pagina a fianco: Sedona, Arizona. Uno dei luoghi preferiti da Irene negli States.

In questa pagina: Summer Jamboree. La danza per questa coppia è espressione di una vitalità che non conosce limiti.

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Viaggiare è crescita, apertura mentale, realizzare che posso anche non capire qualcosa perché non fa parte della mia cultura d’origine. Non devo per forza “capire” per poter rispettare qualcosa o qualcuno diverso da me

così parlò KANDINSKY

I colori non sono mai solo stimoli visivi: sono suoni, profumi, sensazioni sulla pelle e ricordi. Scriveva così anche il celebre artista Wassily Kandinsky:

“Il Viola non ha forse odore diverso dal giallo? E l’arancione? E il verde-azzurro chiaro? E non hanno anche un sapore diverso questi colori? Non dobbiamo ingannarci pensando che riceviamo la pittura solo attraverso l’occhio.A nostra insaputa la riceviamo attraverso i cinque sensi”

#morocolor

Fabbricare colori significa mettere nelle mani di chi userà un acquerello, una tempera, un olio, un gessetto la possibilità di rendere vive sensazioni e in modo tanto più intenso quanto più autentico sarà il colore! Se ci pensiamo è proprio così: c’è una sola e precisa sfumatura di verde o di rosa o di grigio che parla davvero e in modo inequivocabile di ciò che stiamo vivendo nel momento in cui dipingiamo.

«Sentiamo davvero come nostra la responsabilità di consegnare a ogni artista, che sia un bambino o un pittore affermato, il proprio colore» afferma Anna Moro, mentre improvvisa per noi una vera art performance nella sala sviluppo e ricerca della sua azienda. La tecnica che usa si chiama “pouring” ed è l’esito di quanto accade mescolando colori pronti per quest’uso, non diluiti ma versati in sequenza in un recipiente che viene poi rovesciato sopra una tela.

Il risultato è vibrazione purissima, come se l’atmosfera che si è creata nella stanza attraverso le parole di Anna Moro si fosse materializzata. Ma questo colore come si crea? Da dove si comincia? Anna Moro ci spiega: «Da pigmenti mescolati ad altre materie prime, tutte certificate secondo le normative vigenti. Vogliamo produrre nell’assoluta sicurezza per tutti i nostri collaboratori, per l’ambiente che ci circonda e per gli utilizzatori finali».

Visitiamo l’azienda insieme a Marianna Menegus, figlia di Anna, nata nel 1984 e approdata all’azienda di famiglia dopo alcuni

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#morocolor

Sentiamo davvero come nostra la responsabilità di consegnare a ogni artista, che sia un bambino o un pittore affermato, il proprio colore.

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anni passati in Germania a occuparsi di linguistica oltre che di arte e didattica.

«Tutto lo stabilimento è appena stato rivoluzionato – ci racconta Marianna – perché stiamo applicando il metodo “lean manufacturing” che principalmente mira a eliminare qualsiasi tipo di spreco, di materiale, di tempo, di energie e di risorse nel processo produttivo. È stato un cambiamento pensato e ragionato, affrontato con un team di specialisti esterni e condiviso in ogni aspetto con il personale. Una delle finalità principali era anche quella di non sprecare le risorse rappresentate dal contributo che ogni persona può offrire all’azienda. Siamo partiti dal riorganizzare le nostre scrivanie per arrivare a spostare tutti i macchinari in una zona detta “zona rossa”, e a ricollocarli secondo un ordine completamente diverso».

Poi Marianna prosegue: «Abbiamo iniziato ad analizzare ogni nostro piccolo gesto quotidiano come ad esempio il modo in cui consumiamo l’acqua o il caffè durante la giornata lavorativa. Non usiamo più plastica usa e getta, abbiamo sostituito in ufficio

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Stiamo applicando il metodo “lean manufacturing” che principalmente mira a eliminare qualsiasi tipo di spreco, di materiale, di tempo, di energie e di risorse nel processo produttivo

e in sala-mostra i bicchieri di plastica con quelli di vetro. Abbiamo fornito a tutti borracce per l’acqua in modo da eliminare le bottigliette usa e getta e introdotto un distributore per chi non vuole bere l’acqua del rubinetto».

Piccoli mutamenti nelle abitudini di un gruppo relativamente piccolo di persone che hanno esiti positivi enormi. Ci siamo chiesti da dove nasce questa grande capacità di spingersi verso il cambiamento continuo. Da una storia di famiglia che in 80 anni di attività ha dovuto fare fronte a cambiamenti repentini senza possibilità alcuna di sottrarsi ad essi.

«Per la nostra azienda – continua Marianna – il lavoro è in un certo senso “fare memoria” ma guardando al futuro. Alle spalle abbiamo i lavoro dei miei nonni che hanno fondato l’azienda nel 1933 e quello dello zio Camillo che a 21 anni prese in mano l’azienda dopo la loro morte. Anche lui ha lasciato uno splendido ricordo fra tutte le persone che lo hanno conosciuto in ambito professionale».

Di fronte ad una macchina per il confezionamento dei colori ad acquerello, progettata da Camillo e che porta il nome di “Ballerina”, non è difficile credere a quanto racconta Marianna.

Certo c’è rigore, pulizia, ordine e aria pulita nello stabilimento così come negli uffici, ma c’è soprattutto il senso di una armonia raggiunta per piccoli passi condivisi.

Il “togliere” per fare spazio all’essenziale: a ciò che serve veramente. Ci si muove con una certa facilità in tutti gli ambienti, senza dover prestare attenzione a niente che possa essere fonte di pericolo o anche solo di “fastidio”. C’è tantissima luce oltre che tanto colore .

In azienda ci tengono a far sapere che il principale artefice di tutto ciò è Marco Moro, titolare di Morocolor, lungimirante e sempre attento ai cambiamenti in atto nel mondo produttivo. Per lui è importante trovare soluzioni logiche ed intelligenti per migliorare il lavoro in azienda rendendolo più lineare e più “snello”, questo vuol dire appunto lean, per tutti.

È un tipo di organizzazione che permette a ciascuno di sapere qual è il proprio ambito di azione, di quali strumenti dispone e di esprimere al meglio le proprie potenzialità. Questo è ciò che garantisce a una realtà aziendale di essere sempre pronta ad affrontare le sfide che si presentano!

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#morocolor
#illustrator_nicolettabertelle

NICOLETTA Bertelle

è lo sguardo a fare la differenza

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#illustrator_nicolettabertelle

Parlare con Nicoletta Bertelle è come entrare in una delle sue tavole. Tocchi e vedi concretamente le diverse questioni, ma lo fai, avvolto inevitabilmente da uno sguardo di colore. 53 anni, una famiglia e quattro lavori.

Un lavoro da artigiana

Con lei si sfata il mito che vivere di sola arte, come di soli libri, si può. Ma non è una consapevolezza subita o sentita come un fallimento. Anzi! «Lavoro con i bambini nelle scuole – racconta – tengo corsi per giovani, curo la formazione per insegnanti e faccio l’illustratrice. Questo mio mestiere non è un lavoro che arricchisce: non vendiamo illusioni ai giovani o a quanti pensano di poter sopravvivere solo di questo. Mi sento, però, con orgoglio un’artigiana perché lavoro con le mie mani. Certo uso il pc e il cellulare, ma il mio lavoro sul libro e al libro è fatto interamente a mano. E più gli anni passano ed entro nelle classi di bambini e ragazzi, più mi rendo conto che anche la scuola deve ritornare a questo, in modo particolare per aiutare i più giovani a superare ansia e stress da prestazione da cui sono spesso schiacciati».

Non tutte le ciambelle escono col buco

Si impara sbagliando. «I ragazzi e i bambini non lo accettano, piangono perché non raggiungono traguardi, ti dicono “non sono riuscito”, “non lo so fare”. Vedete… io posso dire di non aver più paura nel mio lavoro perché il massimo che posso fare è sbagliare! E questo è sempre accaduto: la riuscita di un lavoro sta proprio nel fatto che lo hai sbagliato tante volte. Imparare è toccare e riconoscere i propri limiti. Essere umani non è cucinare ciambelle sempre con il buco! L’artista dev’essere una persona viva, e lo si è solo se si cammina, si incontra, si sbaglia. Una cosa mi sento di dire ai giovani: amate con passione, appassionatevi a ciò che la vita vi riserva, perché il vostro vero lavoro non sarà forse il primo che farete, sarà il secondo o il terzo!».

L’importanza delle radici

Nicoletta inizia il suo percorso formativo frequentando l’Istituto di arte Selvatico a Padova; dopo il diploma lavora per qualche

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#illustrator_nicolettabertelle

anno full time in un’azienda di grafica. Nel 1997 a Sarmede incontra il suo “maestro”: Stepan Zavrel. Resta folgorata dalla sua arte e inizia così il suo viaggio, e formazione, dentro il mondo dell’illustrazione. Anche grazie a un corso con Emanuele Luzzati a Venezia. Continua, però, a mantenere un lavoro di grafica part time, per poter aver del tempo da dedicare alla scuola di Zavrel. «Zavrel è stato il mio mentore, la mia bottega medievale – sottolinea con un affetto straordinario –, Maria Loretta Girardo [n.d.r., scrittrice padovana per bambini cui Nicoletta ha illustrato moltissimi libri] rappresenta le mie radici. Ho avuto negli anni la grazia di incontrare davvero persone straordinarie! Penso anche ai giovani che si avvicinano ai miei corsi serali. Davvero, non ci credevo… ma alla fine ti innamori delle persone. Io non so se ho insegnato, ho però la certezza di aver imparato tanto da loro. Ed è stata una sorpresa».

Come una sorpresa è stato l’incontro con l’ultimo dei suoi autori, Bernard Friot, conosciuto come il nuovo Rodari contemporaneo. È uscito da poco in libreria, a firma dello scrittore francese, Il fiore del signor Moggi, con illustrazioni di Nicoletta. «A volte una storia mi sta dentro anche mesi e scopro lentamente che ho tantissimi livelli e possibilità di tradurla: quindi poter scegliere il “mio” libro di quella storia mi fa sentire onorata e tremare i polsi. La storia di solito è con me fin dall’inizio, prima cresce dentro e poi esce. Emergono immagini, segnali che la vita mi dà! Ci sono cose magiche che ci accadono accanto tutti i giorni e l’arte può diventare un altro occhio che illumina la vita».

La migliore umanità

«Con Friot ho capito che ciò che conta è quello che arriva agli altri. Ogni lettore darà la sua versione de Il fiore del signor Moggi. Io sono colei che ha la fortuna di raccontare la storia attraverso le immagini e il colore. Ma ciò che la storia dice a chi la incontra è davvero molto di più della mia lettura. E molto più interessante! Ecco perché anche io come Friot sento che in questi 30 anni di lavoro nelle scuole ho svolto un impegno civile, cercando di portare i bambini alla lettura, a sentire il fascino del libro. Mi piace incontrarli perché mi aiutano anche a verificare concretamente quello che sto facendo nel mio lavoro».

Nicoletta li definisce il «pubblico più magico», la «migliore umanità». «Mi ha sempre interessato – afferma – quello spirito di

«Con Friot ho capito che ciò che conta è quello che arriva agli altri. Ogni lettore darà la sua versione de “Il fiore del signor Moggi”. Io sono colei che ha la fortuna di raccontare la storia attraverso le immagini e il colore.

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autenticità che li caratterizza, sia della bontà che della cattiveria. Quando un bambino ti dice “sono felice” o “sto male”, sappiamo che è vero! Non può essere altrimenti. Guardiamo alle storie. Anche a quella del signor Moggi: i bambini salvano sempre gli adulti, offrendo una soluzione, uno sguardo altro, un’autenticità nell’accoglienza. In loro trovo trovo la speranza, quel “seme” su cui possiamo riporre lo sguardo per un domani migliore».

E Nicoletta lo fa non solo illustrando storie che arrivano nelle case di bambini e ragazzi, ma anche dando loro in mano direttamente pennelli e colori.

La gioia di dipingere

«Con loro condivido la gioia di dipingere: tutti facciamo cose importanti, a volte anche per pura casualità. Abbiamo tutti dei talenti. E allora coloriamo questa vita! Ovunque incontro persone illuminate e voglio pensare il nostro fare costruire e vivere con il senso di incanto. Davvero sento impellente la necessità di ritrovare quello sguardo bambino, perché è il nostro sguardo che fa la differenza, prima di tutto nell’andare incontro all’altro. Ecco allora nella normalità di tutti i giorni, proviamo a dimostrare la grazia di essere al mondo».

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SILVIA FABRIS

Quando i bambini fanno un museo

Di cosa si occupa Silvia Fabris, 43 anni, una figura e un’ eleganza che ricordano un’attrice francese della Nouvelle Vague?

Di avvicinare all’arte i più piccoli e di potenziare al massimo la loro naturale attitudine alla creatività, in un contesto innovativo e all’avanguardia come M-Children di cui è consulente, dopo essere stata consulente del Centro culturale Candiani del Comune di Venezia e una lunga esperienza sul campo nell’ambito della didattica dell’arte nelle scuole maturata a partire dall’attività di illustratrice

Sono tante le persone che si appassionano all’arte e alla sua didattica. Tu come sei riuscita ad affermarti in questo settore cosi complesso ?

Il mio è un percorso lunghissimo che prende avvio dalla mia adolescenza quando ho compreso che volevo spendere le mie abilità artistiche in ambito didattico. Già negli anni dell’università avevo iniziato a pubblicare i miei primi lavori artistici come illustratrice e a presentarli attraverso incontri e laboratori nelle librerie e nelle scuole visto che si trattava di libri di narrativa, giochi, riviste e magazine dedicati all’infanzia. Da qui sono nate le richieste di entrare in classe anche per progettare interventi legati

all’immagine e all’arte, e di tenere corsi di aggiornamento per i docenti in questi stessi ambiti, in scuole e biblioteche di Veneto, Alto Adige e Emilia Romagna.

Nel 2001 approdai al Centro culturale Candiani del Comune di Venezia che mi chiese se volevo progettare dei percorsi per le scuole utilizzando strumenti multimediali in tempi decisamente non ancora sospetti per parlare di mondi immersivi e interattivi.

Accettai la sfida e nacque la sezione didattica New Media Education ancora oggi attiva e florida dal punto di vista del gradimento e delle presenze; di questo devo ringraziare la

dirigenza per averci creduto fin da subito. Negli anni successivi questa sezione è entrata all’interno di un progetto più ampio dal nome Not Only for Kids che prevede anche una programmazione teatrale per scuole e famiglie attenta a promuovere un linguaggio e un prodotto contemporaneo.

In questi anni di incontri e di confronti con centinaia di docenti, ho maturato l’idea che la didattica sia una disciplina importante che richiede impegno, preparazione, competenze ma soprattutto il desiderio di entrare in relazione con l’interlocutore che nel mio caso è il pubblico dei più giovani. Allo stesso tempo gli insegnanti che accompagnano il

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#M9social

propri giovani allievi in una esperienza come quella di un laboratorio “immersivo” desiderano che tutto questo generi effetti positivi da spendere in classe e che si protraggano nel tempo diventando perciò esperienza formativa nello sviluppo dei propri studenti.

In poche parole ci stai dicendo che al di là dell’effetto

“WOW” che cattura l’attenzione e genera emozioni nel pubblico dei più piccoli, ci vuole qualcosa di più ?

Sì esatto.In questi ultimi anni, abbiamo assistito al notevole ampliamento dell’offerta culturale dedicata ai giovanissimi che spazia in modo molto ampio. Ma ciò che è importante non perdere di vista è che di

qualsiasi format si parli non si deve perdere un l’obiettivo fondamentale: non basta potenziare la capacità di capire e interpretare ma si deve far emergere il potenziale autore e creatore presente in ogni individuo. Stimolare l’abilità di progettare, creare, fare, narrare!

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Si deve far emergere il potenziale autore e creatore presente in ogni individuo. Stimolare l’abilità di progettare, creare, fare, narrare!

CHE COSA È M-CHILDREN?

Il progetto M-Children è stato realizzato grazie ad un bando promosso dalla Regione Veneto che nel 2016-2017 ha messo in palio dei fondi europei per l’industria creativa.

Fondazione di Venezia con il suo braccio operativo M9 District ha elaborato una proposta progettuale che è stata ritenuta significativa dal soggetto erogante.

Silvia Fabris è stata dunque coinvolta nel gruppo di lavoro che ha seguito le fasi di sviluppo e realizzazione dell’iniziativa.

L’idea di progettare, all’interno di alcuni spazi dedicati al distretto M9, una nuova realtà per i bambini dove il comune denominatore è l’utilizzo delle nuove tecnologie

multimediali rivolte principalmente alle famiglie e alle scuole, nasce dalla consapevolezza che la strada da percorrere in termini di formazione e istruzione è quella di investire nella ricerca e nell’innovazione di nuovi linguaggi comunicativi e multimediali.

Fin da principio l’intento del progetto – promosso e guidato da Fondazione di Venezia e M9District – va in questa precisa direzione: progettare un contenuto e un contenitore dinamico e polifunzionale, per farlo diventare luogo pulsante della città e punto di riferimento per la sperimentazione culturale.

Uno spazio che diventi officina di progetti, ricerche, idee, e sfide!

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Una nuova realtà per i bambini dove il comune denominatore è l’utilizzo delle nuove tecnologie multimediali rivolte principalmente alle famiglie e alle scuole

M-Children intercetta le tendenze emergenti e presta attenzione agli interessi e ai bisogni pubblici e domestici di domani: scuole, giovani, famiglie con bambini. In particolare, l’idea del children’s museum è orientata all’edutainment e all’informazione di servizio, focalizzandosi sull’esperienza di visita on site e sfruttando le potenzialità innovative delle nuove tecnologie ma sempre con un occhio attento all’esperienza laboratoriale analogica.

Dopo 18 mesi dalla sua apertura, il progetto non solo si conferma essere una proposta che sta raccogliendo consensi, ma quest’anno il progetto è stato anche inserito all’interno del circuito Hand’s On

secondo la European Museum Association e il network internazionale dei Children Museum Hands-On!

M-Children è tra le 7 migliori proposte di didattica del 2019 al mondo. Inutile negare la soddisfazione di tutto il team M-Children e della dirigenza di M9District.

Oltre ad aver prodotto i percorsi dedicati alla scuola in ambiti disciplinari differenti come il colore, la forma, la luce, il corpo e il movimento, M-Children rientra in un progetto più ampio di formazione sviluppata dal committente nel corso del primo anno: infatti sono nati percorsi sul coding, sulla robotica educativa e sulla piattaforma Minecraft Education

Edition, grazie alle partneship internazionali con Lego Leis e Microsoft. M-Children ha inoltre aperto un settore dedicato alla formazione dei docenti costruendo importanti accordi ad esempio con Indire. Sul fronte della ricerca è fresca di stampa all’interno della collana universitaria di Carocci Editore “Una nuova frontiera della didattica” la pubblicazione “Metodi, tecnologie esperienze italiane” curata da M-Children con il contributo di cinque importanti università italiane. Uno degli interventi è di Silvia Fabris.

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RI_cordi

l’altrameta 61 il racconto
di Claudia Belleffi

Il profumo del mandarino le piace da sempre. Non quello della polpa, ma della buccia.

La sta spezzettando, come sua consuetudine, in tanti minuscoli frammenti. E l’aroma pungente e al tempo stesso dolce continua a raggiungerle il naso.

«Fa proprio Natale... Indipendentemente dalla stagione in cui si è».

Con un gesto curato della mano raccoglie i pezzetti per disporli su un piattino di terracotta nero da mettere sul termosifone sotto la finestra che dà sulla strada.

Appoggia la fronte al vetro. Fredda la superficie. E con la bocca ne appanna uno spazio, disegnandovi con un dito l’iniziale del suo nome.

«Si brontola sempre ai bambini quando fanno questo gioco perché poi il vetro resta sporco… Uhm… Mi vedi preoccupata?». Chiede sollevando le sopracciglia e facendo una smorfia.

Un miagolio in risposta.

Segue con la mano la schiena vellutata di Clio, mentre gli occhi vanno a un bambino che saltella sul marciapiede davanti al nonno. Ogni tanto si gira per raccontargli qualcosa e l’anziano scuote la testa e borbotta parole incomprensibili. Con quella rudezza che è permessa solo ai nonni e che quando smette di esserci lascia un vuoto.

«Nonna aveva uno straordinario collo di volpe sul suo semplice cappotto invernale. Le era stato regalato per un compleanno e adoravo quando arrivava il freddo: andavo a dormire da lei, stendevo il suo cappotto sul letto e prendevo sonno accarezzandone il pelo. Poi alla mattina me lo infilavo, fingendomi una ricca signora».

Gli occhi vivaci della gatta, seduta ora sulle quattro zampe, la fissano con attenzione, mandando riflessi verdi.

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Una risata. Umana. «Si chiamano ricordi Clio. Ri-cor-di. “Richiamano nel cuore” momenti che sono stati».

La panca di legno, che abbraccia la tavola del soggiorno, scricchiola leggermente quando si siede. Un balzo. Gattoso.

«Sai che a volte ho ancora paura di ricordare? - il computer si accende per continuare il lavoro – Perché i ricordi sono fatti di mancanza. Però oggi mi è chiaro che solo se qualcosa mi manca davvero la aspetto con ansia, solo se ho veramente nostalgia faccio tesoro di ciò che è stato e che ancora non è, di ciò che ero e ancora non sono».

Un sospiro. Umano. E una leggera risatina. «Scusami… Sai che mi piace filosofeggiare».

La casella di posta elettronica scarica le nuove mail della giornata. «Beh anche per stasera direi che è il lavoro che non manca!».

Clio si stende sulla tastiera e prende possesso del suo nuovo giaciglio. «Ti sei strofinata sulle bucce del mandarino». E affonda il naso nel collo peloso.

Il suono del campanello la distoglie. «Eccoli di ritorno».

Si alza per aprire la porta. Arriva un refolo di freddo e le voci ormai quasi adulte di Giulia e Francesco. Salgono in fretta e, pesantemente, le scale. Urlandosi dietro notizie sulla giornata.

Entrano. Un tornado. «Hai mangiato un mandarino mamma? Profumooooo». E lanciando entrambi le scarpe, si dirigono, per non uscirne, nelle rispettive camere.

Un miagolio e due occhi verdi la osservano. «Arriverà anche per questo il tempo della mancanza. Ora godiamoci la presenza. E visto che non ti sposti da lì, mi metto a cucinare la cena nel frattempo. L’arrosto della nonna».

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il racconto
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