NO. 23 I'GIORNALINO

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NO 23 GIUGNO 2022

I’GIORNALINO


REDAZIONE 2

Direttrice GIULIA AGRESTI (VB) Vicedirettrice MARGHERITA ARENA (VB) Redattori CATERINA ADEMOLLO (IVB), RAVEN BEEL (IIC), GEMMA BERTI (IVB), NICCOLÒ BETTINI (IVB), MARIANNA BEZZENGHI (IVB), CATERINA CARAVAI (IVB), ELENA CASATI (IVB), GIOVANNI CAVALIERI (IIIA), LETIZIA CHIOSTRI (IVB), FRANCESCO GIOVANNUZZI (IVB), GIOVANNI GIULIO GORI (IIIB), GIOVANNI GUIDI (IIIB), ELETTRA MASONI (IIIB), MARGHERITA MOLFETTA (IVB), RACHELE MONACO (IIIB), FRANCESCA ORITI (VB), SARRIE PATOZI (VB), SOFIA VADALÀ (IVA), GIORGIA VESTUTI (IVB) Social Media GEMMA BERTI (IVB), ELENA CASATI (IVB), MARIA VITTORIA D’ANNUNZIO (IVB) Ufficio Comunicazioni ELENA CASATI (IVB) Impaginatori GEMMA BERTI (IVB); MARIANNA CARNIANI (VB) Collaboratori esterni: MARIANNA CIAFARDINI (Secondo Biennio Serale Artistico), MARIA CRISTINA MONTANARI (Secondo Biennio Serale Artistico), PATRIZIA VECCE (Quinta Serale Artistico) Referenti PROFESSOR ANGELO CASTELLANA, PROFESSORESSA ELISABETTA TENDUCCI


EDITORIALE……………………………………..………4 ALLEGORIA DELLE ALPI………………………..……6 STORIA STORTA…………………………………….….7 GUERNICA……………………………………………..10 LA CASA MUSEO FORTUNY………………………..12 TINTORETTO È UNA PROTO ROCKSTAR………..15 IL CARRO DEL BRINDELLONE…………………….16 CHI SI NASCONDE DIETRO AL CELEBERRIMO PERSONAGGIO DEL CONTE DRACULA?………..17

INDICE

LA LOCANDIERA: STORIA DI UNA DONNA MODERNA……………………………………………..18 LA COSCIENZA DI ZENO……………………………19 TRA QUASIMODO E TOLSTOJ: UNA RIFLESSIONE SULLA SITUAZIONE ATTUALE IN UCRAINA…….21 LINA KOSTENKO……………………………………..26 RIFLESSIONI SULLA GUERRA……………………..28 L’ARTE E LA GUERRA………………………………..30 UCRAINA: UN BILANCIO SU QUESTI OTTO ANNI DI GUERRA…………………………………………….32 DANTINI PER SEMPRE, PROGETTO ED ELABORATI…………………………………………….40 3 ANNI DE I’GIORNALINO…………………………..54

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Il liceo è un periodo molto strano: entriamo come ragazzini e usciamo come adulti ‘maturi’. Cinque anni che sembrano non finire mai, finché l’ultimo giorno della quinta arriva di punto in bianco e realizzi che in realtà è passato tutto in un batter d’occhio. Oggi è arrivata anche per me la fine della scuola e della realtà quotidiana per come l’ho vissuta fino ad ora e si avvicina sempre di più il ‘mondo dei grandi’. Guardando indietro non mi pento affatto della scelta di un liceo e in particolare del liceo classico - nonostante più volte in preda al panico da interrogazione o davanti a un’ingente mole di pagine da studiare abbia affermato il contrario. Quando ho tradotto la prima versione dal Greco all’Italiano pensai che avrei seguito un percorso di studi inutile, ma avvicinandomi sempre più al cuore della letteratura antica ho capito che lo studio della cultura passata è di importanza capitale. Oltre al fascino di scoprire Saffo e Catullo, Sofocle e Ovidio, e la meraviglia di rileggere con cognizione di causa la nostra letteratura italiana, il liceo classico dà un insegnamento estremamente utile. Io sono anzi convinta che la sua utilità stia proprio nella sua ‘inutilità’: in un mondo del lavoro estremamente mutevole, esercitare il cervello alla costante evoluzione e alla capacità di rimodularsi all’interno di differenti contesti è il percorso più proficuo tra tutti quelli proposti. E sono felice di aver frequentato proprio il liceo Dante. Ha richiesto molto impegno, ma ciò non è stato un fattore negativo: passare ore e ore sui libri infatti non significa non avere una vita sociale, ma soprattutto, studiare e acculturarsi non è fatica, ma piuttosto un piacere immenso. Partecipare al giornalino scolastico è stato un punto cruciale della mia esperienza al Dante. Non solo mi ha aiutata a imparare a scrivere in modo coeso e coerente - o almeno spero - e ad acquisire una lunga serie di competenze pratiche, ma mi ha permesso anche di dare voce ai miei pensieri e di sentirmi ascoltata, di conoscere a fondo la mia scuola e la mia città, di incontrare numerosi ragazzi che, come me, hanno la forza e il desiderio di cambiare il mondo attraverso lo strumento più efficace di sempre: l’informazione. Ho visto nascere e crescere il progetto de I’Giornalino e il mio auspicio per il futuro è che sempre riesca a svolgere la sua funzione principale: dare spazio ai giovani, le cui voci sono invece spesso soffocate dalla società. Manca sempre meno anche al fatidico Esame di Maturità, accanto all’ansia si fa sentire anche una profonda malinconia. All’improvviso mi sono resa conto che sarebbe stato l’ultimo ‘ultimo giorno di scuola’. Per cinque anni interi ho incontrato ogni giorno le stesse persone nello stesso luogo e adesso forse non le rivedrò più. Ma invece che piangere perché è finita, voglio essere felice perché sia successa. La scuola mi ha regalato le emozioni più forti e gli insegnamenti più duri. Spero che tra qualche decennio il pensiero di questi giovani anni possa di nuovo farmi sorridere e recarmi conforto. L’esperienza come ‘dantina’ rimarrà sempre parte fondamentale di me e della mia crescita, per cui ringrazio di cuore tutti coloro che hanno contribuito a renderla tale. Auguro a tutti i nostri studenti di godersi questi cinque anni, e a tutti i nostri lettori di non smettere mai di studiare e imparare cose nuove. Giulia Agresti, direttrice de I’Giornalino 5


Allegoria delle Api

Arte a km zero

di Gemma Berti, Giorgia Vestiti ed Elena

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Nella piazza della Santissima Annunziata tra i tanti gioielli rinascimentali presenti, troneggia la meravigliosa statua equestre del Granduca Ferdinando I, realizzata da Giambologna con il bronzo ricavato dai cannoni dei pirati turchi. Ciò che la rende particolare è la decorazione in cartiglio bronzeo che si trova sul basamento dalla parte che dà sulla basilica di Santissima Annunziata. È raffigurato uno sciame di api, perfettamente disposte in una serie di cerchi con al centro l’ape regina. L’ape regina simboleggia l’impresa araldica del Granduca ed è corredata dal motto “Maiestate tantum” scritto sulla parte superiore. Il Granduca ha governato Firenze come un’ape regina circondato dal suo sciame di api ovvero il popolo. La cosa interessante di questo basamento però è la misteriosa leggenda che ne deriva, infatti si dice sia quasi impossibile riuscire a contare il numero delle api presenti. Questo è dovuto alla disposizione a circonferenza concentrica di esse, ma comunque ancora oggi questo fra i fiorentini è un gioco e una sfida vera e propria. Vi sfidiamo a mettervi in gioco per tentare si contare le api: divertitevi!


di Sarrie Patozi Storia Storta, come riferiscono i suoi stessi creatori, è “un podcast divulgativo di storia e storia dell’arte”. L’iniziativa è di alcuni ex studenti dell’IIS Alberti-Dante: Cosimo Calvelli, Sebastiano D’Eugenio e Elisabetta Libera Spanò. Noi de “‘I Giornalino” abbiamo deciso di intervistarli per offrirvi un breve ma intenso scorcio sulla curiosa ed interessante iniziativa avviata dai ragazzi. Partiamo. Eri il bambino noioso che andava per primo all'interrogazione di storia? O la storia piaceva anche a te, ma non gli insegnanti? Ti va di scoprire il passato con leggerezza? Su Storiastorta troverai tante curiosità sui popoli vissuti prima di noi e le sfumature più curiose del loro pensiero. Potrai ascoltare notizie di artisti dimenticati o conoscere le luci e le ombre di personaggi più conosciuti. Parlerò di storia e storia dell'arte, a volte da solo, spesso con ospiti appassionati e folli come me. Puoi trovarci su tutte le piattaforme di podcast come Spotify e su instagram @storiastorta. Seguici su entrambi per non perderti nessuna puntata e nessun articolo! - Perché dare vita ad un progetto con il nome "StoriaStorta"? Perché scegliere proprio il "podcast" e non un altro mezzo di divulgazione? “StoriaStorta” è un progetto nato intorno a novembre del 2020, nel pieno del nostro primo anno accademico. A idearlo e a sceglierne il nome è stato Cosimo, che ha studiato proprio in questo liceo. Voleva parlare di storia e arte, sì… ma come? Dopo anni di immersione nella storia “da scuola” il tentativo era quello di portare alla luce argomenti trattati poco tra le pagine dei manuali, o esposti in maniera anche troppo lineare. L’idea era quella di parlare della dieta nel Medioevo, delle colonne doriche, di Giorgio Morandi, delle guerre di religione in Francia, dei bestiari medievali, degli atroci aztechi… insomma, cercavamo un progetto “trasversale”. E proprio così avevamo deciso inizialmente di chiamare il podcast: “Storia trasversale”. Tuttavia, suonava malissimo e pomposo. Abbiamo quindi fatto vela su “StoriaStorta” che invece è un’ottima 7


consonanza e rappresenta al meglio il team. Una volta scelto il nome, abbiamo stabilito chi dovesse occuparsi di cosa: Cosimo, essendo un tantino logorroico, ha optato per il podcasting. I podcast che parlano di storia non sono molti, se non quelli praticamente sacri come il canale di Barbero. Esso è un mezzo di divulgazione comodo che raggiunge tutti anche chi non ha tempo di leggere e studiare e vorrebbe solo curiosare. Immaginate che meraviglia preparare una torta ascoltando storie di mummie e massacri! -Ci sono argomenti che trattate malvolentieri o al contrario siete molto felice di analizzare? Assolutamente sì! Cosimo è un grande appassionato del periodo medievale, sia per quanto riguarda la storia sia per quanto riguarda la storia dell’arte. Tutto ciò che viene prima o dopo lo interessa decisamente meno, eccezion fatta per alcuni argomenti particolari. È per questo che spesso invita ospiti competenti ed appassionati di altri periodi storici. Sebastiano, infatti, oltre che realizzare tutte le nostre copertine col Giallo Storiastorta è spesso ospite in sala di registrazione per parlarci di arte contemporanea.

-Se doveste abbandonare la Terra e vi fosse concesso di portare ciò che per voi meglio rappresenta ed è emblema dell'arte, cosa scegliereste? E perché? Questa è una domanda davvero complessa a cui rispondere, e dato che sto scrivendo io, Cosimo, parlerò per me e solo per me, ognuno di noi infatti sicuramente avrà una risposta diversa. Per poter dare una risposta a questa domanda dobbiamo concentrarci proprio sulla domanda: “Cos’è l’arte?”. Non scherzo quando dico che ho fatto questa domanda a decine di persone ottenendo sempre risposte diverse: dal più materialista “è il prodotto dell’artista” a chi si spinge oltre, verso un terreno metafisico e spirituale. Cosa ne penso io? BOH. Perciò per rispondere mi affiderò a quel gran pettegolo del Vasari, che nel ‘500 già aveva detto la sua sull’arte. E io mi trovo d’accordo. Lui diceva che tutte le arti hanno un padre al quale si può risalire, ovvero il Disegno. Cos’è? Per dirlo in parole povere è la rappresentazione fisica del concetto espresso nella mente dell’artista. Ecco, questo secondo me è l’arte: la rappresentazione del tema scelto attraverso il filtro della sensibilità che l’artista ha in quanto tale e che non può non avere. Fatto di esperienze, pensieri, idee, valori e, perché no, anche di influenze da altri artisti. Questa è l’arte. Che non ha emblemi, ma vive attraverso gli artisti e morirà quando questi svaniranno. 8


-Com'è nata la vostra passione per la storia dell'arte? Mi piacerebbe rispondere che ci è sempre piaciuta fin dalla prima infanzia, ma sarebbe una mitizzazione della realtà. La verità, la nostra, e forse quella di molti, è che abbiamo avuto la grande fortuna di trovare, nel nostro percorso scolastico, professori capaci di farci appassionare ad una materia meravigliosa, che può però diventare un vero e proprio incubo per gli studenti “sfortunati”. Alcuni docenti si dimostrano infatti ancora legati ad un vecchio concetto di insegnamento che vede lo studio della storia dell’arte come date e nomi, e ne tralascia l’anima viva e pulsante, ne tralascia l’Arte in sé. -Dopo quest' excursus sulla vostra attività, vi andrebbe di parlare un po' di voi? Certamente! Al momento il team di Storiastorta è composto da tre persone. Ognuno di noi ha compiti ben specifici nella realizzazione del podcast. Sebastiano D’Eugenio è il nostro grafico, a lui spetta la creazione delle nostre magnifiche copertine in Giallo Storiastorta e spesso ci racconta di artisti e opere contemporanee. È uno studente dell’Accademia di Brera, prima studiava al liceo artistico L.B.Alberti, che poi è diventato IIS Alberti-Dante quando lui e Cosimo erano in terza (possono dire “noi c’eravamo”), indirizzo scenografia. Elisabetta Libera Spanò è la nostra social media manager, è lei infatti che si occupa di gestire la pagina Instagram del podcast e che scrive gli articoli bisettimanali. È calabrese e studia a Pisa Scienze dei Beni Culturali. Ha pubblicato nel 2021 “La Storia di Campocollina e di quel tale che non ne sapeva nulla” edito da Bookabook. Cosimo Calvelli è il nostro speaker. A lui tocca l’infausto compito di organizzare le puntate, contattare gli ospiti, registrarle e montare l’audio. Praticamente è lo schiavo stagista F4 basito del podcast. Logorroico dalla nascita, si è iscritto prima all’ ISS Alberti-Dante sezione scenografia, e poi alla facoltà di Scienze dei Beni Culturali a Pisa.

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STORIA DEL CARTONE PREPARATORIO PER L'ARAZZO "GUERNICA" ESPOSTO AL CONSIGLIO DI SICUREZZA DELL'ONU di Patrizia Vecce Nel Gennaio 2018, in occasione della celebrazione dei 70 anni dalla firma della nostra Costituzione, il Senato ha organizzato una mostra in cui è stato esposto il cartone preparatorio dell’arazzo “Guernica”, che Pablo Picasso dipinse nel 1955 con lo stesso schema e contenuto del suo capolavoro originale del 1937. Il cartone, ritenuto perduto, fu ritrovato dopo un’attenta ricerca presso gli eredi della tessitrice francese Jacqueline de la Baume Durbach. Il tema trattato dall’artista spagnolo è la guerra, rappresentata con il suo carico di morte, distruzione ed angoscia. L’allora Presidente del Senato, P. Grasso, nel suo discorso inaugurale, definì l’opera una “Icona di pace” che sprona le coscienze degli uomini a ripudiare la guerra. Tale invito lo si ritrova chiaramente nell’art. 11 della nostra Costituzione repubblicana. Infatti la prima parte così recita: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. La storia del dipinto, dell’arazzo e del suo cartone preparatorio ebbero una vicenda travagliata e per ripercorrerla occorre

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attraversare l’esperienza artistica dell’artista spagnolo. Nel gennaio del 1937 P. Picasso, 56enne, era già molto famoso e ricevette l’incarico a gennaio dal suo Governo di rappresentare la Spagna all’Esposizione Universale di Parigi, che sarebbe stata inaugurata il 25 Maggio per concludersi il 25 Novembre. Picasso, artista poliedrico, non smise mai fino alla fine la sua ricerca, cimentandosi nei vari campi dell’arte. Pittore, fondatore del cubismo, costumista, scenografo, aveva avuto un’ esperienza nel 1917 a Roma dove, a seguito dell’incontro con lo scrittore e coreografo J. Cocteau, dipinse “Parade”, una grande tela raffigurante un circo, con pagliacci, ballerine ed animali, proprio per lo spettacolo teatrale così intitolato. Incerto fino ad allora sul tema da trattare, all’indomani della notizia del bombardamento della cittadina basca


Guernica, avvenuta il 26 Aprile 1937 ad opera dell’aviazione tedesca, in appoggio al Generale F. Franco, decise che avrebbe dipinto, data la propria esperienza, un enorme pannello di quell’evento drammatico per denunciare l’orrore della guerra. Terminò il dipinto in appena due mesi. La potenza del dipinto, in bianco e nero, privo del colore simbolo della vita, ambientato in un interno dove uomini e animali cercano terrorizzati una via di salvezza, s’inserisce in una delle fasi evolutive di Picasso, in cui l’artista fonde il cubismo e la fase espressiva. Quell’opera d’arte segnò nel profondo l’opinione pubblica. Il magnate americano Nelson Rockfeller capì che era importante trasmettere, con quel dipinto, il messaggio di rifiuto della guerra a tutto il mondo e chiese all’artista una copia di “Guernica”. Picasso si rifiuto’ perché non avrebbe mai replicato il suo capolavoro. Rockfeller lo convinse invece a realizzare una “nuova opera”; tale lavoro diventò la base preparatoria per il tessuto realizzato dall’artista Jacqueline de la Baume. Dopo Guernica del 1937 e Massacro in Corea del 1951, Picasso nel 1952 eseguì all’interno della cappella del Castello di Vallauris la sua ultima manifestazione d’impegno per la pace: due composizioni di oltre 100 mq rappresentanti la Guerra e la Pace. La guerra è rappresentata da un carro che trascina il suo carico di sciagura prima di essere arrestato dalla giustizia armata di uno scudo decorato con una colomba. La pace è rappresentata da un incerto funambolo, da alcune fanciulle che danzano e da una famiglia tranquilla sotto i raggi del sole. L’arazzo di Guernica è attualmente situato all’entrata del Consiglio di Sicurezza all’ONU presso il “Palazzo di vetro” a New York, come manifesto estetico e ideologico contro tutte le guerre e le dittature.

L’Italia fa parte dell’ONU, istituito dopo la seconda guerra mondiale, L’Organizzazione delle Nazioni Unite è un organismo internazionale che impegna gli Stati aderenti a non prendere iniziative autonome nell’uso della forza senza la decisione del Consiglio di Sicurezza. Nella seconda parte dell’art. 11 della Costituzione Italiana, promulgata nel Dicembre 1947, si dichiara: “l’Italia, in condizioni di parità con gli altri Stati, consente alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Non è un caso che l’Italia, dopo solo 8 anni, nel Dicembre 1955, aderì alla Carta delle Nazioni Unite, diventando membro dell’Organizzazione, invocando a pieno titolo i principi dell’art. 11. Questa affermazione è un chiaro monito ad una fratellanza tra i popoli e consente l’attuazione e lo sviluppo di unioni economiche, militari e politiche che intendano servire la pace e gli interessi dei popoli. In questo momento storico in cui si assiste al conflitto tra Russia, che pure vanta di essere membro dell’ONU fin dal 1945, ed Ucraina con i suoi risvolti drammatici, il messaggio di Guernica è particolarmente attuale.

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La casa museo Fortuny di Marianna Bezzenghi Da poche settimane a Venezia ha finalmente avuto l'opportunità di riaprire il museo Fortuny, la casa e atelier dell'eclettico artista Mariano Fortuny y Madraso, che destreggiandosi tra numerose discipline e sfaccettature dell'arte, è arrivato a distinguersi come uno degli stilisti e ideatori di tessuti preziosi più noti e talentuosi della prima metà del '900. Figlio d'arte, Mariano Fortuny nasce a Granada da madre Cecilia de Madrazo Garreta e padre Marià Fortuny i Marsal, già due tra i protagonisti dello scenario artistico-culturale spagnolo della fine del 1800. Rimasto orfano di padre a soli 3 anni, Mariano cresce tra Parigi e Venezia (dove approda nel 1889) assieme alla madre e frequenta i più distinti ambienti intellettuali e culturali delle due città, iniziando a coltivare fin da giovanissimo le numerose passioni tra le quali la pittura, la scultura, il collezionismo di vario genere, la scenografia e il design, tanto di elementi di illuminazione (le famose lampade e piantane “Fortuny”), quanto di vestiario, dedicandosi anche alla vera e propria manifattura dei tessuti, che potremmo considerare i pezzi più distinti dell'esposizione. Grazie alla moglie Henriette Negrin che, dedicandosi alla parte economica e manageriale del lavoro, ha trasformato l'arte del marito in una sorta di impero commerciale, i tessuti Fortuny sono arrivati a vestire alcune delle personalità femminili più rilevanti e signorili della prima metà del 1900, tra cui Eleonora Duse, Sarah Bernhardt e Isadora Duncan e il suo nome è diventato un vero vanto della moda. Tra le principali fonti di ispirazione del poliedrico personaggio, che facilmente traspaiono dalle opere di diversa natura che costellano il museo, vi sono il padre Marià, già egli artista, collezionista e stilista, il rivoluzionario compositore Wagner, l'ambiente della Grecia (luogo dove visse) e la statuaria Ellenistica in generale, nonché la cultura orientale e ultima, ma assolutamente non per importanza, la sua amata Spagna, a cui restò sempre molto legato e per la quale rivestì anche numerosi incarichi di ambasciatoria. Dopo una vita all'insegna della varietà e del colore (in senso letterale e figurato), dove penso che un giorno non si possa mai essere definito uguale all'altro, Fortuny morì a Venezia nel 1949 sempre nel suo amato Palazzo Pesaro Orfei, all'età di 78 anni. L'esposizione è stata allestita proprio all'interno di questa struttura situata in Campo San Beneto e si articola su due livelli: al piano terra troviamo i locali, ora totalmente spogli di mobilia, dove originariamente erano installati i macchinari per la produzione tessile, mentre al primo piano si apre tutt'oggi la successione dei saloni che costituivano lo studio o “atelier” creativo, in ciascuno dei quali sono esposti elementi di una specifica tipologia della sua produzione. 12


Nel salone a cui si accede direttamente dalla scala è stato mantenuto l'accogliente allestimento tipico di uno studio ampiamente frequentato, provvisto di numerosi divani, tappeti e modelli di vestiti che costituiscono un primo assaggio delle preziose stoffe che contraddistinguono l'artista, originali lampadari, moltissimi dipinti alle pareti (tutti di produzione propria) e pezzi da collezione in porcellana esposti un po' ovunque. Nella seconda sala indicata

dal percorso, sono invece esposti i modelli di abiti più iconici che egli realizzò in foggia di stilista, caratterizzati dalla tecnica da lui inventata della “plissettatura”. Essi consistono in una lunga tunica ispirata esplicitamente ai modelli e ai panneggi della statuaria ellenistica (che è chiamata infatti delphos), su cui sono state modellate delle “plissettature”, ovvero pieghe fitte e dinamiche. Il modello è inoltre abbinato a un lungo velo che avvolge sontuosamente e sensualmente la donna, anch'esso di ispirazione greca, che prende il nome di knossos.

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La terza sala racchiude tutti i pezzi della sua produzione pittorica contraddistinti dall'influenza wagneriana, che rappresentano anche gli elementi più mistici e cupi delle collezioni. Questa è poi seguita dallo studio di scultura, un luminoso ambiente dedicato principalmente all'attività di riproduzione di alcuni dei massimi capolavori di statuaria classica ma anche contemporanea. Attualmente vi sono raccolti modelli sia conclusi sia ancora in corso di studio imitanti opere riconoscibili anche da parte di occhi meno esperti: vi troviamo per esempio una miniatura di cavallo da monumento equestre o la testa del celebre David di Donatello. L'ultimo ambiente del percorso, situato dalla parte opposta rispetto a queste sale, consiste infine in un “finto giardino d'inverno”, ovvero un salotto utilizzato dall'artista come privato circolo dove accogliere gli amici più stretti. Esso deve il nome alle pitture presenti su tutte le pareti (realizzate ovviamente dal proprietario in persona) che, attraverso l'illusione ottica del trompe l'oeil, ingannano, appunto, gli osservatori trasportandoli all'interno di un colonnato corinzio “alla Veronese” affacciato su un florido giardino immaginario popolato da figure allegoriche, animali esotici e creature mitologiche quali simpatici satiri. Con i suoi colori accesi e uno stile che oggigiorno definiremmo “jungle”, questo non è solo l'ambiente più particolare e impressionante della casa, ma probabilmente uno dei salotti più sopra le righe e ambiti dagli intellettuali di tutta Venezia. Ai giorni nostri il genio di Fortuny non si è decisamente esaurito o sbiadito e, insieme all'eredità storico-artistica ammirabile all'interno del museo, il polytropos ci ha lasciato un vero e proprio stile di tessuti e vestiario prodotto livello industriale dall'omonima casa tessile. 14


TINTORETTO È UNA PROTO ROCKSTAR: IL LEGAME TRA TINTORETTO E DAVID BOWIE di Marianna Bezzenghi Il pittore veneziano Jacopo Robusti, meglio conosciuto come “Tintoretto” e il cantautore degli anni '70 David Bowie. Ad una prima lettura di questi nomi, essi non sembrano avere assolutamente niente in comune, ma in verità non è affatto così. Oltre ad essere avvicinati da un incredibile spirito avanguardistico (ciascuno per il proprio tempo) e da una grande intraprendenza e prolificità (ciascuno nel proprio ambito), è cuorioso sapere che David Bowie si definiva un vero e proprio appassionato, potremmo quasi dire fan, del pittore veneziano, tanto da dare, alla fine degli anni '90, proprio il nome di Tintoretto Music all'etichetta musicale da lui rappresentata. Amante dell'arte da sempre, Bowie conosce la pittura di numerosi artisti ma i suoi preferiti, come dichiara in un'intervista rilasciata nel 1997 a Serge Simonart, sono gli italiani Tiziano e Tintoretto e l'inglese Turner, dei quali apprezza la violenta partecipazione emotiva, paragonabile a una sorta di carnalità nei confronti delle immagini, e le spiccate personalità, da lui definite super-ego. Fu nella stessa intervista che Bowie esternò la propria ammirazione e simpatia specificamente nei confronti di Tintoretto, definendolo addirittura il Damien Hirst del suo tempo, stabilendo così un curioso paragone con il creativo e collezionista vivente più ricco al mondo, molto in vista nello scenario britannico degli anni '90. L'appellativo rimasto però più noto tra quelli che Bowie attribuì al pittore veneziano, ormai diventata una sigla-baluardo per qualsiasi souvenir shop di musei e Chiese correlati a quest'ultimo, è Proto rockstar: con questa simpatica espressione, il cantautore dimostrò di aver compreso non solo LA PITTURA dell'artista, nelle sue connotazioni più vive e, oserei dire, persino focosea, ma soprattutto la sua INDOLE di tenace lavoratore disposto a faticare oltremisura pur di soddisfare la propria ambizione. Tra le varie opere d'arte che Bowie acquistò nel corso della sua vita, una delle più significative è senza dubbio proprio una pala d'altare realizzata da Tintoretto tra gli anni '60 e '70 del 1500, ovvero L'Angelo annuncia il martirio a Santa Caterina d'Alessandria. Collocata originariamente nella chiesa di San Geminiano a Venezia, essa venne acquistata dal cantautore nel 1987 e dopo la sua morte nel 2016, è stata venduta per 155 mila sterline dalla casa d'aste Sotheby's di Londra ad un anonimo collezionista europeo, il quale l'ha concessa in prestito permanente alla casa-museo di Rubens ad Anversa poiché era un museo molto amato da Bowie. Tra le vite di due personaggi si possono casualmente insinuare anni, secoli o chilometri di distanza, ma l'arte, in tutte le sue forme, rimane costantemente un punto d'incontro universale, capace di avvicinare gli uomini e di suscitare medesime esigenze in personalità apparentemente ai poli opposti. 15


IL CARRO DEL BRINDELLONE di Elena Casati, Gemma Berti e Giorgia Vestuti In via Il Prato, al numero civico 48, un attento osservatore può facilmente notare un gigantesco portone di legno a 3 piani, incastonato tra due case. Esso cela al suo interno il Carro che la mattina di Pasqua, unica occasione in cui viene aperto, viene trasferito nel centro storico fiorentino per il noto scoppio innescato da una “colombina”, un razzo a forma di colomba acceso dall’Arcivescovo di Firenze. Secondo la tradizione, se la colombina ritorna fino all’altare, l’anno sarà positivo, altrimenti non lo sarà. Il carro è trainato da buoi addobbati con ghirlande ed è scortato da una moltitudine di soldati, musicisti e persone che sfilano vestite con abiti medievali. Inizialmente, il carro era piccolo e semplice ma, nel 1494, dopo l’allontanamento dei Medici dalla città di Firenze, la famiglia dei Pazzi, a causa di incidenti ed incendi provocati dalla sua esigua dimensione, decise di realizzarne uno più robusto e resistente. I Pazzi mantennero il compito di organizzare il rito pasquale fino al 1859, anno in cui l’onore della manifestazione fu affidato definitivamente al Comune di Firenze. Il carro del “Brindellone” assunse questo curioso nomignolo dopo una festa celebrata secoli fa, ogni 24 Giugno. In quel giorno, un carro partiva dalla torre della Zecca e, facendo il giro della città, trasportava un uomo travestito da San Giovanni Battista con addosso strati di pelo di cammello. A causa del suo aspetto dimesso - dopo aver banchettato in Santa Maria del Campo, ondeggiava e traballava con l’avanzare del carro venne soprannominato “Il Brindellone”, ovvero straccione, e, per questo motivo, tutti i carri che attraversavano la città per le feste, incluso quello pasquale, assunsero il suo soprannome. Oggi lo scoppio del carro ha luogo tra la Cattedrale di Santa Maria del Fiore e il Battistero di San Giovanni, avviene dopo la sfilata del corteo storico fiorentino e il sorteggio delle partite del calcio storico, e ha una durata di circa 20 minuti. Durante questo tempo, grazie alla nascita di una nuvola di fumo, il fuoco benedetto viene distribuito simbolicamente sulla città. Durante l’intero spettacolo, il Campanile di Giotto suona le sue campane. Nel caso in cui, quindi, la mattina di Pasqua, 17 Aprile 2022, vi capitasse di passeggiare per le strade fiorentine, potrete gratuitamente assistere all’operazione di apertura del massiccio portone, mimetizzato nel corso dell’anno con i palazzi circostanti. 16


Chi SI NASCONDe DIETRO AL CELEBERRIMO PERSONAGGIO del conte Dracula?

Recensendo

di Margherita Molfetta Dracula è un romanzo epistolare scritto dall’irlandese Bram Stoker e pubblicato nel 1897, ispirato alla figura di Vlad III, principe di Valacchia, ed è uno degli ultimi esempi di romanzi gotici. Stoker arricchiva i suoi guadagni scrivendo un gran numero di romanzi e racconti sensazionali, tra cui, appunto, la famosa storia di vampiri. L’ispirazione gli era stata fornita dall’incontro avvenuto nel 1890 con il professore ungherese Ármin Vámbéry, il quale gli aveva raccontato la leggenda del principe rumeno Vlad Țepeș Dracul, meglio conosciuto come Dracula. Il personaggio interessò lo scrittore a tal punto che quest’ultimo decise di renderlo il protagonista di una delle sue storie. Stoker impiegò sette anni per scrivere il libro studiando la cultura e la religione dei Balcani e documentandosi sulla figura storica di Vlad Tepes. Le versioni precedenti alla stesura definitiva circolarono tra la cerchia degli amici dello scrittore tra il 1890 e il 1893 alla ricerca di giudizi e consigli. Vlad III di Valacchia Hagyak, meglio conosciuto solo come Vlad o con il suo nome patronimico Dracula, fu un membro della Casa dei Drăculești, era figlio del voivoda (termine di origine slava che designa il comandante di un’unità militare) di Valacchia Vlad II Dracul. Noto anche come Vlad Țepeș (in rumeno: Vlad l’Impalatore), fu anche lui per tre volte voivoda di Valacchia, rispettivamente nel 1448, dal 1456 al 1462, e infine nel 1476. Il soprannome Țepeș (“Impalatore”) venne dato a Vlad postumo, nel 1550 circa, infatti i cronisti rumeni, che scrissero più di un secolo dopo la sua morte, preferirono descriverlo facendo riferimento al suo sistema preferito di tortura, ossia l’impalamento: Țepeș in romeno significa palo, da cui l’italiano “impalatore”. Durante la sua vita, la reputazione di uomo crudele e sanguinario si diffuse in tutta Europa e, principalmente, nel Sacro Romano Impero. Vlad III è venerato come eroe popolare in Romania, così come in altre parti d’Europa, per aver protetto la popolazione rumena sia a sud sia a nord del Danubio. Per la sua brutalità e per il suo patronimico, Vlad fu celebre fonte d’ispirazione per lo scrittore irlandese Bram Stoker nella creazione del suo personaggio più famoso, il vampiro Conte Dracula, protagonista dell’omonimo romanzo del 1897. Il suo patronimico rumeno “Dracula” deriva dall’epiteto Dracul portato da suo padre Vlad II, che nel 1431 divenne membro dell’Ordine del Drago, un ordine cavalleresco fondato da Sigismondo di Lussemburgo nel 1418. Dato che nel Medioevo, il drago era simbolo del demonio, ecco spiegata l’origine dell’appellativo Dracul. In romeno, Dracul significa “il Diavolo”, drac “diavolo” e ul, articolo determinativo suffissale, “il”. Draculea quindi è, come già detto, un patronimico, che rientra nell’ampio gruppo dei nomi romeni con uscita in -ulea. Draculea significa quindi, “figlio del Diavolo”. 17


La Locandiera: storia di una donna moderna di Letizia Chiostri Per commemorare il grandissimo commediografo italiano Carlo Goldoni, non si poteva far altro che andare al teatro Goldoni, zona oltrarno, ad assistere allo spettacolo la “Locandiera”, il capolavoro dello stesso Goldoni. Testo di una donna intraprendente, astuta, determinata, moderna, pur essendo originalmente ambientato nel 1751. Mirandolina è la bella donna d’affari che gestisce la sua locanda con passione ed ammalia tutti gli avventori con il suo fascino; finché, un giorno, arriva un ricco Cavaliere, disprezzatore delle donne, per niente disposto a cadere vittima delle insidie della padrona e che, anzi, non la rispetta affatto, proprio a causa del suo genere. Mirandolina, allora, deciderà di attuare la sua vendetta, pianificando di far innamorare di lei il Cavaliere, ma non potrà prevedere le conseguenze dalle sue azioni. Il tema fondamentale dell’opera è l’ars amandi, l’arte della seduzione, che al tempo dell’autore era un’attività quasi esclusivamente riservata al genere maschile. Ma qui le carte in tavola vengono ribaltate: questo è il riscatto delle donne, che trasforma il testo in un messaggio molto moderno di femminismo e di parità di genere. La stessa protagonista rappresenta la femme fatale senza tempo, furba, intessitrice di inganni. In questa giostra di intrecci, Mirandolina è la sola governatrice, la sola vincitrice. Senza che se ne rendano conto, tutti i personaggi, dai suoi ammiratori, come il Marchese di Forlipopoli e il Conte d'Albafiorita, al suo devoto cameriere, Fabrizio, sono tenuti sotto scacco dalla locandiera. Tuttavia, Mirandolina non gioca con le sue “pedine” per un capriccio o una leggerezza di spirito, ma mantiene sempre la sua dignità di donna. Purtroppo, in questa rappresentazione il suo carattere signorile è venuto un po’ a mancare, sostituito in certi casi da un’eccessiva volgarità nei modi. Questo accadeva specialmente nei monologhi della protagonista in cui, invece, sarebbe dovuta emergere la fierezza di essere donna e un senso di superiore sorriso di fronte alle stravaganze degli altri personaggi. Pur essendo una donna che sa usare le sue arti, Mirandolina non è una popolana. Non mi ha molto convinta l’introduzione di canzoni nello spettacolo che, secondo me, esulavano dalle scene stesse e accrescevano una commedia già di per sé piuttosto lunga. I tre atti originali sono stati modificati accorpando i primi due, ma in questo modo c’era una grande sproporzione tra i due tempi. Molto originale e creativa la scenografia, continuamente in cambiamento, quasi a voler raffigurare l’operosità, il movimento e la solerzia della vera protagonista dello spettacolo: la borghesia. In questa direzione va anche la decisione del regista, Luca De Fusco, di ambientare la storia negli anni ’50 del Novecento: dopotutto, come afferma lo stesso regista, c’è “un’analogia tra la freschezza e l’ottimismo della nascente borghesia italiana del ’700 e quello della borghesia italiana degli inizi del boom economico del secolo scorso”. E, devo dire, questo aspetto è emerso nella visione della rappresentazione. Si poteva percepire un’aria di giovialità, bonarietà e semplicità, che rispecchiavano perfettamente la serenità dell’autore stesso. Il teatro goldoniano non vuole far ridere a crepapelle il pubblico, vuole farlo sorridere, educandolo allo studio dei comportamenti e degli atteggiamenti umani. Vuole rappresentare la realtà con tutte le sue sfaccettature, vuole raffigurare la società borghese del tempo ma, inevitabilmente, anche la nostra società, diventando un teatro immortale. 18


La coscienza di Zeno di Sarrie Patozi È il 1923 quando Italo Svevo decide di pubblicare la sua opera per antonomasia: La coscienza di Zeno. Aron Hector Schmitz (in arte Italo Svevi) nasce nel 1861 a Trieste, allora territorio dell’impero asburgico, da un’agiata famiglia borghese di origini ebraiche. Nel 1869 sposò una sua cugina, Livia Veneziani, e da loro matrimonio nascerà una figlia. È questo un evento estremamente importante all’interno della vita dello scrittore: sul piano psicologico riuscì a superare molte fragilità e insicurezze personali grazie al nuovo ruolo di marito-padre; inoltre assunse un prestigioso ruolo nella ditta del suocero. A livello intellettuale, Italo Svevo presenta una fisionomia profondamente diversa da quella della tradizione italiana di fine Ottocento. Triste è infatti una città in cui convergono la cultura italiana, quella tedesca è quella slava (a ciò si deve lo pseudonimo stesso dell’autore). Alla base della sua opera vi è una solida cultura filosofica (in particolare il pensiero irrazionalista di Schopenhauer, Nietzsche) è un sincero interesse verso le scienze (Darwin). Sappiamo che egli risente anche del pensiero marxista da cui trae la chiara percezione dei conflitti di classe che percorrono la società moderna. Nei suoi romanzi, Svevo analizza infatti un tipo di coscienza frutto di un certo contesto storico e sociale. Problematico fu poi il suo rapporto con la psicoanalisi: il suo interesse verso Freud spinse il suo interesse verso le ambivalenze della psiche profonda. Tuttavia sappiamo che lo scrittore non apprezzò la psicoanalisi della terapia bensì come puro strumento conoscitivo, narrativo. Sarà proprio questa, tra l’altro, la conclusione del romanzo. Dopo questa premessa sull’autore, veniamo dunque (e finalmente) al romanzo. La coscienza di Zeno è il terzo romanzo di Italo Svevo ed è un’opera costituita in gran parte da un memoriale (o confessione autobiografica) che il protagonista, Zeno Cosini, scrive su invito del suo psicanalista, il dottor S., a scopo terapeutico. Nella breve prefazione tuttavia il lettore viene a conoscenza che è stato proprio il dottore a pubblicare il manoscritto del suo paziente, per vendetta: Zeno ha infatti deciso di interrompere la cura. Il racconto non presenta gli eventi in successione cronologica ma li colloca in un tempo tutto soggettivo, che mescola più piani temporali raggruppando i vari episodi per tematiche. Il romanzo presenta cinque capitoli in cui vengono trattati i seguenti argomenti: il vizio del fumo, la morte del padre, la storia del proprio matrimonio, il rapporto con la moglie e la giovane amante, la storia dell’associazione commerciale con Guido Speier. Il protagonista narratore è la figura di un inetto, aptico e incostante, che conduce una vita oziosa e scioperata. Il padre, facoltoso commerciante, non ha la minima stima del figlio poiché lo considera immaturo. Zeno, dal canto suo, ama sinceramente il padre. Il vizio del fumo a cui Zeno collega intollerabili sensi di colpa, ha nel suo fondo inconscio proprio l’ostilità contro il padre, il desiderio di sottrargli le sue prerogative e renderle proprie. Evento cruciale sarà lo schiaffi che il padre lascia cadere sul viso del figlio che lo assiste: Zeno resterà nel dubbio angoscioso se sia stato o meno un gesto involontario. Dopo la scomparsa del padre, il signor Cosini va subito alla ricerca di una figura paterna sostitutiva e la troverà in quella di Giovanni Malfenti, tipico borghese abile e sicuro nella 19


sua attività. Zeno decide di sposare una delle sue figlie solo per “adottarlo” come padre. La donna Malfenti che diventerà sua moglie sarà Augusta, benché egli ambisca ad Ada; Augusta è però in realtà colei che il suo inconscio ha scelto fin dal primo momento: ella si rivelerà infatti la donna di cui Zeno ha bisogno. Ella infatti è sollecita è amorevole come una madre, capace di creare un clima familiare di dolcezza affettuosa e di sicurezza. Augusta, pur possedendo un limitato sistema di certezze, è un perfetto campione di sanità borghese: è l’antitesi di Zeno che è “diverso”, incapace nel profondo di integrarsi con il sistema di valori sociale. Egli è “malato” e la sua malattia è la nevrosi che simula tutti i sintomi della malattia psicosomatica: ogni volta che vive un’esperienza frustrante, Zeno comincia ad avvertire un dolore alla gamba e a zoppicare. È qui che il personaggio proietta la propria inettitudine attribuendo la colpa dei propri mali al fumo, pur sapendo in realtà, dentro di sé, che è lui stesso la causa dei propri dolori. Zeno cerca costantemente di liberarsi di questo vizio nella convinzione che solo così potrà arrivare alla “salute” fisica, morale e sociale. Eppure tutti questi tentativi finiscono inevitabilmente nel nulla. Un altro personaggio antitesi del personaggio-narratore è il cognato Guido Speier, colui che ha sposato Ada; egli incarna il ruolo del rivale ed è infatti un bell’uomo, disinvolto è sicuro di sé. L’amicizia è l’affetto che Cosini dimostra verso Speier nascondo in realtà un odio profondo che emerge quando Zeno sbaglia corteo funebre alla morte di Guido. È questo infatti, come Freud afferma, uno di quegli “atti mancati” che sono rivelatori dei nostri impulsi. Alla fine del romanzo, Zeno si proclama come perfettamente guarito, eppure il lettore sa bene che non è vero: queste resistenze sono infatti tipico sintomo della sua malattia. Nelle ultimissime pagine il protagonista sottolinea il confine incerto tra salute e malattia: la vita è “inquinato alle radici” e l’uomo viene visto come costruttore di ordigni, strumenti che finiranno per portare ad una catastrofe cosmica. Ma è Zeno un narratore attendibile? Più no che sì. Il dottor S. insiste sulle “tante verità e bugie” accumulate nel memoriale che rappresentano un tentativo di autogiustificazione da parte di Zeno. Ad ogni pagina traspaiono i suoi impulsi reali ma le menzogne che l’autore scrive sono autoinganni determinati da una profonda e inconsapevole riluttanza della realtà, della propria realtà. La diversità con cui lui guarda il mondo funzionano da strumenti straniante nei confronti dei cosiddetti “sani” e “normali”, egli non riesce ad accettare fino in fondo le imposizioni sociali pur avvertendo un disperato bisogno di integrazione nel contesto borghese.

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Tra Quasimodo e Tolstoj: una riflessione sulla situazione in Ucraina

Pillole di attualità

di Giovanni Cavalieri

Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo. Eri nella carlinga, con le ali maligne, le meridiane di morte, t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche, alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu, con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio, senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora, come sempre, come uccisero i padri, come uccisero gli animali che ti videro per la prima volta. E questo sangue odora come nel giorno quando il fratello disse all’altro fratello: «Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace, è giunta fino a te, dentro la tua giornata. Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue Salite dalla terra, dimenticate i padri: le loro tombe affondano nella cenere, gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore. Uomo del mio tempo, Salvatore Quasimodo, da Giorno dopo Giorno, 1946 Nel 1946, ancora sconvolto dalla Seconda Guerra Mondiale, il poeta siciliano Salvatore Quasimodo pubblicò una poesia, intitolata Uomo del mio tempo. In questa poesia Quasimodo tratta la bestialità dell’uomo che si manifesta con la guerra. si tratta di un elemento che ha accompagnato e accompagnerà per sempre l’uomo nella sua storia, plasmando o distruggendo il mondo attorno a lui. Quasimodo, non a caso, nei versi 7-9 (hai ucciso ancora, come sempre, come uccisero i nostri padri, come 21


uccisero gli animali che ti videro per la prima volta) sottolinea come sia sempre la stessa la natura dell’uomo votato alla guerra e allo sterminio. Infine, per sottolineare il carattere “antropologico” della guerra, il poeta usa una figura biblica, richiamando all’episodio di Caino e Abele – il primo omicidio della storia, almeno se ci si attiene alla tradizione biblica. Il carattere sempiterno della guerra viene sottolineato da una sinestesia al verso 12, la quale descrive l’eco di violenza che ha raggiunto l’uomo. Si tratta di un eco primordiale, che risale ai tempi della Genesi, che tira con forza e crudeltà tutti gli uomini da sempre. In tale perversione qual è la guerra, Quasimodo evidenzia il carattere macchinoso e “scientificamente preciso” di questa. Infatti il progresso tecnologico viene spesso asservito alla guerra, che sia per rendere le armi più malignamente efficaci o fare “operazioni chirurgiche”. Il poeta fa riferimento più volte, attraverso allitterazioni o metonimie, a strumenti bellici quali aerei e carri armati, insistendo sul loro legame perverso con l’uomo. All’ottavo verso si trova un parallelismo di frasi coordinate per asindeto, che sottolinea la ripetitività con cui gli uomini, come i loro antenati, hanno continuato a uccidersi a vicenda fino a oggi. Attraverso diverse apostrofi, il soggetto della poesia richiama più volte l’interlocutore, come se volesse risvegliare quel briciolo di umanità che risiede in lui, togliendolo dalla morsa della violenza. Infatti, se da una parte “l’uomo nella carlinga” viene chiamato dall’eco primordiale di Caino, dall’altra l’interlocutore riceve dall’altro un richiamo all’umanità. Tale richiamo invita il primo e tutti gli altri uomini ad abbandonare la tetra bolla di morte costituita dagli strumenti di guerra. Alla fine, Quasimodo intima ai “figli” di dimenticare i padri e le loro azioni, che tanto sangue hanno sporcato, affinché la violenza cessi. Nella prima metà della poesia Quasimodo indica quanto sia eterno e perverso il legame dell’uomo con la guerra, capace di recare solo morte e distruzione attraverso strumenti sempre più malignamente moderni. Ma alla fine della poesia il poeta lancia un monito ai giovani e alle generazioni a venire, destinati anch’essi a continuare le guerre iniziate dai loro padri: li esorta a dimenticare i motivi di astio che hanno portato i loro padri alla guerra, e che potrebbero portare loro stessi a spargere sangue per le stesse conflittualità. È un messaggio di speranza, oltre che un’esortazione, poiché Quasimodo crede (e spera) che le generazioni future possano mettere da parte ogni motivo di conflittualità per vivere in pace. È un messaggio forse utopistico, ma sempre e comunque forte. Le parole e il messaggio di Quasimodo sono molto attuali, soprattutto in questo periodo in cui, dopo venti anni, la guerra è ritornata nel cuore dell’Europa: è già passato poco più di un mese da quando Putin, dopo un’escalation iniziata prima ad aprile e poi a dicembre dell’anno scorso, ha invaso l’Ucraina. Questa è una nazione già sconvolta da otto anni di guerra nel Donbass, la regione orientale contesa tra forze governative e separatisti filorussi, su cui per anni i riflettori dei media si erano spenti. Oggi, dopo otto anni di conflitto a bassa intensità, la “profezia” che per anni media e capi di Stato occidentali hanno proferito – che diversi opinionisti hanno provato a smentire o almeno sottovalutare, e che nessuno ha mai provato a scongiurare – si è avverata: decine di migliaia di truppe dell’esercito russo hanno invaso l’Ucraina, accerchiandola dalla Crimea, dal Donbass, dalla Transnistria e dalla Bielorussia, provocando migliaia di morti e milioni di profughi in tutta l’Europa. L’Unione Europea ha risposto piuttosto compatta, applicando severe sanzioni alla Federazione Russa e sostenendo l’Ucraina su tutti i piani, sia diplomatico che militare. Nel frattempo, l’esercito ucraino cerca di resistere con i mezzi a disposizione (comunque piuttosto ingenti, visti i rifornimenti di armi ricevuti 22


negli ultimi otto anni da parte dei paesi europei, oltre che da Stati Uniti, Israele e Turchia), e gli sforzi diplomatici tra i due paesi in guerra sono vani – forse per la mancanza di un mediatore forte, ma anche per l’incapacità dei due governi di accettare delle condizioni per un compromesso. In questo mese di guerra non si sono risparmiati episodi controversi ed esecrabili, come del resto succede in tutte le guerre, da parte di entrambe le forze in conflitto (anche se in questo caso l’aggressore, cioè la Russia, ha le maggiori colpe): l’aviazione e le forze armate russe hanno lanciato una serie di bombardamenti che hanno causato centinaia di morti tra i civili, colpendo città quali Kiev, Marjupol’ e Kharkiv; d’altra parte, le forze del Battaglione Azov (gruppo paramilitare neonazista che combatte contro i separatisti filorussi dall’inizio del conflitto nel 2014) avrebbero bloccato per diverso tempo i corridoi umanitari e usato i civili di Marjupol’ come scudi umani; il 15 marzo, inoltre, le forze armate ucraine hanno sferrato colpi di artiglieria nel centro di Donec’k (zona occupata dai russi), provocando venti morti e diciotto feriti – tutti civili. Sono notizie più o meno certe, spesso contraddittorie, ma che offrono comunque un quadro drammatico della situazione. I temi affrontati nella poesia di Quasimodo offrono spunti di riflessione su alcuni aspetti dell’odierno conflitto in Ucraina: l’uomo del mio tempo, qual è chiamato dal poeta, non è altro che l’uomo assuefatto dalla violenza, il quale non riesce più a distinguere la propria umanità dalla sua natura animale. In questo conflitto, sono molti i giovani soldati russi di leva, portati con l’inganno in un conflitto fatto per meri interessi, che siano economici o egemonici, di poche persone. In questo momento, le immagini di soldati russi catturati e rifocillati da civili ucraini, per quanto strumentalizzate da alcuni a fini di propaganda (bisogna ricordare che la guerra è combattuta anche sul piano della propaganda, da entrambi i cobelligeranti), possono essere identificate con il richiamo all’umanità levato da Quasimodo. Nelle ultime strofe Quasimodo affida ai giovani il compito di porre fine alle guerre future. A questo proposito, il conflitto in corso in Ucraina dimostra come i giovani siano tra i primi direttamente colpiti dalle guerre: i giovani ucraini sono costretti a lasciare il proprio paese, a essere vittime dei bombardamenti e a combattere in prima linea, a volte contro la loro volontà; giovani soldati russi sono invece portati con l’inganno in guerra, a combattere un fantomatico nemico non tanto diverso da loro. Infatti, per quanto diversi e spesso in conflitto, il popolo russo e quello ucraino sono profondamente legati da una storia e una cultura in parte comune, oltre alle numerose parentele tra cittadini russi e ucraini. Questo può richiamare l’episodio biblico di Caino e Abele, tra l’altro evocato nella poesia di Quasimodo. Chi non va al fronte, invece, scende in piazza contro la guerra, nonostante la repressione poliziesca attuata da Putin. L’insistere del poeta su elementi quali gli aerei e i carri armati riflette uno degli elementi tipici della guerra: le macchine. Da sempre l’uomo usa le macchine nei conflitti, che si rivelano occasioni per sperimentare nuove tecnologie (basti pensare alla Guerra Civile in Spagna, in cui l’esercito tedesco usò nuove apparecchiature belliche in appoggio a Francisco Franco contro le forze repubblicane), così come per inventare all’occorrenza nuove apparecchiature, soprattutto militari. Questo elemento, perfettamente sintetizzato nell’espressione scienza esatta persuasa allo sterminio, usata da Quasimodo, potrebbe richiamare a numerosi strumenti tecnologici: basti pensare alle cosiddette “bombe intelligenti”, usate da diverse forze (che siano i paesi NATO, Israele o la Russia) in molti teatri bellici, soprattutto in Medioriente. Lo stesso ministero della difesa russo aveva dichiarato, fino a qualche settimana fa, di attuare bombardamenti “chirurgici” nelle città, che tendevano a neutralizzare solo le postazioni militari; ma come si può ben vedere 23


dalle foto e dalle testimonianze che arrivano dal fronte, gli esiti sono ben altri. Del resto, l’esercito russo ha usato strategie simili in altri teatri di guerra: basti pensare a città quali Aleppo e Groznyj, distrutte dall’aviazione russa in due conflitti, quello siriano e quello in Cecenia, molto sanguinosi. Gli esempi di armi sofisticate sono molti altri, che siano i droni o le bombe a uranio impoverito (come quelle usate dalle forze NATO nei bombardamenti su Serbia, Kosovo e Montenegro del 1999); ma sta di fatto che, per quanto le armi siano moderne o “tese ad attacchi mirati”, queste sono e saranno sempre votate allo spargimento di sangue. In guerra le armi faranno sempre, come insegna Gino Strada, vittime civili: non esistono bombe intelligenti, ma solo bombe assassine. La perversione delle armi può anche levare dubbi e riflessioni sulla decisione dell’Unione Europea di concedere 450 milioni di euro in apparecchiature militari alle forze armate ucraine per difendersi dall’offensiva russa. È legittima la volontà ucraina di resistere all’occupazione russa, ma l’invio di armi potrebbe prolungare il conflitto, provocando rappresaglie reciproche tra forze ucraine e russe, che arrecherebbero ulteriori vittime civili da entrambi i lati. Per quanto alcuni opinionisti possano tacciare chi critica tale mossa di “pacifismo cinico” (accusa rivolta a intellettuali quali Carlo Rovelli e Luciano Canfora), bisogna ammettere che non è una scelta facile. Forse sarebbe meglio far lavorare la diplomazia o, come suggerisce l’esperto di geopolitica Alessandro Orsini, aggiungere una sanzione per ogni bambino ucciso. Prima si è detto di come quasi tutti i conflitti siano voluti da poche persone – che siano capi di Stato o peggio magnati dell’industria bellica – a spese di molte, cioè i più poveri, che diventano carne da macello per gli interessi dei primi (sia combattendo al fronte che vivendo da civili le devastazioni arrecate dalla guerra). Infatti, come scrisse Bertolt Brecht, Fra i vinti la povera gente faceva la fame. Fra i vincitori faceva la fame la povera gente egualmente. Oggi molti cittadini ucraini, che vivono in un paese già impoverito da condizioni pregresse, sono vittime dei bombardamenti russi sulle città, e per sfuggire alla distruzione della guerra sono costretti a lasciare la propria terra; d’altra parte i cittadini russi devono pagare il prezzo per le mire espansionistiche di Putin, sopportando gran parte del peso delle sanzioni (come ricordano diversi esperti, come il diplomatico e giornalista Sergio Romano) e vedendo i propri figli costretti a combattere una guerra sanguinosa per gli interessi di pochi. Chiunque vincerà questa guerra, una cosa è certa: i poveri perderanno, ritrovandosi ancora più poveri, mentre chi è ricco – che siano gli oligarchi, russi o ucraini, o i magnati occidentali dell’industria bellica – lo diventerà ancora di più. Per guardare ai motivi profondi di questa guerra, è utile ricorrere a una riflessione epistolare dello scrittore e filosofo russo Lev Tolstoj: Quando mi dicono che dello scoppio di una qualche guerra è colpevole in maniera esclusiva una delle due parti, non posso mai trovarmi d’accordo con una simile opinione. Si può ammettere che una delle parti agisca con maggiore cattiveria, ma stabilire quale delle due si comporta peggio non aiuta a chiarire neanche solo la più immediata delle cause per cui si verifica un fenomeno così terribile, crudele e disumano quale è la guerra. Queste cause sono del tutto evidenti per chiunque non chiuda gli occhi di fronte alla realtà. Ve ne sono tre: la prima è l’ineguale distribuzione della ricchezza, vale a dire la rapina commessa da alcune persone ai danni di altre; la seconda è l’esistenza della classe militare, vale a dire di persone addestrate e destinate a uccidere; la terza causa è una dottrina religiosa falsa, in buona parte consapevolmente ingannevole, nella quale vengono forzosamente educate le giovani generazioni. Da anarcopacifista e testimone diretto degli orrori della guerra (servì nell’esercito di leva zarista a Sebastopoli durante la Guerra di Crimea), Tolstoj riconosce come entrambi dei 24


belligeranti – per quanto ci possa essere uno squilibrio di forze o responsabilità dirette – siano corresponsabili della guerra in cui si scontrano. Inoltre, lo scrittore russo individua come cause di guerre le diseguaglianze socioeconomiche, il protagonismo della classe militare e una “falsa dottrina religiosa”. La prima delle cause è visibile nel caso di questa guerra: il conflitto interno all’Ucraina fu mosso dal contrasto tra le due parti della popolazione, una russofona e un’altra filoccidentale, delle quali la seconda ha visto nell’integrazione nell’Unione Europea un modo per uscire dalla condizione di povertà in cui vivevano. Ma purtroppo, sia per l’interferenza di forze esterne che per la presenza di frange estremiste, l’avvicinamento dell’Ucraina all’Occidente ha portato a un contrasto con una componente della popolazione ucraina, legata al passato sovietico e alla Russia. D’altra parte, Putin ha forse usato questa offensiva per scaricare il malcontento interno in Russia, un paese piagato da forti disuguaglianze e da un alto tasso di povertà. Del resto, la guerra è sempre stata usata dai politici come metodo per riacquisire consensi: Bush sfruttò gli interventi in Iraq e Afghanistan per consolidare il sostegno interno negli Stati Uniti; lo stesso Putin, poi, aveva ottenuto in passato un certo consenso interno per la gestione del conflitto in Cecenia, nonostante gli abusi compiuti (come ricorda la defunta giornalista Anna Politkovskaja). Quanto alla “falsa dottrina”, invece, ad oggi questa può essere interpretata in vari modi, in particolare come il nazionalismo nelle sue varie sfumature. Come ci insegnano i drammi delle guerre nell’ex-Jugoslavia, il nazionalismo è una delle cause fondanti di molti conflitti, che portano a violenti scontri e, nei casi più estremi, a genocidi di minoranze (come successo in Kosovo o in Rwanda). Sono state le frange estreme del nazionalismo ucraino (responsabili, tra l’altro, di fatti efferati) a far aumentare il sentimento autonomista nelle regioni russofone del Donbass – che già sentivano una certa estraneità rispetto al resto del paese – e a provocare violenti scontri armati negli ultimi otto anni. Caso esemplare fu il massacro di Odessa nel 2014, quando cinquanta manifestanti, critici verso il governo insediatosi dopo i fatti di Majdan, furono bruciati vivi nella Casa dei Sindacati. D’altra parte, il revanscismo e sciovinismo russo, mosso da Putin, ha esacerbato questa guerra, portando alla violenta incursione tuttora in corso sul territorio ucraino. Prima Putin ha agito annettendo la Crimea e fornendo armi alle milizie separatiste nel Donbass, poi invadendo de facto l’Ucraina: tutto ciò è mosso da una concezione neozarista dello spazio post-sovietico, portata avanti da Putin. Questi, infatti, si sente mosso dall’idea anacronistica di riunire tutti i russi sotto un’unica entità statale e territoriale. Tutte le scuse che muovono le guerre, che siano l’autodifesa, la lotta al terrorismo, l’esportazione di democrazia, la protezione di minoranze etniche da persecuzioni o la denazificazione, sono strumentali, spesso mosse da bugie. In questo fattore si nota una certa ipocrisia da parte dei governi occidentali, che pur avendo per anni invaso e bombardato indiscriminatamente diverse nazioni (Serbia, Iraq, Afghanistan, Libia, Siria, Yemen, Somalia eccetera…), ora si autoelevano a difensori della sovranità territoriale delle nazioni e dell’autodeterminazione dei popoli. Le invasioni di altre nazioni, chiunque le muova e per quanto siano esecrabili i governi dei paesi invasi (che siano democratici o no), sono da condannare a prescindere, così come il massacro indiscriminato di civili. Ma soprattutto sono da condannare i toni bellicisti e impassibili, usati da entrambe le parti della barricata. Entrambi i cobelligeranti, infatti, non sembrano disposti a cedere: questo sta portando a un massacro, che rischia di continuare, se nessuno intende porvi fine. 25


LINA KOSTENKO di Francesca Oriti In seguito ai recenti eventi è importante comprendere le radici profonde della guerra in corso in Ucraina e approfondire le radici culturali di questo popolo indomito. Una delle voci più importanti del panorama letterario contemporaneo ucraino è sicuramente Lina Kostenko, poetessa e scrittrice che ha inciso profondamente sulla storia del suo Paese. Lina Kostenko nasce a Ržyščiv, una sobborgo di Kiev, il 19 marzo del 1930. Particolarmente importante ricordare la data di nascita perché proprio tra il 1932 e il 1933 si verificò l’Holodomor, la grande carestia in cui morirono milioni di ucraini causata dal malgoverno dell’Unione Sovietica. Quando i kulaki, piccoli proprietari terrieri mediamente agiati, si opposero fermamente alla collettivizzazione delle terre imposta da Stalin, furono giustiziati o deportati in Siberia e la mancanza della forza-lavoro

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nei campi si unì a leggi che prevedevano la condanna a morte per il minimo furto di cibo, come scrive lo storico Bruteneau “la necessità di sfamarsi era considerata un crimine contro lo Stato”. La poetessa vive quindi la sua infanzia in un Paese martoriato e matura ben presto un forte bisogno di autodeterminazione per sé e per il suo popolo. Nonostante avesse completato la sua formazione a Mosca, diplomandosi all’Istituto di Letteratura “Maxim Gorky” nel 1956, dopo le sue prime raccolte poetiche Prominnja zemli (“Raggi della terra”) e Vitryla (“Le vele” e Mandrivky sercja (“Viaggi del cuore”) fu sottoposta ad una censura ventennale. Questo tuttavia non impedì a Kostenko di distinguersi all’interno del gruppo di giovani intellettuali ucraini comunemente denominati Šistdesjatnyky, che negli anni Sessanta propugnarono l'avversione al totalitarismo e la valorizzazione della


cultura ucraina attraverso varie espressioni artistiche realizzate da esponenti come Les Tanyuk, regista e parlamentare, e Alla Horska, pittrice e attivista per i diritti umani. Le opere di Kostenko sono caratterizzate da un linguaggio innovativo, con mescolanza dell’ucraino antico e moderno e del verso libero e della strofa classica. Viene pubblicato nel 1979 il capolavoro di Lina Kostenko, “Marusja Čuraj”, un romanzo storico in versi che racconta le vicende di un cantante di musica popolare ucraina del XVII secolo e che ha meritato all’autrice il Premio Ševčenko nel 1987. Il fascino per il Rinascimento non si limita alla madrepatria, infatti l’autrice ambienta in quest’epoca anche il poema drammatico “Snih u Florenciji” (“Neve a Firenze”) pubblicato nel 1989 e incentrato sul ruolo dell’arte in rapporto alla misurazione del tempo. Sulla riflessione estetica ritorna anche nell’opera “Berestečko”, anche questo un poema

storico in versi, ambientato nel Seicento ucraino, prova dell’abilità di introspezione psicologica dell’autrice. La docente di Ucrainistica alla Sapienza Oxana Pachlovska (peraltro figlia dell’autrice) definisce l’interiorizzazione del tempo e della storia il tema centrale della produzione poetica di Lina Kostenko, che sostiene con la propria opera e con la propria vita l’importanza per l’individuo di contribuire al progresso storico con una precisa scelta etica. A dimostrazione del suo impegno a difesa della libertà si legga la lettera di protesta che nel 1965 sottoscrisse affinché venissero liberati alcuni intellettuali ucraini arrestati dal regime. Inoltre la poetessa ha assistito alla tragedia di Chernobyl e ha espresso le sue riflessioni sulle cause e le conseguenze del disastro nel romanzo “Zona vidčužennja” (“Zona d’estraniamento”) del 1999, in cui lamenta l’estraniamento dell’uomo dal suo simile denunciando un “buco nero della coscienza umana”, parole che risultano purtroppo drammaticamente attuali. 27


«Poiché le guerre hanno origine nella mente degli uomini, è nello spirito degli uomini che si debbono innalzare le difese della pace.» 16 novembre 1945, Londra di Maria Cristina Montanari L’uomo da sempre scandisce il proprio passo sulla terra a ritmo di guerra: conflitti violenti tra individui, fazioni, etnie, Stati o blocchi di nazioni si intrecciano alla nostra storia con il loro carico di stragi e distruzione inciso nella carne viva dei popoli, senza che questo possa impedire altri orrori. Da migliaia di anni, tuttavia, l’uomo testimonia anche una diversa tensione del suo spirito che lo porta ad esprimersi in modo sublime, creando ciò che genericamente chiamiamo “arte” e che la Convenzione de L’Aja del 1954, al suo primo articolo, ha elencato con esattezza come “beni culturali”. Il “bene” della cultura è ancora più chiaramente compreso ed enunciato cinquant’anni dopo, nella Convenzione di Faro del 2015 che all’articolo 2 definisce come “eredità culturale” le “risorse” che le popolazioni riconoscono come espressione dei loro valori e che contribuiscono a costituire la “comunità culturale”. In questa definizione si condensa il grande valore relazionale che il patrimonio artistico riveste per la vita e l’evoluzione della nostra specie, un valore che ha portato ai giorni nostri anche al riconoscimento normativo e alla diffusione di pratiche di “welfare culturale” intese come azioni di tutela e promozione della salute fisica e psichica delle persone attraverso percorsi artistici e creativi che sono prescritti da medici e operatori sanitari. La Convenzione de L’Aja ha come obiettivo proprio la protezione di questo incommensurabile “bene” in caso di conflitto armato ed è frutto di un’evoluzione del pensiero sul diritto bellico che prende le mosse già dalle conferenze per la pace che si tennero sempre a L’Aja tra fine Ottocento e inizio Novecento, così come più specificamente si ispira anche al Trattato di Washington del 1935 sulla Protezione delle istituzioni artistiche e scientifiche e dei monumenti storici. Se nei primi decenni del Novecento il patrimonio artistico rappresentava uno degli elementi utili a esaltare l’appartenenza nazionalistica, alla fine della Seconda guerra mondiale anche il pensiero sui beni culturali sarà segnato dalla spinta ideale di collaborazione pacifica fra i popoli. La Costituzione dell’UNESCO nel 1945 sottolinea nel suo preambolo proprio l’importanza di educare lo spirito degli uomini come strumento per garantire la pace, ponendosi come primo obiettivo la mutua comprensione tra le nazioni, seguito dalla promozione dell’educazione e della cultura e poi dalla conservazione del patrimonio universale del “sapere”.Il balzo in avanti delle tecniche di guerra, compiuto nella Seconda guerra mondiale, aveva decuplicato le capacità di distruzione e reso evidente la necessità di porre limiti e regole ai conflitti, o almeno tentare di porli. E pur restando la difesa degli esseri umani la priorità, si avverte l’importanza di tutelare anche le loro espressioni artistiche riconoscendole come elementi imprescindibili di una vita dignitosa che passa attraverso la cultura e l’educazione oltre che attraverso la giustizia, la libertà e la pace. La Dichiarazione universale del 1948 riconoscerà fra i diritti fondamentali dell’uomo, all’art. 27, che «Ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico ed ai suoi benefici.» Questo diritto ha rischiato di 28


essere leso in modo micidiale in Italia nel corso dell’ultimo conflitto mondiale a causa della distruzione e del trafugamento delle nostre opere d’arte. Non solo il pericolo costituito dai bombardamenti ha minacciato il nostro patrimonio, ma soprattutto l’intenzione dei nazisti tedeschi di sottrarcelo, nel desiderio di creare un Museo del Führer. Il David di Michelangelo Buonarroti, potente espressione degli ideali del pieno Rinascimento e di un artista che ha saputo riportare in quel marmo la perfezione delle sculture classiche greche facendone un simbolo di forza morale della Firenze cinquecentesca, ha rischiato di essere perso per sempre. Sebbene già dal 1938 lo Stato fascista si adoprasse in circolari ministeriali per dimostrare la propria efficienza nella difesa del patrimonio nazionale, questa opera – troppo imponente per poter essere spostata e riparata altrove, come avvenne per la quasi totalità delle opere d’arte fiorentine – fu dapprima protetta con impalcature e sacchi di sabbia, e poi rinchiusa in un’ogiva in muratura nella speranza di poterla proteggere in caso di attacco. Non fu possibile fare altrettanto, invece, per l’Ultima cena di Leonardo da Vinci, al Santuario di Santa Maria delle Grazie di Milano. Opera già di per sé fragilissima a causa della tecnica sperimentata dall’artista, fu protetta dal 1940 solo con sacchi di sabbia, impalcature di legno e tentativi di rinforzi delle mura del refettorio in cui era stato dipinto l’affresco. I bombardamenti non risparmiarono il complesso conventuale ma quella parete resse, sebbene le condizioni atmosferiche dei giorni successivi minacciassero altrettanto l’opera che, solo dopo un restauro di diciassette anni conclusosi nel 1999, recuperò per quanto possibile il suo splendore, riportando alla luce particolari nascosti da secoli. Preda ambita per il proprio fascino sensuale fu, invece, la Danae che Tiziano Vecellio aveva dipinto nel 1545, già in età matura, per il cardinale Farnese. Splendido esempio del tonalismo veneto che, diversamente dalla scuola fiorentina basata sul disegno, crea le proprie atmosfere attraverso il colore, questa figura femminile pronta ad accogliere Giove sotto forma di pioggia dorata, era particolarmente apprezzata dai nazisti che la sottrassero dal Monastero di Montecassino dove era stata trasportata per proteggerla dai bombardamenti della città di Napoli. Fu recuperata solo dopo la guerra, come tante altre opere, grazie al paziente lavoro diplomatico e a volte spericolato, di Rodolfo Siviero: figura ambigua e singolare che, tuttavia, come molte altre persone riconosceva il grande valore dell’arte e si adoperò con passione per ricostituire il nostro patrimonio artistico. Una passione per i beni culturali che avvicinò anche durante il conflitto stesso, uomini di tutti gli eserciti che, al di là della giubba indossata, si sentirono parte di una comunità più ampia e fecero il possibile perché questo bene universale non andasse disperso. Esemplare la figura del direttore del Kunsthistorisches Institut di Firenze che, quando la disfatta dell’esercito del suo Paese fu chiara, scrisse una lettera indirizzata all’ufficiale inglese che, a quanto ne sapeva, avrebbe preso l’incarico della protezione delle opere d’arte fiorentine e che era stato, come lui, allievo di Erwin Panofsky. In quella breve lettera, Heinrich Heydenreich scrive, fra l’altro: «Ho tentato con tutte le mie forze di contribuire un poco a proteggere i suoi monumenti e le sue opere d’arte dai pericoli della guerra. Ma la preoccupazione per il destino di questa città ha rafforzato in me il sentimento di solidarietà con tutti gli uomini partecipi di questo sentimento; a Firenze ne ho avuto gradita conferma da ogni parte. In questa convinzione è per me una grande gioia il sapere che forse sarà Lei a cominciare il Suo Lavoro al punto nel quale io ho dovuto interromperlo. Il pensiero che Lei o uno dei nostri comuni amici del Suo paese assumerà la protezione delle opere d’arte mi rende meno dolorosa la partenza. Conservo la fiduciosa speranza che il mondo spirituale al quale noi diamo la nostra attività sia indistruttibile e che un giorno ci riavvicini.» Non possiamo che tenere vivo questo auspicio, anche a dispetto dei giorni bui che purtroppo lo spirito dell’uomo ci sta procurando. 29


L’ARTE E LA GUERRA di Marianna Ciafardini Il patrimonio culturale e artistico rappresentano l'identità di un popolo, la sua tradizione e la sua storia. Ci permette di scoprire le nostre origini e complessità culturali. Il primo documento di diritto internazionale che si occupò di tutela dei beni culturali in caso di conflitto venne integrato nel 1907 in seguito alle conferenze di pace dell'Aia del 1899 e del 1907. I provvedimenti del documento furono quasi del tutto ignorati nella prima guerra mondiale, a causa della "clausola si omnes", che prevedeva che le disposizioni fossero applicabili solo se tutti gli stati in guerra fossero stati parte della Convenzione. Con l'arrivo della seconda guerra mondiale però, alcuni eventi hanno portato l'umanità a una maggiore consapevolezza dell'importanza della tutela del nostro patrimonio. 5 Giugno 1940 ,Firenze L'allora soprintendente delle gallerie fiorentine Giovanni Poggi, riceveva le prime indicazioni sulla messa in atto di provvedimenti per tutelare il patrimonio artistico in caso di conflitto armato. Il progetto prevedeva l' assunzione di architetti, storici dell'arte, disegnatori e professori, come funzionari addetti alla tutela dei beni culturali e artistici. Le opere di maggior rilevanza, o di importanza civile o religiosa, le opere inamovibili David, Michelangelo ( già "tutelate" dal trattato di Washington del 1935) 1501-1503, Galleria dell’Accademia furono le prime ad esser state individuate come opere da tutelare. Tra queste, vi era il "David" di Michelangelo, simbolo della Repubblica fiorentina del Rinascimento Maturo, e anche della Firenze dei secoli successivi. La Galleria dell' Accademia, che ospita la scultura di Michelangelo dal 1873, divenne un luogo surreale: le opere vennero incapsulate dentro a delle ogive in muratura in mattoni e cemento. Per le opere mobili furono attuati altri provvedimenti ancora: esse, avrebbero dovuto essere trasportate in ville e castelli fuori dal centro della città. I funzionari addetti alla tutela delle opere d'arte, oltre alla poca disponibilità di fondi destinati al trasferimento e alla tutela delle opere, dovevano affrontare anche i grandi gerarchi tedeschi che cercavano di appropriarsi delle opere d'arte illegittimamente. Il Führer stava progettando il “führermuseum”, a Linz. All’interno avrebbe esposto la migliore selezione di opere d’arte trafugate e raccolte dall'Europa grazie ai suoi soldati. Fu il caso della "Danae" di Tiziano Vecellio (iniziata nel 1544 a Venezia e terminata nel 1545-46 a Roma), che, insieme ad altre opere, venne trafugata dal deposito nell’Abbazia di Montecassino nel 1943. L’opera venne prima regalata a Goering nel 1944, poi recuperata dallo Stato Italiano grazie all’agente segreto e storico dell’arte Rodolfo Siviero, nel 1947. L’opera, un importante esempio della pittura tonale Veneta, rappresenta la figura mitologica di Danae, alla quale era stata negata la sua natura (la maternità) dal padre che, in preda a una superstizione riguardante un ipotetico 30


figlio della donna, la rinchiude in un castello. Danae, sdraiata in una posa sensuale, accoglie Giove sotto forma di pioggia dorata, venendo fecondata da quest’ultima. Dal loro amore nascerà Perseo. Grazie a Rodolfo Siviero, la “Danae” può essere visitata oggi al Museo di Capodimonte, a Napoli. Questa figura ambigua e controversa, prima dalla parte dei fascisti, poi filocomunista, avrebbe probabilmente sfruttato entrambe le parti politiche, trafugando notizie a favore del recupero delle opere d’arte. Solo dopo la sua morte verrà riconosciuta l’ importanza dell’ingegno di quest’uomo per il futuro del nostro patrimonio. Milano, 15-16 Agosto 1943. Dopo vari attacchi alla città, intermittenti da Giugno 1940, Padre Acerbi e i suoi confratelli domenicani, pregavano perchè non fosse l’ennesima notte di bombardamenti. La preoccupazione li invadeva, per la popolazione e per la città di Milano: la stessa città che, nella chiesa di Santa Maria alle Grazie, da secoli ospitava “L'ultima cena” del maestro Leonardo. Qualche notte prima alcune schegge avevano colpito la chiesa e il refettorio in cui si trovava il dipinto, senza però, fortunatamente, distruggere il “gioiello milanese”. Fu significativo per l’opera l’intervento del 1940 dei funzionari addetti alla tutela delle opere d’arte, i quali, grazie a dei sacchi di sabbia, a delle impalcature di legno e dei rinforzi metallici, riuscirono a mantenere protetto il dipinto. L’efficacia di questa protezione non era del tutto certa, poiché Leonardo, il cui metodo era piuttosto meditativo, aveva sperimentato sulla parete una tecnica del tutto insolita, utilizzando pitture a base vegetale. Per questo motivo “L’ultima Cena” ha dovuto subire vari restauri e interventi invasivi. Leonardo aveva utilizzato un’impostazione prospettica che dava la sensazione di “allungamento” della stanza, la stessa stanza in cui, per tradizione, i frati mangiavano tutti insieme. Il bombardamento della notte tra il 15 e il 16 Agosto, e di conseguenza il crollo della parete orientale che proteggeva (per quanto potesse) la parete del dipinto dall’umidità, mise fine alla secolare tradizione dei frati di Santa Maria alle Grazie, ma fortunatamente non distrusse il dipinto. A guerra conclusa, ispirandosi ai patti stipulati tra 1899, 1907 e 1935, venne stipulata all'Aia una nuova Convenzione, il cui depositario era l'Unesco (l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza e la Cultura, istituita a Parigi 4 novembre 1946). Si trattava di una convenzione internazionale il cui fine era tutelare i beni culturali durante una guerra o un conflitto armato. Per la prima volta si usò l'espressione "beni culturali", considerando come un bene appartenente a tutta l'umanità "beni, mobili o immobili, di grande importanza per il patrimonio culturale dei popoli, come i monumenti architettonici, di arte o di storia, religiosi o laici,..." e disponendo negli articoli successivi indicazioni su modalità e regole di protezione di essi ed esplicitando obblighi e disposizioni per il rispetto di tali beni. Resta indelebile l'importanza della sensibilità (al di là della legge e dell' impegno ministeriale rispetto all' arte) che alcuni uomini hanno avuto in questo periodo bellico riguardo alla storia dell'arte e, conseguentemente, per la storia Ultima Cena, Leonardo Da Vinci dell'uomo. 1494-1498, Milano 31


Ucraina: un bilancio su questi otto anni di guerra di Giovanni Cavalieri

Negli ultimi mesi l’Ucraina è stata oggetto all’inasprirsi di un conflitto già latente, allargatosi con l’invasione russa del paese. I primi allarmi si erano destati a dicembre, quando le truppe russe avevano ammassato un ingente numero di truppe al confine con l’Ucraina. allora Biden e altri leader occidentali avevano accusato il Cremlino di violare la sovranità territoriale dell’Ucraina; d’altra parte, Putin ha tacciato gli Stati Uniti di retorica imperialista e definito l’Ucraina uno Stato illegittimo, fantoccio dell’Occidente. L’iniziale e apparente diminuzione di tensione tra i due paesi – percepita verso metà febbraio – è stata subito esasperata dall’intensificarsi degli scontri in Donbass: l’esercito ucraino aveva iniziato a bombardare le città di Donec’k, Lugans’k e Gorlovka, portando le autorità separatiste a evacuare parte della popolazione civile e a mobilitare le proprie forze, oltre che a richiedere la presenza di truppe russe nel territorio. Il presidente russo Vladimir Putin, con il pretesto di difendere le minoranze russofone del sud-est, si è allora mosso verso il riconoscimento delle Repubbliche del Donbass, per poi invadere il resto del paese. Oggi il paese è in parte occupato dalle truppe russe, i bilanci delle vittime sono innumerevoli e non si sono risparmiati drammi che, per quanto purtroppo caratteristici di ogni guerra, hanno destato lo sdegno dell’opinione pubblica e dei governi occidentali: basti pensare ai violenti bombardamenti inflitti dalle forze armate russe sulle città di Kharkiv (o Khar’kov), Marjupol’ e in parte di Odessa; per non parlare di Buča, piccolo villaggio alle porte della capitale Kyiv (o Kiev), dove ha avuto luogo un massacro indiscriminato di civili da parte di truppe russe. Al centro della vicenda sta l’Ucraina, un paese storicamente legato alla Russia, che negli ultimi otto anni è stato lacerato da una guerra violenta, seppur a bassa intensità, nella regione orientale del Donbass. Ma quali sono le ragioni di questa divisione, di questo conflitto che sembra aver raggiunto il suo drammatico culmine? 32


Un po’ di storia L’Ucraina è sempre stata un’entità politica, territoriale e culturale assai complessa: la capitale dell’ex repubblica sovietica lo fu anche della Rus’ di Kiev, un’entità monarchica fondata verso il IX secolo dai Variaghi (etnonimo con qui sono indicati i popoli scandinavi insediatisi in Europa orientale) che fu il primo nucleo di uno Stato “russo” vero e proprio. Sia gli ucraini che i russi si sentono eredi di questa entità statale, e considerano personaggi quali Rurik (condottiero vichingo semileggendario, considerato il fondatore della Rus’), Olga di Kiev e Vladimir “Il Santo” (grande principe di Kiev dal 988 al 1015, celebre per aver imposto la conversione al cristianesimo ortodosso nei suoi domini) figure fondanti della propria storia. Dal 1132 Kiev costituì un principato autonomo, poi divenuto un regno vassallo dell’Impero mongolo – così come i principati russi limitrofi. Dal XIV secolo in poi il territorio dell’Ucraina fu ripartito tra il Granducato di Polonia (poi confluito nella Confederazione Polacco-Lituana), il Gran Principato di Moscovia (divenuto poi, sotto Pietro il Grande, Impero Russo) e il Khanato di Crimea, Stato tataro vassallo dell’Impero Ottomano. Nell’Età moderna si sono susseguiti, per il controllo della regione, conflitti tra polacchi, russi e cosacchi Zaporoghi. Nel quadro della Grande Guerra del Nord l’Etamanato Cosacco, guidato dall’atamano Ivan Mazeppa, si schierò con l’Impero Svedese di Carlo XII contro il Regno Russo. Prima alleato di Pietro il Grande, Mazeppa passò dalla parte degli svedesi credendo di poter preservare l’indipendenza dell’Etamanato dalla Russia. Ma la sconfitta dei cosacchi e della Svezia nella battaglia di Poltava costrinse Mazeppa prima a una fuga rocambolesca, poi alla resa. L’Etamanato Cosacco fu definitivamente annesso all’Impero Russo nel 1764 per opera di Caterina II “la Grande”. Dal XIX secolo in poi l’Ucraina subì un processo di russificazione, con il divieto d’uso della lingua ucraina da parte del regime zarista. Nello stesso periodo l’Ucraina divenne il “Granaio d’Europa” e Odessa, città affacciata sul Mar Nero, divenne per la Russia un importante centro commerciale e portuale e la città più grande dell’Ucraina; d’altra parte Leopoli, importante centro abitato della Galizia, diventò una delle più grandi città dell’Impero Austro-ungarico. Nel periodo della Rivoluzione Bolscevica e della successiva guerra civile l’Ucraina fu segnata da violente lotte e dalla nascita di più entità politiche separate: nei territori occidentali fu proclamata la Repubblica Nazionale dell’Ucraina Occidentale; la Crimea fu occupata dall’Armata Bianca, formata dai lealisti dello zar; nella zona tra Kiev e Kharkiv si scontrarono nazionalisti ucraini e bolscevichi; infine, nella zona sudorientale fu proclamato il Territorio Libero (conosciuto anche come Makhnovia), entità territoriale di tipo anarchico governata dall’Esercito insurrezionale 33


rivoluzionario d’Ucraina di Nestor Makhno. Tale frammentarietà ebbe fine nel 1922, quando l’Ucraina divenne parte dell’URSS come Repubblica Socialista Sovietica Ucraina. Fu in questa cornice che Lenin “istituì” l’Ucraina come repubblica autonoma, seppur sempre e comunque parte dell’Unione Sovietica. Lenin lo aveva fatto in quanto, sostenendo il principio di autodeterminazione dei popoli (seppur da una logica marxista, secondo cui i confini nazionali sarebbero poi andati a dissolversi con l’arrivo della Rivoluzione), riteneva che anche il popolo ucraino – a lungo sfruttato dall’aristocrazia zarista – avrebbe avuto il diritto ad autodeterminarsi, pur rientrando nell’Unione Sovietica. Inoltre, per garantire la creazione di una classe operaia che appoggiasse la Rivoluzione in quei territori, i confini della Repubblica Socialista Sovietica Ucraina furono tracciati in modo da comprendere anche le regioni del Donbass, ricche di giacimenti minerari e quindi con una forte presenza di operai. Infatti dall’inizio del Primo Piano Quinquennale, ordinato da Stalin nel 1928, questa regione subì un notevole sviluppo industriale. Il periodo degli anni ’30 fu segnato da forti contrasti: la collettivizzazione forzata dei campi agricoli, voluta dal governo sovietico, portò a uno scontro con i Kulaki ucraini, ceto di contadini agiati che contavano di grandi tenute agricole. Alla repressione operata dal regime staliniano i Kulaki reagirono con azioni di sabotaggio quali l’uccisione del bestiame e la distruzione del proprio raccolto. Questi fattori, insieme a un insieme di catastrofi naturali, portarono nel 1933 a una drammatica carestia, tristemente conosciuta come Holodomor. Questo evento è sentito dalla maggioranza degli ucraini come una tragedia per il proprio popolo, costretto alla fame dalle decisioni di Stalin. Fino ad allora la regione occidentale della Galizia era rimasta separata dal resto dell’Ucraina poiché inglobata, dopo i Trattati di Versailles del 1918, nei territori della Seconda Repubblica di Polonia. Ma con il Patto di non aggressione siglato tra Unione Sovietica e Terzo Reich e la conseguente spartizione della Polonia tra le due potenze, la Galizia fu riunita con il resto dell’Ucraina, anche se come parte dell’URSS. Quando la Germania nazista invase l’Unione Sovietica una buona parte della popolazione ucraina, spinta dall’astio contro il regime sovietico, accolse i soldati tedeschi come dei liberatori. Furono molte le organizzazioni paramilitari ucraine – alcune persino inquadrate nelle SS – che parteciparono alle azioni di guerra, sia nei combattimenti che nei rastrellamenti di civili: basti pensare al Massacro di Babij Jar, avutosi il 28 settembre 1941, nel quale le SS e i collaborazionisti ucraini massacrarono 33.771 ebrei. Inoltre nelle regioni di Galizia e Volinia i nazionalisti dell’Esercito Insurrezionale Ucraino, guidato da Stepan Bandera, si resero complici di una vera e propria pulizia etnica nei confronti delle minoranze polacca 34


ed ebraica. Queste azioni di pulizia etnica e rappresaglie nei villaggi proseguirono anche dopo la fine della guerra, fino al 1949. Dopo la fine della Guerra l’Ucraina fu segnata dall’annessione della penisola di Crimea (ne parleremo più avanti in merito all’annessione russa del 2014) e, poi, dal disastro di Černobyl’ del 1986, le cui conseguenze perdurano tutt’oggi (e su cui si sono brevemente riaccesi i riflettori all’inizio dell’invasione, quando truppe russe occuparono la città fantasma vicina al confine con la Bielorussia). Il nuovo millennio, tra Russia ed Europa Nel processo di dissoluzione dell’Unione Sovietica, l’Ucraina ottenne l’indipendenza il 16 luglio 1990, quando il Parlamento adottò la Dichiarazione di sovranità dell’Ucraina. Questa dichiarazione affermava l’autodeterminazione dell’Ucraina, oltre al passaggio a una forma di democrazia (cosa che è sempre difficile a dirsi nei paesi est-europei, soprattutto nelle ex repubbliche sovietiche) e al libero mercato. Nonostante il referendum del 17 marzo 1991, tenutosi in gran parte delle ex repubbliche sovietiche, avesse dato un esito favorevole alla conservazione dell’Unione Sovietica (nella stessa Ucraina il 71,48% votò a favore), la dissoluzione di quest’ultima fu inevitabile e il 1° dicembre 1991 si tennero le prime elezioni presidenziali dell’Ucraina indipendente. Negli anni ‘90 l’Ucraina fu caratterizzata, così come le altre ex-repubbliche sovietiche e altri paesi dell’ex Patto di Varsavia, dal radicale passaggio da un’economia pianificata a una di libero mercato. Questo cambiamento repentino portò a un aumento di povertà e disuguaglianze sociali, con il conseguente emergere della criminalità organizzata e il consolidamento della classe degli “oligarchi”, così come nel resto dell’ex Unione Sovietica. La situazione di povertà estrema portò una parte della popolazione ucraina, in particolare la fascia meno povera, a vedervi come soluzione una possibile integrazione con l’Unione Europea: del resto paesi est-europei quali Polonia e Repubblica Ceca avevano già iniziato il processo d’integrazione in Europa, oltre che un più ampio avvicinamento all’Occidente (inclusa la tanto controversa adesione alla NATO). Questo desiderio d’integrazione con l’UE – unito a un’insoddisfazione verso il potere politico monopolizzato dagli oligarchi – culminò nella Rivoluzione Arancione: a seguito delle elezioni presidenziali del 2004 i sostenitori del candidato alla presidenza Viktor Juščenko protestarono contro presunti brogli, che avrebbero portato alla vittoria del candidato filorusso Viktor Janukovič. Le proteste costrinsero la Corte Suprema ucraina a indire nuove elezioni, dalle quali Juščenko uscì vincitore. Inoltre il clima era stato esasperato quando Juščenko presentò sintomi di avvelenamento per diossina, di cui fu accusato l’avversario Janukovič. Majdan e Odessa: le scintille nella polveriera Il governo di Viktor Juščenko fu segnato da una serie di contrasti interni su questioni spinose quali l’integrazione nell’Unione Europea e il conflitto tra Russia e Georgia del 2008: Juščenko condannò l’invasione russa della Georgia, mentre l’allora primo ministro, Julija Tymošenko, prese posizioni neutrali sulla questione. Tali divisioni portarono nel 2008 a una crisi politica, poi alle elezioni del 2010, nelle quali vinse Viktor Janukovič. L’Ucraina aveva stabilito, a partire dal 2004, un rapporto di partnership economicocommerciale con l’Unione Europea; ma Janukovič scelse di non firmare il trattato di associazione con l’UE, preferendo accettare un prestito di 15 miliardi di dollari dalla Federazione Russa (in quanto tale prestito era considerato dal presidente Janukovič più conveniente sul piano finanziario rispetto agli accordi presi in precedenza con l’UE). Questo fattore, sentito come un tentativo di Putin di legare a sé l’Ucraina e di tenerla 35


lontana dall’Unione Europea, portò allo scoppio delle rivolte di “Euromajdan”. Le proteste, che si svolsero dal novembre 2013 al febbraio 2014, nacquero come manifestazioni pacifiche; tuttavia la risposta repressiva delle forze dell’ordine, l’azione di cecchini dall’identità e dalle intenzioni ancora sconosciute (che spararono sia a manifestanti che a poliziotti), oltre alla presenza di forze di estrema destra quali Svoboda e Pravyj Sektor (entrambi partiti nazionalisti di orientamento neonazista) a sostegno della protesta, portarono allo scoppio di scontri violenti tra manifestanti e polizia governativa. Tali scontri trasformarono il centro di Kiev in un campo di guerriglia urbana. Il clima di violenza scoppiato nella capitale costrinse Janukovič a dimettersi dalla carica di presidente e a fuggire di soppiatto da Kiev. Alle proteste di Euromajdan e alle dimissioni di Janukovič seguì la creazione di un governo provvisorio, presieduto prima da Oleksandr Turčynov e poi da Petro Porošenko. Se da una parte è vero che una componente della popolazione ucraina aveva sostenuto le proteste di Majdan, bisogna ammettere che queste ricevettero un forte sostegno esterno, soprattutto dagli Stati Uniti: politici americani quali John McCain supportarono in pieno le proteste e Victoria Nuland, allora assistente segretario di Stato USA, dichiarò che gli Stati Uniti “hanno investito 5 miliardi di dollari per dare all’Ucraina il futuro che merita”. Sempre Victoria Nuland era solita recarsi a Majdan, portando cibi e vivande ai manifestanti accampati nella piazza. Infine l’allora assistente segretario di Stato americana fu oggetto di controversie quando, secondo quanto riportato da una fonte anonima, avrebbe dichiarato in una telefonata “F*ck the EU” (tradotto, “Si f**** l’UE”), alludendo all’intenzione statunitense di marginalizzare il ruolo dell’Unione Europea nella gestione della crisi ucraina. In particolare, l’obiettivo statunitense sarebbe stato quello di far entrare l’Ucraina nella NATO, portando a un “accerchiamento” della Russia. Nei territori sud-orientali dell’Ucraina, a maggioranza russofona, si levò quasi subito una reazione negativa all’insediamento del nuovo governo, considerato “golpista” e “filofascista”, per tornare a rafforzare i legami con la Russia. Prima ancora che con la secessione delle repubbliche del Donbass, il picco di questo contrasto si ebbe con il massacro di Odessa, avutosi il 2 maggio 2014: in quell’occasione dei manifestanti filorussi e comunisti si scontrarono con forze filogovernative, composte da ultras calcistici ed estremisti di destra, per poi rifugiarsi nel Palazzo dei Sindacati. Allora i sostenitori del governo post-Majdan circondarono il palazzo e vi lanciarono dentro proiettili incendiari: dall’incendio scaturirono cinquanta morti e un centinaio di feriti. Inoltre, secondo testimoni oculari, alcuni manifestanti fuggiti dalle fiamme sarebbero stati linciati dai nazionalisti. In tutto questo la polizia ucraina non reagì e fu bloccato persino l’intervento dei pompieri. Il Massacro di Odessa ha dimostrato come il nuovo governo, seppur nato con le premesse di maggiore democrazia, sia stato spesso connivente con frange neonaziste, tollerate e poi inquadrate nell’esercito per mantenere il controllo sulle regioni orientali. La Crimea, cuore caldo del Mar Nero Il Cremlino, sentendosi minacciato da un possibile avvicinamento dell’Ucraina all’Occidente, approfittò della confusione generale per portare avanti il processo di annessione della Crimea. Già nel 1991 il presidente russo Boris El’cin aveva proposto all’allora omologo ucraino, Leonid Kravčuk, di restituire la Crimea alla Russia; ciò era motivato dai sentimenti autonomisti della popolazione della penisola (a maggioranza russofona) e dalla presenza di una parte della flotta russa nel porto di Sebastopoli. Il 27 febbraio 2014 truppe russe entrarono, senza segni distintivi, nel territorio della Crimea, occupando i principali centri governativi e vie di comunicazione della Crimea. 36


L’operazione, avvantaggiata dalla presenza di soldati russi a Sebastopoli, ebbe un successo veloce e sorprendente. Per non aggravare la situazione il Cremlino, piuttosto che l’occupazione militare, optò per un referendum con cui rendere valida l’annessione della Crimea. Il 16 febbraio 2014 venne dunque indetto tale referendum, al quale partecipò l’83% degli abitanti aventi diritto: di questi il 97% votò a favore del congiungimento con la Federazione Russa. Fu così dichiarata l’indipendenza della Crimea dall’Ucraina e l’annessione alla Russia. Tale annessione è sempre stata oggetto di controversie, essendo considerata una violazione dell’integrità territoriale dell’Ucraina ed essendo il referendum ritenuto illegittimo. Come risultato immediato la Russia fu espulsa dal G8 e sottoposta a sanzioni da molti paesi occidentali. La ragione dell’annessione russa è semplice: chiunque controlla la Crimea, controlla tutto il Mar Nero. Da questo punto di vista, la Russia si è così assicurata una zona cuscinetto rispetto ai paesi NATO (dei quali, tra l’altro, tre sono affacciati sul Mar Nero), oltre che uno sbocco sul Mediterraneo da cui far passare le navi militari dirette in Siria – a sostegno del regime di Bashar al Assad nel conflitto tuttora in corso nel paese arabo. Inoltre, le acque del Mar Nero intorno alla Crimea sono potenzialmente ricche di giacimenti di gas e petrolio, nonostante i progetti di estrazione delle risorse siano sospesi da tempo. Per l’annessione della Crimea il Cremlino usò come scusa la presenza schiacciante di popolazione russofona nella penisola e un trattato stipulato da Khruščëv nel 1954: infatti il leader sovietico, per sancire i “300 anni di amicizia Russo-Ucraina”, decise di far passare l’amministrazione dell’Oblast’ di Crimea dalla RSFS Russa alla RSS Ucraina. Secondo la narrativa russa, tale suddivisione sarebbe diventata nulla dopo lo scioglimento dell’Unione Sovietica nel 1991, e quindi la Crimea sarebbe dovuta appartenere di diritto alla Russia. A oggi la situazione in Crimea è rimasta cristallizzata: una buona parte della popolazione russofona di Crimea, delusa dalla classe politica ucraina, aveva accolto con favore l’annessione alla Russia; d’altra parte tale entusiasmo si è affievolito, dato che la penisola è stata soggetta a una forma d’isolamento economico da parte dell’Ucraina. Inoltre, dal 2014 diversi oppositori all’integrazione nella Russia sono stati oggetto di persecuzione politica, incarcerati e spesso torturati. A oggi il futuro della Crimea sembra incerto: Kiev avrebbe intenzione di riconquistarla prima o poi, ma il che risulta piuttosto difficile e, se anche avvenisse, provocherebbe un ulteriore inasprimento del conflitto. Donbass, terra di sangue e carbone Il Donbass (abbreviazione di Doneckij Bassejn, “bacino del Don”) è una regione dell’Ucraina orientale, a maggioranza russofona. Nonostante la popolazione di questa regione avesse votato a favore dell’indipendenza dell’Ucraina nel ’91, i rapporti con la capitale, Kiev, sono rimasti sempre deteriorati: questa alienazione dal resto dell’Ucraina tese a inasprirsi, prima con la Rivoluzione Arancione e poi con la rivolta di Majdan. Inoltre, essendo il Donbass una regione ricca di giacimenti di carbone, la sua popolazione ha sempre sentito un forte orgoglio per il contributo dato all’economia del paese, che fosse l’Unione Sovietica, la Russia o l’Ucraina. Nello scenario d’instabilità sviluppatosi nell’Ucraina post-Majdan, il Donbass fu contraddistinto da un accentuarsi del sentimento indipendentista; inoltre questo fattore era favorito anche dalla caduta del sistema clientelare che fino ad allora era stato sorretto dal governo di Janukovič. Le proteste sorte nelle due principali città del Donbass, Donec’k e Lugans’k, portò all’occupazione degli edifici governativi da parte di gruppi armati e alla creazione di barricate in alcune zone della città. L’11 maggio 2014 venne 37


allora indetto un referendum per la secessione dall’Ucraina: negli Oblast’ di Donec’k e Lugans’k, con un’affluenza di circa l’80%, la maggioranza dei votanti votò a favore dell’indipendenza delle due repubbliche autoproclamate di Donec’k e Lugans’k. Il referendum si tenne anche a Kharkiv, ma la bassa affluenza in questa regione garantì la sua permanenza in Ucraina. Il governo ucraino, che considerava questa contro-rivolta una minaccia alla propria integrità territoriale e un’interferenza russa negli affari interni, provò subito a reimpossessarsi militarmente della regione mandando esercito e forze speciali per sedare il moto secessionista. I separatisti replicarono con il fuoco: iniziò così la Guerra del Donbass, arrivata oggi al suo culmine e, a quanto pare, alla sua drammatica (ancora in corso) conclusione. Inizialmente l’esercito ucraino, addestrato ed equipaggiato malamente, subì forti perdite da parte dei separatisti, tanto che alcuni reparti dell’esercito cedettero prigionieri o armi ai ribelli sostenuti dal Cremlino. Allora subentrarono milizie paramilitari, formate da ultras calcistici (spesso vicini ad ambienti di estrema destra) e © Wikipedia finanziate da oligarchi quali Ihor Kolomojs’kyj (lo stesso che ha finanziato la campagna elettorale dell’odierno presidente ucraino Volodymir Zelens’kyj). All’indomani dell’inizio del conflitto e per porvi fine, i governi tedesco, russo, francese, bielorusso e ucraino suggellarono gli Accordi di Minsk: tali accordi imponevano di porre fine agli scontri, di deporre le armi da entrambi gli schieramenti e di garantire un margine di autonomia alle regioni del Donbass – una soluzione assimilabile allo Statuto di autonomia di cui gode l’Alto Adige rispetto allo Stato italiano. Ma nessuna delle due parti coinvolte accettò le condizioni ed entrambi violarono più volte gli accordi presi.Il conflitto è così proceduto per altri otto anni, tra bombardamenti e scontri nelle trincee, interrotti a volte da brevi e instabili cessate il fuoco. Se da una parte il governo ucraino ha ricevuto sostegno materiale e mediatico da parte dei governi occidentali (così come il Cremlino ha fatto con le forze separatiste), dall’altra la sua gestione del conflitto ha spesso destato critiche da taluni riguardo al bombardamento di civili e l’inquadramento nella Guardia Nazionale di gruppi paramilitari neonazisti. Questi gruppi si sono spesso macchiati di crimini di guerra – come tra l’altro hanno denunciato Human Rights Watch e Amnesty International, organizzazioni tutt’altro che filorusse. Tra questi gruppi il più famigerato è il Battaglione Azov, formato da un gruppo di nazionalisti ucraini ed estremisti di destra provenienti da tutta Europa, anche italiani. Questo gruppo estremista è tornato alla ribalta in questi ultimi mesi: da una parte è stato usato come pretesto da Putin per l’invasione 38


dell’Ucraina (spacciata dal Cremlino e dai media russi come “campagna di denazificazione”); dall’altra è stato riabilitato da alcuni opinionisti nostrani, che hanno dipinto i suoi miliziani come “nuovi partigiani”, “semplici nazionalisti” e persino “appassionati lettori di Kant”. Tuttavia l’ideologia e la simbologia del Battaglione Azov sono evidenti: basti pensare che il simbolo del Battaglione è il Wolfsangel (che in tedesco significa “dente di lupo”), una specie di runa usata come simbolo dalla divisione SSPanzer-Division “Das Reich” durante la Seconda Guerra Mondiale e oggi da numerose organizzazioni neofasciste (era per esempio il simbolo di Terza Posizione, movimento neofascista italiano attivo durante gli Anni di Piombo). Inoltre tale Battaglione ha rapporti con gruppi di estrema destra europei quali CasaPound in Italia e il National Action in Inghilterra. Sulla condotta dell’esercito ucraino è esemplare, quanto drammatico, il caso di Andrea Rocchelli, giornalista italiano e corrispondente di guerra, che rimase ucciso nel bombardamento di Slovjans’k insieme al suo interprete Andrej Mironov. Secondo le indagini della procura di Pavia, il giovane fotoreporter fu ucciso in modalità premeditate da parte di un battaglione nazionalista ucraino, comandato dal militare Vitalyj Markiv. Questi, nonostante la condanna a ventiquattro anni decretata dal Tribunale di Pavia (favorita anche dalla doppia cittadinanza italo-ucraina di Markiv), è riuscito a sfuggire alla giustizia italiana, potendo continuare la sua attività nell’esercito ucraino. Allora si erano tenute a Kiev, sotto l’ambasciata italiana, manifestazioni che invocavano il rilascio di Markiv; inoltre, quando il militare fu scarcerato, il presidente Zelens’kyj si complimentò con gli allora omologhi italiani, Sergio Mattarella e Giuseppe Conte, per la liberazione di Markiv. D’altra parte le repubbliche separatiste (o “novorusse”) sono state più volte accusate di essere rette da governi fantocci del Cremlino (il quale li ha armati negli ultimi otto anni), dato che le loro milizie sono affiancate da mercenari del famigerato reggimento Wagner e i suoi odierni presidenti sono affiliati a Russia Unita, il partito politico che sostiene Putin. Inoltre il fronte separatista è composto da forze eterogenee, spesso in contrasto tra loro: cosacchi, comunisti e antifascisti, nazionalisti russi ed estremisti di destra – se non di sinistra – stranieri, affascinati dalla figura di Putin. I primi comandanti delle Repubbliche separatiste si richiamavano fortemente al passato sovietico, sul piano simbolico ma anche ideologico. Tuttavia questi sono stati quasi subito liquidati, molto probabilmente da nemici interni, proprio per il loro orientamento politico. A oggi il Donbass è una regione depressa, piagata da una guerra che ha causato quindicimila morti (di qui 3.400 civili) e un milione e mezzo di sfollati. Qui i bombardamenti dell’esercito ucraino (prima) e di quello russo (ora) hanno recato solo morte e distruzione. È questa la regione su cui si gioca lo scontro tra le forze d’invasione russe e quelle ucraine. Finora nessuna delle forze hanno posizioni inconciliabili sul Donbass: gli ucraini non sembrano disposti a cederlo, mentre il Cremlino è determinato a sottrarlo dalla sovranità ucraino, se non ad annetterlo – come sembra assai probabile. Chiunque riesca a impossessarsi della regione, una cosa è certa: il Donbass soffrirà per molti altri anni, e questa ferita sarà difficile da far rimarginare. Come del resto sarà difficile da far rimarginare la ferita inferta all’Ucraina, che vacilla tra Oriente e Occidente.

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Dantini per sempre

Il giorno 31 maggio 2022 si è svolta la premiazione del PREMIO LETTERARIO “Dantini per sempre” indetto per ricordare Teresa Gradi Falsini, avvocato, madre di due allieve del liceo, anch’ella ex allieva del liceo classico Dante, che ha sempre vivacemente preso parte alla vita della scuola, assumendo ruoli nella componente genitori e promuovendo con grande slancio tutte le attività, prima fra tutte l’orientamento in entrata.

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Erano presenti i docenti della Commissione giudicatrice, la famiglia Falsini e Gradi, i concorrenti e tanti alunni e genitori, legati dal ricordo dell’amica. In un clima intimo, dopo la lettura della poesia di Franco Fortini , 27 aprile 1935, che richiama fra i ricordi il giardino del Liceo, si è svolta la premiazione che ha visto al primo posto Gaia Pazzi della classe IIIA Classico, al secondo Giovanni Baroncelli della classe VA classico, al terzo Adriano Marcondes Godoy, della classe VA classico. Ai vincitori la famiglia Falsini ha offerto buoni libro. Menzionati anche Alessandro Palma ( VA Classico) e Martina Marra( 3E Artistico) Riservato agli studenti regolarmente iscritti presso il triennio dei Licei dell’IIS Alberti Dante di Firenze, il premio si è proposto di valorizzare e promuovere le capacità critiche e stilistiche legate all’espressione scritta, offrendo l’opportunità di entrare in contatto diretto con uno scrittore. Ad un autore, infatti, è stata richiesta la traccia di un saggio breve, che è stato poi sviluppato dagli alunni. La traccia da svolgere è stata fornita dallo scrittore e giornalista Aldo Cazzullo° Aldo Cazzullo, (Alba, 17 settembre 1966) è un giornalista e scrittore italiano. Ha lavorato a La Stampa ed attualmente lavora al Corriere della Sera, come inviato speciale ed editorialista. E’ autore di numerosi saggi di grande successo. Nel 2020 ha pubblicato A riveder le stelle. Dante, il poeta che inventò l’Italia La traccia proposta invitava e riflettere sulle figure femminili e sul ruolo della donna nella Comedia di Dante. Di seguito, alcuni dei testi che hanno partecipato al concorso.


“Ricorditi di me, che son la Pia; Siena mi fé, disfecemi Maremma: salsi colui che ‘nnanellata pria disposando m’avea con la sua gemma”. Termina così il canto V del Purgatorio dantesco, con la flebile voce di una donna che si introduce nel dialogo con il poeta Vate, al fine di accennare alla propria tragica fine. È Pia de’ Tolomei, tradita e uccisa dal proprio marito. Vengono condensati in laconici e lapidari versi l’amore di una donna per un uomo che non la merita, il rimpianto per un matrimonio spezzato, la violenza perpetrata e la sofferenza causata da parte del proprio coniuge. Tutto ciò appare però ammantato da un’aura di dolcezza, capace di rievocare la nostalgia del gesto gioioso di adornarsi con l’anello, sacro vincolo di amore eterno, lasciando così la vergogna e il vituperio esclusivamente alla figura del marito. Una dolcezza ed una dirittura morale femminile che il lettore nota anche in Suor Piccarda Donati e Costanza d’Altavilla, poste in Paradiso, quali ulteriori celeberrimi esempi di donne vittime del veemente controllo coercitivo maschile, entro i confini di una società convintamente androcratica. Una società in cui, però, gli uomini necessitano ad ogni costo di una presenza femminile, come guida al loro fianco. È per questa motivazione che Manfredi si affida alle preghiere della figlia Costanza, Nino Visconti a Giovanna, Papa Adriano V alla nipote Alagia; figure femminili che, seppur inserite nel consueto immaginario di pie protettrici degli affetti all’interno del focolare domestico, testimoniano l’ossequiosa venerazione di un erudito uomo medievale nei confronti della donna. Appare pleonastico ricordare gli influssi stilnovistici sulla raffigurazione letteraria della donna come angelica creatura virtuosa, tuttavia è innegabile asserire che nell’economia generale della Commedia le donne assurgano ad uno status di consapevole rilevanza, che supera tòpoi e clichét. E forse questo è il punto: nella società contemporanea riconosciamo quotidianamente, nella teoria e nella prassi, il ruolo femminile con rispetto e dignità? Certo è che spesso non ci indigniamo più dinanzi ad un femminicidio, il quale sembra non toccare mai fino in fondo le nostre personali esperienze, poiché ci appare sovente come mero fatto di cronaca da quarta pagina di giornale, che leggiamo con superficialità, quasi fossimo avvezzi ad una pratica che rasenta la peggiore forma di brutalità: l’uccisione in nome dell’”amore”. Così, limitandoci ad uno sterile compianto per la violenza subita da qualcun altro, iniziamo piuttosto a domandarci se magari quell’uomo, marito o partner, avesse potuto avere una qualche motivazione, di qualsivoglia natura, tale da permettere un simile gesto. Entriamo in questo modo nella logica assurda e vorticosa di un mondo indegno di definirsi appartenente al terzo millennio. Ci sbizzarriamo pertanto a trovare motivazioni laddove le questioni sono invece cristalline: l’uomo percepisce la donna come oggetto in suo possesso, e anche i più miti compagni di vita sono capaci, in determinate circostanze, di sfoderare non solo le armi della mascolinità quali la percossa, la ferita, lo spargimento di sangue, ma anche, talvolta, di utilizzare la potenza, insidiosa e strisciante, del condizionamento psicologico, della

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sottomissione alla propria volontà, tanto perniciosa da essere capace di soffocare e stringere più di una stretta mortale. È lo stesso principio che ci porta talvolta a posare più l’attenzione sugli abiti indossati da una ragazza a seguito di uno stupro, piuttosto che sull’atto dello stupro in sé ad opera di un uomo. Esso appare un circolo vizioso, donde è arduo sfuggire. Eppure non vi è nulla di cui stupirsi. Una società che elogia la legge della relazione usa e getta, che pone le proprie fondamenta su di un egoismo utilitarista focalizzato sulla ricerca del proprio esclusivo piacere, è certamente in grado di far passare come normale l’immagineprototipo di una donna ‘cosificata’, il cui corpo può essere mercificato, sopraffatto, picchiato e, per ultimo, privato della vita, nei casi, tutt’altro che rari, di omicidio. Omicidio che certo risulta particolarmente distruttivo e contraddittorio, poiché si dirige verso un attentato al cuore della donna, al grembo materno, santuario di fertilità che dà la vita e riproduce, su scala ridotta, l’attività creatrice, certamente qualificabile come intrinsecamente divina. Forse che certi uomini, o per meglio dire ‘omuncoli’, si sentano gelosi per questa facoltà generatrice che non appartiene loro, giacché percepiscono, in pectore, di doversi imporre ed avere tutto sotto il proprio dominio? Non è possibile asserire con certezza a proposito delle aberrazioni della psiche umana, ma certamente è impossibile trascurare un avito retaggio, pervenuto sino a noi, fortemente misogino e certamente spietato. Il genere femminile, “ambiguo malanno” dell’umanità, è stato sin dal Medioevo Malinconia o Pia de' Tolomei, Eliseo Sala 1846 ellenico oggetto di discriminazione, ostracismo dalla vita politica, relegazione nell’ambiente domestico, ove madri, mogli, figlie, rimanevano soggiogate alla volontà maschile, senza possibilità di riscatto. Le donne nell’antichità erano elogiate per la loro virginea purezza, la devozione alla famiglia, il ripudio della libido sfrenata, l’integerrima moralità, non certo per il loro coraggio ardimentoso, l’intelletto fine o l’anelito alla libertà. Un’eredità culturale, questa, che si è ben adattata all’impianto della antica cristianità, perno di tradizione, costume e storia della nostra contemporaneità. Certamente sovvengono alla mente di tutti le tristi storie dei processi per stregoneria, le pagine buie di alcuni Padri della Chiesa, le interpretazioni erronee conferite all’eziologia metastorica del libro veterotestamentario della Genesi. Eppure nel mondo occidentale, a seguito degli sconvolgimenti, in primis bellici, che hanno dominato l’Europa ottonovecentesca, pure la Chiesa, che è prima di tutto madre universale, si è adattata a certe novità ed ha alzato la voce in innumerevoli occasioni, a partire da Leone XIII. Degne di essere citate sono le parole di Papa Roncalli nell’enciclica ‘Pacem in Terris’, ove si legge: “Nella donna diviene sempre più chiara e operante la coscienza della propria dignità. Sa di non poter permettere di essere considerata e trattata come strumento; esige di essere considerata come persona, tanto nell’ambito della vita domestica che in quello della vita pubblica”. Ad alcuni, tali parole possono apparire scontate, eppure, ancora oggi, le donne sono non solo, come già detto, vittime di soprusi e violenze da 42


stigmatizzare con risolutezza, ma spesso, in certe aree geografiche, private di ogni dignità, libertà di scelta, di azione, di pensiero. Ne sono un esempio generale la condizione femminile sotto il regime talebano afghano, e più in particolare il caso della pakistana Saman Abbas, torturata e uccisa dagli stessi parenti per aver rifiutato un matrimonio combinato. In un tale scenario scandaloso ed inaccettabile, l’unica cosa da fare può essere davvero solo quella di tacere? No, non credo. Non si può assistere, ancora oggi, a simili scempi. San Paolo, nelle Lettere ai Galati, sosteneva che “non c’è giudeo né greco; non c’è schiavo né libero; non c’è uomo né donna, poiché voi siete uno in Cristo Gesù”. Ciò Dante lo aveva assimilato a tal punto che, pur in un contesto medievale innegabilmente reazionario, nel canto XXX del Purgatorio, non solo rende Beatrice una guida che erudisce e conduce un uomo, ma la paragona addirittura ad un ‘ammiraglio’, figura quanto mai virile, imperioso e saldo circa l’agire proprio ed altrui. Veramente, dunque, oggi, qualcuno può ipotizzare che uomo e donna, con le loro inevitabili differenze biologiche, siano individui tra i quali è possibile evidenziare un sesso debole ed uno forte? Virginia Woolf, nel suo capolavoro ‘Orlando’ scriveva che “i sessi sono diversi; eppure si confondono”; nel suo essere sia uomo sia donna, Orlando, ci ha insegnato che “le donne non sono né obbedienti, né caste, né profumate, né squisitamente acconciate, per natura”, abbandonando così secoli di pregiudizi sociali accumulati ed insinuando l’idea, a tratti platonica, che noi siamo anime, anime androgine, la cui sessualità appare solo come categoria accessoria. Notevoli passi, senza dubbio, sono stati fatti nell’ultimo secolo in favore della parità di genere, per quanto riguarda la carriera lavorativa, la stabilità finanziaria, il diritto di voto e di sostegno a favore delle donne. Le quali tuttavia non possono né devono rientrare nella categoria di ‘specie sociali’ protette o vulnerabili, alla stregua di animali in cattività, bensì rimangono libere anime che, con il sostegno degli uomini in ‘social catena’, possono lottare, in sinergia, per i loro diritti, per la loro auto-affermazione, scevre da gioghi e timori. La mia personale esortazione è quella di proseguire su questa linea, migliorando però noi stessi, uomini in primis, affinché non rimanga solamente una farisaica retorica di buonismo ed una distillata parità, che celano pregiudizi odiosi e ritengono anche le peggiori nefandezze ed ingiustizie come radici di una tradizione millenaria, impossibili da estirpare. Sforziamoci, piuttosto, di agire concretamente nell’interesse della donna, certi di farlo nell’interesse della nostra e delle prossime generazioni, in modo tale da non far conoscere ai nostri figli l’abominevole termine ‘femminicidio’. Intanto, nell’immediato, con atteggiamento rivolto alla bellezza delle arti, consiglio di contemplare la ‘Giuditta e Oloferne’ di Artemisia Gentileschi, pittrice della scuola caravaggesca, vittima di stupro e violenza per mano di Agostino Tassi. Ciò allo scopo di ricordare, grazie alla forza icastica ed eroica che l’opera è in grado di trasmettere, che, come poetava Guido Cavalcanti, “non si poria contar la piangenza” di una donna “ch’a le’ s’inchin’ ogni gentil vertute, e la beltate per sua dea la mostra”. Concludo rivolgendo alle donne le parole veraci ma, a mio parere, profonde, della cantante Mia Martini: “Donna che non sente dolore quando il freddo le arriva al cuore, quello ormai non ha più tempo e se n’è andato soffiando il vento. Donna come acqua di mare, chi si bagna vuole anche il sole, chi la vuole per una notte e c’è chi invece la prende a botte. Donna, donna come un mazzo di fiori, quando è sola ti fanno fuori. Donna cosa succederà quando a casa non tornerai?” G.B. VA 43


La Divina Commedia fa parte del nostro patrimonio artistico e culturale, è radicata nella nostra educazione e nel nostro immaginario collettivo. E non possiamo certo trattare della Divina Commedia senza citare Beatrice, figura della donna amata per eccellenza, simbolo di un amore ai nostri occhi classico ma allo stesso tempo innovativo rispetto alla tradizione letteraria precedente: dall'amore tipico della lirica cortese, che sfocia dalla bellezza, spesso adultero e in contrasto con l'amore per Dio; al sentimento stilnovistico che porta alla nobiltà d'animo tramite la vista, si passa infine a un amore del tutto disinteressato, sciolto da ogni manifestazione materiale, espresso nei confronti di una donna che è la rappresentazione della bellezza divina. La donna stilnovistica e dantesca non tenta l'uomo conducendolo al peccato; al contrario lo eleva e lo purifica, in contrapposizione con alcune tradizioni medievali che la vedevano nelle vesti di tentatrice e guida verso il profondo abisso dei peccati. Dante nobilita le donne gentili citandole anche come allegorie di alti saperi, quali la teologia e la filosofia, oltre che come maestre d'amore, cui la figura femminile è indissolubilmente legata, nel bene e nel male; non a caso è nel cerchio dei lussuriosi dell'inferno che troviamo il maggior numero di donne tra i dannati, in una mescolanza di personaggi mitici e storici: dalla regina Semiramide a Didone, da Elena di Troia a Cleopatra; figure celebri per la loro passione amorosa o per essere morte in relazione ad essa. La particolare reverenza di Dante nei confronti delle donne deriva in parte da una realtà sociale che le vede escluse dalla sfera decisionale, in ambito politico e civile così come in quello domestico, il che implica anche una minore sete di potere e una propensione a corruzione e avarizia inferiore rispetto all'uomo. Una figura quindi per certi aspetti pura, conservatrice di un'innocenza originaria, ma allo stesso tempo umana e vicina, oltre che fondamentale nella società. L'esclusione da alcuni aspetti della vita civile legati alla contemporaneità dell’epoca danno della figura femminile un'idea prettamente connessa alle relazioni e quindi alla bellezza e all'amore, rievocando la concezione della donna nelle corti medievali cui si ispirava la lirica in lingua volgare francese. Identificare sempre e comunque la donna con la purezza potrebbe però risultare contraddittorio, data la presenza di figure femminili nell'Inferno e nel Purgatorio. Dante infatti non fa della donna un soggetto univoco e idealizzato; ce lo dimostrano, tra gli altri, i personaggi di Francesca da Rimini e Pia de' Tolomei, che rappresentano, in maniera diversa, i drammi della loro epoca, i peccati della società medievale che anche la figura femminile incarna. In particolare, la prima rappresenta i lussuriosi e la loro impetuosa passione che sfocia dall'attrazione fisica. È tramite gli occhi e la voce della donna che ripercorriamo la vicenda amorosa di Paolo e Francesca, nei travolgenti versi del V canto dell'Inferno. La loro storia è un parallelismo con la relazione tra Ginevra e Lancillotto, amore del romanzo cavalleresco cortese che qui viene condannato: siamo costretti a scegliere tra esso e l'amore per Dio e, prediligendo l'uno, escludiamo l'altro. La narrazione da parte del personaggio femminile è una svolta in quanto la donna viene presentata come soggetto, non solamente oggetto, della passione amorosa: quello di Paolo e Francesca è un rapporto alla pari, molto moderno per certi aspetti, il cui realismo descrittivo ci fa sentire vicini ai due personaggi, destinati a condividere in eterno la stessa pena, uniti dopo la morte dalla stessa passione per la quale è stata sottratta loro la vita. Altra rappresentativa figura femminile è quella di Pia de' Tolomei, incontrata da Dante nell'Antipurgatorio, tra i tardi a pentirsi perché morti per forza. Pia, infatti, è stata uccisa dal marito. I versi in cui viene riportato il dialogo tra lei e il poeta sono pochi ma significativi: risulta una figura pacata e gentile, per la quale Dante sembra provare una tenera simpatia e compassione. La donna, su cui abbiamo poche notizie biografiche, racconta più di un’offuscata vicenda personale: racconta il dramma della violenza e del 44


femminicidio, spesso scaturiti dalla gelosia, all'interno del matrimonio. Una gelosia malata e ossessiva, che nella storia ha accecato l'umanità davanti all'amore e alla ragione. Sia ciò che spinge all'uccisione, gelosia o altroché, giustificato o meno, il femminicidio priva l'uomo dell'elevazione spirituale che la donna, nella visione stilnovistica e dantesca, reca a colui che la ama. Non è solo un atto atroce di fronte all'umanità, ma di fronte a Dio. Uccidere una donna, per di più se si è legati ad essa mediante un vincolo di fedeltà e amore, equivale a uccidere la propria spiritualità, il proprio legame con il divino e la possibilità di elevarsi fino ad esso. L'amore a cui gli uomini come Gianciotto Malatesta e Nello de' Pannocchieschi , mariti rispettiva mente di Francesca da Rimini e Pia de’ Tolomei, voltano le spalle con odio e inaudita violenza, non sempre è abbandonato anche dalla vittima: Pia non esprime rancore nei confronti di colui che l'ha uccisa, forse per comprensione delle ragioni del marito, oppure perché continua ad amarlo anche dopo la morte causata proprio da quelle mani, macchiate di sangue come la sua anima è macchiata indelebilmente dal peccato e segregata nella Caina gelida come il cuore di tutti i traditori. La gentildonna uccisa dal marito in Maremma potrebbe rappresentare in senso più ampio la violenza coniugale, a cui la donna spesso non ha i mezzi per sottrarsi; consapevole di ciò, il poeta riserva ai personaggi femminili maggiore comprensione anche tra i dannati, forse per la natura relativamente poco grave del peccato da esse commesso, forse per la consapevolezza delle sofferenze che le loro anime hanno dovuto subire in vita. In una società dove spesso non è il vero sentimento amoroso a trionfare, ma un matrimonio concordato o con alla base poca conoscenza, l'amore puro e imperituro nella storia e nella letteratura spicca tra le convenzioni matrimoniali e i semplici legami affettivi: si tratta di un sentimento distante da ogni desiderio di natura fisica e sensuale, genuino e devoto come può essere concepito l'amore per Dio. Dante era sposato con un'altra donna, ma nonostante ciò non condanna il proprio amore per Beatrice, puro, sincero e spirituale, che non conduce alla rovina ma, al contrario, salva da essa: è Beatrice a soccorrere Dante, servendosi di Virgilio, nella selva oscura, all'inizio del viaggio del poeta ritrovatosi sulla via del peccato. Si tratta di una decisione che proviene dall'alto, dalla vergine Maria stessa che si rivolge a Santa Lucia e a Beatrice. Una triade che rappresenta appieno la bellezza e la misericordia divina, l'unica, nella visione del poeta, a poter sollevare l'uomo dallo stato di miseria in cui si trova. In conclusione possiamo dedurne che per Dante la donna rappresenti, pur essendo molto più di un semplice mezzo, un tramite di Dio, in un'idea condizionata anche dalla concezione finalistica della natura e della vita radicata nella mentalità medievale grazie all'influenza aristotelica: c'è la necessità di intravedere dietro ogni cosa uno scopo comune che, in una società religiosa come quella del tempo, giustifichi una devozione verso un essere mortale pari a quella che si sente di dover avere per Dio. Inoltre la concezione medievale dell'uomo non conferisce ad esso una notevole libertà: è soggetto al volere che viene dall'alto e la volontà individuale ha potere fino a un certo punto; questo aspetto condiziona ogni esperienza di vita, riconducendola inevitabilmente alla sfera religiosa. L'attraversamento del mondo ultraterreno è costantemente segnato dalla presenza di donne, dall'Inferno al Purgatorio fino al Paradiso, in un climax crescente dove la figura più alta è rappresentata dalla vergine Maria, per eccellenza tramite di Dio, che si presenta sulla terra a partire dal suo grembo. Nel contesto di una spiritualità forte e accentuata come quella medievale, riconoscere la donna come mediatrice tra l'umano e il divino è la maggiore considerazione che si possa dimostrare di avere nei confronti di questa. G.P. 3A Classico 45


LA DONNA NEL XIII SECOLO

Henry Holiday, l'incontro immaginario fra Dante e Beatrice (con il vestito bianco) accompagnata dall'amica Vanna (con il vestito rosso), sul Ponte

INTRODUZIONE Se si pensa alla Divina Commedia, una delle prime figure che viene alla mente è Beatrice, la donna amata da Dante in vita e in morte suo angelo custode, seguita da un’altra memorabile figura femminile come Francesca da Rimini, a cui vengono fatti pronunciare alcuni tra i più bei (e sicuramente i più famosi) versi sull’amore; oppure ancora Piccarda, costretta ad abbandonare l’abito monacale con la forza, o Costanza d’Altavilla, moglie e madre di Sacri Romani Imperatori, o la dolcissima Pia de’ Tolomei e altre ancora. Tutto ciò testimonia un’attenzione e una sensibilità non comune nei riguardi della donna e del suo ruolo; una rivalutazione degli schemi di pensiero della sua epoca. La Divina Commedia, infatti, era un manifesto di lotta e di pensiero, un richiamo politico e ideologico, un sentiero per il quale accedere ad un rinnovamento spirituale: lo dichiara Dante stesso, nel XVII canto del Paradiso, dopo la triste profezia che, sul suo futuro, fa Cacciaguida. Un’opera totale, quindi, che toccò molti aspetti della vita pubblica e privata, interiore e esteriore, per poter raggiungere l’obbiettivo proposto di rinnovare gli orizzonti mentali (a dire il vero piuttosto ristretti) dell’Uomo medievale. In questa organica costruzione, nella quale nulla, nella sua lunga gestazione e stesura, è stato lasciato al caso, è altamente lecito supporre che nemmeno la particolare (almeno per il tempo) figura della donna che ne emerge sia casuale. Ovviamente, per i nostri canoni di moderni, lo sforzo di Dante può sembrare ingenuo e insufficiente, ma occorre considerare lo spirito dei tempi per capire che questo suo nuovo approccio ha dello straordinario, e che sfiora le vette dell’unicità: nel XIII secolo, infatti, la condizione della donna era molto ristretta. STATUS GIURIDICO Il Medioevo non fu certamente il periodo più progressista in fatto di diritti (e consuetudini, che all’epoca avevano a tutti gli effetti valore di legge) riguardanti la figura della donna, che non esisteva come entità in sé, ma solo in rapporto ad altre figure, maschili. Si partiva infatti dall’assunto che le donne fossero costitutivamente inferiori all’uomo, fisicamente e spiritualmente, e che avessero perciò bisogno di guida e protezione. 46


Ne derivavano una serie di pesanti limitazioni alla sua libertà ed ai suoi diritti: in famiglia era sottoposta alla potestà della figura maschile di più stretta parentela, come il padre, il marito, il fratello, il figlio, o il parente più prossimo in mancanza di tutti questi ultimi; sempre in ambito privato, la donna non godeva di alcuna voce in capitolo sugli affari di famiglia, era anzi relegata a casa, a mansioni come il ricamo, il rammendo, la supervisione dei servi (le donne del popolo erano in questo più “libere”, ma ai fini letterari questo non ha rilevanza: sarebbe passato ancora molto tempo prima che entrassero nei libri anche loro). Anche per quanto riguarda il patrimonio la donna era mantenuta in uno status di inferiorità, per cui non poteva ereditare direttamente le sostanze di famiglia, se non dietro assegnazione di un tutore o comunque una figura di garante; al contrario, la donna rappresentava generalmente un peso per la famiglia, in quanto, oltre a non poter lavorare, essa aveva bisogno che le venisse assegnata una dote per renderla appetibile a buoni partiti. In un contesto giuridico e politico non nettamente definito, in cui i vari poteri si sovrapponevano e scontravano, le alleanze familiari erano di importanza capitale, per cui a dote più ricca corrispondeva un matrimonio più importante, e quindi un’alleanza più utile e proficua. Nella vita pubblica, invece, la donna aveva ancora meno spazi: non poteva ricoprire cariche pubbliche o qualsivoglia ruolo ufficiale, e inoltre le erano preclusi spazi reali, come ad esempio il matroneo nelle chiese, separato ed elevato dal resto dei fedeli. LA DONNA COME SANTA E COME DIAVOLO A differenza del mondo giuridico, per il quale la donna era pressoché inesistente (o meglio, insussistente, cioè non considerabile di per sé), la Chiesa e dunque la religione, all’epoca ancora strettamente Cattolico- Romana, le dovevano pur riservare qualche ruolo: una delle figure femminili più importanti di tutti i tempi (per chi ci crede, ovviamente) è stata la Vergine Maria, madre di Dio; una donna scelta da Dio stesso per portare in grembo il redentore del genere umano. Non potevano nemmeno essere ignorate le numerose figure di sante (e sante martiri) che avevano costellato la storia del Cattolicesimo, e che erano parte integrante e fondamentale della dottrina e della fede. D’altra parte, la tradizione biblica tramandava anche una figura di donna tentatrice, corrotta, responsabile della cacciata dell’Uomo dal Paradiso Terrestre: Eva. Queste due figure erano inconciliabili, per cui anche le due visioni della donna furono inconciliabili: da una parte la donna santa e virtuosa, pura, casta, consacrata a Dio (“sposa” in Cristo, e al tempo il matrimonio e il marito erano, per la donna, estremamente vincolanti); dall’altra la donna tentatrice, schiava della carne, che con la sua malizia attenta alla salvezza eterna degli uomini, ministro in terra del volere luciferino. DA UN ESTREMO ALL’ALTRO La religione era per il Medioevo un fatto di estrema importanza, pertanto era inevitabile che il mondo della cultura e della letteratura vi gravitasse attorno (nel senso che al cuore della letteratura medioevale c’era invariabilmente una riflessione teologica o morale riconducibile alla religione, che plasmava di sé il componimento); ed ecco quindi che anche in letteratura ritroviamo la stessa ambiguità vista prima: basta considerare ad esempio i poeti stilnovisti e una lunghissima tradizione di letteratura misogina che mi 47


piacerebbe simboleggiare con la novella Calandrino e l’Elitropia (nonostante il Boccaccio non fu, almeno nel Decameron, un misogino). Nei primi (tra i quali ci fu lo stesso Dante, agli esordi della sua carriera poetica, con la “Vita Nova”) si ha la famosa donna-angelo, un essere di sovrannaturale bellezza e leggiadria, distante dalle cose terrene, simbolo (reale, nel senso di mondano, del mondo) della bontà di Dio, angelo disceso in terra per la salvezza spirituale dell’Uomo. D’altra parte abbiamo citato una famosa novella del Decameron di Boccaccio (di poco posteriore a Dante), poiché in essa è possibile vedere la donna disprezzata e avvilita: Calandrino, convinto dagli amici che i ciottoli d’Arno possano rendere invisibili, se ne riempie le tasche, andando poi in giro per la città; ritornato a casa tardi, rimproverato dalla moglie che ovviamente riesce benissimo a vederlo, Calandrino la picchia senza pietà, convinto che essa, proprio in quanto donna, abbia vanificato le proprietà magiche delle pietre (era infatti credenza diffusa che il tocco di una donna potesse annullare i poteri di pozioni e amuleti). RIFLESSIONI SULLA DONNA IN DANTE Come abbiamo visto, il mondo in cui Dante si muoveva non era generoso con le donne: pregiudizi radicati assai a fondo nella cultura medievale ne facevano o angeli scollegati dalla realtà o diavolesse tentatrici e malvagie. Il grande merito di Dante a questo riguardo è che egli riuscì a rappresentare la donna come degna di rispetto e di comprensione, come un essere che, al pari dell’uomo, si rallegra per le gioie e soffre per le ingiustizie, un miscuglio di pregi e difetti: insomma, Dante tracciò la fisionomia di una donna reale. Francesca da Rimini è sì un’adultera, ma il fatto che all’epoca il matrimonio non si contraesse per amore ma per convenienza (e soprattutto perché le donne non venivano consultate per la scelta del loro proprio marito), agli occhi sensibili di Dante la scagiona e la redime, rendendola degna di parlare di un sentimento così nobile e sacro come l’amore. Pia de’ Tolomei si pentì affidandosi a Dio solo negli ultimi istanti, ma comunque il pentimento la rende degna del Purgatorio, e quindi, in seguito, del Paradiso; la gentilezza con cui si rivolge a Dante (“Deh, quando tu sarai tornato al mondo e riposato de la lunga via[...] ricorditi di me, che son la Pia”) è un unicum nella Commedia, ed è testimonio del rispetto e della stima del poeta. Piccarda e Costanza d’Altavilla sono nel cielo più basso del Paradiso, il cielo della Luna, perché mancarono ai voti monacali: ma Dante scusa anche loro, perché furono strappate a forza dal chiostro e costrette a sposarsi dai membri maschi della loro famiglia; l’accusa di Beatrice, che porta, in contrapposizione alle due, come esempi di perseveranza, le vicende di Muzio Scevola e di San Lorenzo, assume caratteri puramente dottrinali e teologici e non oscura certo l’empatia di Dante per queste figure, vittime di un mondo maschilista e violento. Come emerge da tutto quello che si è detto, pur con tutti i suoi (umani) difetti, la donna è per Dante una creatura degna di rispetto e di affetto, interamente immersa nello stesso mondo degli uomini, e pertanto senza nessuna caratteristica angelica o luciferina, o meglio, con un miscuglio di queste due caratteristiche che rendono l’Uomo ciò che è; essa, come l’uomo, deve poter esercitare il proprio arbitrio, e con i suoi pensieri e le sue opere meritarsi l’Inferno o guadagnarsi il Paradiso. A. P., VA Classico 48


LA DONNA, IL FEMMINICIDIO E DANTE Nel bel mezzo della quotidiana vita scolastica dello studente, molte volte si dimentica il motivo che spinge gli Italiani ad avere un particolare interesse verso la Divina Commedia. Sicuramente è una tra le opere più monumentali della nostra letteratura, che riassume la maggior parte del pensiero teologico, filosofico e culturale dell’Italia di quel periodo. Eppure, una parte che sfugge allo studente - e sicuramente una delle accuse che più si rivolgono a quest’opera è proprio quella di essere così fuori dalle tematiche del nostro tempo presente da non capirne l’utilità del suo studio - è il modo in cui l’opera di Dante possa interpretare anche i problemi della nostra società, possa gettare delle basi per sempre nuove riflessioni. Questo pregio, ovviamente riconosciuto da Aldo Cazzullo, si appresta anche ad una tematica che, nonostante se ne parli dall’inizio del misterioso rapporto uomo-donna e donna-società, ci sembra quasi esclusiva dei nostri tempi, a causa di una maggiore consapevolezza da parte della massa, il femminicidio. Le vittime in questione nella Divina Commedia, Francesca e Pia, sono due donne che hanno avuto una storia diversa e sentimenti diversi di fronte ai loro omicidi. Francesca, simbolicamente unita al suo amante nel V Canto dell’Inferno, si fa portavoce di un modo di concepire l’amore disinteressato, fuori dalle logiche di dominanza sia da parte dell’uomo, sia da parte del potere, sia da parte del denaro, partecipe nelle stipulazioni matrimoniali di quel periodo. È l’emblema della libertà della donna verso l’amore affettivo e per la sua autonomia nella scelta dell’amante (è significativo il fatto che sia lei, nella coppia, la persona che parla con Dante, mentre Paolo prende la parola solo per quattro versi). Analizzando questo aspetto, proprio qui troviamo la novità del pensiero dantesco: Dante si pone in antitesi verso il concetto di femminicidio, sulle cui basi infatti poggia la volontà di sottomettere la libertà dell’altro. Francesca è offesa dalla maniera in cui Gianciotto abbia dovuto mostrare la sua presunta superiorità, in quanto uomo. Con questo racconto, Dante esce dalla visione, sua contemporanea, per capovolgere e criticare l’amore cortese, così incentrato nella distinzione tra superiorità ed inferiorità, signora e vassallo, sensualità ed irraggiungibilità. Francesca risulta una donna più che umana, che non stabilisce la sua superiorità e che contrappone a quest’ultima il libero arbitrio, la libertà di scegliere il proprio partner non in base a valori esterni, ma solo in base a quel valore col quale le relazioni dovrebbero essere instaurate, l’amore, in una fusione - e non una “fagocitosi” da parte di uno o dell’altro membro - equa. Ma non è solo un rifiuto 49


verso quel concetto di amore; accoglie infatti l’aspetto più costruttivo della relazione amorosa: il miglioramento, la nobilitazione dell’anima grazie alla potenza dell’amore. Dante dunque, davanti alla dimostrazione di femminicidio, non solo compatisce e solidarizza con le vittime, ma pianta sani dubbi anche nella mente del lettore: Era rispettata la concezione dell’amore cortese, per non parlare della volontà della donna? Dall'altra parte, nel V Canto del Purgatorio, c’è Pia de’ Tolomei, la quale sicuramente ha un modo diverso di concepire la violenza. Rispetto al gretto e schietto sdegno che Francesca rovescia sul suo uccisore (“Caina attende chi a vita ci spense”), nelle parole di Pia traspare, se non gentilezza, sicuramente rammarico verso quell’amore, che sembrava promettere così bene alla vista della dolcezza delle immagini nuziali, l’aspetto che più colpisce la stessa Pia. Un amore che però si presenta come tale solo nella formalità (la cerimonia dell’inanellaggio), ma non nell’essenza. Un amore che dovrebbe trattare la donna come un essere consenziente ed autonomo, ma che alla fine svanisce (come sembra alludere al v. 134 quel “disfecemi”) davanti alla gelosia del marito. Queste vittime non restano invendicate: ad attendere gli uccisori c’è la Caina, la prima zona del Cocito, “tristo buco sovra ‘l qual pontan tutte l’altre rocce” dove sono puniti i traditori dei parenti, immersi in un lago di ghiaccio, dal quale emerge solo la loro testa, rivolta verso il basso. Dante contrappone il tradizionale fuoco infernale alla nuova forma che assume l’odio, soprattutto quello intestino: una rigida e gelida crudeltà, incurante del valore che le persone assumono nella vita dell’uccisore. Il ghiaccio non solo quindi evidenzia il modo in cui l’odio - che li acceca, come le lacrime gelano gli occhi di Napoleone ed Alessandro Alberti nel XXII dell’Inferno - viene esternato, ma anche la fragilità degli uomini che la compiono. Dunque Dante tratteggia le donne: donne che possono essere ribelli, gentili, pie, che nella Commedia non seguono alcuno stereotipo dettato dalla letteratura precedente, che hanno personalità piuttosto forti sia nel bene (come nel caso di Pia de’ Tolomei) che nel male (parlando di Francesca da Polenta). Il ruolo della donna si fa fortemente simbolico: la donna si fa veicolo del messaggio divino, e incarna - in questo senso, Dante è molto tradizionalista - una gamma di valori già conosciuti dai suoi contemporanei. Questi valori contraddistinguono altri due spiriti, Sapìa e Cunizza, rispettivamente nel XIII canto del Purgatorio e nel IX canto del Paradiso, con la loro austerità e la perseveranza nel migliorare la propria condizione, nonostante i peccati commessi nell’arco dell’esistenza. Anche in questo caso assistiamo alla comparsa sulla scena di donne che hanno come scopo quello di sottolineare l’importanza della nobilitazione d’animo da parte degli uomini. Queste due figure incarnano l’indipendenza e l’autonomia della figura femminile, che però - e non raramente - si scontra con la volontà degli uomini. L’ i n c o m p r e n s i o n e l a volontà della donna e quella 50


dell’uomo è il tema di fondo del colloquio tra Dante di Costanza d’Altavilla e Piccarda Donati, nel III canto del Paradiso, le quali fuggirono entrambe, ancora giovani, dal loro mondo per vestire la tonaca monacale, per poi rompere i sacri voti, costrette a forza da uomini “a mal più ch’a bene usi” (v. 106). Un’altra figura che compare nella Commedia è Santa Lucia, in qualità di Grazia Illuminante, che ha lo scopo di traghettare Dante tra la valletta dei principi e la Porta del Purgatorio; inoltre, il suo fine è allegorico: è il mezzo dell’umanità per la salvezza eterna, è la guida che sorregge l’uomo nel suo incerto cammino verso la visione della Dante e Matilda Trinità. La scelta che ricade proprio su Santa Lucia è in Dante anche un elemento autobiografico: nei suoi anni giovanili, a causa delle prolungate letture, aveva sofferto di una pericolosa e dolorosa malattia, da cui poi è guarito proprio per intercessione di Santa Lucia. Oppure, sempre restando nel Purgatorio, ma spostandoci ai canti XXVIII-XXIX-XXX, possiamo trovare Matelda, la custode del fiume che lava le anime del Purgatorio, descritta come Proserpina, una fanciulla di una bellezza innocente e virginale, eppure che sfoggia la sua vasta conoscenza teologica e storica, molte volte insegnando a Dante nuovi concetti e dialogando a pari merito con Stazio. Dante è sperimentale anche in questo senso: una nuova visione della donna, che si discosta dalla donna stilnovista, una donna angelica, irraggiungibile, che anzi fa proprio del contatto con l’uomo, o per meglio dire con l’essere umano in generale, la sua identità, per quanto questo rapporto con il sesso altrui sia vario e specifico (si può passare dalle opere di carità, come il lavoro di assistenza ai bisognosi dato da Cunizza, alle scene di cruda violenza accennate da Francesca). Il “gentil sesso” si fa interprete del volere divino, è la rappresentazione della sua volontà, incarnata nella forma finale che è Beatrice, maestra (sono molte le volte in cui lei riprende severamente Dante per le sue conoscenze approssimative e per la sua ignoranza in certi campi), amata e guida di vita e di spirito per il poeta. Si può pensare dunque, leggendo superficialmente la Commedia, che sia una storia sola, quella di Dante in un cammino di redenzione ed apprendimento. Invece è un excursus vasto, anzi vastissimo, sull’uomo e sulla donna, e tutte le tematiche dei loro mondi. Dante scomoda imperatrici, monache o semplici ragazze, asserendo chiaramente che queste emozioni, queste riflessioni, queste esperienze coinvolgono tutti noi e non ci devono sfuggire per la loro importanza universale. In un periodo pieno di confusione, di dissidi e di guerre, il grido dell’individuo, privato della facoltà di scegliere e di scegliersi, sarebbe stato dimenticato. Invece Dante ci testimonia un caso attuale, moderno, che ci fa capire come il rapporto uomo-donna sia più longevo di quanto noi stessi pensiamo. Non bisogna dimenticare il messaggio che si cela dietro la pietà, la curiosità e la contemplazione di Dante: al pari dell’uomo, la donna è un essere che non può essere schematizzato o chiuso in certe gabbie concettuali e stereotipate, la cui riflessione non può andar perduta. Dante trasmette un grido, il grido di vittime che si ribellano alla tirannia dell’oppressore, in nome dell’amore, una forza che “move il sole e l’altre stelle”. A.M.G.; V A classico 51


“IL MOMENTO CAFFÈ” “Mi scusi, le ho chiesto due caffè da portar via”, ribadì nuovamente con tono quasi minaccioso la signora dal viso premuroso che si presentava ogni giorno nel mio bar alle 7 e 30 del mattino. Mi sono sempre domandata con chi condividesse quella bevanda bollente dal sapore amaro, ma da qualche punto di vista anche dolce. Ho sempre associato il momento del caffè preso in compagnia alla parola “insieme” prendere un caffè insieme somiglia un po’; alla frase “Lasciamo che questo momento renda dolce il caffè amaro che stiamo bevendo entrambi”. È un qualcosa di talmente intenso che si connette con l’aroma bruciante del caffè, una contrapposizione alquanto emozionante, ma complessa allo stesso tempo. Allora, intanto che la macchinetta terminasse, decisi di domandarglielo. La signora alla mia domanda alzò lo sguardo, e mi osservò dritta negli occhi, quasi come se l’avessi innervosita e dalla sua bocca non uscì altro se non queste parole “La morte può essere crudele, ingiusta, traditrice…ma solo la vita può essere oscena, indegna, umiliante.” Non dissi più alcuna parola, perché in realtà non sapevo come si rispondesse ad una frase di questo tipo. Quindi rimasi in silenzio e dato l’imbarazzo, ritornai a eseguire il mio

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compito. Coprii le tazzine di carta con un coperchio e le posi in un sacchetto, facendo attenzione a non rovesciare il caffè caldo. La signora a quel punto prese la busta, lasciò i soldi sul bancone e senza dire niente uscì dal bar. Riflettei tutta la mattina su quelle parole. Mi avevano causato grande inquietudine, ma allo stesso tempo un’estenuante curiosità. Le domande che mi posi erano innumerevoli, ma ciò che mi aveva attratto di più era il perché avesse dato una risposta così velata. Fortunatamente verso mezzogiorno arrivò Dan, sempre di corsa e come al suo solito con qualche minuto di ritardo. Pose la sua roba e in breve tempo prese il mio posto, così che io potessi iniziare la mia pausa pranzo. Nonostante Dan non fosse un uomo di molte parole, il mio desiderio di voler raccontare l’accaduto di stamattina mi spinse a rivelargli tutto. Come d’abitudine non sapevo nemmeno se mi stesse ascoltando, continuava a servire caffè e pasticcini, con la sua costante faccia totalmente assente. Dan è sempre stato una persona tranquilla, non lavora qui da tanto, infatti non conosco molto di lui. Non so cosa gli piace fare nel tempo libero, se ha una famiglia o quale sia la sua città natale. Non racconta mai di sé, preferisce rimanere concentrato nel suo lavoro. Di lui so solo che abita a pochi minuti da qui; perciò, non ho mai compreso i suoi continui ritardi. Dato che Dan non era molto di compagnia terminai il mio pranzo in silenzio col sottofondo della televisione che tenevano quasi sempre accesa. Sono di nuovo le 7 e 30 del mattino e come ogni giorno aspetto l’aggraziata signora dei caffè. La vedo avvicinarsi da lontano con passo molto rapido. Era vestita in maniera insolita, data la stagione estiva. Mi domandavo se non provasse caldo col foulard intorno al collo e con indosso quel giaccone a prima vista molto pesante. Cercavo di incontrare il suo sguardo, ma teneva la testa china e quasi sottovoce mi chiese i soliti due caffè. Non le dissi niente perché avevo compreso il suo imbarazzo. Era come se avesse paura che i miei occhi incrociassero i suoi, come in cerca di un rifugio nel pavimento o di un improbabile via di fuga. Cercavo di trattenere il bisogno che avevo di conoscere la verità, ma per non essere scortese, le consegnai la busta senza dire una parola e lei se ne andò via tenendo sempre lo sguardo basso. Sono di nuovo le 7 e 30 del mattino, ma oggi la signora dei caffè non si è presentata. Potrei pensare che sia in ritardo, ma non lo prendo in considerazione data la sua precisissima puntualità. Non credo al destino, ma non credo nemmeno sia una coincidenza, si è assentata proprio oggi che avevo deciso di parlarle. La aspettai altri minuti, ma nessuna signora dal viso angelico si presentò. Passarono ore e ancora niente, quindi decisi di rassegnarmi. Si fece mezzogiorno e di Dan non vedevo nemmeno l’ombra. Per non sentire troppo la solitudine accesi la tv, nella speranza di vederlo arrivare presto, data la fame che si faceva sentire. Speravo che la televisione mi potesse sollevare il morale, invece ciò che proiettava era la crudele morte di una bellissima donna uccisa dal marito violento Daniel Robinson. Nonostante il nome mi sembrasse familiare, non gli diedi molta importanza, storie così si sentono tutti i giorni ormai. Ma appena finii di servire l’ultimo pasticcino alla frutta della giornata, rivolsi lo sguardo verso la televisione che pronunciava testuali parole: “La donna lasciò sul letto un foglio con su scritto: “La morte può essere crudele, ingiusta, traditrice…ma solo la vita può essere oscena, indegna, umiliante”. Il piattino mi cadde dalle mani e nello stesso momento entrò Dan. Ci guardammo negli occhi, i nostri sguardi non riuscivano a staccarsi e in quell’istante capii che il momento del caffè era in realtà un imbroglio. M.M. , Classe 3E, Artistico 53


TRE ANNi DE I’GiORNALINO

Il nostro giornalino

di Margherita Arena

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Mi prendo questo piccolo spazio all’interno del mio ultimo numero come vice direttrice de I’ Giornalino per ricordare e ripercorre questa esperienza indimenticabile. Sono entrata a far parte della redazione tre anni fa scrivendo articoli sulle ultime scoperte scientifiche e gestendo gli account social. Quest’ultimo anno ho avuto la possibilità di lavorare con gli altri enti della scuola e di essere in contato direttamente, per varie collaborazioni, con personalità esterne, ma soprattutto di gestire e cercare di lasciare agli altri studenti le conoscenze che ho acquisito in questi anni e la mia passione per il progetto. Il Giornalino mi ha dato spazio per esprimere il mio interesse per un ambito spesso tralasciato, quello scientifico, specialmente all’interno del mio percorso di studi, e mi ha fatto scoprire il mondo dell’editing e del social management, non molto conosciuti, ma che mi hanno dato la possibilità di esprimere la mia fantasia e creatività. All’interno del Giornalino ho imparato cosa significa lavorare all’interno di un gruppo di persone, estremamente creative e con molta voglia di lavorare e di creare uno spazio dove poter dare voce agli studenti. Infatti I’Giornalino è il luogo dove esprimere se stessi, e parlare di vari temi, dall’attualità alle scienze, alle materie umanistiche. Nel mio percorso scolastico, che ormai sta arrivando al termine, il Giornalino è stata una parte molto importante e essenziale, mi ha dato la possibilità di incontrare molte persone, altri studenti, interni ed esterni alla scuola, ma anche personalità inserite nell’ambito culturale e non solo. Ho avuto la possibilità di essere affermate nel mondo dell’editoria e della cultura della città di Firenze. Posso dire di essere fiera, avendolo visto nascere, di ciò che I’ Giornalino è diventato. Ringrazio la redazione, la professoressa Tenducci e il professor Castellana e tutti i lettori, interni ed esterni alla scuola.


Grazie ai nostri lettori e buone vacanze da tutta la redazione! 55


CONTATTI: @i_giornalino I’Giornalino dell’Alberti Dante

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ilgiornalinodellalbertidante@gmail


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