INSONNIA Settembre 2018

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mensile di confronto e ironia

Insonnia n° 106 Settembre 2018 - Editore Associazione Culturale Insonnia P.zza Vittorio Emanuele II n° 1 12035 Racconigi Direttore responsabile Miriam Corgiat Mecio - Aut. Trib. Saluzzo n. 07/09 dell’8.10.2009 - Iscr. al R.O.C. 18858 dell’11.11.2009 In questo numero ricordiamo Beppe Marinetti, come partigiano e come amico. Riflessioni molte quando muore un vecchio amico, e non si fermano alla persona ma si estendono al significato dell’esempio, ai maestri di vita, al futuro. È una meraviglia avere dei maestri, riconoscere in uomini o donne figure che hanno insegnato delle cose che sono a volte diventate per noi uno stile di vita e di pensiero. E noi? Probabilmente non saremo mai maestri di qualcuno. Perché? Siamo troppo piccoli per dare esempio? O quelli venuti dopo di noi non sentono il bisogno di maestri. Dopo la Resistenza, fenomeno che ha segnato un cambiamento nel corso della storia nazionale, in Italia un secondo fenomeno, da qualunque parte lo si guardi, ha segnato un cambiamento epocale sia nel mondo del lavoro che nella società nel suo insieme; è stato quello denominato Sessantotto, un movimento di massa non solo italiano o europeo. Persino la Chiesa dovette fare i conti col Sessantotto; l’enciclica Populorum Progressio (la questione sociale è questione morale) anticipava un respiro di cambiamento di grande portata. Venne firmata da Paolo VI nel 1967 (v. all’interno l’approfondimento in Diversamente Chiesa). Ebbene in questo fenomeno di cambiamento, ribellione, nascita di nuovi valori, coloro che come la maggior parte di noi redattori di Insonnia avevano allora intorno ai vent’anni si sentivano, pur con una punta di retorica, i “nuovi partigiani”, sentivano sinceramente di poter cambiare il mondo. I nostri padri spirituali, fin da allora, erano proprio i Marinetti, con i loro principi, il

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LA MIA VITA PER UN SOGNO a cura di Giancarlo Meinardi

DECRETO DIGNITÀ: LUCI E OMBRE

Il governo interviene sul lavoro di Elisa Reviglio

Tempi spensierati

Ci sono tanti modi per ricordare Beppe Marinetti. Qui lo facciamo attraverso le sue parole, tratte da “La mia vita per un sogno”, un libro della memoria che Beppe ormai avanti nella sua vita ha voluto scrivere per se stesso e per tanti altri che hanno avuto la fortuna di conoscerlo oppure no.

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Alla scoperta della biblioteca civica

Il Decreto Dignità è stato appena varato ma già si sono scatenate le prime critiche e i primi elogi. Ma in cosa consiste? In breve il Decreto Dignità prevede tra le altre cose, tipo una più severa (e giusta) regolamentazione del gioco d’azzardo, nuove e più restrittive norme sul lavoro e le imprese. Vengono quindi introdotte sanzioni per le imprese che delocalizzano (per ora solo in Paesi Extra Europei) dopo aver ricevuto contributi pubblici; quindi, un’impresa che abbia beneficiato di un sostegno pubblico non potrà trasferire all’estero la propria attività per i successivi 5 anni, pena una multa da 2 a 4 volte il beneficio ricevuto, più interessi.

I volontari della biblioteca civica si raccontano Dopo 40 anni di lavoro, avendo raggiunto i requisiti richiesti per la tanto sospirata pensione, ma non ancora “vecchio” ho deciso di donare parte del mio tempo alla comunità in cui vivo. Da questa decisione presa nell'ormai lontano 2005 associata alla mia passione per la lettura avviene il contatto con la Biblioteca Civica di Racconigi, che mi ha accolto come volontario e alla quale ho dedicato buona parte del mio tempo, affiancato da altri stimati colleghi, da molti giovani del Servizio Civile e da inserimenti lavorativi, nonché da ragazzi delle superiori che venivano e vengono tutt'ora a prestare la loro opera. La mia idea di questa attività di volontariato resta e resterà sempre

quella che tale figura non deve mai essere un surrogato del titolare di quell'incarico, ma una possibilità di avere un servizio migliore. Molti anni da allora sono passati e i cambiamenti ci sono stati e anche notevoli ma quello che non è mai mancato è l'entusiasmo per questo impegno, anche se alcune volte a causa di ostacoli sopravvenuti ha vacillato la mia volontà di continuare. Nel corso di questi anni ho visto giovani ragazzini diventare uomini e donne e la mia gioia è vedere che molti di loro hanno conservato il piacere di leggere, mentre arrivano nuove leve a cui far conoscere il piacere di leggere, impresa questa che assorbe molte delle nostre energie.

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INSONNIA GIOVANI

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Centro Alambicco

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Altrenanza Scuola Lavoro

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PRETI OPERAI

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MANDACARÙ Campagna Tesseramenti e attività promozionale

ARTIGIANATO AL 50% Vi aspettiamo!

Le Botteghe del Mondo sono le RADICI del Commercio Equo e Solidale. Aiutaci a far sopravvivere IL MANDACARÙ, la nostra bottega racconigese! IL RACCONTO FOTOGRAFICO di questo MESE

Beppe alla batteria

Il racconto fotografico di questo mese è dedicato a Beppe Marinetti, un uomo che ha lasciato un segno in questa città. La sua storia non può certo essere rinchiusa in poche immagini, lo vogliamo comunque ricordare attraverso alcune fotografie che lo raccontano in tutto lo spessore e la ricchezza della sua umanità. Il giovane spensierato e il ribelle partigiano, il militante politico e l'amministratore, l'impegno civile e sociale, la voglia di vivere, di stare con gli amici, la montagna, il sorriso e l'amarezza degli ultimi anni. C’è tutto questo nelle foto di Beppe, anche se non c’è tutto Beppe. Alcune foto sono di Rocco Agostino, altre le abbiamo scelte tra quelle, tantissime, che lo stesso Beppe custodiva a casa sua, ordinate con accuratezza e precisione in molti raccoglitori. Un materiale di documentazione di estremo interesse che andrà in parte ad arricchire la sezione fotografica della biblioteca civica di Racconigi. Le foto sono riconoscibili perchè circondate da una cornicetta nera.

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L’odore della vita di Luciano Fico

Tutta la faccenda cominciò quel giovedì di agosto, esattamente un anno fa. Massimiliano era in attesa davanti al banco dei salumi del solito supermercato: un etto di prosciutto cotto e una fetta di primo sale, recitava mestamente il fogliettino che teneva in mano. Ad un tratto vide avvicinarsi un addetto agli scaffali, che spingeva con fatica il carrello pieno di prodotti da sistemare. Dapprima si scostò per gentilezza, per farlo passare senza fargli perdere tempo, ma un attimo dopo fu raggiunto dal pensiero “Chissà quanto puzza di sudore!” In questo caso il pensiero si fece immediatamente azione e si ritrovò a trattenere il fiato mentre quell’ignaro lavoratore gli passò accanto. Fu l’inizio della fine… Dovette ben presto allontanarsi dal bancone e accontentarsi dei prodotti già confezionati nel banco frigo, perché non ce la faceva proprio a sopportare l’odore pungente degli altri clienti in fila con lui. Superò la cassa con un estremo sforzo di apnea e finalmente riuscì a guadagnare l’aria aperta!!! Massimiliano respirò a pieni polmoni l’aria calda della città, così rassicurante nella sua miscela di odori artificiali: asfalto caldo, scarichi dei motori, muri delle case, vernici, polveri del vicino cantiere e chissà quante altre venefiche, ma benedette essenze… Appena lo oltrepassò una anziana signora, impettita nei suoi ottant’anni e tenuta insieme da una permanente sfoggiata con orgoglio, ebbe la conferma che era proprio l’odore degli umani a non essergli più tollerabile: ebbe quasi un conato

di vomito, quando percepì l’odore dolciastro emanato da quel sacco di pelle vecchia che gli stava camminando accanto. La verifica più triste, e più drammatica, la ebbe il giorno dopo, al termine di una cena molto piacevole e profumata di spezie indiane in compagnia della sua ragazza. Già in auto lei gli si fece addosso e cominciò a mordicchiargli il lobo dell’orecchio: lui non sentì quasi il piacere di quella coccola audace, ma fu investito dall’odore della carne di lei, che ormai distingueva precisamente sotto il profumo che lei aveva scelto per la loro serata. Il peggio, come già voi starete immaginando, successe a casa di lei quando la ragazza si spogliò e fece l’errore di accompagnare la testa di Massimiliano fra le sue cosce: gli parve di impazzire dall’orrore e se ne fuggì, livido in volto, gridando come un pazzo per le scale. In pochi mesi Massimiliano cessò di andare al lavoro, simulando una brutta depressione; cominciò a comprare ciò che gli serviva dal computer per evitare i negozi; chiuse tutti i rapporti reali che aveva e cominciò a frequentare solo più asettiche chat (finalmente del sesso inodore…); rinunciò ad uscire di casa prima che la notte più fonda ripulisse le strade dai suoi simili. Ora, che è trascorso un anno, di Massimiliano non ne parla più nessuno: solo la madre scuote la testa, alza gli occhi al cielo e si fa il segno della croce se qualcuno le chiede di lui. Quel giovedì di agosto, proprio un anno fa, Massimiliano non riconobbe più l’odore dei suoi simili; quel maledetto giorno iniziò a morire, la più assurda delle morti.


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I volontari della biblioteca civica si raccontano

Alla scoperta della biblioteca civica segue dalla prima

Altra soddisfazione è vedere il sempre maggior numero di fruitori di questo importante servizio, visto anche come polo di aggregazione e di inclusione. Molto il lavoro che tutti noi ci siamo sobbarcati. Ma la motivazione che ci spinge ad offrire sempre qualcosa in più è pensare che la cultura rende liberi di pensare e in questo periodo abbiamo molto

bisogno di pensare. Spero che ci siano sempre più liberi pensatori che possano dedicare parte del loro tempo a chi vuole accostarsi al meraviglioso mondo dei libri. Beppe Raineri La mia avventura ha inizio a marzo 2016 in seguito alla cessazione della mia attività di edicolante

durata 12 anni. Mi sono improvvisamente trovata con molto tempo libero a disposizione e non potendo cercare un’altra occupazione a causa della mia disabilità ho iniziato a valutare cosa avrei potuto fare per non annoiarmi. Parlando con un’amica è uscito fuori che avrei potuto unire la mia passione per i libri ad una forma di volontariato quindi… la biblioteca era il posto adatto per me. Da allora sono trascorsi 2 anni e mezzo, la mia opera continua nel migliore dei modi e mi piace tantissimo. Il mio compito all’interno della struttura è quello di carico e scarico libri presi in prestito dagli utenti ed essendo io stessa un’accanita lettrice mi appassiono nel dispensare consigli di lettura ed inoltre partecipo attivamente alla stesura del libretto ed alle attività legate all’UniTre. All’interno della biblioteca ho trovato un bell’ambiente e delle splendide persone che mi aiutano nel mio percorso e mi “sopportano”, il clima è sereno e non mancano mai le battute del volontario Beppe che reclama le quote azzurre essendo lui unico uomo dello staff. Nonostante la biblioteca riceva dal comune una somma considerevole per l’acquisto di nuovi libri vorrei poter spendere molto di più per poter avere immediatamente nelle mie mani l’ultimissima uscita!! Spero di poter continuare il mio servizio di volontariato per molto, molto tempo perché qui dentro mi sento veramente realizzata. Un grazie di cuore a Valeria ed a tutto lo staff… Anna Ronco

Il partigiano Pepi

DECRETO DIGNITÀ: LUCI E OMBRE Vediamo quali effetti potranno esserci per lavoratori e aziende segue dalla prima

Nel caso in cui invece gli aiuti di Stato abbiano avuto un impatto occupazionale, i benefici di tali aiuti vengono revocati a chi taglia nei successivi 5 anni posti di lavoro. Per ciò che concerne invece le norme sul lavoro è prevista una stretta sui contratti a termine per cui il limite di durata massima di tali contratti si riduce da 36 a 24 mesi e ogni rinnovo comporterà un aumento del 0,5% del contributo addizionale già a carico del datore di lavoro. Inoltre il numero dei rinnovi possi-bili scende da 5 a 4 nell’arco dei 24 mesi. Tali misure si applicano anche ai contratti di somministrazione, compresi quelli in essere. Per intenderci, i contratti di somministrazione sono quelli che comunemente chia-miamo interinali, che passano cioè attraverso un’agenzia di lavoro interinale tipo Adecco, Manpower, ecc. Inoltre, tornano le causali: se il contratto dura più di 12 mesi o comunque ad ogni rinnovo, l’impresa deve dettagliare le motivazioni per cui rinnova il contratto senza passare al tempo indeterminato. Ed infine per contrastare i cosiddetti licenziamenti selvaggi, il Decreto prevede un incremento del 50% dell’indennità che spetta ai la-

voratori licenziati senza giusta causa. Fin qui la teoria, ma che effetti potrebbe avere questo decreto per lavoratori e aziende? Chiaramente il Governo con questa riforma intende privilegiare il rapporto a tempo indeterminato e i sindacati approvano l’ossatura generale del decreto. E, ovviamente, un lavoro stabile aumenta e stimola l’economia a vantaggio delle imprese stesse. Ma ciò che vedo io nel mio piccolo non è la necessità di nuove forme contrattuali per assumere. La necessità delle aziende è di avere del lavoro tale da giustificare delle assunzioni, invece che dei licenziamenti. Se da un lato è assolutamente giusto contrastare ogni forma di abuso, d’altro canto a mio avviso limitare l’utilizzo dei contratti a tempo non significherà contestualmente l’aumento dei contratti a tempo indeterminato ed inoltre, fino ad ora sono stati un valido strumento contrattuale per far emergere il cosiddetto lavoro nero. Come piccola artigiana penso solo che i contratti a tempo determinato sono ormai un’esigenza per noi aziende, dettata dall’imprevedibilità dei mercati. Ormai le aziende non sono più in grado di pro-

grammare assunzioni a tempo indeterminato. Inoltre le causali reintrodotte sono molto più restrittive e possono portare a rendere le assunzioni più rischiose e a un aumento di contenziosi. Un altro aspetto controverso, a mio avviso, è anche l’accomunare i contratti a tempo e i contratti di somministrazione, in quanto questi ultimi rispondevano molto bene alle esigenze di flessibilità delle aziende. Se non si interviene sull’economia creando nuove si- nergie per portare più lavoro in Italia il rischio è quello che molte aziende non rinnoveranno i contratti a termine trasformandoli in contratti a tempo indeterminato, ma allo scadere dei termini assumeranno altri lavoratori. Così da un lato i lavoratori invece di poter prevedere 36 mesi di lavoro, scenderanno a 24 e dall’altro le aziende avranno sempre personale da formare e la qualità e la professionalità, che sono da sempre il tratto distintivo delle produzioni italiane, si perderanno. A mio avviso non si favorisce l’assunzione a tempo indeterminato penalizzando quella a tempo determinato, ma diminuendo per esempio in modo non temporaneo il costo del lavoro. La mia preoccupazione è che questo Decreto porterà a meno lavoro, sì ma… con più dignità.


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ALFABETIZZANDO..... LE PAROLE DEI GIOVANI Il rispetto, un valore ancora attuale? di Roberta Brugiafreddo III L Liceo Scientifico

Se un illustre personaggio del passato fosse improvvisamente catapultato oggi nella nostra fiorente penisola, e più in generale nella società odierna, penserebbe di trovarsi nel bel mezzo di una guerra civile. Infatti, guardandosi intorno, la realtà che ci circonda lo indurrebbe a riflettere e a chiedersi se sia ancora attuale il valore del sostantivo “rispetto”. Sarebbe

stordito e disorientato, proprio perché i giornali, la tv, i social network diffondono quotidianamente notizie reali di intolleranza razziale, di indifferenza di fronte alla sofferenza di bambini, di maltrattamenti di anziani, fino ad arrivare a omicidi di mogli e madri da parte rispettivamente di mariti e figli, senza tralasciare poi episodi di aggressioni in ambiti lavorativi e scolastici (atti di bullismo, insulti e oltraggi verso i compagni e i docenti). Una domanda sorgerebbe spontanea... Quale potrebbe essere o qual è la causa scatenante di questi gesti estremi, ampiamente diffusi? Sicuramente alla base vi è la mancanza di rispetto e di cura per l’altro. Noi siamo eredi della cultura classica, vantiamo alle nostre spalle secoli di letteratura, di architettura, di legislazione, di invenzioni note a livello mondiale, di ricerca scientifica, di filosofia e di saggezza. Eppure oggi

molti sembrano dimenticare che la cultura del passato e i valori ad essa sottesi, quali il rispetto, continuano ad essere attuali e quindi non possono solamente essere menzionati in modo teorico, ma devono essere messi in pratica nel quotidiano. Il rispetto, manifestato dagli antichi Romani nei confronti dello stato, della patria, degli avi, degli anziani, della religione - la pietas, di cui era illustre rappresentante il mitico Enea -, era infatti uno dei valori cardine del mos maiorum, della tradizione classica, e rimane un valore che non può e non merita di essere calpestato ogni giorno da eccessi di violenza, di ignoranza, di sadismo allo stato puro. Dovremmo dunque indignarci seriamente ogni qualvolta qualcuno trascura queste pratiche civili, frutto della nostra crescita attraverso i secoli. Sicuramente l'educazione, impartita

in famiglia e a scuola, può aiutare molto i giovani a contrastare simili, pericolosi fenomeni. Infatti, oltre al ruolo fondamentale della famiglia, neppure la scuola, a seguito dell'analisi di cause e conseguenze di atti e parole, talvolta corretti, talvolta errati, può rimandare la comprensione di fenomeni sociali così reiterati, che anzi, oltre a tentare di capire, deve provare ad arginare. Perciò è fondamentale abituare al rispetto generale la nostra e le future generazioni, per contrastare menefreghismo, indifferenza, ignoranza, vergognosi per ogni società civile che si rispetti. Si dovrebbe dunque auspicare un ritorno all’humanitas dei nostri progenitori, humanitas che implicava reciproca solidarietà, tolleranza, benevolenza, amicizia fra gli uomini: essa dovrebbe essere il motore che attiva ogni giorno e sostiene i rapporti e le relazioni umane.

ra, durante il primo conflitto mondiale, vennero chiamati alle armi, ovvero all’arruolamento nell’esercito, tutti gli uomini maschi, fino alla leva 1899. Per un puro caso del destino il mio bisnonno rimase dunque a casa tra i suoi affetti, in particolare con i suoi genitori, felicissimi di non dover vedere partire per il fronte an-

che il più piccolo dei figli. La vita del mio bisnonno fu segnata così da quella provvidenziale registrazione di data di nascita. E questo lo sapeva bene mio nonno, che quando ricordava e narrava a noi nipoti il curioso episodio spesso diceva: “Chissà altrimenti quale sarebbe stata la nostra Storia, il nostro destino…”.

S come “LA” STORIA

di BELLONIO Paola, 4E COSTRUZIONI AMBIENTE E TERRITORIO

anagrafe tutti furono d'accordo nel non “dare" il piccolo al XIX secolo bensì di “regalarlo” al XX, registrandolo così nato nel primo giorno di

Un tempo l'ufficio anagrafe non funzionava come oggi. Quando i bambini nascevano, solitamente in casa, non sempre si era così solerti nel registrare l’evento presso il Comune di residenza. Così il piccolo nato, spesso, diventava già “vecchio” di qualche giorno. Tutto questo accadeva perché i genitori abitavano magari nelle campagne ed erano dunque poco facilitati a raggiungere in tempi brevi il Municipio oppure perché volevano semplicemente sincerarsi che il piccolo fosse sano per restare al mondo. La data reale di nascita e la data di registrazione sovente, quindi, non coincidevano. È capitato proprio così al papà di mio nonno, nato negli ultimi giorni del 1899. Quando suo papà si recò all'ufficio

gennaio del 1900. Nessuno poteva sapere che in realtà una scelta così casuale si sarebbe rivelata molto importante, o meglio fortunata per la sua vita e di conseguenza per quella della mia famiglia. Quando l'Italia, infatti, entrò in guer-


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THC Paolo 3A ITIS

Ultimamente sentiamo spesso parlare di THC: ma di cosa si tratta? Il THC è uno dei più noti principi attivi della cannabis: questa è una sostanza prodotta dai fiori di canapa, che può essere assunta in vari modi (tramite inalazione grazie a un vaporizzatore, oppure può essere ingerita o comunemente fumata). Da qualche anno, l’uso di cannabis da parte dei giovani è aumentato notevolmente. Non solo: uno studente su quattro ammette di aver consumato almeno una volta un qualche tipo di stupefacente. Ovviamente le canne sono la droga più consumata dai giovani, per vari motivi: in primo luogo per il prezzo, dato che acquistare “erba” al giorno d’oggi è economico; in secondo luogo, i ragazzi ritengono tale sostanza innocua rispetto ad altre, come la cocaina o l’eroina. Tuttavia, la cannabis è così innocua come pensano? Oltre agli effetti più comuni riscontrati da chi fa uso di marijuana, cioè occhi arrossati, stanchezza fisica o aumento della fame, il consumo prolungato di questa sostanza provoca danni irreversibili al cervello, causando una notevole diminuzione della concentrazione e dell’organizzazione e anche difficoltà della memoria. Perché i giovani ne fanno un uso così frequente? Più di un terzo dei ragazzi da 14 ai 19 anni, tra cui 300.000 studenti, ha ammesso di farne uso. I motivi, o presunti tali, spaziano dalla ricerca del divertimento al riparo dalla solitudine: altri invece ne fanno uso per imitare i loro idoli della scena rap o semplicemente per “fare i fighi” in giro. Perché legalizzarla? Si parla molto del fatto di essere pro o contro la legalizzazione: i fautori della legalizzazione puntano sull’uso in campo medico della cannabis e sulla lotta alle mafie. Infatti, vendendo cannabis di qualità legalmente, il con-

sumatore andrebbe a comprarla dal tabacchino, il quale sarebbe fornito dallo stato; il giro di incassi sarebbe tolto dagli spacciatori, che peraltro vendono spesso una sostanza di bassa qualità, in quanto spesso le droghe sono modificate e alterate con agenti chimici per aumentarne la quantità e questo provoca un rischio altissimo per la salute delle persone. Chi è contro la legalizzazione, invece, insiste sul rischio di promuovere l’uso di tali sostanze, incrementando la dipendenza e minando seriamente la salute dei cittadini: secondo alcune ricerche, infatti, la possibilità di contrarre un tumore ai polmoni fumando cannabis è venti volte superiore rispetto alla normale sigaretta, perché prevede una maggiore inalazione di catrame e monossido di carbonio. Il dibattito, insomma, resta aperto: e anche a noi giovani spetta il compito di prendere posizione.

Giro d'Italia

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Fabrizio De Andrè

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LA BUONA NOVELLA-2 a cura di Guido Piovano

Dopo “L’infanzia di Maria” che termina con Giuseppe in viaggio per lavoro, De Andrè scrive “Il ritorno di Giuseppe”, secondo brano della raccolta.

IL RITORNO DI GIUSEPPE Stelle, già dal tramonto, si contendono il cielo a frotte, luci meticolose nell'insegnarti la notte. Un asino dai passi uguali, compagno del tuo ritorno, scandisce la distanza lungo il morire del giorno. Ai tuoi occhi, il deserto, una distesa di segatura, minuscoli frammenti della fatica della natura. Gli uomini della sabbia hanno profili da assassini, rinchiusi nei silenzi

d'una prigione senza confini. Odore di Gerusalemme, la tua mano accarezza il disegno d'una bambola magra, intagliata del legno. "La vestirai, Maria, ritornerai a quei giochi lasciati quando i tuoi anni erano così pochi." E lei volò fra le tue braccia come una rondine, e le sue dita come lacrime, dal tuo ciglio alla gola, suggerivano al viso, una volta ignorato,

Il commento Nel testo, molto spazio è dato al deserto -“prigione senza confini”- che ci restituisce il senso dell’oppressione che precede la liberazione, ma che è anche ricordo biblico inquietante dell’Esodo -“Gli uomini della sabbia hanno profili da assassini”- e lenta attesa del rientro a casa -“Un asino dai passi uguali…” - dove lo attende una bambina per la quale Giuseppe progetta di intagliare nel legno una bambola - “la tua mano accarezza il disegno/d'una bambola ma-

la tenerezza d'un sorriso, un affetto quasi implorato. E lo stupore nei tuoi occhi salì dalle tue mani che vuote intorno alle sue spalle, si colmarono ai fianchi della forma precisa d'una vita recente, di quel segreto che si svela quando lievita il ventre. E a te, che cercavi il motivo d'un inganno inespresso dal volto, lei propose l'inquieto ricordo fra i resti d'un sogno raccolto.

gra”-, -“La vestirai, Maria, /ritornerai a quei giochi /lasciati quando i tuoi anni /erano così pochi”-. A casa Maria, incinta, si affiderà a Giuseppe - “E lei volò fra le tue braccia”- in cerca di comprensione ed affetto -“la tenerezza di un sorriso, un affetto quasi implorato”-. Allo stupore di Giuseppe - “E a te che cercavi il motivo d’un inganno inespresso, dal volto”- Maria può solo opporre il suo racconto del sogno dal quale si è risvegliata incinta -“lei propose l’inquieto ricordo fra i resti d’un sogno raccolto”-. Così termina Il ritorno di Giuseppe ed ha inizio Il sogno di Maria dove Maria è con l'angelo.

IL PAPA, LA FAMIGLIA E … UNA MAMMA Papa Francesco al Forum delle Associazioni familiari, 16 giugno: “Poi oggi – fa male dirlo – si parla di famiglie “diversificate”: diversi tipi di famiglia. […] Ma la famiglia umana come immagine di Dio, uomo e donna, è una sola. Può darsi che un uomo e una donna non siano credenti: ma se si amano e si uniscono in matrimonio, sono immagine e somiglianza di Dio, benché non credano. […]”

Lettera aperta di una mamma al papa

Caro papa Francesco, ti scrivo dopo aver ascoltato le tue

parole al Forum italiano delle associazioni familiari, il 16 giugno (v. Insonnia di luglio): “la famiglia, immagine di Dio, è una sola, quella che unisce un uomo ed una donna”. Sono mamma di un ragazzo gay. […] Sono qui a scriverti perché le parole che hai pronunciato hanno aperto in me una ferita. E al dolore bisogna dare parola perché non diventi rabbia e rancore. Se l’amore tra me e mio marito è immagine di Dio, come pensi che possiamo rassegnarci al pensiero che l’amore di Emanuele per un ragazzo nulla possa esprimere di

POPULORUM PROGRESSIO Nel 1967 la Chiesa si trovò a dover scegliere se prendere sul serio le istanze di svolta del Concilio Vaticano II o se, piuttosto, preoccuparsi di mantenere ad ogni costo il potere del papato mediante il controllo della Curia sul Collegio dei vescovi. La scelta di Paolo VI fu chiara fin dal titolo dell’enciclica Populorum Progressio, sviluppo dei

popoli. Questa scelta si fece più evidente nel ’68, quando il papa aprì la Conferenza dell’episcopato latinoamericano a Medellín (Colombia), avvenimento considerato il punto di partenza della Teologia della Liberazione. Ma, disse il sacerdote e teologo cattolico spagnolo José Maria Castillo, “quello che davvero cambia la Chiesa non è quello che il papa

quell’immagine di Dio? No, il nostro amore non potrà mai esprimere l’immagine di un Dio, che sia estraneo e distante dall’amore tra Emanuele ed un suo compagno. Se il loro amore non è immagine di Dio, neanche il nostro lo sarà. Perché noi quel Dio non lo conosciamo. Ne conosciamo un altro, quello di cui parlava Gesù. Un Dio di parte, che sceglie di condividere il cammino di un popolo di schiavi, che si fa complice dei piccoli, che si schiera con coloro che sono emarginati dai poteri politici e religiosi di tutti i tempi, un Dio che irradia

amore, contro ogni ragionevole economia, capace di spogliarsi della sua onnipotenza per tornare dalle sue creature come un mendicante di amore, a chiedere una libera risposta di amore. […] Caro papa Francesco, viviamo in Italia una fase storica e politica molto difficile, che preoccupa i genitori di ragazzi e ragazze LGBT. In tante occasioni tu hai saputo dire parole di speranza. Non ci lasciare soli con le nostre paure. Dea Santonico, 20 giugno 2018

dice nelle encicliche, ma quello che il papa fa nel governo della Chiesa. Ero a Roma il giorno in cui seppellirono Giovanni XXIII, in un funerale semplice, di pomeriggio, con piazza San Pietro piena di gente semplice, di gente del popolo, che piangeva la morte di quell’uomo semplice ed umile. La splendente mattina in cui hanno seppellito Giovanni Paolo II,

piazza San Pietro era occupata da più di duecento capi di Stato, i grandi della politica e del mercato, ben protetti dalla polizia e dall’esercito. L’impressionante funerale di Giovanni Paolo, uno spettacolo incredibilmente abbagliante, ha seppellito non solo papa Wojtyla ma anche la Chiesa voluta da papa Giovanni”.


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Alternanza Scuola Lavoro

UN’OPPORTUNITÀ PER TUTTI di Elisa Reviglio

“Alternanza Scuola Lavoro”… un progetto innovativo per l’Italia con una definizione a mio avviso fuorviante. Si tratta di una nuova modalità didattica obbligatoria per tutti gli studenti degli ultimi tre anni delle scuole superiori, che prevede dalle 400 alle 200 ore di “esperienza lavorativa” a seconda dell’indirizzo scolastico. Ma è proprio il termine “lavoro” che può essere oggetto di fraintendimenti, perché in realtà non si tratta di lavoro, ma pur sempre di formazione. Infatti sono molti coloro che associano il progetto a un mascheramento del lavoro gratuito. Il rischio di cadere in questo c’è effettivamente, ma non farlo succedere sta nella capacità e serietà dei soggetti coinvolti, tramite una stretta collaborazione. Da una parte c’è il Mondo Scuola che vede nell’ASL la possibilità per gli studenti di orientare le proprie scelte, attenuando il fenomeno della dispersione scolastica. Dall’altra parte ci sono le Aziende che vorrebbero che questi percorsi di alternanza avvenissero in armonia con le esigenze e le vocazioni del territorio in modo tale da avvicinare la distanza tra scuola e mondo reale. Purtroppo le Aziende hanno delle tempistiche e dei sistemi di lavoro non sempre flessibili, quindi senza una buona progettazione c’è la seria possibilità che i ragazzi vengano “parcheggiati” rendendo di fatto nullo l’obiettivo dell’Alternanza Scuola Lavoro. Non bisogna cadere nell’errore di credere che le Aziende vogliano degli studenti preparati in grado di arrivare il primo giorno e lavorare come se nella vita non avessero fatto altro. Le Aziende non vogliono un dipendente in più gratis, vogliono che

questi ragazzi imparino sul campo ciò che la scuola non può insegnare, a completamento di un iter formativo volto a far crescere l’individuo sotto molteplici aspetti. In questo modo l’ASL per un’Azienda rappresenta una forma di investimento in termini di risorse umane e organizzative, destinata a dare i suoi frutti ovviamente nel medio/lungo periodo. In quest’ottica deve esserci alla base una pianificazione e una collaborazione stretta tra docenti e tutor aziendali, per evitare appunto che i ragazzi vengano mandati in azienda senza degli obiettivi definiti e chiari anche per l’Azienda stessa che li ospita. Dalla mia esperienza di titolare di una piccola attività artigianale, troppo spesso mi è capitato di trovarmi davanti a dei ragazzi con delle buo-

ne potenzialità ma abbandonati a se stessi. Vuoi perché il piano di studi non prevede certi indirizzi, vuoi perché la scuola non ha gli strumenti più adatti (occupandomi di grafica e stampa, parlo per esempio di programmi o computer), insomma, vuoi per tutta una serie di motivi, questi ragazzi non hanno né le idee chiare su cosa realmente fare “da grandi” perché non hanno mai toccato con mano cosa significhi realmente fare il lavoro per cui stanno studiando, ma nemmeno le conoscenze adeguate per farlo una volta finita la scuola. Entrambi questi aspetti possono e devono essere migliorati e l’ASL può intervenire in questo senso. L’Alternanza Scuola Lavoro, pur con tutte gli spunti di miglioramento che possono ancora intervenire, es-

sendo un progetto nuovo che come tale va rodato e calibrato in corso, è un’opportunità tanto per le Aziende quanto per gli studenti. Perché se da un lato gli studenti possono acquisire progressivamente alcune competenze professionali inserendosi in un contesto organizzativo come quello lavorativo che richiede assunzione di responsabilità e attenzione, dall’altro le Aziende vedono avvicinarsi il mondo della scuola alla realtà economica-produttiva del mercato del lavoro del territorio, in quanto si riduce il divario tra competenze fornite dal sistema educativo e competenze richieste dal mondo del lavoro. In questo senso, se tutti i soggetti partecipanti faranno la loro parte, tutti, scuole, strutture ospitanti e studenti vinceranno, avendo tutti qualcosa da guadagnare.

Una vita spesa nella politica...

Ho conosciuto un uomo di Zanza Rino

Si chiama Karim. Il suo vero nome è un altro ma è meglio chiamarlo così Ha attraversato prima il deserto e poi il mare

É giovane, un bravo lavoratore, curioso, impara in fretta, è disponibile con i bambini, gli piace giocare a calcio È uguale a tanti giovani italiani Solo che loro sono nati in Italia, lui in Africa Non ha le stesse opportunità Non fugge da una dittatura o dalla guerra, fugge dalla fame Un cosiddetto profugo economico

Secondo Salvini dovrebbe tornare a casa sua Molti italiani sono d’accordo con lui Bisogna aiutarlo a casa sua, dicono Quando sarà a casa sua di sicuro più nessuno si ricorderà di lui qui in Italia D’altra parte sono tanti i profughi, troppi, dicono Sono numeri Ma per me … non è un numero

É un uomo, con i suoi bisogni, le sue speranze, la sua umanità Ci ho parlato, ci siamo conosciuti È un giovane come tanti giovani italiani che ho conosciuto, ora sono uomini fatti, che conosco con i loro bisogni, le loro speranze, le loro paure Mi spiace Salvini, non ce la faccio proprio a dirgli devi tornartene a casa tua, qui per te non c’è posto.


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La mia vita per un sogno

insonnia

Ricordiamo Marinetti attraverso le sue parole a cura di Giancarlo Meinardi

Ci sono tanti modi per ricordare Beppe Marinetti. Qui lo facciamo attraverso le sue parole, tratte da “La mia vita per un sogno”, un libro della memoria che Beppe ormai avanti nella sua vita ha voluto scrivere per se stesso e per tanti altri che hanno avuto la fortuna di conoscerlo oppure no. Io non sono che il testimone del mio tempo, scrive Beppe nel concludere il racconto della sua vita. Con queste parole ci offre al tempo stesso una chiave di lettura del libro e dell’uomo: ottanta anni di storia raccontati attraverso lo sguardo di chi ha vissuto quella storia non solo da testimone ma da protagonista, in un intreccio tra dimensione personale e dimensione collettiva che connota l’impegno civile che attraversa tutta la vita di Beppe. In quelle pagine Beppe racconta il suo sogno ed offre una lezione di educazione alla cittadinanza, di cui oggi sentiamo particolarmente bisogno. Ti ringraziamo Beppe, come redazione di Insonnia e certi di interpretare il sentimento di tanti che hanno incrociato il tuo passo, per quello che sei stato, per quello che hai fatto e per quello che lasci in ognuno di noi. Non ti dimenticheremo. -------------------------------------------------------Scegliamo alcuni brani tra i tanti che ci aiutano a capire chi era Beppe. Scrive nella introduzione che significativamente intitola Tempo di riepilogo. Dopo il mio ultimo impegno come pubblico amministratore volevo finalmente dedicarmi a una occupazione normale, di quelle che lasciano il tempo di vivere, avere lo spazio giusto per ogni cosa. Ma poi mi accorgo dei miei 80’anni e mi chiedo se non sia venuta l’ora del riepilogo. Il tempo esalta i ricordi ma vivere soltanto di ricordi è pericoloso, devo riflettere ... Riepilogo !? Come corre in fretta la tua storia, tutto è ieri: il sorriso di una donna, il profumo delle stagioni, la speranza di un domani che non c’è. Tutto è passato così in fretta e già è l’ora del riepilogo. I ricordi di Beppe sono i ricordi di un protagonista della storia, uno dei tanti e spesso oscuri ai più perché entrano a stento nella Storia ufficiale e che lui vuole raccontare e ricordare, come nelle

La lotta non finisce mai

pagine dedicate ad alcune figure di racconigesi. Troppe volte sui libri, nei film, sui giornali e nelle manifestazioni commemorative ci si dimentica della piccola gente che popola le nostre storie, che ogni giorno ci vive accanto e non ci accorgiamo della loro grandezza, dell’importanza del posto che occupano o hanno occupato nella società. Gente umile, schiva, nascosta nella normalità di tutti i giorni ma che ha saputo dare tanto senza mettersi in vetrina, nascosta dietro un anonimato che le fa onore, affrontando ogni giorno, oltre la fatica di vivere, anche l’umiliazione e i pericoli della persecuzione politica. Beppe giovane partigiano ha fatto la sua parte quando è stato il momento e ci restituisce una immagine viva e umana, aliena dagli stereotipi di certe cerimonie commemorative, di quel movimento che ha coinvolto allora tanti giovani come lui. Forse era anche necessario scrivere di un partigianato così come l’abbiamo vissuto, con il bello e brutto tempo, le vittorie e le sconfitte, con i mille pregi e difetti delle persone normali. Senza mai dimenticare quelli che non ci sono più. A vent’anni non c’era nessuna consapevolezza di dover morire, c’era anzi un senso di profondo attaccamento alla vita. Giovani che non vogliono rinunciare ai sogni, alle speranze, ai giochi, alle canzoni della loro età. In questo spazio cresce l’esperienza collettiva, la vita di gruppo che non era di caserma ma di autodisciplina dove si condivideva con i compagni tutto, quel modo un po’ anarchico di gestire la vita di ogni giorno, quel tratto di umanità che si acquisisce con la vita in comune. La nostra è stata una guerra del tutto particolare ma è comunque stata una guerra. Ognuno di noi portò nella sua formazione non solo le sue idee e la sua storia ma anche le proprie capacità e quello che faceva nella vita. Ciò che abbiamo fatto non sarà dimenticato, né i giorni né gli uomini possono cancellare quanto fu scritto col sangue. Abbiamo lasciato la casa, gli affetti, per correre alla montagna, ci hanno chiamati “Banditi”, la morte e i pericoli accompagnavano i nostri passi, scarpe rotte, freddo,

... e nell'impegno sociale

fame e un nemico che non perdona. Contadino o studente, operaio o montanaro. Nessuno ci ha insegnato la strada, l’abbiamo segnata da soli, perché era giusto così. Molti compagni non sono tornati, ci siamo battuti da soldati e da soldati sono caduti quelli che non torneranno. Ci siamo battuti sognando un’Italia più giusta, più buona, in cui ogni uomo abbia una voce e una dignità, ciascuno sia libero nella sua fede e la solidarietà torni fra noi. Non abbiamo chiesto ricompense, volevamo soltanto vedere un’Italia non più afflitta da tante guerre ma libera di scegliersi il proprio destino. Beppe ha fatto la guerra, ma non l’ha mai amata. Finita la guerra che tutto distrugge ecco iniziare il difficile periodo della ricostruzione. Ecco la terrificante “logica” delle guerre: distruggere per poter ricostruire. La guerra non distrugge solo case e cose ma spezza legami famigliari, annulla principi, regole di vita, sogni, progetti, sentimenti, certezze. La guerra frantuma nei bambini e negli adolescenti la fiducia nell’essere umano. Le città e gli edifici si possono ricostruire in fretta ma lo sfacelo culturale che segue una guerra rimane a lungo e il recupero della normalità è lento, faticoso e chiede nuovi sacrifici. Dopo il tempo della lotta partigiana è venuto quello dell’impegno politico, maturato proprio attraverso quella lotta, in una visione della politica dalla forte valenza etica, condivisa da tante altre persone e che oggi appare così fortemente compromessa, come Beppe non mancava di far notare spesso con dolore nei suoi ultimi anni. Guardando indietro al passato riesco a scuotere ricordi, risvegliare sentimenti, ragionare sul perché ad un certo momento della mia vita ho scelto di “fare politica” impegnando una parte o tutta la mia esistenza. Certo c’è chi ha scelto questo come “mestiere” e l’ha portato a cercare arricchimenti personali, potere, privilegi, ma non è di questi che voglio parlare. Il mio ragionamento va a quei milioni di donne e di uomini che hanno scelto la politica perché questa sembrava lo strumento più forte per aiutare i deboli, riscattare


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gli sfruttati, liberare gli oppressi. Ed è lì che mi porta il ragionamento sul mio passato, alla fonte delle mie scelte e alla volontà di dedicare una parte di me agli altri, un pezzo delle mie energie al disagio di chi ha di meno. E poi l’impegno come amministratore, vissuto con lo stesso spirito di servizio, con pragmatismo e rispetto verso gli amministrati. Certo non è stato sempre facile il “mestiere di sindaco”, fuori dall’ambito comunale è un “mestiere” quasi sconosciuto. Esso consiste nel fare il proprio dovere amministrando la città con umiltà, onestà, coerenza, cercando di venire incontro alle esigenze di una popolazione che non sempre apprezza le decisioni prese, facendo i conti ogni giorno con una infinità di leggi e leggine e una burocrazia asfissiante. Avere una forte capacità di mediazione e affrontare con serenità la suscettibilità degli amministrati. Saper frenare gli entusiasmi e affrontare le delusioni

con filosofia, così come, in buona fede, accettare i necessari compromessi, mai dimenticando che nell’applicare le leggi scritte, quando è possibile, si deve aggiungere un po’ di buon senso. Un grande maestro per molti, uno di quei maestri speciali che sentono il bisogno, sempre, di imparare. Adesso, magari per l’età, il mio interesse è per le memorie, la ricerca dei ricordi e di altre vite. Nel corso della mia ho anche avuto la fortuna di incontrare tanti bravi maestri i cui insegnamenti rimangono indelebili. Non ho rimpianti, non si va da nessuna parte col bagaglio dei rimpianti. Non ho mai sognato la ricchezza, sono convinto che nella vita non è la cosa più importante, ne esiste una interiore che ti ripaga della mancanza di denaro. Non ho mai avuto la pretesa di insegnare ma sempre una gran voglia di imparare. Ma che sa trovare anche i toni della poesia, come

9 quando in uno dei brevi racconti che parlano dell’esperienza partigiana racconta le emozioni suscitate dal ritorno, molti anni dopo, ai luoghi che lo avevano visto giovane protagonista di quella lotta. Scende la sera e siamo ancora lì davanti alla “nostra” baita a pensare, a parlare, a ricordare … Non riusciamo a staccarci da quella baita che per tutti non conta nulla ma che a noi, anche se sono passati tanti anni, permette di riportare alle nostre case un ricordo importante del nostro vissuto: il rimpianto delle nostre montagne, l’odore di resina delle pinete, il rumore delle fontane, il profumo del fieno appena tagliato, i canti struggenti delle serate d’inverno attorno al fuoco. Ci portiamo dentro la nebbia, il vento, la neve, il colore delle ciliegie selvatiche, delle bacche nere delle more e del mirtillo, il selvatico odore delle marmotte, la disumana visione dell’impiccato, i pensieri che ci assillano quando il freddo della notte ci sveglia e la stanchezza si fa sentire ….

Lettera all'amico Marinetti

LA FOTOGRAFIA di Bruno Crippa

Carissimo Beppe, ora che te ne sei andato mi rimangono i ricordi, le tue parole, i tuoi scritti e, soprattutto, centinaia di fotografie. È proprio con queste ultime che sfogliandole mi tornano alla mente momenti bellissimi trascorsi in tua compagnia. Di te partigiano hanno già scritto e altri scriveranno ancora, io con queste poche righe ti voglio ricordare solamente come Beppe l’amico di papà Piero. Era il 1954 quando ti conobbi per la prima volta. Allora non sapevo di guerre, di partigiani, di comunisti e democristiani, per me eri solo un amico che voleva bene a tutti. Alla domenica pomeriggio papà Piero immancabilmente mi portava con sé al campo sportivo per assistere alle partite del Racconigi ed essendo lui l’al-

E' tempo di sorridere

lenatore (si fa per dire…) era in campo e mi affidava a te a bordo campo. Terminata la partita immancabilmente spuntavano bottiglie di vino, salami e una chitarra ed eri tu a suonarla. Quante risate con quel gruppo di amici, Sare Maffei, Maina, Tumlin Testa, Cortassa, Mario Tuninetti e altri… Oggi sono qui in casa tua con Ettore. La sedia in cucina è sempre lì, ma vuota. Lo sguardo va sugli album di fotografie. Conoscevo la tua meticolosità (simile alla mia) nel conservarle, da quelle ingiallite dal tempo, lontane atmosfere, presenze remote e poi via via ragazzo, adolescente, adulto, anziano: dal bianco e nero formato tessera ad arrivare a quelle belle dell’epoca più moderna ed infine alle recenti foto a colori. Da quelle del tuo passato da partigiano a quelle del periodo da Sindaco della Città. I volti cambiano anche se le persone sono le stesse e ti sorprende, ti incuriosisce, a volte ti intenerisce, pensi a ricordi, luoghi, persone, affetti, sentimenti alcuni dei quali sono ormai riposti e spenti del tutto, altri ancora presenti e vivi. Ma quelle che mi colpiscono sono le decine di foto, ben sistemate in alcuni album, in nostra compagnia, mia e di Agnese, in varie località, mare, montagna, attorno a un tavolo per festeggiare natali, capodanni, onomastici e compleanni. Sfogliando quegli album, ad ogni foto corrisponde un nitido ricordo, un sorriso. Vedere fotografie in compagnia di amici comuni, di mio figlio giovanissimo a fianco a te nei prati fioriti di Castelmagno. E ancora… brindare con gli attori della Cantoregi al termine di uno dei tanti spettacoli a cui immancabilmente assistevi; alla Comunità “Il Germoglio” tra Alessandro Mantelli, Renato e Fedora… mi pervade un brivido e gli occhi si fan lucidi!! E ancora, quelle che mi fan tornar nitido le serate del lunedì sera con “l’Accademia del risotto” (una tua invenzione!!! dove ogni volta si inventava una ricetta da gustare) e che per un anno intero ci ha visti protagonisti con alcuni amici. E quelle davanti ad un piatto del ‘coniglio del sindaco’ da te magistralmente cucinato!

Foto che ti vedono alle Torri del Vajolet, sulla Marmolada, al Rifugio Torino in seggiovia sulla traversata de La Mer de Glace, al Pian del Re e in tanti Rifugi sulle nostre montagne, all’Isola d’Elba… Chiedo ad Ettore il permesso di averle, le conserverò come fossero reliquie. Per me nulla è più prezioso di una fotografia. Sfogliare un album è come rivivere una vita. Caro Beppe, mi hai dato tantissimo: l’affetto, la dolcezza, l’allegria l’onestà di pensiero e la voglia di credere al futuro nonostante il momento attuale. Ti ho seguito ovunque, ad ogni convegno e ad ogni ricorrenza, e in questi ultimi due anni, quanta mia tristezza nel vedere la tua fatica per scendere ogni mattina “Al Plaza”! ma per te leggere i giornali e scambiare due parole con gli amici era fondamentale! Più che le parole vorrei che fossero le fotografie a ricordarti e far capire alla gente quale uomo eri. Con te il divertimento non mancava e le giornate trascorrevano serene ma sapevi anche trasmetterci valori autentici e di solidarietà. La sirena del mezzodì mi riporta alla realtà, vedo negli occhi di Ettore lo stesso luccichio che è nei miei. Le foto del tuo periodo di Partigiano e i tanti tuoi scritti verranno, come tu desideravi, custoditi nella sala ANPI della Biblioteca cittadina, all’Istituto Storico della Resistenza di Cuneo e al Museo partigiano di Lemma (Borgata Grossa) di Riccardo Assom. Caro Beppe, un saluto particolare però ora te lo voglio fare, ed è quello che Alessandro Mantelli ogni qualvolta ti incontrava in Città era solito rivolgerti: “Buongiorno signor Sindaco Partigiano”! Agosto 2018


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Un ricordo di Marinetti ci arriva dall'Anpi Racconigi

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Ciao Beppe, ciao Pepi di Livio Tesio

Ciao Beppe, o meglio ciao “Pepi”, il tuo nome di battaglia. Partigiano giovanissimo nella 104^ brigata Garibaldi (Carlo Fissore) Valle Maira. Vice comandante distaccamento primo battaglione “Giaccone” e poi Vice comandante del battaglione comando “Giolito”. Per aver partecipato all’attacco di Busca del 26/7/1944 medaglia di bronzo al Valor Militare. Noi ANPI di Racconigi vogliamo però ricordarti per la tua passione e fede democratica sempre davanti a tutto e tutti e nel difendere con forza ovunque i valori della libertà, della giustizia e della solidarietà. Vogliamo ricordare il tuo equilibrio legato ad una saggezza dura che portava alla mediazione, ma mai al rifiuto delle proprie convinzioni. Noi che la storia, per fortuna l’abbiamo studiata solo sui libri e tu invece che l’hai vissuta sul campo abbiamo fatto fatica, abbiamo sentito disagio e inadeguatezza quando dicesti a noi iscritti all’ANPI e amici, pochi anni fa, “adesso cudiu u aiti” l’ANPI. Tocca a voi. Ci stiamo provando, immeritatamente perché non abbiamo la tua storia, ma ci proviamo perché i tuoi valori sono i nostri. Nell’ANPI tu hai voluto il dibattito,

i giovani, il confronto, sempre e con tutti. Ricordo di aver incontrato con te Tina Anselmi, Don Ciotti, Mons. Bettazzi e tanti altri tutti invitati dall’ANPI di Racconigi e dove mai nessuno ha declinato l’invito perché arrivava dal presidente, dal sindaco, dal partigiano Marinetti. Ricordo il tuo discorso sulla pace in occasione della nostra Racconigi invasa dai Buddisti. Tutti avevamo le lacrime agli occhi. La cultura buddista basata sulla pace e il tuo discorso nel quale dicevi che dopo il 25 aprile del ‘45 mai più un’arma... “non voglio più vederle”, la democrazia si costruisce senza le armi. Come non ricordarti in tutti i 25 aprile. Quelli con gli spettacoli in piazza con il tuo amico Vincenzo Gamna e quelli di questi ultimi anni dove l’età si faceva sentire, ma come per magia, ritrovavi tutte le forze ed allora con Beppe e Bruno giravi la provincia dove regalavi la tua testimonianza ed il nostro gonfalone. Ti ho visto ancora deciso e forte in quella bella discussione a casa tua con Gianfranco ed il Maestro per dare vita al libro sulla storia civica della nostra città dall’8 settembre ‘43 alla liberazione. Prima un crodino, lì nella tua nuova casa in borgo Macra, poi le tue idee, la tua coerenza, la tua scelta. Hai vissuto con equilibrio e passio-

tanti, entrando nelle scuole ed aprendo sempre la porta di casa tua. E quel fischio del vento evocato da Felice Cascione nella sua bella canzone sia sempre e ancora un fischio di vitalità e pace per tutti, soprattutto per i giovani, perché è questo che avresti voluto. Chiudo con una poesia di Piero Tajetti, nome di battaglia Mario, poeta partigiano.

Ritorno alle montagne in tempo di pace ne, hai lavorato per la tua comunità assumendoti responsabilità grandi. Hai avuto passione ed hai operato per i giovani perché sapevi che solo loro potranno rappresentare il futuro, non tanto dell’ANPI (anche se lo speriamo), quello delle nostre comunità perché imparino ad essere comunità vere, solidali, eque, giuste, attente ai più deboli e soprattutto in pace. Lo hai fatto incontrando ragazzi, studenti, parlando mille volte dal palco, contribuendo a tesi di laurea impor-

Dove vai, rasentando i muri della città sembri assorto in pensieri lontani forse stai ricordando la tua gioventù i tuoi vent’anni anche allora rasentavi i muri imbracciando un fucile qualcuno vestito di nero voleva impedirti di realizzare i tuoi sogni. Qualcuno voleva impedirti che altri uomini, altre donne, altri bambini vivessero in un mondo diverso fatto di lavoro, di benessere, di felicità. Non so se oggi si possa dire che tutto si sia realizzato ma i sogni restano e quelli nessuno potrà toglierteli vecchio partigiano. Ciao Beppe, ciao Pepi, viva la resistenza.

E il re disse alla serva raccontami una storia … e la storia incominciò…. IL PAESE SENZA PUNTA di Daniela Anna Dutto

Per un rientro soft dalle vacanze una favola di Gianni Rodari per sorridere… e immaginare come sarebbe bello poter vivere in un paese simile… Giovannino Perdigiorno era un grande viaggiatore. Viaggia e viaggia, una volta capitò in un paese dove gli spigoli delle case erano rotondi, e i tetti non finivano a punta ma con una gobba dolcissima. Lungo la strada correva una siepe di rose e a Giovannino venne lì per lì l’idea di infilarsene una all’occhiello. Mentre coglieva la rosa faceva molta attenzione a non pungersi con le spine, ma si accorse subito che le spine non pungevano mica, non avevano punta e parevano di gomma, e facevano il solletico alla mano. “Guarda, guarda” disse Giovannino ad alta voce. Di dietro la siepe si affacciò una guardia municipale, sorridendo. “Non lo sapeva che è vietato cogliere le rose?”. “Mi dispiace, non ci ho pensato”. “Allora pagherà soltanto mezza multa,” disse la guardia, che con quel sorriso avrebbe potuto benissimo esser l’omino di burro che portava Pinocchio al Paese dei Balocchi. Giovannino osservò che la guardia scriveva la multa con una matita senza punta, e gli scappò di dire: “Scusi, mi fa vedere la sua sciabola?” “Volentieri,” disse la guardia. E naturalmente nemmeno la sciabola aveva la punta. “Ma che paese è questo?” domandò Giovannino.

“Il Paese senza punta,” rispose la guardia, con tanta gentilezza che le sue parole si dovrebbero scrivere tutte con la lettera maiuscola. “E per i chiodi come fate?” “Li abbiamo aboliti da un pezzo, facciamo tutto con la colla. E adesso, per favore, mi dia due schiaffi”. Giovannino spalancò la bocca come se dovesse inghiottire una torta intera. “Per carità, non voglio mica finire in prigione per oltraggio a pubblico ufficiale. I due schiaffi, semmai, dovrei riceverli, non darli”. “Ma qui usa così”, spiegò gentilmente la guardia, “per una multa intera quattro schiaffi, per mezza multa due soli”. “Alla guardia?” “Alla guardia”. “Ma è ingiusto, è terribile”. “Certo che è ingiusto, certo che è terribile”, disse la guardia. “La cosa è tanto odiosa che la gente, per non essere costretta a schiaffeggiare dei poveretti senza colpa, si guarda bene dal fare niente contro la legge. Su, mi dia quei due schiaffi, e un’altra volta stia più attento”. “Ma io non le voglio dare nemmeno un buffetto sulla guancia: le farò una carezza, invece”.

“Quand’è così”, concluse la guardia, “dovrò riaccompagnarla alla frontiera”. E Giovannino, umiliatissimo, fu costretto ad abbandonare il Paese senza punta. Ma ancor oggi sogna di poterci tornare, per viverci nel più gentile dei modi, in una bella casetta con tetto senza punta. Gianni Rodari, all'anagrafe Giovanni Rodari (Omegna, 23 ottobre 1920 - Roma, 14 aprile 1980), è stato uno scrittore, pedagogista, giornalista e poeta italiano, specializzato in letteratura per l'infanzia e tradotto in molte lingue. Unico vincitore italiano del prestigioso Premio Hans Christian Andersen nel 1970 fu uno fra i maggiori interpreti del tema "fantastico" nonché, grazie alla Grammatica della fantasia del 1973, sua opera principale, uno fra i principali teorici dell'arte di inventare storie.


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Centro diurno Alambicco

“Molto più di un semplice stage” di Miriam Racca

L’“Alternanza Scuola-Lavoro” all’Alambicco non è stata soltanto un tirocinio, ma una vera e propria esperienza di vita. Il mio stage è durato tre settimane (dall’11 al 16 Giugno e dal 25 Giugno al 6 Luglio) in cui ho lavorato “part-time”. In questo periodo ho avuto l’opportunità di crescere e imparare molto, sia a livello tecnico sia a livello umano. È stato interessante ascoltare e capire quali tecniche vengono adottate e quali strumenti utilizzati: ad esempio nel massaggio e nella fisioterapia. Prima di quest’esperienza sicuramente non conoscevo l’esistenza della PEP, un “allenamento respiratorio”, o della PEG, utile per nutrire i ragazzi che non riescono ad alimentarsi tramite la bocca. Ho avuto la fortuna di

assistere e partecipare alla maggior parte dei laboratori e delle attività che vengono svolte nel Centro; mi è stata data libertà e possibilità di mettermi in gioco e questo mi ha permesso di approcciarmi con disinvoltura al contesto della disabilità. Uno dei laboratori che ho preferito è stato quello di cucina. Sapendo la mia passione per la pasticceria, mi è stato permesso di tenere quest’attività con i ragazzi e devo dire che è andata davvero molto bene: li ho visti molto interessati e divertiti nel lavorare insieme per creare dolci, come per esempio biscotti, che avrebbero mangiato durante la merenda del pomeriggio o dopo pranzo. Per quanto riguarda la mia esperienza di Alternanza Scuola-Lavoro, dal momento che frequento l’indirizzo Scienze Umane del Liceo Ancina di Fossano la mia scelta doveva essere consona agli studi e siccome mi è sempre interessato e piaciuto avere a che fare con ragazzi disabili ho scelto l’Alambicco come luogo per il mio stage. Sono davvero contenta della scelta che ho fatto; mi è stata utile sia per quanto riguarda il tipo di scuola che frequento, sia a livello personale perché mi ha dato molto. Prima di iniziare questa esperienza infatti ero in parte spaventata e in parte preoccupata, poiché non mi ero mai trovata in un contesto di questo tipo e non avevo mai avuto più di tanto a che fare con la disabilità. In realtà appena ho iniziato ogni paura è svanita e non ho avuto alcuna difficoltà ad ambientarmi: gli operatori ed educatori del Centro sono stati sempre molto comprensivi e disponibili nel darmi spiegazioni e farmi sentire a mio agio. Tre settimane non sembrano molte e infatti sono volate, ma le emozioni che ho provato sono tutt’altro che poche; ho riso, scherzato, ballato, ho provato felicità e a volte anche paura (perché per uno che non l’ha mai fatto non è semplice maneggiare una carrozzina), ma vivere questi momenti mi ha fatto bene al cuore. Posso dire che questa esperienza mi è servita anche ad imparare un'altra lingua, una

lingua che non usa necessariamente parole per comunicare, ma sguardi, risate, gesti…è la lingua dei ragazzi, che nonostante spesso non possano comunicare attraverso le parole riescono a farti capire tutto comunque. Vorrei ringraziare tutti coloro che lavorano all’interno del Centro, che mi hanno affiancata e hanno fatto in modo che il mio stage potesse svolgersi al meglio possibile, ma soprattutto vorrei ringraziare i ragazzi dell’Alambicco, che mi hanno fatto capire che la disabilità non è un ostacolo alla vita, ma semplicemente un modo diverso di vedere e vivere le cose. Ho imparato che questi ragazzi non sono inferiori ad altri per la loro disabilità, anzi sono unici ed è la loro unicità a renderli speciali. Grazie di cuore a tutti per avermi fatta sentire parte del vostro gruppo, tornerò sicuramente a trovarvi!

Via Teatro, 2 - 12038 SAVIGLIANO (CN) - ITALIA Email:

info@maipiusole.it Tel.: +39 335 1701008 +39 331 6893698 +39 331 6893684

Non si vive soltanto di ideali


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Raccontami...

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PARIS di Roberto Baravalle

Lei arriva tutte le mattine e non è quasi mai vestita allo stesso modo. Indossa biancheria elegante, roba di seta. Porta abiti e borse costose. Agli inizi sosteneva che era per le necessità legate alla clandestinità, una sorta di mascheramento. Con l'andare del tempo ha ammesso che si veste così perché le piace. Forse, è un po' zoccola. E' sempre di corsa. Quando facciamo l'amore è soprattutto preoccupata che non le rovini i capelli. E' passato qualche mese da quando ci siamo rivisti. Ha ammesso che sì, ci eravamo già incontrati. Mi ha detto che era stata la donna di Aldo, che Aldo sta bene. Ma l'avevano preso. Sulle prime, non mi era sembrato bello mettermi con la compagna di Aldo. Poi, gli scrupoli sono andati via via scemando. Lei era così disponibile, quasi insistente. Io, mi sentivo un po' solo, nella grande città straniera. O, forse, cerco solo delle attenuanti. Probabilmente, non l'ho mai amata: una storia di sesso, così. Mi sento ancora legato a quella che era stata la mia prima moglie, una donna severa, bella, femminista. Troppo, forse per i miei gusti. Sì, di lei mi manca tutto. Di questa, non so niente. E' un giro di valzer, piccole cose senza importanza. Quando sto con lei penso molto ad Aldo e poi, giù, trombo la sua compagna. Questo non è bello, probabilmente no. Lei deve essere ricca, mi porta in ristoranti costosi, dove paga lei il conto. Io non potrei, con quei quattro soldi che mi passa l'agenzia. Lavoro in un'agenzia giornalistica che rimaneggia le notizie provenienti dall'Italia per metterle in un bollettino di notizie internazionali che ha una qualche diffusione all'interno

Il tempo della memoria

di certe istituzioni legate all'Europa, a Parigi, come a Bruxelles. Lavoro quattro ore al giorno, tre giorni a settimana. L'occupazione me l'hanno trovata i tizi di un comitato francese di solidarietà agli “esuli” italiani. Che cerco di frequentare il meno possibile. Certo, quando il fisarmonicista (così chiamato per la sua passione per lo strumento) ha festeggiato la nascita del suo terzo figlio (due li ha lasciati in Italia con un'altra compagna) ho dovuto andare. Tagliatelle, vino e addioluganobella. Qualcuno ha tentato anche di intonare Contessa, al dolce. I più lo hanno zittito. C'è ancora un po' di pudore. Si fanno molti pic nic, nei dintorni della città, nei quali si accendono discussioni furibonde. All'inizio ci andavo. Poi, ho smesso. Cerco di condurre una vita regolare, di fumare e bere con moderazione. Non so perché, non sono mai stato salutista. Sarà perché passeggio molto e ho bisogno di fiato: la città è immensa e io cammino, talvolta, sino allo sfinimento. Ogni tanto visito i musei, le gallerie d'arte, qualche casa di artista. Quella di Delacroix è quella che mi piace di più. Ci sono già stato una dozzina di volte. Si trova in una piazzetta accanto a Saint-Germaindes-Prés, al centro della quale vi è un grande olmo. Poi, nella casa non vi è gran che da vedere. Vado più che altro per la piazzetta. E per l'olmo. Mi sembra di essere in una piazza di paese. Probabilmente, prendendo una corriera o un treno, a pochi chilometri da Parigi, potrei vederne decine di autentiche. Ma non mi muovo mai. La città mi avvolge come un guscio e, in un certo senso, sento che mi protegge. Un altro posto dove vado

spesso è la casa - studio di Gustave Moreau, una casona con le stanze dalle volte altissime e i suoi quadri appesi uno sopra l'altro, dal pavimento al soffitto. Se vado al Louvre, cerco qualche comitiva di Italiani che abbiano la guida e faccio la visita con loro. Provo il brivido di sentire parlare la mia lingua, di vedere le facce dei turisti, di ascoltare i loro commenti – per lo più insulsi – e osservo come sono vestiti, gli accessori che indossano, orologi, bracciali, cappellini e questo basta per farmi passare la nostalgia e fare evaporare ogni desiderio di tornare. Il 25 Aprile da noi è festa, ma in Francia no. Il Louvre è pieno di Italiani che hanno fatto il ponte. L'Italia brucia ma loro, imperterriti, fanno il ponte. Quelli che trovo più patetici sono le giovani coppie con bambini. Coppie avvedute, che non vogliono rinunciare alla cultura, anche se con i pargoli al seguito. Ai quali viene inflitto il supplizio dell'itinerario attraverso i corridoi tirati a lucido. Io cerco di sobillarli. Ogni tanto, qualcuno, issato sulle sue scarpe da barca a vela, mi dà dell'imbucato, dello scroccone: ho pagato la guida? E poi, cosa voglio, lasci stare il bambino. Per fortuna, sono sempre vestito correttamente, giacca e cravatta. Completi un po' lisi ma sono anche più chic. E intimidiscono. Sarò mica uno studioso, uno famoso, un critico, un giornalista. Al Louvre, una volta, di fronte a uno Zurbaràn che nessuno si filava perché collocato a pochi passi dall'abominevole Gioconda, ho incontrato Baffino. O il Nero, come lo chiamo di quando in quando, a seconda di come sono di umore. Lui ha visto che io non ero del gruppo. E mi ha chiesto a bruciapelo: “Anche lei è un esule?”. Perché lei lo è? ho fatto io. Posso invitarla a una coppa di champagne? mi ha detto. A quest'ora prendo sempre una coppa di champagne. Magari con un'ostrica. Era molto più basso di me e indossava, anche se non era più inverno, un nero tabarro, capo insolito per Parigi. Lo seguii e lo interrogai sul tabarro mentre ci facevamo la strada sino alla Cloiserie per la coppa del biondo nettare, e magari con mollusco annesso. E' abbastanza comune a Venezia mi disse il Baffino, perché portava baffi sottili, e un nero ciuffo, molto curato, gli ornava la fronte. Camicia con i gemelli, cravatta di marca e stivaletti di coppale. Un dandy, si sarebbe detto, d'altri tempi. Il Nero è un esperto di quegli scrittori di destra che in Francia venivano accusati di collaborazionismo


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nel dopoguerra e persino fucilati. Sta da queste parti perché pure lui ha qualche conto in sospeso con la giustizia, per ragioni politiche beninteso, e aspetta che le acque si calmino prima di rimettere piede nel belpaese. Venezia, per me, ha voluto dire Pound, ha dichiarato il baffino, giunti alla seconda coppa. Pound non capiva niente di politica, né di economia. Sparava un sacco di cazzate a Radio Roma. Ce l'aveva con l'usura e – certo- era antisemita. Per la faccenda dell'usura. Ma ce l'aveva anche con le banche e con il capitalismo. Allora i suoi fratelli americani, capitalisti, quando arrivarono in Italia lo presero e lo chiusero in una gabbia al sole, in quel di Pisa. E lui ci scrisse sopra i Pisan Cantos su quella esperienza. Perché era un grande poeta, il miglior fabbro, secondo il suo amico Ti. Ess. Eliot. Si pronuncia Eliot, con la E italiana, e non Iliott, come dicono un sacco di somari che vogliono fare i fighi. Dopo la gabbia a Pisa, i suoi connazionali lo trasportarono negli USA dove lo schiaffarono in manicomio e ci volle del bello e del buono da parte di tutta l'intellighenzia mondiale per tirarlo fuori da lì. E così lui poté andare in Tirolo, dalla figlia, che aveva un nome lungo, poetico e ottocentesco e stava in un castello e, poi, a Venezia, dove prese casa dalle parti delle Zattere e dove finì la sua esistenza, all'ospedale pubblico e quindi al cimitero, sull'isola di San Michele, dove è sepolto nella terra e un lauro è cresciuto dove si presume sia la sua testa che così è debitamente incorniciata, come si conviene a un grande poeta. Pound girava col tabarro, specificava Baffino, e quindi anch'io. Anche a me piaceva Pound. Anzi, usavo

La vita per un sogno

talvolta una sua poesia giovanile che si intitolava Francesca per fare colpo con tutte le ragazze che incontravo e che si chiamavano Francesca. Veramente gliela recitavo anche a quelle che si chiamavano Laura. E forse anche a qualcun'altra. Funzionava. Quindi, sono sempre stato grato a Pound. Lasci pure la bottiglia, che tanto la finiamo. Lo champagne lo offro io, fece il Nero. E tirò fuori un pacco di biglietti da cento franchi, trattenuti da un fermaglio d'argento. Il fatto è che i fuoriusciti neri erano ricchi del loro. Mica dei micragnosi come noi, che dovevamo vivere con la prebenda del Soccorso Rosso, con la quale ci si comprava a stento le Gitanes e, per il resto, dovevi darti da fare. A Parigi, di primavera, può tirare anche un vento fortissimo e usciti, e imboccati i Quais, mi trovo a invidiare il tabarro del Baffino che, devo ammettere, mi è stato subito simpatico. Se lo avessi incontrato in Italia, in altro contesto, forse gli avrei sparato. Lui racconta del superamento, che a suo dire iniziava allora in Francia, del superamento delle categorie di Destra e Sinistra, “inadeguate a rappresentare la complessità del mondo contemporaneo”. Anche su quel versante c'era – a suo dire – uno scrittore che incarnava quello sforzo. “Ci hanno messi l'un contro l'altro” mi disse salutandomi di fronte alla spalletta di un ponte “Ma dovremmo piuttosto unirci. E riflettere. E studiare” Gli stringo la mano, biascicando il nome dell'agenzia per la quale lavoro. Lui mi dice che collabora con un antiquario e mi dà un biglietto da visita con un indirizzo del Fauboug St. Honoré. “Passi a trovarmi” conclude.

13 Poi, una sera, in una brasserie alla moda, nel quartiere latino, tutta una discussione, tremenda. Un rinfacciarsi, un accusarsi, un rivangare il passato, ciascuno prodomosua. E voi avete fatto questo, e avete ucciso quello, e voi allora, spietati come noi, se non peggio. E le bombe le mettete pure voi, sì ma non è la stessa cosa. Non è la stessa cosa? E poi questo ferro vecchio del marxismo. La Cina è una grande galera, però va bene per quel popolo. Vogliamo parlare di ideologia? Basta con questo Evola. Guardi che gli evoliani non li sopporto neppure io e poi anche voi siete pieni di falliti e di paranoici. E comunque Evola lo hanno arrestato che era in sedia a rotelle. Un grande capo, un saggio. I suoi seguaci, altra cosa. Noi siamo per la gerarchia. E la tradizione! Ma quale tradizione? Quella della X Mas e di Villa Triste. O dei Pitigrilli? Delatori, cocainomani e ruffiani. E, dopo, anche assassini e torturatori. Lei è un moralista e, peggio, è un democratico inguaribile. One head, one vote. La più grande cazzata della democrazia è l'ugualitarismo: All men are created equal. Ma quello era un poliziotto, che teneva famiglia. Tutti in Italia tengono famiglia. E quel magistrato? Io non ero d'accordo. Già ma questo non è bastato a salvargli la vita. E voi siete razzisti, e voi non capite un cazzo degli Ebrei, guardi cosa stanno facendo in Medio Oriente, ma questo non c'entra: è una contraddizione dell'imperialismo. Anche noi siamo contro gli imperialismi, quello russo e quello americano. Già, gli Europeisti... Mi passa la senape, per favore?


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È morto don Carlo Carlevaris, prete operaio negli anni ‘70

“A Torino in quegli anni i poveri erano gli operai” Frequentò Racconigi in una esperienza di base di Guido Piovano

Conobbi don Carlo Carnevalis nei primi anni ‘70, quando a Racconigi, attorno ad Amalia e Guido Cardellino, si costituì un gruppo di giovani desiderosi di vivere la fede confrontandosi con le nuove istanze del Concilio Vaticano II. Erano gli anni del ‘68, dei movimenti studenteschi, della guerra in Vietnam, delle lotte operaie e della… Cina di Mao. Anni di grande fermento politico e sociale. Anni di grande spinta utopica, anche nella chiesa, non in tutta la chiesa. Don Carlo, quando poteva, veniva volentieri a raccontarci delle sue esperienze e di una chiesa che speravamo potesse essere diversa. Carlevaris, nato nel 1926, prete dal 1950, fu vice-parroco per tre anni in regione Barca a San Giovanni, nella periferia di Torino. Ben presto si avvicinò all'esperienza dei “cappellani del lavoro” che spuntavano numerosi nelle fabbriche piemontesi. Cappellano del lavoro era don Esterino Bosco che lo accompagnerà per anni nelle sue scelte successive. Carlevaris fu lui stesso cappellano di fabbrica, prima a Beinasco, poi alla Fiat Mirafiori da dove venne allontanato perché il suo messaggio di promozione umana non era giudicato compatibile con la filosofia aziendale. Attraverso quell'esperienza don Carlo maturò la convinzione che il prete non si potesse limitare ad assicurare “assistenza spirituale” all'operaio, ma dovesse condividerne la vita insieme ai problemi propri del mondo operaio. Fu così che nel 1968, dopo aver incontrato i primi preti operai francesi, ottenne dal cardinale di Torino Michele Pellegrino il permesso a lavorare come operaio alla Lamet. Ebbe a dire, don Carlo, in una intervista di sei

anni fa: “La mia idea non era quella di attirare a me gli operai, bensì di coinvolgere il clero nell'azione politica e sociale di quegli anni. Da cappellano del lavoro non mi sentivo veramente integrato, perché gli operai provavano una certa diffidenza nei miei confronti, in quanto la chiesa era di fatto contro i comunisti. Come operaio, invece, ovviamente sono entrato in fabbrica senza svelare la mia identità di prete, ero sempre in prima fila, negli scioperi, nelle manifestazioni,

nella Commissione Interna che avevo messo in piedi, là dove non c'era. Questo, fino a quando la mia identità non uscì fuori in modo naturale. Riuscivo a essere un tutt'uno con la gente, con i lavoratori; mi sentivo un operaio, ma prima di tutto ero un sacerdote che aveva deciso di vivere il proprio ministero in mezzo agli operai. Non mi interessava la rivoluzione, ma creare un ambiente giusto per i lavoratori. A Torino in quegli anni i poveri erano gli operai”. Carnevalis ebbe un rapporto personale privilegiato con Pellegrino: il cardinale lo volle al suo fianco come consigliere personale per i problemi del lavoro e don Carlo fu parte in causa nella stesura della Lettera pastorale “Camminare Insieme” che invitava credenti e non credenti a collaborare per una promozione umana e sociale nella città. Don Carlo Carnevalis è stato un prete di strada e di fabbrica, al servizio del Vangelo. Il ricordo che ho di lui è di un uomo sereno, dallo sguardo buono, mite ma deciso, capace di infondere fiducia in chi lo incontrava e interesse in chi lo ascoltava davvero, interesse a capirne messaggi e scelte di vita. Una persona rispetto alla quale non si poteva rimanere indifferenti. Oggi? Oggi non c'è più don Carlo, non ci sono più i preti operai, non ci sono più neanche gli operai; anzi, questi ci sono, frazionati, uno qui, uno là, cinque da un'altra parte, sfruttati come e più di allora. E noi? Noi facciamo fatica a capire, a capire dentro e fuori la chiesa chi sono i poveri di oggi, gli ultimi. Cosa che don Carlo nella sua vita, ha sempre capito benissimo.

Scelte di vita

Don Beppe: “Non ero prete operaio, ma operaio prete” a cura di Guido Piovano

Giuseppe Ghirardo, per tutti don Beppe, è nato il 22 maggio del ’43 a San Bernardo di Carmagnola. Oggi è collaboratore parrocchiale alla Parrocchia S. Maria e S. Giovanni Battista di Racconigi. Don Beppe, come hai conosciuto Carlo Carlevaris? A Carmagnola negli anni ‘80 esisteva l'Associazione GIOC “gioventù operaia cristiana”. Lavoravamo con i giovani e i preti operai davano una mano spiritualmente. Carlo l’ho conosciuto alla GIOC, dove si interessava in modo particolare dei giovani lavoratori, ma anche degli studenti. Lui non era un assistente, mi capitava di incontrarlo ai campi scuola, a incontri di riflessione, a serate di preghiera. Forse allora non era già più prete operaio. Conoscevo bene lui come conoscevo bene Silvio Carretto, anche lui uno dei primi preti operai italiani. Carlo l'ho conosciuto così: un uomo semplice, tutto di un pezzo, molto disponibile; penso fosse anche molto preparato a livello teologico e biblico. Su questo piano ha aiutato molto i giovani. Secondo me, ad un certo punto

don Carlo è stato anche emarginato dagli altri sacerdoti. Il don Carlo degli ultimi anni non l'ho più incontrato. L’ultima volta mi aveva detto “vorrei che poi mi raccontassi qualcosa della tua vita”, ma non ci siamo più visti. Parlami un po' di tè, ora. Tu sei stato prete operaio? Sì, ma non prete operaio, operaio prete. È diverso. Spiegami. I preti operai erano quei sacerdoti che il vescovo mandava a fare l’operaio. Il mio cammino è stato tutto diverso. Io ho avuto una vocazione adulta, sono stato ordinato sacerdote che avevo 39/40 anni. Ho fatto la teologia in un gruppo operaio collegato al Seminario, quando il rettore era Giuseppe Anfossi, fino a poco tempo fa vescovo di Aosta. Seguivamo i programmi del Seminario, ma io non sono stato in Seminario. Lavoravo in fonderia e studiavo teologia. Mi ha poi ordinato il cardinale Ballestrero nel 1984. Ho lavorato in fonderia 35 anni, ero operaio e il giorno dopo l'ordinazione ero già di nuovo in fabbrica. Ora ero don Beppe ma continuavo col mio lavoro

in fonderia. L’ho voluto io. E in fabbrica sapevano che tu eri prete? Certo, prima sapevano che mi preparavo a diventare prete e poi sapevano che lo ero diventato. E facevi il cappellano di fabbrica come Carlo Carlevaris? Non dire questo! In fabbrica facevo il mio lavoro, la produzione. Certo facevo testimonianza con le persone che mi erano vicine, niente di più. Ero pienamente operaio. La mia parrocchia era San Francesco a Salsasio di Carmagnola, molto prossima alla fabbrica. Lì, uscito dalla fabbrica, svolgevo il mio servizio pastorale. La gente mi vedeva nella fabbrica e poi la domenica celebrare la messa. Ho continuato a fare l'operaio fino a quando sono andato in pensione: in fabbrica facevo sempre il primo turno, dalle 6 del mattino fino alle 14, poi entravo in parrocchia e facevo il sacerdote fino a sera. Quando il vescovo mi ha trasferito a Borgaro Torinese, vicino a Caselle, ho continuato in fonderia ancora per diversi anni, viaggiando da Carmagnola a Borgaro, una cinquantina

di chilometri. Facevo il vice-parroco, seguivo catechismi, giovani, famiglie, funerali, tutto, solo che non ero presente nella mattinata, perché lavoravo. Perché hai continuato a fare l'operaio? Ma perché quella era la mia vita! Ero un operaio e avevo avuto la possibilità di diventare prete. Dunque, ho continuato a essere me stesso e sono molto grato a Ballestrero per avermi concesso di continuare il lavoro fino al ‘97, quando con la pensione sono passato a tempo pieno in parrocchia. E Racconigi? Sono arrivato a Racconigi nel settembre 2014, dopo vent'anni a Borgaro. Inizialmente è stata dura. Positivo è che mi sono avvicinato a Carmagnola, alla casa dei miei. Qui conoscevo già don Aldo, perché anche lui seguiva un po' la GIOC.


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Jhonny Solei è partito per il suo viaggio più lungo

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Un "personaggio" al di fuori dagli schemi di Primaldo e Michele Banchio

Quanta storia porta con sé un uomo... Ci sono delle cose che a raccontarle potrebbero diventare un romanzo, fatti di vita quotidiana di gente comune che con l'andar del tempo, assumono quasi una dimensione epica. Jhonny Solei classe 1923, ha iniziato da poco tempo un altro viaggio lontano da qui ma, la bellezza della vita sta proprio nel fatto che le persone che l'hanno incontrato e conosciuto ne potranno conservare a lungo il ricordo. È fuor di dubbio che Jhonny, com'era universalmente conosciuto, era un "personaggio" spesso al di fuori delle schemi. Certo che la sua infanzia e adolescenza non sono state delle più facili, proprio a causa del periodo storico. Militare in Francia, dopo l'8 settembre 1943 aveva aderito alla lotta partigiana nelle fila della 48ma Brigata Garibaldi. Alla fine del conflitto ogni lavoro era buono: da ciclista a meccanico ed infine abilissimo rilegatore, mestiere che ha continuato per molti anni entro le mura del grande Ospedale Neuropsichiatrico di Racconigi. È stata questa un'attività che ne ha messo in luce la creatività ed il gusto artistico, ma la grande passione di quest'uomo è sicuramente stata la musica: c'era nel suo modo di fare un qualcosa che si avvicinava agli chansonnieres della Boheme parigina degli anni 50. Personaggi come Yves Montand, Charles Trenet ed Edith Piaf tanto per intenderci. Mitici sono stati i tempi de La Perdition, gruppo di amici racconigesi, che tra il serio ed il faceto, davano sfogo alla loro grande passione per la musica. A Racconigi c è

Cin

Cinema IL SACRIFICIO DEL CERVO SACRO di Cecilia Siccardi

Steven Murphy è un cardiochirurgo, stimato e realizzato. Sposato con la

Lib

Libri di Simona Roccato

Cos’è una famiglia? Ce lo racconta Michael con voce schietta e lineare. Ha 13 anni e preferisce la matematica perché i calcoli sono così: semplici, puliti e rassicuranti. Ad ogni operazione corrisponde un risultato. E lui di caos, preoccupazioni e paure potrebbe parlare per ore. Rimane solo. Dopo una prima perdita, i genitori vengono arrestati, la sua vita si riempie colorandosi di nuovi affetti: Clara e Franco, gli assistenti sociali, la signora Guerra che lo ospita per prima, Zoe che gli fa palpitare il cuore e due nuovi papà, Enea e Davide che gli offrono tutto il loro amore. Michael prende consapevolezza di quello che gli ha stravolto la vita. Enea e Davide in punta di piedi fanno breccia nel suo cuore e gli fanno conoscere rispet-

ancora chi si ricorda di qualche esibizione al caffè antistante la stazione. Proprio durante una di queste esibizioni, in quel di Valdieri Jhonny fu colto dal più classico "coupe de foudre" con Marta, la futura compagna di tutta la sua vita. Il figlio Primaldo ricorda le cantate al ritorno dalle gite con lo Sci club; momenti di grande serenità che ormai sembrano perduti nel tempo. Jhonny era un uomo dalle grandi risorse che non si perdeva d'animo e con grande ottimismo guardava al futuro, così tante le cose che doveva ancora fare. Gli ultimi anni, dopo una vita di lavoro, li ha trascorsi con la moglie nel "buen retiro" di Valdieri, nel silenzio delle sue montagne, lontano dalle futilità e dalle cose effimere della vita contemporanea. È la storia di un uomo davvero speciale che ha fatto dell'amore per la vita la sua sola ragione. Adieu Jhonny!

bellissima Anna, ha due figli, Kim e Bob. Un giorno, terminata un’operazione a cuore aperto, si reca a un appuntamento con un sedicenne, Martin: la natura del loro rapporto non viene spiegata, e Steven stesso sembra voler mantenere segreto il motivo del loro legame. Quando però Bob, il suo figlio minore, inizia ad accusare strani sintomi e a perdere l’uso delle gambe, e Martin comincia a fare sinistre minacce, verità da lungo tempo sepolte vengono a galla, con conseguenze devastanti. Di fronte all’obbligo di compiere una scelta impossibile, la vita ordinata e perfetta di Steven viene completamente sconvolta. Il sacrificio del cervo sacro è un film di Yorgos Lanthimos, regista greco al suo secondo film in lingua inglese dopo il successo di The Lobster. Già fra i premiati al Festival di Cannes

2017, il film è stato distribuito nelle sale italiane a partire dal 28 giugno 2018. Fra gli attori principali spiccano i nomi di Colin Farrell e Nicole Kidman, interpreti di Steve e Anna e protagonisti della vicenda; la loro recitazione, come quella del resto del cast, è asettica e quasi robotica, elemento fondamentale per restituire il senso di straniamento e angoscia da cui l’intero film è permeato. Centro pulsante della storia, rielaborazione in chiave moderna del mito classico di Ifigenia in Aulide, sono infatti le paure più recondite dell’animo umano, il senso di colpa, la necessità di espiazione, l’angoscia borghese di fronte alla vittoria dell’irrazionale sul razionale: Lanthimos sceglie di raccontare la tragedia attraverso una messa in scena quasi sadica, che lascia completamente da parte qualsiasi forma di empatia.

to, sostegno, cura: “Tu sei la cosa più bella che ci potesse capitare, Michael. Ti vogliamo bene, vogliamo il meglio per te, e stiamo provando a esserlo noi con tutte le nostre forze”. Michael scioglie le sue resistenze permettendosi di guardare in faccia la rabbia che l’ha segnato per poi lasciarla andare. Attraverso Enea e Davide porta in superficie sensibilità e determinazione e inizia a conoscere la verità sulle situazioni e le persone lasciandosi guidare dalle intuizioni per essere questa volta lui stesso di aiuto. Prende le distanze dalle voci di paese che si coalizzano per allontanarlo da Enea e Davide, il porto stabile in cui si sente finalmente al sicuro, perché due uomini che si amano non possono crescere un figlio. Aiuta la signora Guerra a sciogliere antichi rancori che le impedivano di vedere la bellezza della diversità. Si adopera per proteggere il segreto di Zoe. Dopo tante avventure osserva lo “straordinario” che ha vissuto, primo fra tutti il sostegno ricevuto da tanti. E se tutto non è andato proprio come avrebbe voluto, sente che vivere certe delusioni ora “è diverso perché ci sono loro, e ci saranno sempre. Una specie di famiglia. La chiamerei la famiglia X, come l’incognita di un’equazione, che non sai quanto vale finché non la risolvi. E io quanto vale l’ho capito eccome: infinito all’infinitesima potenza. Traccio

una X nella mia testa e me li immagino ai quattro vertici: la mamma e il papà in alto a sinistra, Enea e Davide a destra, Zoe in basso a destra, la signora Guerra, Clara e Franco a sinistra, e io al centro, proprio nel punto in cui si incontrano le linee. Che mi basta un passo per raggiungerli tutti”. Mi è piaciuto molto questo libro, una storia che leggerò a mio figlio e conserverò in libreria perché lo legga anche da solo. Una storia che ruota attorno a una domanda in fondo molto semplice: una famiglia quando si può definire tale e quando è adeguata a crescere dei figli? La risposta porta spesso a esprimere giudizi che affondano in schemi radicati e convinzioni profonde. In realtà nessuno conosce la ricetta per diventare un genitore perfetto. E soprattutto nessuno, quando diventa genitore, è preparato ad esserlo. Nessuna scuola, nessun libretto di istruzioni, nessun volume psico-pedagogico, nulla ti racconta in modo esaustivo a cosa si va incontro. Questo libro ha ricevuto accoglienze fortemente contrastanti. In un’intervista il giovane Matteo Grimaldi racconta di ricevere ancora quotidia-

Matteo Grimaldi “La famiglia X” 2017, pp. 144, € 11.00 Editore: Camelozampa

namente insulti sulla sua pagina Facebook. Prima di pubblicare il libro si era domandato più volte se sarebbe stato pronto a sopportare ondate di attacchi grevi, giudizi che con la storia hanno poco da condividere ma che impediscono qualsiasi tipo di confronto. Nonostante il “metterci la faccia” sia faticoso, l’ha fatto. La sua determinazione è stata apprezzata. E questo è testimoniato da messaggi di affetto e di incoraggiamento che invitano a scoprire il suo libro come una preziosa occasione di crescita, di condivisione e confronto, un’opportunità di mettersi dalla parte dei diritti.


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Mus

Musica SKY TRAILS David Crosby di Roberto Magri

E’ uno degli album più interessanti usciti nel 2017, fine settembre. David Crosby classe 1941, ex Byrds, ex Crosby Still Nash &

Young, ex Crosby & Nash, ex CPR, con questo disco elegante, suonato alla perfezione, che riesce ad essere piacevole anche solo per fare atmosfera, sembra chiudere temporaneamente in maniera positiva una ideale trilogia iniziata nel 2014 con l’album “Croz” e con l’album “Lighthouse” nel 2016. Un'opera che cresce man mano che la si ascolta, e tutte le canzoni pur avendo una loro precisa personalità, si ascoltano tutte insieme come se fosse un’unica suite. “Sky Trails” non è un album che può piacere al primo impatto, necessita di una accurata attenzione per poterlo metabolizzare a dovere. Un disco pieno di piccoli particolari e dettagli che vanno assaporati musicalmente più volte senza distrazioni, così da trasformarsi da un album normale a un piccolo

gioiello. Crosby ha sempre fatto un genere di musica “suo”, non catalogabile in quanto mix di rock, blues, jazz, country, irish con contaminazioni varie. Una chicca è la canzone che da il titolo all’album, un classico brano acustico dallo stile country, da ascoltare e lasciarsi trasportare. In questo mese di settembre David Crosby sarà in Italia per un tour di solo 2 date, suonerà sul palco del Teatro Dal Verme di Milano martedì 11 e su quello dell’Auditorium Parco Della Musica Sala

insonnia

S.Cecilia di Roma giovedì 13. Ad accompagnarlo una formazione comprendente il figlio James Raymond (tastiera), Mai Agan (basso), Steve DiStanislao (batteria), Jeff Pevar (chitarra) e Michelle Willis (tastiera/voce).

Insonnia Mensile di confronto e ironia Aut. Trib. Saluzzo n.07/09 del 08.10.2009 Direttore responsabile Miriam Corgiat Mecio Redazione e collaboratori Rodolfo Allasia, Alessia Cerchia, Gabriele Caradonna, Giacomo Castagnotto, Giuseppe Cavaglieri, Francesca Galante, Marco Capello, Bruna Paschetta, Guido Piovano, Cecilia Siccardi, Pino Tebano, Luciano Fico, Grazia Liprandi, Barbara Negro, Anna Simonetti, Giancarlo Meinardi, Melchiorre Cavallo, Elisa Reviglio, Francesco Cosentino Sede P.zza Vittorio Emanuele II, n° 1 Contatti contatti@insonniaracconigi.it Conto corrente postale n° 000003828255 Stampa Tipolitografia La Grafica Nuova - Via Somalia, 108/32, 10127 Torino Tiratura 1800 copie

loro modo di vivere l’impegno sociale, la voglia di giustizia che non era svanita sia pur dopo più di vent’anni dal loro essere protagonisti della storia. Li vedevamo come Maestri e volevamo anche noi diventare protagonisti di un cambiamento. Abbiamo fallito? È possibile perché nessuno ci indica oggi come maestri, non avremo nessuno a piangere ai nostri funerali, se non coloro che privatamente hanno instaurato con noi una relazione di amicizia o parentale. Non abbiamo seguaci. Vantiamo però il maggior numero di critici, sia esperti in una numerosa serie di materie, sia l’uomo da bar che in fondo sembra essere il più accreditato opinionista di questi tempi. Tutti fanno risalire a quel periodo, di grandissime conquiste sociali, economiche e politiche, i guai dei nostri giorni, come se in quel periodo si fossero messe le basi dei fallimenti odierni. Altro che maestri! Eppure mai come allora si erano studiate tanto le teorie economiche e sociali fino sfociare nei campi più sensibili dell’animo umano come l’arte e le religioni; mai come allora

si pubblicarono tanti libri che spaccavano il capello in quattro su ogni più piccolo problema; quante parole! Ma anche quanti fatti che cambiavano l’esistenza delle persone! Ed ora? Tutto sbagliato, si dice; oggi chiunque, anche senza una minima preparazione teorica, mette in forse tutto quanto si è costruito allora. A salvare qualcosa sono proprio coloro che sulla carta di identità hanno segnate date di nascita che vanno da dopo il 1945 fino, più o meno al 1955. Ma questa si chiama autocelebrazione! Patetico. Ma è proprio così o stiamo, senza neanche accorgercene, scivolando su una china che non sappiamo dove ci potrà portare, in nome di un tentativo di inseguimento di quel benessere che già da allora (cinquant’anni fa!) mettevamo in guardia di quanto pericoloso avrebbe potuto essere e su quanto effimero già fosse. E siamo ancora qui a scrivere, perché per urlare non abbiamo più la voce avendola perduta nel gridare slogan nei cortei, slogan che contenevano principi molto simili a quelli che continuiamo a difendere ora con i nostri scritti; ma girandoci indietro non abbiamo nessuno che ci segue.

Cosa è, un moto di depressione o un inizio di analisi di una realtà concreta su cui riflettere o semplicemente gli anni che passano? Coraggio a noi e… auguri ai giovani per i quali non ab-

biamo saputo essere altro che zii da prendere un po’ in giro come gli “illusi che volevano cambiare il mondo”. Caparbiamente vostri. di Rodolfo Allasia

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2018

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