Insonnia APRILE_MAGGIO 2021

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mensile di confronto e ironia

Insonnia n° 130 Aprile/Maggio 2021 - Editore Associazione Culturale Insonnia P.zza Vittorio Emanuele II n° 1 12035 Racconigi Direttore responsabile Miriam Corgiat Mecio - Aut. Trib. Saluzzo n. 07/09 dell’8.10.2009 - Iscr. al R.O.C. 18858 dell’11.11.2009

Un anno di COVID di Guido Piovano

Tutto è cominciato più o meno l'ultima domenica di febbraio dello scorso anno con la prima ordinanza del sindaco, dopo che il giorno precedente noi di insonnia avevamo fatto cena, quella cena che potremmo giustamente definire l’ultima cena, cena di finanziamento, ultima prima della fine di ogni occasione di incontro. La prima fase del tempo pandemico è tutta in una immagine: una bandiera italiana che sventola alla finestra, mentre cantiamo al balcone, tra le mani un cartello con su scritto “andrà tutto bene” e già si contano i primi morti e si vedono i primi cortei di bare lungo le strade. Il tempo ci dirà che non va tutto bene, i morti sono oggi più di centomila. È stato ugualmente un bel momento, a scandire la fase della solidarietà nazionale, di un ritrovato senso comunitario, di uno spirito che sembrava smarrito da tempo mentre si impara a frequentare una nuova protagonista, la mascherina. La seconda fase è quella della vacanza, una vacanza di fatto, vacanza anche dall’idea del virus, vacanza e anche illusione: è l'estate del 2020, si aprono le spiagge e con esse le balere, ma il virus c’è e sotto sotto lavora anche se non lo si vede. Con l'autunno si ritorna alla dura realtà, è il tramonto della solidarietà. La terza fase è la fase del tutti contro tutti, dove ognuno ne sa un pezzo più degli altri, perché noi siamo rossi e loro solo arancione, perché bar e ristoranti sì, palestre e piscine no, perché la dad, perché lo smart working, perché a piedi no e con le ciastre sì, perché i ristori in ritardo, perché, perché, perché? Si ragiona che la scuola è importante, che “abbiamo” sottratto un pezzo di vita alle giovani generazioni, agli adolescenti. Si dice appunto “abbiamo” oppure “ hanno” ma sarebbe giusto dire “il virus ha”, perché nessuno prova a dire cosa si sarebbe dovuto o potuto fare con le scuole.

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25 APRILE

VOCI DI LIBERTÀ

di Pierfranco Occelli, Presidente sezione ANPI Racconigi

Ancora un 25 Aprile senza la tradizionale cerimonia pubblica della vigilia con la fiaccolata, la banda musicale e le orazioni dal palco. Sì, la pandemia continua a dettar legge e non si possono rischiare assembramenti. Però, come spesso accade, non tutto il male vien per nuocere! Con gli Amici del CANTOREGI abbiamo ripreso in mano il programma che poi, in linea di massima, è sempre quello già delineato lo scorso anno: “le Donne nella Resistenza”. È stata messa on line, con un video di grandissima professionalità, la parte che riguardava le letture di testimonianze di donne partigiane tratte dal libro: “La resistenza taciuta” di Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina. Si è così dato vita ad un oratorio laico intitolato “Voce di libertà” curato da Progetto Cantoregi e messo in rete sui vari canali.

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L’abito fa il monaco

Comprare “verde” , scegliere marchi che retribuiscono e trattano umanamente i lavoratori e l’ambiente di Alessia Pavone ALESSIA PAVONE nostra concittadina, si è laureata presso il dipartimento di Management in Business & Management all’Università degli Studi di Torino (SAA School of Management) con la tesi redatta in inglese “Luci ed ombre della Sostenibilità in relazione al Fast Fashion con l’avvento del COVID-19” in questo mese di aprile. La tesi investiga le derive della sostenibilità sociale, economica ed ambientale e cerca di carpire un possibile legame tra quest’ultima e la “moda veloce” attraverso gli svolgimenti della turbolenta crisi pandemica dell’ultimo anno e mezzo. Alessia è una affezionata lettrice del nostro insonnia ma nonostante ciò pare una ragazza molto sveglia. Per i nostri lettori nulla di meglio, per conoscerla, che pubblicare un suo articolo, scritto appositamente per noi; articolo che in qualche modo tocca la tematica del suo lavoro di laurea, ma anche la triste contingenza che, causa Virus, ci troviamo a sperimentare. Speriamo di avere modo di leggere ancora le sue opinioni, anche se le auguriamo di continuare i suoi studi e non farsi sviare dall’impegno che una collaborazione alla nostra pubblicazione necessariamente potrebbe comportare.

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Quali cambiamenti sul tuo lavoro ha comportato il Covid ? I riflessi della pandemia sul lavoro sono svariati e tutti i giorni, ora più che mai, se ne parla, in qualche modo, su tutti i canali radio televisivi, soprattutto a mo’ di cronaca. Noi vogliamo raccogliere qualche testimonianza ma non facendo cronaca, non sono i nostri tempi e metodi, bensì, come il nostro solito, vogliamo ricavare da testimonianze dirette qualche riflessione su come il Covid abbia toccato il mondo del lavoro e non solamente come questo problema abbia portato ad una sofferenza economica. Abbiamo amici in alcuni settori particolari del lavoro e questi abbiamo voluto sentire, per ora. Se altri lettori leggendo queste esperienze dirette vorranno lasciarci la loro testimonianza sappiate che, come abbiamo fatto in diversi momenti di questa vicenda pandemica, saremo lieti di pubblicare la vostra esperienza e le vostre riflessioni. Solo in questo modo crediamo che si possa dare voce diretta al nostro pubblico; molte persone ci hanno detto o fatto capite che hanno difficoltà a scrivere ed abbiamo già risposto che la spontaneità e la sincerità è l’arma vincente per essere veramente originali le vostre storie, ma se ancora avete riserve, mettetevi in contatto con noi, possiamo venire a raccogliere le vostre testimonianze, sarà interessante per tutti: per voi che raccontate allo scopo di far conoscere, per noi che sentiamo “in diretta” le vostre esperienze e

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SENTIERO MAIRA pag. 8-9

Diario di Guerra

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Goya pag. 10

BUIO OPPRIMENTE

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L’AUTISMO

a cura di Fabiola Panero Memole, Ass. Le Serre

L'Associazione LE SERRE nasce da un gruppo di persone che hanno uno stesso sogno: l'UGUALIANZA tra tutti gli esseri viventi. Lo scopo dell'Associazione è sociale per aiutare le persone disagiate e fragili a interagire con il mondo lavorativo, utilizzando le più svariate metodologie per raggiungere l'obiettivo dell'inclusione a 360 gradi. L’autismo che cos’è? Il Disturbo dello Spettro Autistico o più comunemente chiamato autismo, è un disturbo del neuro sviluppo. Colpisce principalmente le persone di sesso maschile. La sua manifestazione avviene nella difficoltà di relazionarsi e nella comunicazione. Chi è affetto da questa patologia ha bisogno di vivere una routine ben determinata, in quanto spesso ha comportamenti ripetuti, interessi selettivi e a volte poco comuni con la società in cui vive. Talvolta l’autismo può essere associato a disabilità intellettiva. La diagnosi può essere fatta dai tre anni di vita, dove si manifestano i primi tratti dell’autismo. Le cause dell’autismo? Purtroppo le cause ad oggi non sono ancora del tutto chiare. Secondo alcuni studi l’autismo deriva da più fattori: cause ambientali, genetiche e biologiche. I sintomi dell’autismo sono principalmente un disturbo nella comunicazione a livello linguistico e sociale, c’è una mancanza di contatto visivo e fisico, vengono sviluppati degli interessi diversi dai coetanei, si nota una difficoltà nell’interagire con il gruppo di pari e in alcuni casi un ritardo mentale. Quali tipi di autismo esistono? La sindrome di Asperger non presenta un ritardo mentale ma una buona capacità dell’intelletto, pur mantenendo i tratti della patologia, difficoltà relazionali, comportamenti ripetuti e interessi ristretti. L’autismo regressivo, il bambino dopo aver vissuto in maniera del tutto

normale per alcuni anni della sua vita tende a regredire invece di continuare nella sua crescita. Le conseguenze dell’autismo sono sicuramente sulle persone affette ma anche sulla famiglia perché causano difficoltà nel cambiare le routine, nel relazionarsi con gli altri, la comunicazione risulta scarsa o a volte assente, difficoltà nel vivere una vita autonoma, ipersensibilità ai rumori, odori, suoni e sapori, la vita scolastica e lavorativa risulta deficitaria e difficile da realizzare, i ragazzi affetti possono essere vittime di bullismo. Come possiamo aiutare una persona autistica? L’informazione sulla sindrome è sicuramente un buon punto di partenza. Dall’autismo non ci si può guarire, è bene attuare delle strategie di comunicazione efficaci e personalizzate. Nel nostro piccolo se ci relazioniamo con un ragazzo autistico è bene evitare contatti fisici in un primo momento ma lasciare al ragazzo i propri spazi, formulare semplici frasi con risposte sì o no, evitare luoghi affollati e rumorosi, utilizzare un tono della voce basso e pacato, e la socializzazione e la non discriminazione sono strumenti utilissimi per rendere le persone affette da questa patologia serene e garantire loro una vita tranquilla e sicura. Chi può aiutare i ragazzi autistici? Specialisti come la neuropsichiatria, logopedisti che insieme alla famiglia intraprende un percorso per riuscire a comunicare in maniera più efficace con il ragazzo anche utilizzando strumenti adatti come la comunicazione aumentativa alternativa.

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Soluzione di continuità di Luciano Fico

Beve il suo caffè forte e profumato, come ogni mattina, mentre il pane si scalda per accogliere un poco di burro e poi la marmellata di fichi. Mentre mangia lentamente, gustando il sapore di quella mattina tranquilla e rassicurante, Michele sente la spinta ad entrare nella giornata che lo attende: deve attraversare la città e completare le pratiche che, finalmente, gli permetteranno di iniziare la sua nuova attività. È bello sentire nel petto l’impazienza di entrare nello scorrere pulsante della vita. Con ancora la fetta di pane caldo in mano, si sta già infilando le scarpe ed un attimo dopo sente chiudersi alle sue spalle la porta di casa, mentre scende di corsa le scale del palazzo. Inforca la bicicletta nell’androne e sente i rintocchi del campanile di Sant’Andrea. Perché dodici??? Dovrebbero essere a malapena le otto e mezza… Si infila nel traffico caotico e cerca di pedalare più forte di quel fastidioso pensiero, che qualcosa sia fuori posto. Nella Metro trova pure posto a sedere: strano a quell’ora del mattino! In poche fermate sa di essere al capo opposto della città; è ora di scendere. Esce dai sotterranei e lo accoglie la notte! Gli uffici sono però stranamente aperti: entra e chiede dell’Ufficio per il commercio; gli viene detto che l’Ufficio è stato soppresso da anni. Per la sua pratica si rivolga al parroco di Sant’Andrea… Michele è allibito. Torna giù, nella Metropolitana e scopre che i treni sono fermi fino a data da destinarsi. Rassegnato ad una lunghissima camminata, svolta l’angolo e si ritrova a percorrere un assolato sentiero di campagna: stagliata sull’orizzonte, gli sembra di vedere la sagoma del campanile di Sant’Andrea. Convinto ormai di essere in un sogno, il nostro ragazzo cammina di buona lena, facendo le corse con l’acqua che scorre allegra nel fossato lungo

la strada. All’ora di pranzo si ritrova sotto al familiare campanile, nel bel mezzo del proprio quartiere: nessuno in giro, ma proprio nessuno. La bicicletta è appoggiata al muro della canonica. Tanto vale provarci: suona il campanello e lo riceve subito il Parroco. Dice che lo aspettava il giorno prima e che quindi sono scaduti i termini per la sua pratica: si potrebbe rimediare se Michele fosse ancora d’accordo ad entrare in seminario… Ma io non ho mai pensato di farmi prete!!! Allora non farmi perdere tempo e torna da dove sei venuto. All’istante Michele si ritrova in casa sua ad annusare il caffè appena versato. È sparito l’entusiasmo che lo aveva spinto fuori di casa lo scorso caffè. Ora è smarrito, spaventato e confuso. Non sa più dove andare e gli si è detto che i suoi progetti non sono più realizzabili: non sa più chi è, non sa cosa aspettarsi, niente è più come dovrebbe essere! Ha paura ad uscire di casa: non ha voglia di incontrare gli altri, si è rotto qualcosa e non sa cosa aspettarsi; non ha voglia di quel mondo che non riconosce più. Per oggi se ne starà in casa e poi si vedrà… Fuori dalle finestre si vede il mare che arriva docile fino a riva: la spiaggia è affollata dalla gente, che finalmente può uscire, dopo la lunga pandemia.


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25 APRILE segue dalla prima

È interpretato da tre bravissime attrici: Irene Avataneo, Chiara Franza, Alessandra Lappano. Brevissimo intervento introduttivo del Presidente Occelli dell’Anpi della sezione cittadina ed altrettanto breve chiusura del Sindaco Oderda, proprio per lasciare spazio alle voci delle Partigiane rese ancor più avvincenti dalla bravura delle interpreti. Ovviamente è in rete ancora oggi e quindi è ancora possibile visionarlo. Sempre on line ogni giorno a partire da domenica 25 aprile è possibile ascoltare un breve video con la biografia di uno o più caduti partigiani racconigesi, grazie all’iniziativa dei Giovani del “TOC-

CA A NOI” che collegano ogni biografia con un fatto attuale. Una bellissima iniziativa che dimostra come anche i giovani non siano insensibili (anzi) ai valori dell’antifascismo e della Resistenza. Non è mancata poi un’iniziativa in presenza, perché la mattina del 25 aprile, in Piazza Castello, con un improvvisato flash mob, l’ANPI, il Tocca a Noi, e un po’ di gente richiamata all’ultimo, si sono fermati ad ascoltare Michelangelo Banchio che con la sua chitarra e la sua bella voce ha cantato alcune canzoni della Resistenza, naturalmente concludendo in coro con “Bella Ciao”. Racconigi, 26 aprile 2021

VOCI DI LIBERTÀ

Oratorio laico sulla Resistenza delle donne Un reading collettivo a più voci per raccontare l’impegno femminile nella lotta di liberazione dell’Italia dal nazifascimo, firmato da Progetto Cantoregi, con Anpi e Comune di Racconigi. Ripreso alla Soms di Racconigi, sarà trasmesso dal 24 aprile online sui canali social e sui siti di Progetto Cantoregi e del Comune di Racconigi. In scena per “Voci di libertà” le attrici Irene Avataneo, Chiara Franza e Alessandra Lappano. Interventi di Pierfranco Occelli, presidente della sezione Anpi di Racconigi e Valerio Oderda, sindaco di Racconigi. www.progettocantoregi.it – www.comune.racconigi.cn.it Durante il periodo della Resistenza, le donne si sono impegnate nella lotta di Liberazione su più fronti: «nello scontro armato, nel lavoro di informazione, approvvigionamento e collegamento, nella stampa e propaganda, nel tra-sporto di armi e munizioni, nell'organizzazione sanitaria e ospedaliera, nel Soccorso rosso, […] nei Gruppi di difesa della donna e per l'assistenza ai combattenti della libertà». [Anna Bravo, Resistenza civile, in Dizionario della Resistenza, a cura di Enzo Collotti, Renato Sandri e Frediano Sessi, Einaudi, 2000]. Antifasciste per scelta personale o tradizione familiare, appartenenti a tutte le fasce sociali e impegnate in ogni professione, giovani e anziane, provenienti da tutta Italia, con armi o senza, le donne hanno partecipato attivamente alla guerra di Liberazione, divenendo un elemento imprescindibile della Resistenza. Insieme e al pari degli uomini sono state protago-niste della Resistenza civile. Alcune loro azioni di massa hanno ottenuto risultati molto significativi sia da un punto di vista strategico che politico. Solo a

35.000 donne, a fronte di 150.000 uomini, è stata riconosciuta la qualifica di “partigiana combattente”, nonostante un impegno, nei fatti, molto incisivo [fonte: sito Anpi]. Ada Gobetti bene ricorda il ruolo delle donne: “Nella Resistenza la donna fu presente ovunque: sul campo di battaglia come sul luogo di lavoro, nel chiuso della prigione come nella piazza o nell’intimità della casa. Non vi fu attività, lotta, organizzazione, collaborazione, a cui ella non

partecipasse: come una spola in continuo movimento costruiva e teneva insieme, muovendo instancabile, il tessuto sotterraneo della guerra partigiana” Info: 335.8482321 – www.progettocantoregi.it – info@progettocantoregi.it Fb Progetto Cantoregi – Tw @cantoregi - IG Progetto Cantoregi. Ufficio stampa Progetto Cantoregi: Paola Galletto - pao.galletto@gmail.com


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Quali cambiamenti sul tuo lavoro ha comportato il Covid ? segue dalla prima

per i lettori che sapranno che questa è una verità non trascurabile anche se piccola, che merita la pena di essere conosciuta.

Siamo convinti che fare un giornale ha soprattutto questo scopo, che non ha importanza arrivare prima di altri a conoscere le notizie, bensì serve

arrivarci nel modo migliore e dare l’opportunità di riflettere sulle stesse, dopo averle avute, in modo da migliorare il nostro pensiero e forse

il comportamento.

necessario dunque, in cui non rallentare il “fare”, semmai sedimentare idee nuove, che non amano la fretta, perché guardano lontano. Abbiamo pertanto cercato, nei limiti delle nostre capacità, di non venire meno ai propositi che informano da sempre il nostro agire, e cioè di provare ad essere comunità nella comunità. Ad esempio, aprendo il nostro nuovo spazio - quando possibile, e sempre nel pieno rispetto delle misure di contenimento alla pandemia imposte -, all'utilizzo da parte della collettività racconigese per le più svariate necessità, o continuando ad offrire occasioni di approfondimento culturale. Ma la chiusura forzata ci ha consentito anche di proseguire nei lavori di miglioramento della struttura e di implementazione della sua dotazione tecnica, ben testimoniato dal successo del crowdfunding per l'acquisto di un videoproiettore e un telo meccanizzato da proiezione. E se gli schermi - dei personal computer, dei tablet o degli smartphone -, nostro malgrado, sono diventati in questi mesi le principali interfacce visuali della nostra comuni-

cazione quotidiana, non potevamo non misurarci anche noi con questi strumenti digitali, cercando di adattarli alla nostra poetica. Una rivoluzione copernicana, se vogliamo, per chi ha fatto del teatro di popolo il proprio vessillo artistico. O forse solo, giocoforza, un adeguarsi e adattarsi ai tempi, senza snaturare i principi fondanti del proprio credo scenico. Sono nate così iniziative come l'allestimento Come rane d'inverno, pensato per il Giorno della memoria, l'intervista allo storico Eric Gobetti per il Giorno del ricordo, Zona rosa. Discorsi semiseri attorno al mondo delle donne, organizzato in collaborazione con Concentrica per la Festa della donna, e Voci di libertà, il nostro oratorio laico dedicato alla resistenza al femminile per il Giorno della Liberazione. Nuove modalità espressive, iscritte però nel solco di una tradizione di impegno nella celebrazione del calendario civile che, anche in questo annus horribilis, non abbiamo voluto mancare. Nell'attesa di poterci nuovamente abbracciare. Non solo simbolicamente.

Una resistenza positiva di Marco Pautasso, Progetto Cantoregi

È trascorso ormai più di un anno dall'esplosione della pandemia, un tempo sospeso dove abbiamo riscoperto l'importanza dell'attesa, della resistenza positiva. Dopo un inevitabile smarrimento di fronte all'inaudito, abbiamo infatti imparato ad accettare la sfida della complessità, adattandoci a una realtà incerta e imprevedibile, dai processi discontinui e non più lineari, e a convivere con le nostre nuove fragilità. Se cambiamento, adattamento, rinnovamento sono le parole d'ordine che hanno scandito questo tempo di attesa, pur tuttavia non abbiamo rinunciato a coltivare l'ostinata speranza di una “vita nuova”, di una rinascita, ben sapendo che la speranza è sempre una sindrome buona, una spinta ad immaginare. Walter Benjamin diceva che la felicità consiste nel vivere senza paura. Vivere oggi senza paura non è possibile, ma di questi tempi forse il coraggio non si manifesta nel non avere paura, semmai nel saperla controllare e farne un acceleratore del cambiamento. In questi mesi abbiamo resistito alla ten-

tazione del panico, ci siamo impegnati a non farci sopraffare dall'ansia dell'istante, a non appiattirci sul presente. E molti, non tutti, hanno provato anche a reagire con un rinnovato senso di responsabilità, andando oltre la propria individualità, ritrovando anzi nell'impegno civile collettivo un nuovo orizzonte di senso. Progetto Cantoregi, come tante altre realtà che operano nell'ambito della produzione e promozione culturale, si è trovata, nel suo piccolo, a dover necessariamente, se non ridimensionare, ridefinire i propri progetti, a modificare in corsa i piani prestabiliti - concernenti soprattutto, nello specifico, la gestione appena avviata della Soms -, per provare a interpretare una realtà del tutto inattesa. Nell'assoluta convinzione che, anche e soprattutto nell'emergenza, le organizzazioni culturali non debbano lesinare alcuno sforzo nell'affrontare l'eccezionalità del momento: immaginando, progettando, (ri)programmando, rinnovando, sperimentando. Per trasformare così questo tempo sospeso nel tempo delle scelte, per iniziare a scrivere pagine del proprio futuro. Un tempo

SARÀ ANDATO TUTTO BENE?

Il punto di vista di un artigiano al tempo del Covid di Elisa Reviglio

Che poi il passo da “Andrà tutto bene” a “Forse qualcosa è andato storto” è stato breve. Sì, il tempo di un anno. Certo non posso fare un discorso che riguardi in modo univoco tutto l’artigianato, categoria a cui appartengo e che rappresento in seno a Confartigianato Imprese, in quanto il mondo artigiano è ampio e variegato. Ma sicuramente per il mio settore, quello della carta stampata, è così. Il Covid ha drasticamente modificato le nostre abitudini e di fatto ha accelerato quel processo di digitalizzazione iniziato anni fa e che ci ha reso tutti più schiavi di Internet. Ciò significa nuovi metodi di comunicazione che non hanno più nulla a che fare con la carta, e indietro non si tornerà più. Ma anche per tutti gli altri settori, l’entrare in contatto con un mercato molto più ampio ed agguerrito. Questo per dire che piccole aziende si sono ritrovate nel giro di breve a dover “reinventarsi” o quantomeno a velocizzare quei cambiamenti che erano magari stati programmati, ma con un piano di investimenti più ad ampio respiro. E tutto ciò in un momento in cui il lavoro langue, causa l’incertezza del futuro e per futuro intendo domani. Sì perché qui noi sappiamo dalla sera alla mattina se saremo aperti o chiusi, e non esagero, perché per una attività sapere al

venerdì se al lunedì sarà aperta, è come dirlo oggi per domani. Non è possibile programmare acquisti, lavoro, consegne. Ed ecco che le aziende si sono trovate ancor più in crisi di liquidità, quella che serve per sostenere stipendi e fornitori in caso di fermi di produzione. Certo lo Stato ci ha permesso di ottenere finanziamenti garantiti, ma è pur sempre una forma di indebitamento che ha un senso se esiste una prospettiva. E un anno fa c’era, infatti molti di noi hanno scommesso sulle proprie attività, aprendo prestiti, sostenendo spese per adeguarsi a protocolli giusti ma pur sempre un costo in più, ma dopo un anno il lavoro non è ripreso e i soldi sono nuovamente finiti. E la differenza è sostanziale, perché ora non è più percorribile la strada dei finanziamenti, occorre iniziare a pagare quelli in corso e parallelamente il mercato è fermo. Anzi, il mercato in fermento c’è, ma è quello delle materie prime. Se Confindustria dice che in alcuni settori il fatturato è in crescita, forse non lo è a causa di un aumento di produzione, ma a causa di un aumento dei prezzi del 30/40% in settori quali ferro, acciaio e legno. Più difficile per un artigiano edile o una tipografia, per esempio, applicare questi aumenti su lavori magari già appaltati precedentemente.

Certo, esistono i tanto famigerati ristori, ma una attività come la mia, con tre dipendenti, a fronte di un calo di fatturato del 30% e con le spese fisse inalterate, che cosa può risolvere con 2000 euro? L’importo totale impegnato dal Governo è stato uno sforzo notevole, ma la ricaduta sulle singole attività è ridicola. Noi non vogliamo elemosina, vogliamo lavorare. Ma questa politica alla “Strega tocca colore” non paga, non paga in ambito sanitario e non paga soprattutto in ambito economico. Disquisire sull’aspetto sanitario non mi compete, ma, economicamente parlando, questa filosofia “Stop & Go” non infonde fiducia nel consumatore. Basti vedere come nell’ultimo anno l’italiano medio abbia risparmiato di più. Certo non perché abbia visto aumentare i propri guadagni, semplicemente perché non ha speso. E a fronte di un italiano che non compra, c’è un italiano che non vende e uno che non produce. Forse, a mio modesto parere, sarebbe stato più funzionale ad entrambe le cause un lockdown totale durante il quale però l’Europa e conseguentemente l’Italia avrebbero dovuto procurarsi i vaccini e sostenere le attività con ristori più consistenti senza creare tanti bonus, ma convogliando le risorse in modo da poter permettere una chiusura senza contraccolpi.

E quindi riaprire a fronte di una vaccinazione di massa. Utopia? No, io non credo. Di risorse economiche ne sono state messe in campo tantissime, ma distribuite senza una visione futura. Credo piuttosto che la politica tutta, non solo quella italiana, abbia mostrato i propri limiti, la pochezza della propria lungimiranza, che ci si sia soffermati più a rincorrere questo virus che a contrastarlo, sia dal punto di vista sanitario che economico. E temo che quand’anche il Covid sarà gestibile dal punto di vista sanitario, continuerà a mietere le sue vittime in ambito economico. Perciò, sì, oggi non me la sento più di dire che andrà tutto bene, ma un semplice “io speriamo che me la cavo”, che non è proprio il principio cardine di una economia sana.


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Il virus e l’Anima di Luciano Fico

La stanza della Psicoterapia, così come lo studio di Psichiatria sono spazi abitualmente affollati di disagio, di paura, di vergogna, di tristezza e anche di angoscia. Proprio il malessere dell’anima spinge le persone a chiedere aiuto, dapprima, e a cambiare, poi. Ora siamo tutti sottoposti ad una situazione anomala, inattesa e protratta di limitata libertà e di grande paura a causa di un virus: nulla è più come prima, neppure lo spazio dedicato ai turbamenti della psiche. Per prima cosa ho potuto registrare un significativo aumento della domanda: 30-40% in più di incontri settimanali. L’incremento di accessi in studio non è iniziato con il primo lock down, dove anzi le persone si erano spaventate e avevano sospeso del tutto ogni contatto con me in studio. Gli incontri e le visite sono ripresi in tarda primavera con la consueta affluenza: da Gennaio 2021 le richieste sono aumentate nella misura che ho indicato. La situazione sociale e psicologica anomala in cui ci ritroviamo a vivere da un anno ha indotto uno stress diffuso, andando quindi a causare

scompensi nelle persone più fragili. Ho però l’impressione che il fattore più deleterio sia stata la perdita di speranza e di prospettiva. Con il secondo e poi il terzo picco di casi positivi al Covid-19 sembra essersi rotto qualcosa in molte persone, che mai avevano presentato disturbi psichici prima d’ora: il radicale cambiamento dei rituali sociali (il tempo dello svago condiviso; la separazione del tempo del lavoro da quello libero; gli equilibri di presenza e di assenza dei genitori rispetto ai figli; il contatto fisico, sessuale

e non, come veicolo di rinforzo al nostro esserci) ha tolto a tutti i naturali sostegni psicologici, che normalmente ci permettono di reggere anche situazioni faticose e sfidanti. Sto osservando una serie di casi in cui la modalità di manifestazione dei disturbi è anomala, insolita. L’intensità del malessere è percepita come molto intensa e le persone ne sono spaventate. In numerosi casi i quadri di tipo depressivo si connotano molto rapidamente per pensieri suicidari ed anche i casi di suicidio agito sono aumentati drasticamente nella mia ridotta casistica. Insolitamente frequenti anche i casi “misti”, in cui il vissuto depressivo si manifesta contemporaneamente ad un’intensa agitazione. I disturbi sono più tenaci e resistenti sia al trattamento farmacologico che all’approccio psicoterapeutico. Essendo il crollo depressivo causato e sostenuto da eventi reali ed esterni alla persona, risulta meno efficace l’approccio psicoterapeutico, essendo meno incidenti le cause interne. Il livello su cui si può pensare un intervento è quello esistenziale: confrontarsi con l’ineludibilità del Male, della sofferenza, del limite e della morte. Chiaramente, però, il misurarsi con questa dimensione dell’esistere implica un livello evolutivo personale già molto elevato, altrimenti si rischia di peggiorare lo stato di malessere, togliendo ogni capacità residua di reagire. Nella popolazione giovanile, che sempre più spesso accede al mio studio negli ultimi anni, mi sembra che l’influsso della pandemia sia piuttosto diverso. La perdita della speranza e la tendenza all’isolamento erano già profondamente radicate nei ragazzi e nelle ragazze dai 17 ai 25 anni: il virus ha solo accentuato e semmai

giustificato tale tendenza. Mi sembra che l’avvento della pandemia abbia sottratto forza alle obiezioni che gli adulti potevano portare a quei giovani che cercavano una vita sempre più isolata e limitata alla propria camera, all’abuso di comunicazione virtuale a scapito degli incontri reali, alla perdita di prospettive e di ideali. Il Covid-19 sembra radicalizzare una visione giovanile pessimistica e rassegnata, laddove era già presente. Stesso fenomeno lo osservo anche con le persone ipocondriache, quelle con la fobia del contagio e del contatto, quelle ossessivo-compulsive, che trovano nel continuo controllo una barriera alle proprie ansie. Sia una parte dei giovani che le persone con questi disturbi nevrotici si ritrovano quindi a proprio agio nei limiti e nelle abitudini indotte dalla pandemia e vanno quindi a rinforzare i propri comportamenti disadattivi, che ora sono invece diventati adeguati al contesto pandemico. Anche nel mio campo di intervento e di interesse, a fronte delle osservazioni attuali, sorge potente la domanda circa l’esito a lungo temine di questo processo. Passata l’emergenza sanitaria si tornerà alla normalità precedente oppure si è avviata una trasformazione, che porterà ad evoluzioni al momento imprevedibili? In ogni caso la poltrona dello psicoterapeuta rimarrà un luogo di incontro con se stessi e con l’altro, che accompagnerà ogni evoluzione del nostro mondo: può cambiare la visione della vita, possono cambiare le modalità di incontro, può mutare il contesto sociale in cui ci muoviamo, può cambiare la cultura che ci ispira così come il nostro rapporto con l’ecosistema in cui siamo inseriti, ma non cambierà mai il nostro bisogno umano di dialogo autentico.


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ghiere di Franco è semplicemente che sono belle; ricche di poesia e immagini pacificano l’animo, sono canti alla vita. Grazie Franco per questo dono di parole. “Oggi di queste parole c'è un infinito bisogno anche per andare oltre il mon-

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do delle chiacchiere, delle banalità, del vuoto. Non è il tempo di tacere o di fingere di non vedere. Nella società come nella chiesa la parola che va diritta ai problemi è oggi molto necessaria per uscire dal pantano dell'immobilismo.” F. B.

“NON BENEDITE LE COPPIE GAY”

a cura di Guido Piovano

UN LIBRO SPECIALE “In genere noto che le persone che coltivano la pratica del silenzio ossigenante, e la vita interiore profonda sono quelle che dal loro silenzio fanno nascere le parole della giustizia e della libertà.” F. B.

“PREGHIERE D’OGNI GIORNO” 155 preghiere di Franco Barbero pp. 220, anno 2021, € 16,00 Ecco le Preghiere d’ogni giorno di Franco Barbero nascono da questo “silenzio ossigenante” che Franco pratica nel quotidiano, non come fuga dalla realtà ma come spazio privilegiato dell’ascolto di un Dio che ascolta il grido di giustizia e di libertà del creato. Non è un gioco di parole “ascoltare il Dio che ascolta” e che parla, anche nella Bibbia, attraverso la vita delle sue creature. È invece prendere coscienza che il nostro è un Dio che ci accompagna. Dunque lo spazio della preghiera come luogo per incontrare Dio in una dimensione più umana possibile. Non è creare il vuoto dentro di sé, ma uscire da noi stessi per collocarci in una relazione col

Dio che ci ama e ci accoglie nel nostro grido di dolore di umanità in cerca di una strada. Le Preghiere d’ogni giorno di Franco Barbero esprimono quanto lui stesso afferma nel sottotitolo “Pregare e lottare: una sintesi vitale”, a dire che la preghiera, estrapolata dalla vita vera con tutte le sue contraddizioni, perde significato. Per Barbero la preghiera non è semplicemente un comunicare con Dio nel proprio intimo più profondo, è questo ma in un rapporto di me con Lui che non può prescindere dalla vita di tutti i miei fratelli e sorelle. In questo senso lo stupore per l’universo che Franco esprime nelle PREGHIERE, il ringraziamento per il dono della vita in tutte le sue manifestazioni, la profonda vicinanza di cuore e di intelletto alle lotte per la giustizia delle donne e degli uomini sono manifestazioni di una fede vissuta nel concreto di una vita spesa all’ascolto degli ultimi e al loro servizio. È inutile dire che nelle PREGHIERE non c’è traccia di ritualismo, di formule vuote. In esse manca del tutto la dimensione del Dio magico, se intesa come intervento meccanico di Dio presso di noi, non c’è traccia di un rapporto utilitaristico col Dio che interviene a favorirci nelle nostre “cose” ed è importante sottolineare che, come Gesù stesso ci ha insegnato, Franco prega solo Dio senza intermediari più o meno legittimati dalla chiesa. Per Franco pregando, ci riconosciamo sorelle e fratelli fragili davanti a Dio, cerchiamo il Suo abbraccio, ci affidiamo a Lui, senza nulla chiedergli se non la forza e la volontà di camminare lungo i Suoi sentieri insieme a tutte le Sue creature, secondo quanto ci dice quella Bibbia che Franco ha studiato con grande dedizione per tutta la vita. Motivo ulteriore per pregare con le pre-

L’ex Sant’Uffizio: “L’omosessualità è pratica illecita, non possiamo tollerare il peccato.” «Non è lecito - afferma la Congregazione per la Dottrina della Fede guidata dal cardinale gesuita Luis Ladaria - impartire una benedizione a relazioni o a partenariati anche stabili, che implicano una prassi sessuale fuori dal matrimonio come è il caso delle unioni fra persone dello stesso sesso». «La Chiesa non può benedire il peccato». Prese di posizione Fabrizio Marrazzo, portavoce del Partito Gay per i diritti Lgbt+ «Un passo indietro per i credenti che speravano nel nuovo Papa». Andrea Rubera, portavoce di Cammini di Speranza « Non sono state ascoltate le persone omosessuali credenti. C’è un lavoro di riflessione che dura da anni anche da parte di teologi. Lo si è liquidato così». Vito Mancuso, teologo «Questo documento è l'ulteriore testimonianza della ormai evidente ambivalenza del papato attuale… Molto profetico quando parla al mondo, incapace di incidere sul cambiamento quando si occupa della struttura della Chiesa». Alberto Maggi, 75 anni biblista, cui da anni accorrono centinaia di persone che cercano risposte che la Chiesa non offre «Da Gesù mai una parola contro l’omosessualità. Questa Chiesa mi fa paura, dovrebbe avere le mani sempre tese, andare incontro agli altri e ricordare che per Gesù la verità non è una dottrina da insegnare, ma il bene da fare. Si benedicono le case, gli animali, gli oggetti, ma due persone che si vogliono bene no. Anche la mia vita di sacerdote non è aperta alla procreazione. Così quella di Gesù che non ha ripetuto l’adagio biblico “crescete e moltiplicatevi”. Ha incitato a essere aperti agli altri e per farlo non serve procreare. Qui si buttano dei pesi sulle spalle della gente, pesi che non si sa nemmeno portare. È molto triste. Io dico agli omosessuali non aspettate che la Chiesa vi riconosca, siate felici prima». Chiara Saraceno, giornalista di Espresso e Repubblica «Tramonta l’illusione di una stagione diversa. Qualcuno si era illuso che con l’enciclica Amoris Letitiae si fosse aperta una sta-

gione di maggiore attenzione, da parte della Chiesa Cattolica e del suo magistero, nei confronti dei rapporti di amore e solidarietà che esistono nelle coppie formate da persone di sesso diverso o dello stesso sesso anche se non unite in matrimonio, per scelta o impedimento legale. La pronuncia della Congregazione che ha negato loro la possibilità di ricevere anche solo una benedizione, condannando la prassi in uso in diversi paesi ed anche in alcune chiese italiane, mette fine a questa illusione». Stephan Goertz e Magnus Striet, Mainz/Freiburg, teologi « Quando, citando Francesco, il Vaticano dice che le persone con tendenze omosessuali dovrebbero “ricevere l’aiuto necessario” per “comprendere e compiere pienamente la volontà di Dio nella loro vita”, ci lascia senza parole. Cosa viene raccomandato qui? Il superamento della tendenza? Astinenza sessuale completa? Il documento è bloccato in una dottrina morale formulata negli anni cinquanta. Lo sviluppo teologico dell’ultimo mezzo secolo è allegramente bypassato. Al diktat vaticano si risponde con la disobbedienza». Brevemente Il documento della Congregazione vaticana sembra prima di tutto frutto di ignoranza. Ignora infatti ciò che le scienze umane dimostrano da tempo, che esiste un ventaglio di orientamenti sessuali che non possono essere considerati patologia, disturbo, vizio. Eppure per la Chiesa l’omosessualità è ancora peccato. È troppo chiedere agli psichiatri credenti di compiere un atto di carità, di scrivere al papa per chiarirgli come stanno le cose? Chiarirgli che l’omosessualità non si sceglie, non si cambia, non si cura, né più né meno dell’eterosessualità, va solo riconosciuta e accettata. È troppo chiedere ai nostro pastori, parroci in testa, di prendere posizione, di sottrarsi esplicitamente al diktat vaticano ed esercitare concretamente l’accoglienza? In ultimo richiamo l’urgenza di approvare la legge Zan - votata alla Camera e ferma in Senato – che introduce l’aggravante omotransfobica nei reati di aggressione, temo che proprio la posizione della chiesa possa frenare tale approvazione.

Ma allora sono un fesso di Zanza Rino

Rottamazione cartelle esattoriali sotto i 5.000 euro emesse dal 2000 al 2010, con un tetto di reddito di 30.000 euro, se ho capito bene. Un

“onorevole” compromesso tra chi la rottamazione non la voleva e chi la voleva più consistente. Ma in Parlamento sarà battaglia, l’esito incerto. Pace fiscale è fatta (parziale). Ma mi raccomando, non chiamiamolo condono. C’è anche chi propone di utilizzare, per compensare la perdita di gettito, la cancellazione del cashback di Stato. E così si potrebbe chiudere il cerchio. Viviamo una situazione di emergen-

za, a cui bisogna dare risposta. La risposta deve essere necessariamente il condono delle cartelle per tutti, onesti e non onesti? E la lotta all’evasione deve avvenire necessariamente eliminando uno degli strumenti (tracciabilità transazioni) efficaci nel contrastarla? Questo Governo è l’ultima spiaggia, ma non vorrei che alla fine diventasse la solita spiaggia. Un terreno scivoloso quello dell’eva-

sione fiscale, ognuno di noi ha probabilmente i suoi scheletri nell’armadio. Ma mi (vi) chiedo. Secondo voi la prossima volta che prendo una multa per eccesso di velocità, non è che faccio ancora una volta la figura del fesso a pagarla? E la prossima volta che chiamo il muratore o l’idraulico per fare lavori in casa non è che faccio la figura del fesso a chiedere la fattura?


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SCUOLE CHIUSE

QUANDO L’EMERGENZA EDUCATIVA DIVENTA SOCIALE di Antonella Guerrini Docente Liceo Scienze Applicate G. Bruno di Perugia

Abbiamo passato un anno intero davanti ad un computer, senza uscire di casa, senza vedere i nostri amici, i nostri familiari, senza vivere. Sembra che il tempo si sia fermato, e con il tempo anche noi adolescenti. Ci stiamo perdendo gli anni migliori della nostra vita, e non torneranno più. Questo il “grido di dolore” di Martina, liceale di 16 anni che non frequenta più la scuola da marzo 2020 iniziando un lento scivolamento verso la perdita di senso della propria vita. È andata meglio ai suoi coetanei europei. In Francia, le scuole sono state riaperte già a partire da maggio dello scorso anno e, grazie alla formazione ad hoc di migliaia di studenti, vengono eseguiti test salivari sui ragazzi. Di tamponi se ne fanno anche due a settimana. In Spagna, tenere le scuole aperte è la linea seguita dal premier Sanchez. Il Ministero della Salute afferma che nell'80% dei casi un alunno positivo non contagia nessuno. In Germania, le lezioni si svolgono in piccoli gruppi in un formato ibrido: faccia a faccia e a distanza. Durante i due mesi di chiusura totale, i genitori con lavori considerati "rilevanti per il sistema" hanno continuato a portare i figli a scuola. In Italia, il nuovo anno scolastico era cominciato in estate: dirigenti scolastici, insegnanti, bidelli, avevano assicurato il distanziamento e, alla riapertura, una distribuzione costante di mascherine. Poi, la scuola superiore è stata di nuovo chiusa da provvedimenti regionali presi di settimana in settimana, gettando gli studenti, le famiglie ed i docenti nella dimensione della indeterminatezza totale. Che ripercussioni ha avuto negli adolescenti la chiusura così prolungata della scuola? Quali danni, psicologici ma anche fisici, gli abbiamo causato sottraendogli spazi

sociali e culturali? Vietando loro il contatto in una età in cui il corpo è pulsione di vita all’ennesima potenza? Togliendogli da sotto i piedi quel terriccio di crescita che gli consente di spuntare, mettere le gemme e poi finalmente fiorire? In questo anno (ma scolasticamente sono due) ho visto i miei alunni-pianta appassire ed afflosciarsi piano piano. Prima avevano un folto fogliame verde brillante; ora, illuminati solo dalla luce artificiale degli schermi, hanno un colorito giallognolo, da pianta di appartamento trascurata. Gli abbiamo tolto i parchi vegetali, i campetti da calcio, le piscine, le palestre. Sono stati estromessi, perché contagiosi, dalle praterie urbane del sabato sera e spostati nel terrazzo di casa a guardare muti cosa accadeva di fuori in un anno fatto di “apri e chiudi”, di paure e speranze, di attese e di ripartenze subito frustrate da chi diceva che la scuola era fattore di contagio. Ora, i miei alunni non muovono più le fronde alla brezza calda delle loro relazioni umane, non crescono spontaneamente e impetuosamente grazie alle energie che si concedono e si prendono reciprocamente. Si chiama processo di crescita, ma questo si è arrestato. Sono spenti i miei alunni-pianta, e nessun concime di fiducia e autostima che noi insegnanti cerchiamo di dargli in Dad può essere sufficiente. Già dalla prima annaffiata, l’appello, si capisce che ci sono senza esserci. Rispondono con voce opaca e allora chiedo loro di chiamarsi a vicenda, ciascuno per nome, tanto

per provare a risvegliarli. Obbedienti eseguono ma si capisce che recitano. Dove è finita la loro spontaneità indomabile? Quando intervengono, lo fanno dopo pause che a me sembrano infinite. Non c’è nulla da fare: la distanza ha preso il sopravvento sulla presenza. Al rumore della propria aula, è seguito il silenzio della propria stanza. Al movimento imprevedibile e continuo dei loro corpi, hanno sostituito la quotidiana e scontata immobilità dettata dal loro pc. La dad prof. è disumana, dice un’alunna di prima, durante una Dad divenuta un contenitore di lamentazioni per questa classe di ragazzini che a distanza hanno svolto pure l’esame di terza media, e che ora sono a casa da mesi, spesso completamente abbandonati perché i genitori sono al lavoro, e magari hanno fratelli e sorelle da accudire perché anche la scuola primaria è chiusa. Ho scoperto che uno di loro, mentre segue la Dad, controlla e gestisce la nonna immobilizzata a letto. È uno di quelli che noi docenti abbiamo bollato come svogliato. Poi ci sono quelli che spariscono dallo schermo-scuola, diventano da un giorno all’altro gli invisibili. Ricompariranno nelle statistiche della dispersione scolastica, poi in quelle dei Net, sempre più in aumento nel nostro paese. Diventano invisibili i nostri adolescenti in tanti altri modi: si ritirano nella loro stanza, implodono nella loro rabbia, diventano autolesioni-

sti, si abbuffano di cibo o smettono di nutrirsi. Si svuotano di entusiasmo e si riempiono di solitudine perché la vita è lì che scalpita, a portata di mano, e loro non possono afferrarla. E allora penso che questa delle scuole chiuse non è solo una emergenza educativa, ma sociale e come tale ormai va trattata. Se i momenti rituali e collettivi della scuola non ci sono più, occorre sostituirli con qualcos’altro che potrebbe coniugare l’aspetto formativo con quello comunitario. Una educazione alla cittadinanza che pur senza la scuola può comunque essere proposta per provare a colmare il grande vuoto di relazione che la pandemia ha provocato in questi adolescenti. Si potrebbero sperimentare reti sociali, non virtuali, ma reali, fisiche, punti di confronto che diventino di conforto, di ascolto e conoscenza. Sarebbe bello che noi adulti - dal mondo della scuola a quello del volontariato e delle istituzioni - riaprissimo tutti gli spazi della cultura, chiusi da troppo tempo, e invitassimo - in piccoli gruppi e con tutte le norme di sicurezza – questi ragazzi ad uscire di casa per condividere ansie e paure ma anche la gioia di ritrovarsi insieme. Potremmo ridare luce ai teatri, ai cinema, ai musei, alle biblioteche che insegnerebbero, più di quanto non faccia la scuola, la linfa della bellezza attraverso la cultura. Dovremmo farlo. È primavera. I ragazzi-pianta potrebbero rifiorire in fretta.


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Un sentiero per scoprire il Maira

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Ne parliamo con Luca di Giancarlo Meinardi

Un paio di mesi fa ho percorso a piedi il sentiero sulla sponda destra orografica del Maira in direzione nord. Ci sono tornato qualche settimana dopo in bicicletta. Una bella sorpresa e un tuffo nel passato. Era il 1995 quando soci della sezione CAI di Racconigi tracciavamo lungo quella stessa sponda il sentiero che dal ponte arrivava alla cascina Baretti. Molti lo hanno frequentato, poi i casi della vita hanno portato la boscaglia a riprendersi quella labile traccia. Per questo con particolare emozione ho percorso il nuovo sentiero, che in parte ricalca il vecchio in parte segue una linea nuova. Tracciato molto bene, a mio avviso, andamento tortuoso e sempre molto vicino al letto del fiume, scenografico e moderatamente impegnativo se si percorre in bicicletta, senza difficoltà particolari per chi lo percorre a piedi. Preso dall’entusiasmo sono andato a riscoprire un altro sentiero, tracciato nel 2010 dai volontari della squadra ANA di protezione civile sulla sponda sinistra orografica dal ponte di Racconigi in direzione sud. L’ho scoperto ripassato di fresco, palinato, tutto percorribile sia a piedi sia in bicicletta, molto piacevole anche questo, con passaggio in una zona di recente piantumazione. Il precedente tracciato è stato prolungato fino ad innestarsi, in corrispondenza del ponte, nella strada che unisce la Pedaggera a Cavallerleone. Una vera sorpresa. Ma da dove viene tutta questa ricchezza per gli amanti della natura e delle passeggiate, a portata di mano per i racconigesi in un periodo di restrizioni Covid che limita così tanto le possibilità? Questo bel percorso non è certo nato da solo. Allora mi è venuta la curiosità di sentire chi in questa impresa ci ha messo del suo, assumendosene onere e onore. Alcune persone hanno dato un contributo, persone che preferiscono non essere citate, per cui ne rispetto il riserbo. Ma con Luca (per suo espresso desiderio ne cito solo il nome), che in qualche modo credo possa essere considerato l’anima di questa impresa, ho avuto una interessante conversazione. Come è nata l’idea? Girando con il mountain bike ho scoperto il sentiero del Maira, da Savigliano a Villafalletto, tracciato molto bene, bellissimo. Me ne sono innamorato. Dei racconigesi mi hanno detto che anche qui esisteva un sentiero. E allora qualcosa mi è scattata nella testa. Nei ritagli di tempo ho cominciato a cercarne le tracce. Ho percorso quello che va verso sud, sulla sinistra orografica del fiume fino al lago verde. Ho fatto qualcosa con alcuni amici, ma la cosa non è decollata a causa di difficoltà organizzative, logistiche, idee diverse. Insomma, abbiamo lasciato perdere. Non ci ho più pensato per un po’, poi un giorno, sarà un paio di anni fa, facendo un giro di esplorazione nell’altra direzione verso nord scopro un sentiero che più o meno va dalla zona della cascina Osella (metà del muretto parco) alla cascina Baretti. Ho cominciato a lavorarci per tenerlo pulito, in modo saltuario. La svolta è stata quest’anno, perché sono successe due cose. Parlando e collaborando con

un percorso alternativo più interno Un altro problema è la manutenzione. Ci vuole lavoro per fare un sentiero, ci vuole lavoro per mantenerlo. Anche se la prima manutenzione è quella che si ha con il passaggio frequente della gente. Mi risulta che il sentiero sia già molto frequentato Sì, è fondamentale. Ci sono comunque un paio di persone che vedendo gli sviluppi del lavoro si sono spontaneamente offerte di collaborare per tenerlo pulito e transitabile. L’idea è coinvolgere poche persone, fidate, che sanno quello che si fa.

chi aveva tracciato il sentiero ho capito che c’era una comunità di intenti, si poteva collaborare senza dare fastidio a nessuno. La seconda è che, dopo che ci sono stati dei violenti temporali, il sentiero era un disastro (alberi caduti ecc.). Mi sono messo a ripulirlo e, visto che c’ero, ho cominciato a tracciare un percorso più vicino al torrente. Così, lavorando e parlando, dicevamo… sarebbe bello arrivare fino all’Aulina… e allora ho detto, ci provo, lo traccio fin dove posso e vedo come va. E alla fine sono arrivato all’Aulina. Da lì è facile arrivare al ponte utilizzando la strada con ghiaia sulla barracana che porta alla tangenziale. Insomma, tu hai fatto il grosso del lavoro, ma è stata molto importante la collaborazione di alcune persone Sì, il grosso del lavoro manuale l’ho fatto io (roncola e falcetto), per i lavori più grossi dove occorreva una attrezzatura adeguata sono stato aiutato (gli agricoltori interessati dal percorso sono stati molto gentili e collaborativi). Abbiamo concordato alcune modifiche al tracciato per renderlo più fluido e lineare per le bici. Certo, ci vuole pazienza, impegno, dedizione, per due mesi circa, ho utilizzato la mia pausa pranzo e i weekend. Però è bello, sei nella natura, devi cercare di aprirti un percorso, non avendo mezzi meccanici e usando attrezzi a mano sei limitato rispetto alla pianta enorme, c’è l’ostacolo che non puoi superare e devi ingegnarti a trovare la soluzione E venuto fuori un tracciato interessante, vado anch’io in mountain bike, l’ho provato. Un tantino impegnativo, non banale, richiede attenzione, soprattutto in alcuni tratti molto vicini alla sponda Sì, bisogna stare attenti, e certamente alla prima alluvione che verrà le parti più a ridosso del fiume rischiano di essere spazzate via. Ma già quando ci lavoravo ho preso in considerazione questa eventualità e la possibilità di tracciare

Sono stato anche sul sentiero della sponda sinistra orografica, che dal ponte di Racconigi si dirige verso sud fino alla strada Pedaggera – Cavallerleone. Non è che c’è il tuo zampino anche in quello? Sì è così, ma devo dire che diverse parti del percorso erano già state tracciate in precedenza. C'erano poi alcuni punti critici in cui il passaggio era limitato ad alcuni periodi dell'anno, non potendo attraversare i campi coltivati. Poi quest’anno la situazione è cambiata, qualcuno potrebbe aver parlato ai contadini e loro hanno lasciato una striscia. Quando ho visto questo allora mi sono detto che era l’occasione per finire il lavoro. Ora il sentiero arriva fino al ponte della Pedaggera, poco prima dell'abitato di Cavallerleone. Ti fermerai lì oppure hai qualche altra idea in testa? Il prossimo anno, se avrò voglia e tempo, potrei provare a raccordarmi al sentiero del Maira già esistente che da Cavallermaggiore arriva fino a Villafalletto. Però penso sia importante rimanere focalizzati su quanto fatto finora perché nei prossimi mesi, con la ripresa della vegetazione, il sentiero necessiterà di molti lavori di pulizia. Allora di questo avremo ancora occasione di parlare. E dall’altra parte? Hai intenzione di estendere il sentiero in direzione nord verso la


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foce del Maira? Il sentiero per ora finisce lì. C’è un anello che permette di ritornare, senza entrare nel cortile della cascina Baretti. Ci sono cartelli che segnalano la fine del sentiero. Lì ci sono mezzi meccanici in movimento, può essere pericoloso. A tal proposito vorrei ringraziare chi si è occupato dell'ottimo lavoro di segnalazione e del completamento dell'anello. Dopo la cascina Baretti non mi risulta che ci fosse una traccia preesistente. Certo, è affascinante l'idea di arrivare fino alla foce, come naturale completamento del percorso, ma si tratterebbe di un lavoro molto lungo. Meglio perciò restare con i piedi per terra, apprezzare quanto fatto e dedicare il tempo a preservare l'attuale percorso. C’è qualcosa che vuoi aggiungere in chiusura dell’intervista? Innanzi tutto invito chi percorrerà il sentiero a tenerlo pulito. Ti ritrovi una cosa bella, non costa nulla portarsi un sacchettino per raccogliere i rifiuti. E' necessaria la collaborazione di tutti affinché si preservi la bellezza del luogo. Bisogna poi prestare attenzione al fatto che alberi e rami, o perché attaccati dai parassiti o a causa del vento, possono cadere. Eviterei di percorrerlo con il brutto tempo. Ultima cosa, lo ripeto, il sentiero da quel lato finisce lì, all’anello presso la cascina Baretti. Ora che è ben segnalato non c'è più modo di sbagliarsi, per cui invito a seguire i cartelli. Con la partecipazione di ognuno e il buon senso possiamo preservare questo breve ma gradevole cammino nella natura che possiamo considerare parte integrante del paese. Ti faccio i complimenti, hai fatto un lavoro molto bello. Tu e quelli che hanno collaborato a questo risultato, anche se non vogliono essere citati. Mi sembra giusto valorizzare questo lavoro, vorrei che si mantenesse nel tempo, e anche per questo abbiamo voluto come giornale parlarne. Ne parleremo ancora.

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Pietre miliari e altre curiosità di Giancarlo Meinardi

Nel numero di marzo vi abbiamo chiesto dove si trovasse la pietra miliare di cui pubblicavamo la fotografia. La risposta non è difficile. É collocata poco prima dell’inizio del viale monumentale, al n. 44 di corso Principe di Piemonte. Vi si legge soltanto 30, da/per dove non è dato sapere. Potrebbe essere (con un po’ di approssimazione) la distanza in chilometri da Torino, lungo la linea stradale Racconigi – Carignano – Moncalieri. Ma è solo un’ipotesi. Qualcuno ne sa di più? C’è un’altra pietra miliare, sulla strada sterrata che dal cancello nero del parco si dirige verso nord, passando nei pressi delle cascine di Migliabruna. C’è scritto 13 miglia da Torino. Qui è difficile far tornare i conti. Solo 13? La risposta c’è. Fino al 1848, anno in cui nel Regno di Sardegna fu adottato il sistema decimale, erano in uso unità di misura ereditate dall’epoca feudale. Il miglio piemontese misurava circa 2.466 metri, per cui 13 miglia corrispondono approssimativamente a 32 chilometri. E allora i conti tornano se consideriamo la distanza che intercorre da Torino sulla direttrice Carmagnola – Villastellone – Moncalieri – Lingotto. Una occasione per riportare alla memoria le vecchie unità di misura piemontesi. Erano legate alla concretezza della vita quotidiana e potevano variare a seconda delle zone: la superficie arata in una giornata da una coppia di buoi, la lunghezza di un piedi o di un passo, la capacità di una botte o di un cucchiaio. Si parlava allora (e ancora oggi si parla, in certi casi), di giornata, tavola, pertica quando si trattava di misurare superfici; di miglio, piede, atomo quando si misuravano lunghezze; di bottale, brenta, pinta, boccale per misurare la capacità di un recipiente per liquidi. Parafrasando un detto che tutti conosciamo: paese che vai misura che trovi.

LA RIVOLUZIONE GENTILE DEL CARRELLO

Come la pandemia ha cambiato le nostre abitudini di spesa di Stefano Bertello, Legambiente

La Pandemia da Covid-19, che ha duramente segnato le nostre vite negli ultimi 12 mesi e che ancora si appresta a farlo nei prossimi, ci ha insegnato a fare la spesa in modo diverso: più locale, più consapevole, più sostenibile. In special modo durante il primo lockdown della scorsa primavera, quando la libertà di movimento era fortemente condizionata, ecco che il panificio sotto casa, il chiosco dell’azienda agricola locale, il piccolo alimentari di quartiere, sono divenuti preziosi alleati per consentirci di fare la spesa che, per molte persone, era divenuto ormai automatico fare nei grandi centri commerciali in prossimità delle città. Se da un lato questo non ha significato necessariamente mettere in tavola cibo più sano, dall’altro sicuramente ha in qualche modo avvicinato consumatore e produttore.

Abbiamo imparato, anche grazie al supporto del web, a usufruire di realtà di prossimità molto spesso sconosciute in periodo pre-pandemico, ed a apprezzare l’offerta enogastronomica del nostro territorio, con le sue peculiarità e produzioni di eccellenza. Da uno studio internazionale dell’istituto di ricerca Sial è emerso infatti che nel 2020 oltre il 65% degli italiani ha dichiarato di aver acquistato più cibo locale/regionale, mentre il 45% ha acquisito maggior consapevolezza verso l’elenco ingredienti e l’origine biologica dei prodotti. Medesimo il discorso per l’etica della filiera, che interessa al 47% degli italiani, i quali prediligono il cibo prodotto in modo equo. Numeri, questi, che ci fanno ben sperare verso un ritorno ad una nuova normalità della nostra spesa post-pandemia: più sana, locale,

sostenibile, ma soprattutto consapevole. La consapevolezza di dove proviene il cibo che mettiamo sulla nostra tavola, di come è stato coltivato o allevato e di quali sono le sue ripercussioni sulla nostra salute e sull’ambiente. Un ritorno alle “origini” del cibo, meno elaborato o processato, italiano e di stagione, che si traduce di conseguenza anche in un maggior tempo speso in cucina nel riprendere consapevolezza delle consistenze e dei sapori del cibo di qualità. Ultimo ma non per importanza, è doveroso citare il numero sempre più elevato di italiani che sceglie una dieta plant-based e vegetariana, anche grazie ad iniziative di sensibilizzazione locali ed internazionali (una su tutte, l’iniziativa mondiale del Veganuary) che durante questo anno di pandemia hanno trovato grande linfa vitale.


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DIECI MINUTI CON LA BELLEZZA

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Goya un artista a cavallo di due secoli di Rodolfo Allasia

Su insonnia, da un po’di tempo seguo una rubrica di arte, questa che state leggendo, che non ha una linea fissa da percorrere (non è storica, non è per presentare autori solo italiani o di altri paesi, non

nell’altro. Questo numero del giornale, per una serie di collegamenti che il mio cervello ha sviluppato ha fatto intrecciare questo lungo periodo pandemico con la figura, la vita

è per correnti) direi che scrivo per sottolineare quali legami esistono tra la vita dell’artista, la sua produzione e la situazione sociale e storica del periodo in cui l’artista è vissuto o ancora vive. Se l’artista ha ottenuto il diritto di definirsi tale non può non avere uno stretto rapporto con ciò che lo circonda, rapporto che io credo si manifesti, sempre, in un modo o

e l’opera di Francisco Goya, vita nella quale ha avuto una notevole importanza un ciclo di opere (bozzetti, disegni, incisioni, stampe) conosciuti col nome di “Desastres de la guerra”. Il Covid per noi è una sorta di guerra o no? La drammaticità di queste situazioni che illustrano gli anni della guerra franco spagnola e gli orrori vissuti da entrambe le parti in que-

I disastri della guerra

sto conflitto sono restati sempre impressi nella mia memoria visiva, da quando li vidi per la prima volta, come pure le pitture nere della Quinta del Sordo (altro ciclo particolarmente suggestivo). Questo ricordo ha fatto sì che io identificassi questi dipinti con l’opera artistica di Goya anche se non è così, perché il maestro ha dipinto ben altro. Questa mia impressione però ha creato il mio intreccio tra i Disastri di Goya e le conseguenze del Corona virus. Per scrivere questo articolo senza mettere su una strada sbagliata il lettore ho approfondito un po’ la mia conoscenza del pittore spagnolo. Goya nasce nel 1746 a Fuentedetodos nella provincia di Aragona, in Spagna, da una famiglia senza grandi ricchezze al punto che il padre alla sua morte scrisse che non lasciava nulla in eredità perché non aveva nulla di che lasciare. Francisco tentò a più riprese di farsi accettare come allievo dalla presti-

Si fece conoscere dalla Casa Reale dipingendo i cartoni per la Arazzeria Reale di Santa Barbara dai quali le maestranze potevano partire per produrre queste opere di tessitura (tra l’artigianale e l’artistico) considerate “arredi” per le nobili residenze. Molti pittori, anche di grande prestigio, in tutti i tempi, si sono dedicati a dipingere i cartoni per gli arazzi. Lunghi anni della vita di questo grande artista furono dedicati ai cartoni e successivamente alla ritrattistica, attività dalla quale a mio parere si poteva trarre denaro e cariche accademiche nonché amicizie importanti. Per chi volesse entrare nei dettagli qualunque biografia ne parla con precisione perché la vita di Goya è ampiamente documentata. A me interessa capire perché in tutto questo periodo il maestro appare senza anima quasi fosse solamente il denaro ad animare la sua produzione. Una scintilla di contenuto che sem-

I disastri della guerra giosa Accademia di San Fernando a Madrid. Ma la sua tendenza a dipingere in modo da essere poi definito il precursore della pittura ottocentesca, non lo promosse per essere accettato, alla fine del settecento, in quell’ambiente ancora in pieno Roccocò e Neoclassicismo. Venne in Italia a conoscere la nostra arte e fu accettato alla Accademia di Parma e questo gli permise di avere, a breve, committenze ben pagate anche in Spagna. All’età di 23 anni Francisco poteva aver bisogno di lavorare e in quel periodo era difficile che un pittore potesse vivere da bohemien anche se la sua pittura aveva anticipato questa epoca.

bra essere la caratteristica della sua ritrattistica è quella di dipingere le nobili figure che gli affidavano questi importanti incarichi in modo tale che l’autore sembrava voler schernire o almeno caricaturare i soggetti, tanto da presentare i personaggi nella loro reale bruttezza ed opacità; anche l’intera famiglia di Carlos IV e molti altri nobili dell’epoca apparivano come dei manichini. Forse tra il settecento e l’ottocento questo atteggiamento da parte di un “pintor de càmara” poteva essere un gesto di grave affronto. Eppure le committenze sembravano fioccare! Ma ecco che qualcosa lo porta a trovare nella pittura un senso più


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profondo; nel 1793 una grave malattia lo lascia nella completa sordità, più tardi scoppia la guerra e le conseguenti tragedie, muore la sua prima moglie. È come se lui scoprisse gli orrori della vita contemporanea solo venendo fuori dalle sale dorate dei palazzi dove probabilmente si svolgeva la sua, di vita; come se ora ne fosse colpito tutto il suo essere. Molte delle precedenti opere vanno, come bottino napoleonico, in

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Francia dove il pittore riceve dal Re Giuseppe Bonaparte l’Ordine reale di Spagna nel mentre incide lastre dei “Desastres de la Guerra”. Da questo periodo è come se Goya avesse perso una parte di intelletto: non sa se essere fedele ai nuovi regnanti spagnoli, se agli inglesi che hanno salvato la Spagna dalla totale sconfitta o cercare rifugio in altri stati dove poter continuare a dipingere. Abita in case diverse ma sempre acquistate in luoghi di prestigio, soffre di gravi malattie e poco prima di morire quasi fugge per rifugiarsi a Bordeaux, dove morirà nel 1828. In questi ultimi caotici anni non smette mai di dipingere ritratti di personaggi illustri ma il ciclo per me più interessante sono le pitture nere. Queste pitture sono realizzate direttamente sulle pareti della casa acquistata in campagna, fatta restaurare, donata successivamente al nipote e denominata poi “Quinta del sordo”. Il maestro visse lì la sua convalescenza, e la fattura di questi dipinti mi ha sempre dato da pensare ad una liberazione dell’artista dalla costrizione subìta in un contesto nel quale non aveva mai saputo o potuto esprimere la sua vera natura. Sono figure e ambienti che potrebbero stare a fianco, per i colori, personaggi, espressioni, tecnica pittorica, ad opere di pittori vissuti un secolo dopo,

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L’ombrellino (cartoni per arazzi)104x154 Spero che le illustrazioni scelte per questo testo che scrivo rendano sufficientemente esplicito ciò che sto dicendo. Eppure in un ritratto del maestro, dipinto da un suo amico, contemporaneo, pochissimo tempo prima di morire, questo artista che io credo combattuto nella sua esistenza, appare come un distinto signore nel suo caldo ed elegante vestito (inadatto per la pittura), intento a rappresentare sulla tela un salotto borghese mentre ascolta una morbida musica da camera. Francisco José de Goya y Lucientes è intrigante e meriterebbe conoscerlo meglio.

L’Infanta Maria Josefa 74x60

UNA NUOVA (POSSIBILE) PARTENZA di Federico Bronzin

Vedo ma non vedo, sento ma non ascolto, capisco ma, ancora oggi, qualcosa mi sfugge. Sfugge via il senso logico delle cose, quando il sistema condiziona le correnti di pensiero. A oltre un anno dall'entrata nelle nostre Vite del covid 19, mentre tutti sono presi a salvare il mondo con i vaccini, nessuno – lo ripeto, nessuno – ha avuto lo scrupolo di farsi un esame di coscienza e ammettere che siamo noi gli unici veri responsabili di questa tragedia. L'innalzamento dell'aspettativa di Vita, che simboleggerebbe il risultato del progresso, in realtà si sta rivelando una torre di Babele. Dall'ebraico balal, Babele significa “confondere”, abbiamo forse confuso il termine “qualità” con il termine “quantità”. Da un anno il mondo ha acceso i riflettori sugli anziani, le principali vittime del più grande mostro del XXI secolo (per ora), ma prima? Prima i riflettori erano spenti, gli anziani praticamente invisibili, lasciati soli, in un'epoca in cui tutto corre veloce, lasciando dietro la cosa più importante: la prevenzione primaria. Molti tra i nostri cari sono arrivati all'ultimo step della Vita con due, tre quattro o più patologie croniche, in testa le malattie cardiovascolari e il diabete, le quali, per loro natura, sono quasi sempre il risultato di uno stile di Vita, non conseguenza diretta e inevitabile dell'invecchiamento.

Argomento scomodo per una società narcisista, argomento scomodo per un sistema sanitario mondiale che, pur essendo positivo per tante cose, va sciolto dall'esasperata idolatria che venga fatto tutto per il bene delle persone. È giocoforza l'effimero equilibrio di questa epoca, la sanità deve essere finanziata, pertanto gli interessi sono inevitabili, “the show must go on” in un'economia il cui business si basa in buona parte sulla salute (non salute) degli esseri umani. Se fino a qualche tempo fa dimenavo la mente, rifiutando categoricamente tale realtà, oggi ne attesto la fisiologica esistenza, aprendo un varco per osservare la situazione da una prospettiva nuova. La scienza e la sanità vanno bene così (diciamo che ho raggiunto un compromesso con la mente), però hanno bisogno di unirsi e collaborare con l'istruzione. C'è bisogno che medici e scienziati riconoscano l'importanza dell'educazione, il paziente (o ricevente, come preferisco chiamarlo) deve essere parte attiva al ripristino o mantenimento della propria salute, non un mero numero da essere esaminato e curato. Per educare si deve partire dalla scuola che, nonostante il mondo stia correndo, rimane incagliata nel suo modus operandi, diventato – mio

modestissimo parere – obsoleto per il mondo di oggi. Se davvero la scuola è il trampolino di lancio verso la Vita, deve porre, al pari delle materie tradizionali, l'educazione alimentare e l'educazione fisica, temi più che mai di attualità per una società con un'abbondanza alimentare sproporzionata al reale fabbisogno e uno stile di Vita che porta sempre più alla sedentarietà. E anche, sarebbe necessario creare figure professionali deputate all'educazione dei soggetti adulti, perché un'abitudine pericolosa può essere cambiata a qualsiasi età e, talvolta, salvare la Vita, ancor più di un farmaco. I dotti che usano la Scienza per decretare cos'è meglio per l'umanità attraverso i numeri, dovrebbero pragmatizzare la relazione tra salute ed educazione così che, in futuro, il prossimo mostro covidiano non faccia più così tanta paura agli – come a me piace chiamarli – overfanciulli di domani, non porti al collasso gli ospedali e non faccia una strage. Tra flebili speranze, augurandoci di imparare qualcosa da questa situazione, termino con una citazione di Martin Luter King: “Occorre fare degli ostacoli che incontriamo dei punti di partenza”.


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Una storia per non dimenticare – parte III FRANCESCO CASALE, DIARIO DI GUERRA (1943-1945) Siamo alla terza puntata del diario (“Indimenticabile priore”, Appendice, di Umberto Casale). Le parole di Francesco che seguono riassumono appieno il suo stato d’animo “La cosa che pesa di più sul nostro morale e che non si decidono [i tedeschi, ndr] a farci scrivere alle nostre case almeno una volta, come pure in più di 5 mesi di prigionia non abbiamo ancora visto un membro della Croce Rossa. Essi potrebbero

Idomeni domenica 21 novembre 1943

Nulla di nuovo, piove quasi tutti i giorni, siamo sempre bagnati, sotto la tenda la roba non asciuga e bisogna far bene attenzione a non toccare i teli se no piove più che fuori. La farina per la polenta sotto la mia tenda non manca ancora, però ora c’è la questione del “sale”: prima i tedeschi ci hanno insegnato a prendere il caffe senza zucchero, ora, da una settimana, ci fanno mangiare anche quel po’ di rancio senza sale. Non sappiamo quale sia la situazione della guerra, si vive con la speranza che questa vita finisca presto, altrimenti, se dobbiamo passare l’inverno in queste condizioni, non so come andremo a finire. Oggi ci hanno fatto lavorare tutto il giorno.

Idomeni domenica 28 novembre 1943

Nulla è cambiato durante la settimana, anzi per ora la posso chiamare la più nera: pioggia tutti i giorni e che lavoro! Trasportare rotaie e traverse di legno, le prime tutte arrugginite, le altre unte di olio e catrame in modo che alla sera siamo più malconci degli spazzacamini. Oggi niente riposo.

Idomeni domenica 12 dicembre 1943

Finalmente, dopo un mese consecutivo di lavoro, abbiamo avuto mezza giornata di riposo. Il lavoro volge alla fine di questa stazione. Dal giorno di santa Bibbiana il tempo si è messo al bello, di notte fa molto freddo, ma di giorno si sta discretamente. Lo zaino diminuisce sempre più, la roba che non è strettamente necessaria va a finire tutta in farina per la polenta, intanto si tira avanti con la speranza che finisca presto.

Idomeni NATALE 1943

Anche oggi che è Natale non ci hanno lasciato in pace, su tre compagnie una sola non ha lavorato, per fortuna io ero in questa e ho fatto tutto il giorno festa: stamattina ho fatto il bucato, per mezzogiorno una bella polenta e stasera una bella gavetta di gnocchi, come prigioniero oggi non mi posso lamentare. Da una ventina di giorni abbiamo fatto una tenda nuova da dodici teli, dentro ci stiamo in dieci, in un angolo abbiamo fatto una stufa di mattoni così si tira avanti un po’ meglio. L’altro giorno è venuto nuovamente un ufficiale tedesco a dirci per l’ultima volta di deciderci ad andare volontari con loro, le condizioni sono sempre uguali, cosa strana, ogni volta che ci fanno questa domanda ci dicono sempre che se non firmiamo ci mandano nei campi di concentramento verso la Russia, ma finora non ci muovono mai, ma ci fanno lavorare sempre come negri e con qualunque tempo. Così chi per il freddo e chi per la fame una ventina di uomini su tutte le compagnie sono andati vo-

darci qualche informazione sulla nostra situazione, tant’e vero che noi non sappiamo ancora precisamente se siamo prigionieri o internati, ma una cosa sola è certa: il trattamento che ci fanno è da schiavi e ci danno ben poco da mangiare e in tutto questo tempo ci hanno fatto fare tanto lavoro, ma non ci han mai dato un soldo o una sigaretta.” Ma non c’è rassegnazione nelle sue parole. (g.p.)

lontari.

Idomeni 26 dicembre 1943

Oggi abbiamo lavorato tutto il giorno a caricare i vagoni di sabbia e siamo rientrati alle tende a notte pieni di freddo e fame. Oggi i treni non hanno viaggiato per niente perché stanotte i partigiani hanno fatto saltare otto ponti: cinque dalla parte della Bulgaria e tre dalla Grecia, per il momento il traffico è completamente paralizzato.

Idomeni 1 gennaio 1944

Anche oggi non ci hanno lasciato tranquilli, 150 sono partiti stamattina per Salonicco a fare il bagno e la disinfestazione, il resto siamo andati a caricare la sabbia come gli altri giorni, ora i lavori alla stazione sono ultimati, il lavoro più grande è mandare la sabbia a Salonicco, oppure qualche modifica ai lavori già fatti, ma questi dannati non ci lasciano un giorno di libertà ugualmente. Il freddo aumenta e la vita si fa più dura.

Idomeni 16 gennaio 1944

Oggi è la seconda domenica che i tedeschi ci lasciano a riposo. I lavori sono finiti e la stazione è stata consegnata al personale delle ferrovie, però per noi il lavoro lo trovano sempre quindi non ci lasciano mai fermi, beh pazienza! Per ora la salute generale di noi tutti si mantiene ottima, intanto un bel giorno finirà anche questa prigionia.

Gevgelli domenica 30 gennaio 1944

Sono già 8 giorni che abbiamo lasciato Idomeni, ma non sono riuscito prima ad avere 10 minuti per scrivere le mie impressioni su questo paese (ora dei bulgari): a vederlo dalla stazione sembra bello, ma temo che noi non lo vedremo mai. Siamo arrivati qui domenica sera, abbiamo piantato le tende, lunedì mattina abbiamo cominciato i lavori e fino a oggi dopo mezzogiorno non ci hanno lasciato mezz’ora di riposo. Come al solito ci fanno lavorare dall’alba al tramonto, questo sarebbe il guaio più piccolo, il fatto è che la farina per la polenta è finita, non si può più avere perché i tedeschi ci hanno chiuso completamente il mercato, e andare avanti con la sola razione è un problema ben difficile. Sono appena due giorni che vivo con la sola razione, ma con quella purtroppo credo che non andrò tanto avanti.

Gevgelli domenica 13 febbraio 1944

In questi 15 giorni generalmente le cose sono cambiate ben poco, il lavoro è molto pesante, sia per la squadra che lavora sulla ferrovia, sia per quella addetta alla costruzione della fabbrica per la riparazione delle locomotive, come

già dissi più volte, la vita si fa ogni giorno più difficile, ma finché si sta in piedi volontari non si va di certo, però ci auguriamo tutti che questa schiavitù finisca presto. Nonostante la sorveglianza i miei compagni di tenda sono riusciti di nuovo a fare un po’ di maurò: qui non si tratta più di farina ma di fagioli, in Bulgaria c’è la tessera, ma pazienza, anche i fagioli sono ottimi per la nostra fame. Intanto si tira avanti un po’ meglio. La cosa che pesa di più sul nostro morale e che non si decidono a farci scrivere alle nostre case almeno una volta, come pure in più di 5 mesi di prigionia non abbiamo ancora visto un membro della Croce Rossa. Essi potrebbero darci qualche informazione sulla nostra situazione, tant’e vero che noi non sappiamo ancora precisamente se siamo prigionieri o internati, ma una cosa sola è certa: il trattamento che ci fanno è da schiavi e ci danno ben poco da mangiare e in tutto questo tempo ci hanno fatto fare tanto lavoro, ma non ci han mai dato un soldo o una sigaretta.

Gevgelli domenica 20 febbraio 1944

Le cose purtroppo non sono migliorate per niente, il lavoro è sempre uguale, ma con un ritmo più accelerato.


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Gevgelli domenica 27 febbraio 1944

Questa settimana è stata molto nera, ad aggiungersi a tutto il resto è venuta un’ondata di freddo che nessun si aspettava più, domenica sera per la prima volta è caduta la neve, dopo abbiamo avuto due giorni di tormenta più un’altra nevicata e altri tre giorni di tormenta. Insomma abbiamo sofferto molto ma molto freddo, e questa gente con qualunque tempo ci fa lavorare ugualmente dall’alba al tramonto, Senza nessuna pietà. Ieri, per terminare bene la settimana, è venuto un sergente italiano volontario a fare la solita propaganda per farci andare volontari a combattere con i tedeschi, ma nessuno gli ha dato ascolto. Ci ha anche detto che il comando germanico ci concedeva di scrivere una volta a casa a queste condizioni: non far sapere in che località ci troviamo, ancor meno che siamo prigionieri, insomma si deve scrivere che stiamo bene e loro spediscono con il timbro “volontari italiani”. Nessuno dei 500 che siamo qui ha accettato, pensando che non avendolo fatto per circa sei mesi, avrebbe resistito ancora, pur di non dare ai tedeschi la soddisfazione. La fame ci fa soffrire ogni giorno di più, ma noi cerchiamo di resistere con la speranza che la fine sia vicina. Purtroppo non sappiamo niente sulla situazione della Germania: ci facciamo un’idea dai movimenti su questa linea ferroviaria che collega la maggior parte dei Balcani; un mese fa si vedevano passare una dietro l’altra tradotte di carri armati e automezzi, ora le vediamo tornare indietro ogni giorno, mentre verso la Grecia non sono passate che tre o quattro tradotte di truppa appiedata composta di uomini di tutte le razze che i tedeschi hanno raccolto in giro durante il loro passaggio. La maggior parte sono russi, il resto albanesi, sloveni, polacchi e rumeni, mentre loro fanno marcia indietro verso la Germania, con l'avvicinarsi della primavera, speriamo si avvicini la fine che aspettiamo con ansia di essere liberati per tornare alle nostre case e alla nostra bella Italia.

Gevgelli domenica 12 marzo 1944

Sono passati altri 15 giorni, in quest’ultima settimana le cose sono un po’ migliorate, mercoledì mattina quando le guardie dell’accantonamento ci hanno fatto andare all’adunata, con nostra sorpresa abbiamo visto i tedeschi che ci facevano lavorare, preparare gli zaini per partire, infatti sono partiti... Speriamo di non rivedere mai più quei bruti. Sono rimasti una decina soltanto, ma non sono sufficienti per assisterci tutti, da allora finalmente abbiamo un po’ di libertà: ci hanno divisi in due compagnie e ci fanno lavorare solo più mezza giornata. Questo riposo per noi è di grande sollievo perché finalmente abbiamo il tempo di curare un po’ la pulizia personale che in questi sei mesi, nonostante la buona volontà, abbiamo dovuto trascurare. Il lavoro per ora è sospeso, ci fanno solo immagazzinare il materiale che si trova nei cantieri lungo la ferrovia. Non si sa ancora se verrà un’altra compagnia a farci continuare il lavoro, oppure sia già sospeso definitivamente, la “radio reticolati” trasmette ogni giorno notizie una più sbalorditiva dell’altra, ma per il momento nessuno sa niente di preciso, questa interruzione però a noi alza molto il morale. Anche il tempo sembra ci venga in aiuto, il cielo è quasi sempre coperto, ma in compenso non fa più tanto freddo e noi ci troviamo

1941 La tessera del soldato molto meglio. Per qualche giorno i fagioli per sfamarci non ci mancano e mentre il freddo diminuisce possiamo vendere altri indumenti. La Divina Provvidenza provvederà.

Gevgelli domenica 26 marzo 1944

fagioli. Così ringrazio il Signore di questa giornata, invocando la grazia che per la Sua prossima Resurrezione mi faccia trovare a casa con tutti i miei cari che da tanto tempo non vedo e da circa otto mesi non ho più notizie.

Lunedì mattina è arrivata una nuova compagnia, quindi hanno subito dato il cambio a quei pochi uomini che erano rimasti a farci la guardia. Da allora la nostra condizione è molto migliorata, i primi due giorni non ci hanno fatto lavorare, anzi ci lasciano tanto liberi che quasi la metà siamo usciti dal reticolato e ci siamo sparpagliati per la campagna: chi per lumache e tartarughe, chi a raccogliere insalata nei campi per aumentare un po’ la razione che è sempre molto poca. Anche il maurò si è nuovamente aperto, peccato che comincia a mancare la “merce”, ma pazienza. Ora il freddo diminuisce e di tanti indumenti si può fare a meno, quindi li trasformiamo in chlep obiesnò e tiriamo avanti. Mercoledì abbiamo ripreso i lavori, però con un ritmo più lento ed un trattamento migliore di prima, basta dire che non sono veri tedeschi quelli che ci fanno la guardia, ma austriaci che sono tornati da pochi giorni dal fronte russo, e benché sotto un`altra forma sono soggetti al comando tedesco e quasi schiavi come noi. Perciò considerano la nostra situazione diversamente dai tedeschi e tante cose lasciano passare in modo che noi sentiamo un po’ meno il peso della prigionia.

Gevgelli 23 aprile 1944

Gevgelli Pasqua 9 aprile 1944

In questa quindicina nulla è cambiato, continuo a lavorare nella casa degli addetti alla stazione, pur calcolando la mia situazione di prigioniero non mi posso lamentare perché la salute si mantiene sempre ottima e, da più di un mese, non soffro la fame. Purtroppo non è così per i miei compagni che devono vivere con la sola razione, anche le sigarette non mi mancano fornite un po’ dai tedeschi a cui faccio i lavori, o dai soldati bulgari e dai civili che qui in Macedonia ci vogliono bene e ci aiutano come possono. Ieri ci hanno fatto la quarta puntura antitifica e la vaccinazione. (continua nel prossimo numero)

Questa è la quarta Pasqua che trascorro lontano dai miei cari e lontano dalla Patria, tre nel nostro Esercito e quest’ultima prigioniero dei tedeschi. Grazie a Dio, nonostante tutto, mi trovo in ottima salute, non avendo né mezzi né libertà purtroppo questa festività per noi è una domenica come tutte le altre, rinchiusi dentro un recinto di reticolato, con la guardia che ci gira attorno. Nella mia tenda, non avendo altre possibilità per distinguere questo giorno di festa, abbiamo aumentato la razione di fagioli, grazie alle guardie austriache che ieri mi hanno lasciato uscire dal recinto, ho raccolto insalata nei campi, così ci siamo ben sfamati di erba e

Questi ultimi 15 giorni sono stati i migliori da quando sono prigioniero dei tedeschi. In questi giorni non ho lavorato con i miei compagni, ma in una palazzina dove abitano 8 tedeschi addetti al servizio della stazione. Prima mi hanno fatto tinteggiare quattro camere, cosa che ho fatto molto volentieri, perché è il mio mestiere, ora continuo ad andare ogni giorno in quella casa e mi fanno bagnare il giardino e altri piccoli lavori e la giornata mi passa molto in fretta e bene. A mezzogiorno non mi mandano all’accampamento, ma mi fanno mangiare con loro e alla sera, prima di andare via, mi danno ancora mezza pagnotta, perciò oltre a sfamarmi posso aiutare un po’ anche i miei compagni di tenda. La cosa che più di tutto mi ha rallegrato è che questa settimana ci hanno permesso di scrivere a casa un cartolina, sono ancora in dubbio se arriverà a destinazione, ad ogni modo ho fatto del mio meglio per dare notizie ai miei cari, che sappiano almeno che sono ancora in vita, ora il mio più grande desiderio sarebbe di avere uno scritto da loro, e spero che il Signore mi concederà questa grazia.

Gevgelli domenica 7 maggio 1944


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UN BUIO OPPRIMENTE

insonnia

di Rodolfo Allasia

L’editoriale di questo numero primaverile mette in evidenza una molteplicità di comportamenti provocati dal virus Covid 19 che tutti noi, contagiati o no, abbiamo messo in atto in questo lunga pandemia. Io vorrei tentare una mia interpretazione che provi a dare un senso a tutte le reazioni che abbiamo visto; sicuramente un esperto della nostra psiche potrebbe essere più esaustivo di me, ma… accontentatevi. Prima di tutto occorre definire il significato del termine angoscia e la differenza dal termine paura. L’angoscia “è uno stato psichico cosciente di un individuo caratterizzato da uno stato intenso di ansia e apprensione. Rappresenta una paura senza nome, le cui cause e origini sono apparenti, ovvero non dirette o immediatamente individuabili. Per tale motivo, l’angoscia non è solo minacciosa ma spesso anche catastrofica per l’individuo che la vive”. La paura “è uno stato emotivo di repulsione e di apprensione in prossimità di un vero o presunto pericolo: ho avuto una gran p., una p. matta (…); il coraggio della p. è quella sorta di arditezza temeraria e quasi disperata che talvolta nasce per istinto di conservazione in una situazione di estremo pericolo”. Ho tratto queste definizioni da wikipedia, quella enciclopedia che abbiamo quasi tutti in tasca: il cellulare. Se qualcuno vuole andare a cercare altre definizioni potrà vedere comunque che l’angoscia è una paura senza nome ovvero l’elemento che spaventa è ignoto, non lo si conosce, ha moltissime parti che sono nascoste e proprio per questo l’ansia cresce a dismisura, non si sa come difendersi, è come il buio assoluto dove il pericolo potrebbe venire in qualunque parte ci si muova.

È lo stato in cui si trovano i bambini piccoli che sono al buio e non possono fare altro che piangere disperati, sperando che arrivi qualcuno in loro aiuto. Quasi sempre questo qualcuno è la mamma che accende al bimbo una luce di concretezza, così che il calore di lei ed i confini spaziali mettono pace e il bambino si riconosce in una realtà prima inesistente. Poi piano piano capiranno che quel buio lì si può illuminare

Conosci Racconigi? Racconigi non è solo parcheggi, bianchi o blu che siano. Anzi. Questa rubrica vuole essere un invito volto al lettore a guardarsi intorno nel nostro Centro Storico svuotato dalle automobili, alla ricerca di siti e particolari architettonici che nel quotidiano rischiamo di non vedere e che sono invece parte della nostra storia e del nostro vivere quotidiano. Eccoci alla seconda immagine. Dove si trova nel nostro centro l’affresco che vedete qui raffigurato? La risposta sul prossimo numero. (g.p.)

anche senza mamma. La paura invece ci getta nella concretezza di un pericolo, sia pure presunto tale. Il pericolo lo si vede, gli si da un nome, occupa uno spazio da cui è bene allontanarsi o al contrario avvicinarsi per combatterlo se si trova il coraggio di farlo. È qualcosa di reale. Nella vita però ci saranno sempre zone d’ombra che sono difficili da

rischiarare. Il Covid fin dall’inizio ha creato angoscia, forse qualcuno non l’ha provata subito perché ne ha sottovalutato la portata o perché è una persona con grandi deficit intellettivi, altri non hanno provato angoscia perché hanno capito che non c’è solo buio, che la luce si può accendere con la ragione o la fede. Mano a mano però che la notizia della esistenza di questo virus e le conseguenze sulla salute delle persone che ne erano colpite, venivano diffuse dagli organi di informazione, l’angoscia saliva; piangere ed urlare nella speranza dell’arrivo di una grande mamma a portarci un po’ di sicurezza non è un comportamento da adulti ed ecco che moltissime persone hanno creato spiegazioni che trasformassero l’angoscia in paura per allontanare il pericolo di una personale grande catastrofe mentale. Hanno tentato di trasformare un nemico oscuro in uno conosciuto e reale. Chi vive nel mondo scientifico ha invece lavorato per conoscere questo nemico e studiare gli strumenti per combatterlo ed ora siamo al vaccino ma l’angoscia non è scomparsa del tutto. L’editoriale, in questo numero del giornale, termina affermando che “Un tarlo oscuro e subdolo ha minato le nostre sicurezze di donne e uomini del 2000 e non è semplice da stanare” ed io aggiungo che quando uomini e donne di scienza e pensatori che scavano nelle nostre menti faranno luce su questo virus-tarlo forse sapremo comportarci, in situazioni simili, pensando per esempio che non si può crescere sempre, che non si può viaggiare troppo in fretta, che le nostre risorse non sono infinite, che non c’è un vaccino per tutti i mali, che non può andare sempre tutto bene, che anche noi non siamo immortali. Io me lo auguro.


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L’abito fa il monaco

Comprare “verde” , scegliere marchi che retribuiscono e trattano umanamente i lavoratori e l’ambiente segue dalla prima

L’arrivo del COVID-19 e le sue numerose conseguenze hanno rappresentato un profondo cambiamento negli animi delle persone. È certamente cambiato il peso che diamo ai fatti della vita e con esso la classifica che assegniamo alle abitudini più quotidiane. Si è creata una nuova vicinanza tra noi, che insieme abbiamo l’incarico di adattarci a questa nuova routine, i nuovi “termini e condizioni” del quotidiano. Anche i nostri bisogni sono mutati insieme ai lunghi periodi di isolamento ed alla rinuncia di molte delle relazioni sociali. C’è stata una vera e propria rivoluzione delle priorità. In inglese si usa un’espressione per descrivere il lato positivo di ogni situazione difficile, ovvero che “ogni nube ha un rivestimento d’argento”. Lo si può immaginare pensando a quel “ricamo” di luce che si intravede quando il sole è eclissato da una nube scura e riesce a spuntarne leggermente oltre, raggiante. Il nostro rivestimento d’argento sfrutta gli impicci portati dalla pandemia, prendendo da questa nuova semplicità e senso di unità che ci accomuna. Abbiamo insieme l’opportunità di impegnarci verso una realtà più sostenibile e promettente verso il futuro incerto. Possiamo scegliere di essere sostenibili. La sostenibilità è infatti generosa verso il futuro perché promette di assicurare i bisogni della nostra generazione senza compromettere quelli delle generazioni future. Molti di noi, da mesi ormai, si sono allontanati dal vizio del

Cin

Cinema PIECES OF A WOMAN di Cecilia Siccardi

Martha è una giovane donna incinta, e insieme al suo compagno Sean ha deciso per un parto in casa: desidera

“consumo veloce”. Banalmente viene da chiedersi: perché mai comprare decine di vestiti se non si ha dove andare, se non si ha alcun evento da attendere e nessuno da impressionare? E così si è iniziato a scegliere di acquistare meno e meglio, più responsabilmente verso la collettività. Ciò che prima era la necessità insaziabile di acquistare diventa un’opzione superflua per la maggior parte. Comprando meno e concentrandosi di più su cosa si acquista, le persone desiderano sempre di più sentirsi appagate e soddisfatte delle loro scelte. La provenienza, la qualità dei materiali e dei processi utilizzati per la produzione degli indumenti diventano caratteristiche sempre più importanti in questa scelta. Bauman diceva: “ognuno di noi è artista della propria vita: che lo sappia o no, che lo voglia o no, che gli piaccia o no”. La nostra libertà di decidere cosa indossare dice molto dei nostri interessi e della nostra sensibilità verso l’ambiente, il trattamento riservato ai lavoratori e la storia che sta dietro ad un prodotto. È proprio per questo che uno sguardo comune verso la sostenibilità può dare le fondamenta ad un sistema diverso, più trasparente e gradito alla comunità. Siamo ormai abituati alla “moda veloce” ed al modo in cui molte grandi aziende propinano decine di collezioni di vestiti l’anno. Cinquantadue per l’esattezza. Preferire i beni sostenibili però migliora e di molto la soddisfazione legata ai nostri acquisti, facendoci sentire anche più attenti e sensibili alle dinamiche che ci circondano. Si può scegliere di dare una se-

conda vita a capi vintage, scegliere marchi che retribuiscono e trattano umanamente i lavoratori e l’ambiente, comprare qualità più alta e durevole. Tornare insomma a trattare gli indumenti come qualcosa di prezioso, che ci faccia sentire ogni giorno come il “vestito della domenica” faceva sentire i nostri nonni. Personali e variegati, ma che non derivano da scelte impulsive

che la sua bambina decida da sé quando venire al mondo. Quando Martha inizia a avere le prime contrazioni, Sean chiama Barbara, la loro ostetrica, che però è già nel mezzo di un altro travaglio e manda una sostituta, Eva. Il parto è difficile, ma tutto sembra andare per il meglio; improvvisamente e senza una spiegazione, però, la gioia si trasforma in tragedia. Così – con un piano sequenza di venti minuti sulla scena del parto – inizia Pieces of a Woman è un film di Kornél Mundruczó. È stato presentato a settembre 2020 alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, dove la protagonista, Vanessa Kirby, è stata premiata con la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile; grazie alla sua performance in questo ruolo, l’attrice ha ottenuto

candidature anche a Golden Globe e Oscar. La sua prova attoriale è in effetti il punto più notevole di questo bel film: il ritratto di una donna a pezzi, chiamata ad affrontare un dolore apparentemente insuperabile e a iniziare un lento percorso di ritorno alla normalità, coinvolge e commuove, riuscendo a suscitare profonda empatia nello spettatore e a far sentire un vero legame col personaggio. Ottimi anche Shia LaBeouf nel ruolo del compagno e Ellen Burstyn in quello della borghese e autoritaria madre di Martha. Un film che parla di trauma e dolore in modo sottile, senza spettacolarizzarlo e senza renderne la rappresentazione il fine stesso del film. Consigliato.

e che non finiscono in una pila presto dimenticata ed obsoleta. “Meno” in questo caso significa “meglio”. Comprare “verde”, nel nostro piccolo, migliora le condizioni dell’animo e regala benessere a chi produce. Si tratta di una scelta che riguarda le persone e non le masse. In questo caso si può dire che l’abito fa il monaco.

Rivivi la Storia!!

Il Museo della Seta riparte a cura del Museo della Seta di Racconigi

Il Museo riaprirà appena le norme lo consentiranno ma durante il periodo di chiusura le attività di programmazione e progettazione sono state intense. Partecipazione a tre diversi bandi di Fondazioni e MIBCT per eventi, valorizzazione di aree del Museo e sistemazione dell’archivio Manissero. Il primo, approvato supporterà gli eventi della festa del gelso, degli altri due si attende l’esito. Inizierà a breve la sistemazione del giardino antistante ed è partita la campagna social facebook e Instagramm per promuovere la prossima riapertura. Con l’inizio di aprile il Museo della Seta ha dato avvio alla campagna di tesseramento per il 2021 che ha come obbiettivo il sostegno alle attività progettate ed in corso di sviluppo. Il costo è di 10 euro ed è possibile iscriversi o presso il Museo, alla sua riapertura, o presso due negozi racconigesi che hanno gentilmente offerto la propria disponibilità: • Abracadabra in piazza Vittorio Emanuele II 5 • Mozzarelle da Re in via Regina

Margherita 6/A Sarà inoltre possibile iscriversi direttamente online pagando la quota con Satispay ed inviando una mail a sulfilodellaseta@libero.it segnalando il pagamento per ricevere il modulo di iscrizione da compilare. Grazie per il sostegno, a presto.


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Mus

Musica MEDICINE AT MIDNIGHT di Mattia Magri

Il 5 Febbraio passato è uscito l’ultimo lavoro dei Foo Fighters: Medicine at Midnight. L’album sarebbe dovuto uscire l’anno scorso per far sì che la band potesse festeggiare, durante i concerti, i 25 anni di attività, ma purtroppo causa pandemia il tour mondiale è stato rimandato a data da destinarsi. Il nuovo disco, in-

ciso in una casa “stregata” in California, è nato da un’idea di Dave Grohl, il frontman della band, dopo essersi ispirato ascoltando più volte l’album, di David Bowie, Let’s Dance. Il progetto è quello di portare il pubblico a ballare, con canzoni dai ritornelli potenti con un groove corposo e dai tempi più ritmati; l’album è composto dai seguenti nove brani: - Making a Fire - Shame Shame - Cloudspotter - Waiting on a War - Medicine at Midnight - No Son of Mine - Holding Poison - Chasing Birds - Love Dies Young Questo è il loro decimo album in studio, dopo un’ascesa incredibile partita con la pubblicazione del loro primo disco nel 1995. La band formata da Chris Shiflett (chitarra), Nate Mendel (basso), Pat Smear (chitarra), Rami Jaffee (tastiera), Taylor Hawkins (batteria) e, ovviamente, dal fondatore/cantante/polistrumentista Dave Grohl, è una vera macchina da concerto.

Il precedente tour (a seguito del penultimo album Concrete and Gold) ha fatto tappa anche in Italia (Firenze Rocks) dove i Foos hanno scaldato il pubblico con quasi 3 ore di concerto, alternando nuovi e vecchi pezzi del loro repertorio e aggiungendo qualche cover all’esibizione, tra cui un mash-up composto dal testo di Jump sulla musica di Imagine. Da ricordare la volta in cui durante un live Dave cadde dal palco rompendosi una gamba (2015 a Goteborg) ma al posto di interrompere l’esibizione, si fece mettere un tutore alla gamba e concluse il concerto da seduto, come promesso al pubblico. Successivamente si esibì nelle altre tappe del tour su di un “trono” personalizzato che chiamò “Trono di Chitarre”. Il progetto celebrativo per il tour che verrà prevede lo spostamento della band, tra una tappa e l’altra, su di un van come fecero all’inizio delle loro prime esibizioni. Uno dei prossimi progetti dei Foos è un documentario intitolato What Drives Us, un inno alla vita in tour e al romanticismo del rock’n’roll che anima ogni gruppo all’inizio della sua car-

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riera e come puntualizza Dave: “parla di ciò che spinge le persone a mettere in gioco la propria vita stringendosi in un pulmino con altri ragazzi come te, senza la certezza che ci sia un ritorno oltre al piacere di suonare con i propri amici”. Per il docufilm sono stati intervistati altri famosi gruppi tra cui: Metallica, Guns N’Roses, AC/DC, Red Hot Chili Peppers, U2, Black Flag. In attesa di rivederli in un live, godetevi questa loro ricetta: Medicine at Midnight.

Insonnia Mensile di confronto e ironia Aut. Trib. Saluzzo n.07/09 del 08.10.2009 Direttore responsabile Miriam Corgiat Mecio Redazione e collaboratori Rodolfo Allasia, Alessia Cerchia, Gabriele Caradonna, Giacomo Castagnotto, Giuseppe Cavaglieri, Bruna Paschetta, Guido Piovano, Cecilia Siccardi, Pino Tebano, Luciano Fico, Michela Umbaca, Grazia Liprandi, Barbara Negro, Anna Simonetti, Giancarlo Meinardi, Melchiorre Cavallo, Roberto Magri, Francesco Cosentino Sede P.zza Vittorio Emanuele II, n° 1 Contatti contatti@insonniaracconigi.it Conto corrente postale n° 000003828255 Stampa Tipolitografia La Grafica Nuova - Via Somalia, 108/32, 10127 Torino Tiratura 1800 copie

L’immagine, emblema di tutti gli errori veri o presunti fatti sulla scuola, è quella dei banchi con le rotelle, davanti al viso ingenuo del ministro Azzolina che paga forse il fatto di essere giovane e donna. La sensazione è che a livello di mass-media non si sia prestata sufficiente attenzione ad evitare che i giovani potessero pensare ad una qualche cattiveria, una qualche macchinazione ordita contro di loro, quando invece il rischio è reale, la scuola essenziale, ma un giusto equilibrio nelle scelte difficile. In gioco c’è il senso dello Stato nelle nuove generazioni. Paga per tutti Conte col suo governo, anche se in giro non si vede molta gente che saprebbe fare meglio di lui; la situazione è oggettivamente delicata e non fare errori forse impossibile. E si cammina, quanto si cammina! Qui a Racconigi, sui sentieri lungo il Maira, verso il Centro Cicogne, da via Girivotto verso Oia, a molti piace la via Priotti fino e oltre il Canapile. Anche la bicicletta ritrova una sua dignità che aveva un po’ perso se non presso i ciclisti veri e propri. Questa è indubbiamente una circostanza positiva indotta dal Coronavirus. Con la gente ormai stanca, all'orizzonte si affaccia una speranza: il vaccino. Siamo alla quarta fase, il tormentone ora è: vaccino sì, vaccino no; è su questo che ora ci si divide. Entra in campo l’Europa, adesso siamo tutti europeisti anche i sovranisti più incalliti. Nasce il governo Draghi, ma i dpcm sono

gli stessi del governo Conte, i ristori sono ora sostegni, solo che adesso trovano tutti d’accordo. Tutti ci aspettiamo un intervento sollecito, una organizzazione efficace da parte europea. E l’Europa c’è e risponde “presente”, ma si tratta di milioni e milioni di vaccini da distribuire, si tratta di case farmaceutiche private, di Sanità Pubblica definanziata e in difficoltà. Gli immunologi sono praticamente tutti per il sì alla vaccinazione di massa, ma tra la gente si diffonde uno strano nuovo virus, il virus dello scetticismo che prospera nella paura per qualcosa che non si conosce: meglio Pfizer o Astrazeneca? E quando arriva Johnson & Johnson? È Astrazeneca che provoca i morti? Siamo poi sicuri che sia giusto partire con gli anziani, che si debbano vaccinare tutti gli operatori sanitari? E gli insegnanti, allora, perché non anche loro? E perché gli uni e gli altri non obbligatoriamente? Spuntano i “No Vax”, nascono teorie da Grande Vecchio del tipo “siamo tutti nelle mani di un Qualcuno che ha voluto il Covid” o che perlomeno non ha avuto interesse ad impedirlo. Siamo più o meno nascostamente a parlare di complotto, mentre in TV sono tutti esperti, dai conduttori agli ospiti di qualsivoglia talk. In realtà dietro questi dubbi che invadono la scena è dominante un problema irrisolto e anche troppo poco dibattuto: il rapporto tra scienza, conoscenza, verità e metodi, un discorso troppo lungo da fare qui. E siamo all’oggi. Siamo di nuovo

zona rossa, praticamente chiusi in casa. È crisi, non solo crisi di relazioni, abbracci, affetti sottratti, è soprattutto crisi di lavoro. Una grave crisi di lavoro. Non per tutti, o almeno non per tutti allo stesso modo; c'è chi paga e paga duramente e c'è chi magari ci guadagna. Come sempre. Un tarlo oscuro e subdolo ha minato le nostre sicurezze di donne e uomini del 2000 e non è semplice da stanare. Nel frattempo siamo tutti stanchi, la sopportazione è al limite e continuare a ripetercelo certamente non giova. È da poco passata la Pasqua. Tutti ci siamo augurati almeno una volta una Buona Pasqua. E la Pasqua è resurrezione, dunque l’augurio è

stato più o meno consapevolmente quello di rinascere, allora che questo non sia solo un modo di dire. Se ci vogliamo costruire un futuro migliore, occorre non perdere la fiducia facendo tesoro di quanto ci sta accadendo. Il futuro non ci è dato conoscerlo, non ci appartiene ancora, ma una domanda è lecita “Abbiamo imparato qualcosa da tutto questo? Lo sapremo mettere a frutto?”. Nota-Ieri era domenica, a Savigliano ho fatto la prima dose del vaccino grazie ad una quindicina di operatori tutti molto professionali e ad un’organizzazione perfetta. Lunga vita alla Sanità Pubblica! E finanziamenti.

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