NO. 25 I’GIORNALINO

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I’GIORNALINO NO 25 DICEMBRE 2022

Direttrice

GEMMA BERTI (VB) Vicedirettrice ELENA CASATI (VB) Redattori

LETIZIA CHIOSTRI (VB), GIORGIA VESTUTI (VB), MARIANNA BEZZENGHI (VB), MARCO BRUCIAMACCHIE (VB), RACHELE MONACO (IVB), MARCO MAGGIORE (IVB), GIOVANNI G. GORI (IVB), IRINA LIPPI (IVB), ALESSIA CALCINAI (IVB), GIADA LUCILLI (IVB), FRANCESCA SAMMICHELI (IVB), ALESSIA PICCINI (IIIA), SARA ROSSI (IIIB), DILETTA GIULIA PAPALEO (IIIB), CAROLINA TOGNARELLI (IIB), NICCOLO’ GUARNA (IIB), GIACOMO BERTI (IIB), SOFIA MORICCI (IIB), NORA CAMPAGNI (IA), GINEVRA MALAVOLTA (IA), VALENTINA GRASSI (IA), VALENTINA MANES (IA)

Fotografi

MARIA VITTORIA D’ANNUNZIO (VB) NORA CAMPAGNI (IA) Social Media

MARIA VITTORIA D’ANNUNZIO (VB) GIORGIA VESTUTI (VB), DILETTA GIULIA PAPALEO (IIIB) NORA CAMPAGNI (IA)

Ufficio Comunicazioni

ELENA CASATI (VB), SARA ROSSI (IIIB) Impaginatori

GEMMA BERTI (VB); Referenti

PROFESSORESSA TENDUCCI, PROFESSOR CASTELLANA

REDAZIONE
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INDICE PILLOLE DI ATTUALITA’ GINNASTICA: ABUSI E UMILIAZIONE…………………….…..4 LA QUARTO SAVONA 15: TESTIMONE DI UNA STRAGE…..7 LE DONNE PER LE DONNE……………………………………..8 FESTIVAL IL MAGNIFICO………………………………………12 IL SECOLO LIQUIDO…………………………………………….14 I QUEEN…………………………………………………………..18 ARTE A KM 0 CHIESA DI SANTA MARIA……………………………………..21 L’ANGOLO DELLO SPORT FORMULA 1………………………………………………………22 I MONDIALI IN QATAR…………………………………………23 RECENSENDO THE CROWN……………………………………………………..24 LE ALI DELLA LETTURA……………………………………….25 ERNANI………………………………………………………….26 CITTADINI DEL MONDO AH, LA FRANCE………………………………………………….27 PARIGI…………………………………………………………….28 QUATTRO PASSI IN GIRO PER BOLOGNA…………………..31 L’ANGOLO DELLO SCRITTORE LA BALLATA DEL RAPPRESENTANTE DI CALSSE…………33 DEMONI…………………………………………………………..34 3

Pillole di attualità

GINNASTICA ABUSI

E UMILIAZIONI

di Alessia Piccini

All’inizio del mese di novembre, lo sport della ginnastica è stato travolto da una serie di scandali: denunce che ogni giorno arrivavano, soprattutto da parte di giocatrici nazionali. A dare il via a tutto ciò sono state Nina Corradini e Anna Basta, farfalle azzurre, che hanno subito maree di offese a causa del loro peso a tal punto che una di loro, Anna Basta, ha pensato più volte al suicidio. “Ho continuato a subire offese quotidiane. Venivamo pesate in mutande e davanti a tutti.” Dichiara Nina Corradini, aggiungendo che la solita allenatrice affiancava le pesate a commenti acidi e umilianti. Nina saltava la colazione, si pesava 15 volte al giorno, comprava lassativi in farmacia, insomma, possiamo spingerci a dire che, a causa di queste infinite umiliazioni, la talentuosa ginnasta aveva sviluppato un disturbo alimentare, così come Anna, che non riusciva più a vivere bene con se stessa, non riusciva neanche più a guardarsi allo specchio.

Le due ragazze (19 e 21 anni) hanno avuto il coraggio di avviare questa serie di denunce, e così tante altre, a livelli alti o meno, le hanno seguite, scoprendo tutto il marcio che c’è dietro questo sport.

Elisabetta Rossi, donna di 40 anni, appena sedicenne era stata chiamata per entrare nella squadra nazionale italiana di ginnastica ritmica. Inizialmente entusiasta, decise poi di rinunciare a quello che era il suo sogno, a causa degli abusi e delle umiliazioni sul suo peso.

Hai sentito le ultime notizie sulla ginnastica?

Sì, e purtroppo non posso fare altro che confermare che ciò accade. Non nelle società di provenienza, o quantomeno, a me non è successo, ma quanto proprio nei centri permanenti. Ho letto stamattina un articolo di Laura Zacchilli, che ha la mia età, o forse ha qualche anno in più di me, ed eravamo insieme al centro permanente di Follonica, di cui lei parla. È stato deprimente leggere come per lei abuso e rigore vadano di pari passo, e quanto quindi sia necessario umiliare le ragazze affinché diventino brave atlete, perché lei stessa, con i suoi occhi, è stata testimone delle cattiverie subite dalle ragazze.

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Come sei arrivata al centro permanente?

Mi trovavo lì per le olimpiadi di Atene e Sidney, se non ricordo male, e stavano preparando la nuova squadra nazionale. Io ero in questo centro, che era mirato a tirar su atlete nazionali. Si lavora tutta la vita per arrivare a quei livelli, io personalmente, avevo 15 anni allora, mi sono sempre allenata tantissimo. Quando ho cominciato non avevo nemmeno sei anni, e la mia vita era totalmente incentrata sulla ginnastica. Mi allenavo ogni giorno, ho passato la maggior parte della mia adolescenza in palestra. Quindi a 15 anni fui convocata per partecipare a questo centro permanente a Follonica, che si svolgeva nei mesi estivi, e durava all’incirca due mesi. Era una specie di albergo e noi ragazze stavamo in degli appartamentini, allenandoci dalla mattina alla sera, con delle brevi pause e ogni tanto avevamo la giornata libera.

Ci racconti la tua esperienza là?

Tra coreografi e istruttori, non mancavano mai umiliazioni e anche percosse fisiche: erano infatti muniti di un bastone,che, se non eseguivi un movimento correttamente, non si riguardavano ad utilizzare, tirandolo sulla gamba o sul piede. Insomma, gesti non troppo piacevoli, che però non senti come soprusi quando già da anni sei in quell’ambiente, perché sei piccola, ma solo anni dopo ti rendi conto di quanto tossico sia stato l’ambiente in cui hai vissuto. Fortunatamente sono stata abbastanza forte da non farmi schiacciare, però ho assistito a dei comportamenti sbagliati ed io stessa ne ho fatti, anche se non era quello l’insegnamento che avevo ricevuto dai miei genitori.

Anche sul peso hai subito umiliazioni? Assolutamente sì. A colazione, sapendo di essere ginnaste, nessuna di noi faceva le cupole di cibo, pur dovendo affrontare tutta la giornata di allenamenti pesanti, ma comunque gli istruttori, con la scusa di controllare la pettinatura, passavano vicino ai tavoli e levavano il cibo dai piatti. Io ero considerata la più “in carne” di tutte, sebbene oggettivamente fossi veramente magra, perciò sono stata bersagliata tanto sul peso. All’inizio dell’allenamento, poi, tutte noi venivamo pesate l’una davanti all’altra e ovviamente a me soprattutto, ma anche ad altre ragazze, arrivavano numerosi commenti acidi sul peso. Le allenatrici si aspettavano che dall’oggi al domani riuscissimo a buttare giù peso, ma ovviamente era impossibile, o perlomeno il mio metabolismo non me lo permetteva. Ho quindi cominciato a mangiare sempre meno, e sono riuscita a dimagrire molto, ma mai abbastanza per il mondo della ginnastica. Mi ricordo ancora che mia mamma prima di portarmi al centro permanente mi aveva comprato un paio di pantaloni, stretti come andavano allora, e quando mi venne a riprendere uscivano senza sbottonarli.

I tuoi genitori si sono accorti di questo? Sì, mia mamma si preoccupò molto, infatti quando per tre giorni tornai in campeggio (era estate, e la mia famiglia era in vacanza), mi “obbligò” a mangiare moltissimo, ma io, sapendo che una volta tornata al centro sarei stata

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pesata, mi misi a fare gli addominali nel centro del campeggio, dove c’erano tutti i miei amici. A volte ho provato anche a vomitare, ma non ci sono mai riuscita, da una parte per il forte disagio che provavo, dall’altra, per fortuna, la mia famiglia era molto apprensiva e non sarei riuscita a fare una cosa del genere di nascosto.

Ti è mai capitato di mangiare di nascosto? Sì, e nonostante gli istruttori non mi abbiano mai vista, mi assaliva ogni volta il senso di colpa, perchè mangiare in questo modo è una sensazione terribile. Una volta con le mie compagne di camera uscimmo di nascosto per comprare un gelato, il Moresco, ma una volta risalite sull’appartamento ci assalì il terrore della pesata stabilita per il giorno seguente, quindi indossammo le tute in “celato”, ossia quelle fatte appositamente per espellere i liquidi, quindi dimagrire, e saltammo la corda facendo il giro per il nostro appartamento per sudare il più possibile, e fino all’indomani non toccammo un goccio d’acqua. In questo modo cercavamo di “azzerare” il peso del gelato.

Le tue compagne ti prendevano in giro per il peso?

Molto meno rispetto alle istruttrici, ma spesso sì. Quando un giorno davanti a loro prima di un allenamento mangiai una pizza, mi furono detti commenti del tipo: “eh ci credo che tu sei grassa”, “non ti lamentare se poi le istruttrici hanno da ridire sul tuo peso”, “almeno evita di mangiare la crosta” Tuttora faccio molta fatica, appunto, a mangiare la crosta.

Tornassi indietro, cambieresti qualcosa? A sedici anni ero stata chiamata per entrare a far parte della nazionale, ma ho rinunciato. Se tornassi indietro accetterei, perché ho faticato tutta l’adolescenza per arrivare a quel livello, e quando finalmente avevo raggiunto il risultato che volevo, ho abbandonato, anche un po’ per paura probabilmente. Avrei dovuto lasciare casa mia e subire umiliazioni a tempo indeterminato, non solo per i due mesi estivi. Ma ad oggi sarei stata un nome conosciuto nella ginnastica, mentre invece ora non sono nessuno. Ciò di cui sono contenta però è che ora sono una donna forte e i miei problemi legati al cibo e al sentimento di colpa sono svaniti subito, una volta rinunciato alla ginnastica, invece, chissà cosa sarebbe successo se avessi continuato. Il mio rimpianto più grande è aver abbandonato il mio sogno, ma purtroppo la vita è fatta di scelte e non possiamo tornare indietro.

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La Quarto Savona 15 testimone di una strage

23 maggio 1992. Autostrada A29. Svincolo per Capaci. Ore 17:57:48 secondi.

Un boato infrange il silenzio del pomeriggio. Il contachilometri della Quarto Savona 15 si ferma a 100.287. L’auto viene investita in pieno dall'esplosione e sbalzata dalla strada a qualche centinaio di metri di distanza. Gli agenti della scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani muoiono sul colpo. Subito dopo la seconda auto si schianta contro il muro di asfalto sollevato dalla deflagrazione. All’interno, il Giudice Giovanni Falcone e la moglie magistrata Francesca Morvillo, vengono proiettati contro il parabrezza della macchina. Gli agenti della scorta della terza auto rimangono feriti ma vivi. Arrivano i soccorsi. Il giudice Falcone morirà poco dopo, alle 19:05 in ospedale, fra le braccia dell’amico e collega Paolo Borsellino. Francesca Morvillo subito dopo le 22, durante un’operazione chirurgica. Dopo trent’anni dalla Strage di Capaci, l’Italia ricorda ancora questa tragedia: la Quarto Savona 15, nome in codice della Fiat Croma blindata della Questura di Palermo su cui viaggiavano gli agenti Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, grazie alla Polizia di Stato, percorre dentro una teca le piazze delle città italiane. L’auto rappresenta un testimone “vivente” della tragedia che, quel 23 maggio 1992, ha colpito l’Italia intera. Nei giorni dal 22 al 26 novembre si trovava esposta in piazza della Resistenza a Scandicci, per l’evento “Scandicci contro tutte le mafie”. Quelle lamiere contorte e quel contachilometri fermo sono un pugno nello stomaco che ci fa capire la crudeltà della mafia ma ci fa anche sentire parte di ciò che è successo, portandoci indietro nel tempo, fino al 1992; una sensazione molto diversa rispetto a vedere foto o leggere articoli. Suscitano rabbia, commozione, tristezza ma soprattutto voglia di lottare, per trasformare il nostro Paese in un posto migliore.

“La paura è qualcosa che tutti abbiamo. Chi ha paura sogna, chi ha paura ama, chi ha paura piange. È la vigliaccheria che non si capisce. Io, come tutti gli uomini, ho paura, ma non sono un vigliacco.”

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LE DONNE PER LE DONNE

di Sara Rossi

In occasione del 25 novembre, la giornata internazionale contro la violenza sulle donne, ho intervistato la presidente e fondatrice di Feminin Pluriel Italia, Diana Palomba. Feminin Pluriel è un’associazione internazionale no-profit, fondata a Parigi nel 1992 da Beatrice Lanson Villat, che ha l’obiettivo di riunire donne da tutto il mondo per condividere le loro esperienze e i loro progetti nel business e nell’ambito del sociale.

Com’è nata Feminin Pluriel Italia?

«Un giorno andai a Parigi per lavoro e una mia cliente mi disse che dovevo assolutamente incontrare la fondatrice di Feminin Pluriel, perché questa stava cercando una persona che portasse l’associazione in Italia e secondo lei io sarei stata perfetta per quel compito. Ad essere sincera, ero alquanto scettica sull’andare a questo appuntamento perché ho sempre creduto che queste associazioni in Italia non siano abbastanza apprezzate, però per cortesia nei confronti di questa mia cliente andai per ascoltare, sapendo già che l’incontro si sarebbe concluso lì. Contro ogni aspettativa, rimasi molto colpita dalle due fondatrici, Beatrice Lanson Villat e Marianne de Souza -ambedue purtroppo oggi non ci sono più-, due donne eccezionali. Beatrice mi raccontò la sua storia: lei era molto più grande di me e mi descrisse una Parigi diversa dalla città all’avanguardia che oggi conosciamo. Beatrice di professione era un’avvocato e ai suoi tempi quel lavoro era svolto per la maggior parte da uomini; lei, insieme ad altre sue colleghe, decise di creare quest’associazione affinché le donne affrontassero insieme le discriminazioni che subivano da parte dei loro colleghi uomini. Inizialmente credeva che queste discriminazioni fossero circoscritte esclusivamente a lavori come l’avvocato, dove c’era una maggioranza maschile, ma si accorse presto che ciò avveniva in molti più contesti, lavorativi e non. Decise così di allargare l’associazione e iniziarono a combattere contro le discriminazioni, cosa che ritengo sia una caratteristica genetica dei francesi, visto che in Francia è partita la rivoluzione e ancora oggi sono molto reattivi e combattivi. Rimasi così affascinata dalla sua storia che decisi di iniziare questa avventura. Sono partita dalle amiche più vicine, perché ricoprissero ruoli anche importanti e insieme abbiamo fondato Feminin Pluriel Italia a Roma nel 2015. Scelsi Roma come città perché spesso ci andavo per lavoro e poi perché avevo pensato che non ci fosse migliore città della capitale per collocare la sede. In realtà, mi resi conto subito che era un po’ sciocco circoscrivere l’associazione a una città; invece, ritenevo interessante creare un network professionale su tutto il territorio italiano, che permettesse di interagire con donne di diverse città in modo anche da avere maggiori sbocchi e possibilità.»

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I tempi sono cambiati rispetto a quelli in cui vissero Beatrice e Marianne, però la parità di genere, specialmente in Italia, è ancora un traguardo lontano. Lei ha vissuto sulla sua pelle esperienze di discriminazione per il semplice fatto di essere donna?

«Sì, le ho vissute sia in Italia sia a Londra, dove ho lavorato per 15 anni, e ho potuto così constatare molte differenze. Nei paesi anglosassoni esiste una parità già molto più assodata rispetto all’Italia, infatti lì le discriminazioni sull’ambiente del lavoro avvengono, però sono immediatamente colpite anche dal punto di vista legislativo. A Londra io vissi il “pay gap”: ero consulente di un’azienda, dove un mio collega, che aveva meno esperienza ed era meno qualificato di me, veniva pagato più di me e questa cosa non mi andava bene, però, invece che parlarne con l’azienda, mi sentivo “in colpa” perché avevo avuto una bambina e quindi non potevo dare la stessa disponibilità di tempo del mio collega, ad esempio non potevo fare un viaggio di dieci giorni. Ogni volta ero combattuta tra la famiglia e il lavoro, perché è chiaro che chi seguiva i clienti esteri faceva più carriera ed era pagato di più di chi poteva dare una disponibilità più limitata. Arrivai anche a sentirmi in colpa per aver avuto una figlia e a non volere altri figli perché avevo paura di retrocedere. In Italia, invece, quando tornai, provai un enorme senso di tristezza per come mi trattavano. A Londra sono diventata molto giovane l’avvocato responsabile del dipartimento Trust e gestivo molte persone e compagnie collocate in varie parti del mondo; in Italia, invece, quando andavo ai convegni venivo trattata come un’assistente di qualcuno, mi chiamavano “signorina” e mi davano pacche sulle spalle, nonostante fossero miei pari. Anche i miei clienti italiani mi guardavano quasi con sospetto e alcuni, conoscendomi, superavano questo atteggiamento, mentre con altri ci ho dovuto quasi litigare perché mi trattavano con molta sufficienza.»

Agli inizi dell’associazione questo progetto le avrà preso molto del suo tempo. E’ riuscita a trovare un equilibrio tra lavoro, famiglia, associazione e vita sociale, o ha dovuto rinunciare a qualcosa?

«Io non metto mai niente da parte, né i miei figli né il lavoro né la vita sociale che mi piace tanto; cerco sempre di fare tutto e la parola chiave per riuscirci è organizzazione.

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La presidente di Feminin Pluriel Italia, Diana Palomba (a destra) insieme a Roberta Beolchi, presidente di Edela (a sinistra).

Confesso che spesso sono stanca e quando devo organizzare un evento di Feminin Pluriel è molto impegnativo, più di quanto possa sembrare, e capita a volte che mi chieda chi me lo ha fatto fare; poi, però, mi ricordo che lo faccio per la differenza che portano i nostri risultati nella vita delle donne e dei bambini e allora ritrovo le energie.»

Tra i vari progetti ed eventi che Feminin Pluriel organizza ogni anno, a quale è più affezionata?

«Quello a cui tengo maggiormente è quello annuale perché rappresenta il coronamento di tutto il lavoro svolto, infatti in quella occasione raccogliamo la maggior parte dei fondi che ci permettono di sostenere vari progetti pienamente. Organizzare un evento charity richiede tanto impegno ed è necessario ridurre il più possibile i costi, quindi cerchiamo di svolgere il lavoro il più possibile noi; per questo lo ritengo una mia creatura che tutti gli anni ci da’ soddisfazione.»

Tra le varie associazioni che sostenete c’è Edela, che aiuta i bambini le cui madri sono vittime di femminicidio. Come ha conosciuto Edela e da quanto tempo collaborate? «La nostra collaborazione è nata sei anni fa. Conobbi la presidente di Edela, Roberta Beolchi, che è una delle nostre socie, a un pranzo e poi rimanemmo in contatto. Un giorno lessi sui suoi profili social che condivideva la questione sugli orfani di femminicidio e allora cominciai a interessarmi perché confesso che fino a quel momento non mi ero mai posta il problema che quando una donna viene uccisa molto spesso lascia dei figli. Così la chiamai e mi feci spiegare e decisi di iniziare questa collaborazione con Edela perché mi sentivo in dovere, soprattutto a livello umano, di aiutare quei bambini. Dei discorsi che mi fece Roberta mi affascinò molto l’idea chiara che lei ha di come aiutare quei ragazzini, cioè di finanziargli gli studi. Il nostro obiettivo è dare loro un sostegno sia economico, comprando ad esempio i libri, sia psicologico, perché se noi non li educassimo e gli offrissimo gli strumenti per costruirsi una propria vita, dove finirebbero? Penso che diventerebbero delinquenti e violenti poiché, avendo vissuto la violenza in casa, è ciò che hanno imparato.»

Ogni anno il 25 novembre si ricorda la violenza sulle donne, ma in Italia il numero di femminicidi, invece che diminuire, aumenta tragicamente. Secondo lei, cosa stiamo sbagliando e su cosa dovremmo lavorare per diminuire questo dato allarmante? «Secondo me, bisogna lavorare su due punti: la cultura e l’assistenza. Il cambio culturale non avviene da un giorno all’altro, bisogna lavorarci e sarei ingiusta se dicessi che non lo stiamo facendo, perché si parla della violenza sulle donne, si tratta a scuola, si cercano delle soluzioni; c’è molta più sensibilità a livello sociale, anche sui social lo noto, rispetto a prima. Invece, ci sono molti problemi da risolvere nell’ambito dell’assistenza expost e della giustizia. Un esempio è la ragazza ucraina che è stata uccisa dal compagno in questi giorni: lei aveva denunciato e due giorni dopo è stata ammazzata. Si incita sempre le donne a parlare e a denunciare, però quando le denuncie vengono veramente fatte, sono ignorate. Inoltre, bisognerebbe intervenire a livello legislativo sull’impunità perché, anche se la legge lo permette, che premio vuoi dare a un uomo che ha ucciso la compagna? Su questo piano nessuno di noi può fare niente eccetto le istituzioni, i giudici e la polizia. Noi possiamo lavorare sulla cultura, sull’educazione, possiamo dare supporto prima o dopo, ma qui devono aiutarci loro. Per questo motivo è importante parlarne, perché prima o poi, forse, qualcuno ci ascolterà.»

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In Italia la parità di genere sembra ancora lontana. Secondo lei, questa via è ancora buia o riusciamo a vedere la luce in fondo al tunnel? «Secondo gli esperti, per raggiungere la parità di genere ci vorranno ancora cento anni. Ritengo che la colpa non è solamente degli uomini, ma anche noi donne, a volte, ci facciamo andare bene tante cose e non abbiamo un’esigenza di affermare questa parità. Leggevo un fatto, a mio parere, inquietante, cioè che ultimamente sui social stanno spopolando alcune influencers molto giovani con #stayhomewithfriends, che dicono che è molto bello stare a casa e avere come unica occupazione farsi trovare belle per i propri mariti e preparargli da mangiare, facendosi così mantenere. Se questa è la mentalità di molte donne non possiamo poi dire che è colpa degli uomini che non ci danno spazio; spesso lo spazio non lo vogliamo, non ce lo prendiamo o forse non abbiamo fiducia nelle nostre capacità. Quindi la luce non so dirti se la vediamo, però ci stiamo comunque muovendo molto più velocemente rispetto al passato, perché c’è molta più consapevolezza e perché vedo che la vostra generazione ha un approccio diverso sul rapporto tra i sessi e sul valore di se stessi. Quando parlano male dei giovani, io mi arrabbio perché conosco molti giovani impegnati sul sociale, ad esempio mia figlia mi rimprovera sempre quando dico che un giocattolo è da femmina e lei mi fa notare che non esistono giocattoli per maschi o per femmine. Questa è la riprova che qualcosa sta cambiando, ma non solo sul genere, ma anche su tutto quello che concerne l’accettazione e il rispetto della diversità.»

Ultima domanda: tre parole con cui descriverebbe Feminin Pluriel. «Noi siamo donne di cuore, di testa e di azione. Bisogna fare le cose con cuore, passione, amore e dedizione, usando la ragione ma bisogna agire, rendere le parole concrete azioni. L’ordine di queste parole è questo perché il cuore è la prima cosa che ci deve essere, senza è inutile iniziare un progetto, la testa serve per poter realizzare ciò che il cuore ci dice e l’azione è necessaria perché senza questa le altre due rimangono aria, e questo vale

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Le socie di Feminin Pluriel all'evento charity di quest'anno

I giovani di oggi sono sempre più pronti a smentire i pregiudizi e i luoghi comuni li descrivono come inerti e superificiali e questo ce lo ha dimostrato Sirya Bragiotti, studentessa del PROGEAS, che a soli 20 anni ha curato un’esposizione d’arte presso il Palazzo Sforza Almeni al Museo de’ Medici, in occasione del Festival il Magnifico.

Da dove nasce il Festival il Magnifico? Il progetto è nato, in realtà, per puro caso. Io ho una profonda passione per l’arte: mi piace disegnare e condividere alcuni dei miei lavori sui miei profili social, ma mai avrei pensato di vederli esposti esposti in un museo. Il punto di svolta è arrivato quando, grazie a delle conoscenze comuni, ho incontrato Leonardo Margarito, l’organizzatore del festival, che vedendo le foto che pubblicavo ha voluto valorizzare la mia passione, così che potesse costituire un mezzo capace di avvicinare la Generazione Z all’arte e ai musei. Così, pochi mesi dopo abbiamo inaugurato il Festival.

Il soggetto delle tue opere è la famiglia più importante di Firenze, i Medici. Com’è stato entrare a stretto contatto con le personalità di questa dinastia?

All’inizio ero un po’ spaventata. La famiglia dei Medici ha una storia molto ingarbugliata e complessa: sono tanti gli aneddoti e le dicerie che si possono trovare facendo qualche ricerca. Così, ho messo insieme tutto il materiale che avevo a disposizione e ho cercato di individuare le caratteristiche, gli interessi e le passioni che potessero riassumere al meglio l’essenza di ogni personaggio. Per alcuni è stato molto facile, per altri invece ho dovuto scavare un po’ più a fondo; ma da tutti, a loro modo, sono rimasta affascinata!

Nei tuoi ritratti sei riuscita a sintetizzare attraverso oggetti, simboli, colori e frasi la personalità di ogni membro della famiglia. Ci parli di alcune delle tue opere?

Certo!

di Gemma Berti e Elena Casati
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Cominciamo da Maria de’ Medici, una donna saggia e determinata. Non a caso infatti mi sono ispirata ad iconografia anonima, presente negli archivi del museo, che ritrae la donna nelle sembianze di Atena. Maria, infatti, era una donna forte, che non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno. I colori dominanti sono il giallo, il colore del tradimento, perchè, come tutte le donne della famiglia Medici, ne subì tantissimi e il viola, in contrapposizione, che rappresenta sia l’equilibrio e la ponderatezza che la caratterizzavano che il mistero che permeava la sua vita. Dal punto di vista storico è stata un personaggio molto importante: sposata con Enrico IV di Francia, ha dato la possibilità alla sua dinastia, che non era di sangue blu, di mescolarsi con famiglie dal sangue reale.

Una donna altrettanto esemplare e alla quale dobbiamo gran parte della risonanza che Firenze ha a livello storico-artistico, è Anna Maria de’ Medici. Ce ne parli?

Sì, Anna Maria de’ Medici, elettrice Palatina, è un’altra donna che è stata fondamentale non solo per la dinastia medicea, ma anche per la nostra città. Nel 1737, attraverso ad un atto giuridico, il “Patto di Famiglia”, obbligò a lasciare al Gran Ducato l’ampissima collezione artistica della famiglia. Insomma, se oggi a Firenze abbiamo una grande ricchezza di opere d’arte è anche grazie a lei! Proprio per questa grande lungimiranza e saggezza l’ho voluta rappresentare con il terzo occhio.

Concludiamo in bellezza, con Lorenzo il Magnifico, da cui il Festival ha preso il nome. Esatto, Lorenzo è il protagonista della nostra mostra, perché oltre ad essere stato un uomo dalle grandi doti politiche, fu anche un attivo promotore delle arti, un vero e proprio mecenate. E’ stato uno dei primi a credere nei giovani e nel loro potenziale, perché vedeva nella giovinezza la stagione perfetta della vita, tanto florida quando effimera. Proprio per questo ci siamo ispirati a questo personaggio, dal quale abbiamo tratto un grande insegnamento che ci ha portati a sfruttare al meglio l’energia della nostra età per dare vita ha questo progetto. “Quant’è bella giovinezza, Che si fugge tuttavia, Chi vuol esser lieto, sia: Di doman non c’è certezza.”

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Il Secolo liquido

Con la crisi del concetto di comunità emerge un individualismo sfrenato, dove nessuno è più compagno di strada ma antagonista di ciascuno, da cui guardarsi. Questo “soggettivismo” ha minato le basi della modernità, l’ha resa fragile, da cui una situazione in cui, mancando ogni punto di riferimento, tutto si dissolve in una sorta di liquidità. Si perde la certezza del diritto (la magistratura è sentita come nemica) e le uniche soluzioni per l’individuo senza punti di riferimento sono da un lato l’apparire a tutti costi, l’apparire come valore (fenomeni di cui mi sono sovente occupato nelle “Bustine”) e il consumismo. Però si tratta di un consumismo che non mira al possesso di oggetti di desiderio in cui appagarsi, ma che li rende subito obsoleti, e il singolo passa da un consumo all’altro in una sorta di bulimia senza scopo. (da L’Espresso)

Con tali parole l’accademico, filosofo e scrittore Umberto Eco descrisse la società del XXI secolo, in un articolo della rivista L’Espresso, risalente al giugno 2015. Eco connota la società odierna con l’aggettivo “liquido”, riprendendo un concetto elaborato dal sociologo polacco Zygmunt Bauman. Tale termine può avere le più varie chiavi di interpretazione.

In primo luogo, si può affermare che connota una società individualista, come scrisse lo stesso Eco sette anni fa nell’articolo de L’Espresso. Per un motivo o l’altro, si tende a mettere in rilievo la figura dell’individuo. Ciò è riscontrabile nei diversi ambiti della società: la cultura, la politica, i prodotti di consumo e così via. Uno dei motivi dell’individualismo odierno è il principio liberista di competizione: nel mercato si guarda agli altri come avversari, non come persone con cui cooperare per il bene di tutti. Si tratta di un principio meramente economico, ma che si può vedere anche in altri ambienti: nel mondo del lavoro, nello sport, nella scuola e così via. Ma tale competizione, se portata agli estremi, può causare isolamento: le persone che ci circondano non vengono considerate più amici o confidenti, ma come avversari, elementi estranei con cui bisogna solo competere. Gli effetti di

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Umberto Eco

questa estrema competizione, derivato sociale dell’individualismo, sono riscontrabili in paesi come il Giappone, dove ha portato a fenomeni d’isolamento (es. l’hikikomori, con cui si intende la tendenza di un individuo a isolarsi nella propria abitazione – questo comportamento è stato riscontrato anche in altri paesi, tra cui l’Italia), insoddisfazione, depressione e casi di suicidio. La critica di un tale individualismo non vuol dire ovviamente contrapporvi un collettivismo esasperato. Piuttosto implica una revisione della nostra visione della società su tutti i piani, in primo luogo quello sociale, economico e politico.

L’individualismo sfrenato è riscontrabile nel mondo dei social network – che secondo lo stesso Umberto Eco, come disse poco prima della sua morte, danno diritto di parola a legioni d’imbecilli. Ogni giorno sui social circolano foto, post e altri tipi di contenuti tesi a promuovere la propria individualità: si passa dagli utenti che mettono parola su qualunque questione, agli influencer (termine con cui si indica un personaggio pubblico che fa ampio uso dei social per promuovere la propria immagine) che rendono ogni momento della propria vita prodotti da consumare e visualizzare (anche video e foto con minori).

L’individualismo sui social ha inoltre portato all’imposizione di determinati standard nella moda e nella bellezza esteriore. Si tratta, riportando le parole di Eco, di un culto dell’apparenza. Ciò ha delle conseguenze per molti giovani, che cadono vittime di bodyshaming o anoressia. Ciò non vuol dire condannare a prescindere i social, ma piuttosto sottolineare come questi vadano usati con moderazione e intelligenza.

Per quanto riguarda la politica, l’individualismo è una delle sue caratteristiche: nel mondo politico non si associa più un determinato schieramento a un’idea, a una visione del mondo, ma a un determinato leader. Certe figure politiche cavalcano quest’onda, facendo un ampio uso dei social network e di altri mezzi di comunicazione. In questo modo tali politici possono ottenere consensi tra componenti della popolazione, ma diventano le parodie di se stessi, suscitando polemiche o dando materiale di spunto per i comici o i creatori di meme. L’individualismo sfrenato di certi politici può manifestarsi in diversi modi: dal presentarsi sui social più disparati (esempio lo “sbarco” di politici quali Berlusconi, Salvini e Renzi su TikTok) alla dimostrazione di virilità (celebre è da anni il video del presidente russo Vladimir Putin che cavalca a torso nudo) e così via.

Nel XXI secolo la cosiddetta “fine delle ideologie” ha segnato (nel bene e nel male) la politica, l’opinione pubblica e la società. Durante la Prima Repubblica i diversi partiti, detti appunto “di massa”, si distinguevano per differenti visioni della società e avevano una forte presa sulle realtà locali. Esempio fulgido sono le

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cosiddette “regioni rosse”, e in particolare l’Emilia Romagna, in cui il Partito Comunista Italiano – principale forza della sinistra italiana nella seconda metà del ‘900 – era fortemente radicato. Esempio curioso è la toponomastica nelle province di Bologna e Reggio Emilia, che rievocano figure del movimento socialista internazionale, o il celeberrimo busto di Lenin a Cavriago, in provincia di Reggio Emilia. D’altra parte, in certe zone del mezzogiorno e non solo, un vasto elettorato moderato, in buona parte a trazione cattolica, si identificava nella linea centrista della Democrazia Cristiana. Ciò era dovuto da una parte al forte ruolo della Chiesa cattolica in vasta parte dell’opinione pubblica italiana, ma anche per il sistema clientelare che, tramite riforme e cessione di welfare, ha assicurato alla DC consenso anche in fasce popolari. Esempio di queste riforme è la legge 883 del 1978, erogata dall’allora Governo Andreotti, con cui fu istituito il Sistema Sanitario Nazionale.

Ad oggi invece, la morte delle ideologie – segnata fondamentalmente dalla fine della Guerra Fredda – ha determinato uno smarrimento della propria identità politicoideologica, in ogni angolo dello spettro politico italiano. Hanno così avuto spazio fenomeni quali differenti forme di personalismo e populismo, nelle loro più svariate sfaccettature. La fine delle ideologie ha reso sfumati i confini tra destra e sinistra, tanto che a volte questi schieramenti hanno posizioni affini su certe tematiche (specialmente in politica estera ed economica), mentre su altre – in primis i diritti civili – divergono.

La liquidità può anche riferirsi alla società dei consumi odierna. Tale consumismo, come dice Eco, non mira al possesso di oggetti di desiderio in cui appagarsi, ma li rende subito obsoleti. È così che gli oggetti di consumo vengono prodotti in modo da durare poco, cosicché si crei un consumo continuo dello stesso oggetto. I cellulari che usiamo sono prodotti perché siano il meno durevoli possibile. Così i consumatori sono costretti a comprarne di nuovi, in modo da rendere continuo il ciclo di consumo e produzione. Nella società dei consumi odierna ogni cosa diviene oggetto di speculazione: si guarda al profitto, non al benessere comune. Così si creano casi in cui alcuni approfittano di fenomeni di crisi per guadagnare profitti: per esempio, durante la pandemia la chiusura di determinate attività ha avvantaggiato piattaforme di commercio online – in particolare Amazon – che hanno visto aumentare enormemente i propri guadagni. La mercificazione ha fatto inoltre sì che diritti inalienabili diventassero oggetti di monopolizzazione: basti pensare al referendum in Italia per l’acqua pubblica, tenutosi nel 2011, in cui la maggioranza degli italiani si oppose mediante voto all’eventualità di affidare la gestione delle riserve d’acqua a privati. Il confine tra bene comune e merce è così diventato labile, liquido, per l’appunto. Anche la gestione di infrastrutture quali le vie di comunicazione è diventato oggetto di monopolizzazione, come nel caso dello scandalo sul crollo del Ponte Morandi a Genova.

Oggetto di mercificazione sono diventati anche battaglie politiche, anche le più legittime. Simboli di movimenti attivisti (per esempio l’organizzazione internazionale ecologista “Fridays for Future”, o il movimento antirazzista “Black Lives Matter”, attivo negli Stati Uniti) sono diventati oggetto di monopolio per vendere gadget, spille e altri prodotti. Si assiste così a fenomeni quali il black-washing (con cui s’intende la strumentalizzazione da parte di aziende della giusta lotta politica contro il razzismo), il pink/rainbow-washing (che indica invece l’uso delle battaglie per i diritti di donne e comunità LGBTQ+) e il green-washing (ossia lo sfruttamento della battaglia ecologista), con cui aziende e multinazionali si dipingono come progressiste e socialmente impegnate – anche se alcune di queste sfruttano manodopera e/o inquinano.

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In un mondo “liquido” quale quello in cui viviamo, anche i commerci e gli scambi lo sono. Grazie alla globalizzazione, infatti, gli scambi di merci tra diverse aree del mondo sono diventati intensi e rapidi. Ciò ha dei lati positivi, poiché permette di avere una maggiore comunicazione tra le nazioni del mondo, ma anche negativi. Infatti sul piano economico diverse aziende e multinazionali approfittano della globalizzazione per muovere la propria sede legale in paradisi fiscali (tra questi non si trovano solo diverse isole sperdute negli oceani o micro-nazioni europee, ma anche paesi come Irlanda e Olanda, divenute all’inizio degli anni ‘2000 sedi di centri di speculazione e investimenti di denaro) o spostare fabbriche in paesi poveri, dove la manodopera è meno costosa e più facile da sfruttare.

L’elemento più liquido della società odierna è quello dell’informazione. Nel mondo del web, le informazioni fruibili sono numerose, tanto quanto lo sono le fonti. Ciò permette di confrontare più fonti, riuscendo ad avere uno sguardo complessivo su una determinata questione e vari punti di vista da cui sviluppare un proprio pensiero. D’altra parte, rende liquido il confine di demarcazione tra notizie vere e false. È così diffuso il fenomeno di fake news (termine inglese che significa “notizie false”), non sempre facili da distinguere. La circolazione di fake news avviene attraverso la costruzione di vere e proprie notizie create a tavolino, ma anche estrapolando eventi o dichiarazioni dal loro contesto. Ciò viene fatto sia da siti privati che da giornali. Sui social le notizie diventano oggetti di consumo e si devono quindi adattare, venendo trattate in modo breve e superficiale. Si assiste quindi a utenti che trattano di materie complesse quali scienza, geopolitica ed economia, anche se non conoscono affatto – o solo superficialmente – la materia che pretendono di trattare. Su tale questione si espresse lo stesso Umberto Eco, ricevendo diverse critiche per le parole espresse riguardo ai Social Media. Il web è così divenuto un garbuglio di informazioni più o meno attendibili sugli eventi, sia presenti che passati. È in questo insieme di confusione mediatica che trovano spazio complottismo e revisionismo storico.

Il problema della liquidità del web, già di per sé preoccupante, negli ultimi due anni ha avuto un ulteriore aggravamento in concomitanza con la pandemia e la guerra: nella prima abbiamo visto circolare le più disparate teorie sull’origine del virus, nonché varie teorie strampalate sui vaccini anti-Covid; durante il Conflitto in Ucraina, d’altra parte, sono circolate da entrambe le parti (la guerra, bisogna ricordarlo, viene combattuta anche sul piano della propaganda), tese ognuna ad avvantaggiare uno dei due schieramenti (che sia la Russia o l’alleanza Ucraina-NATO). In un momento del genere, in cui il web diventa un terreno di scontro sulla propaganda, la lezione della filologia nel verificare quanto un testo sia attendibile è più necessaria che mai.

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I Queen sono una delle band più famose e apprezzate al mondo. Ciò che li rende tanto speciali è il fatto che siano uniti tra di loro non solo per comuni ambizioni, ma soprattutto da un grande affetto reciproco e questo lo possiamo notare in canzoni come “Friends will be friends” e “You’re my best friend”. Nonostante tutti conoscano le loro canzoni e le cantino a squarciagola, ben pochi sanno qual è la storia che si nasconde dietro di esse.

Killer Queen: Questa canzone è stata scritta da Freddie Mercury per l’album “Sheer heart attack” uscito nel 1974 e tradotto in italiano significa “Regina Assassina”. Freddie disse che quella canzone gli era venuta tutta in un buio sabato notte, proprio come se gli fosse piovuta dal cielo.

Il vero significato della canzone è molto diverso da ciò che si può pensare ad un primo ascolto. Lo stesso autore ha rivelato che la canzone parla di una prostituta dell’alta società, infatti Freddie voleva spiegare che anche alcune donne provenienti dai ceti più elevati, che tengono Moet & Chandon sul proprio armadietto, si prostituiscono. I Queen inizialmente erano preoccupati che questa canzone potesse avere un impatto negativo sugli ascoltatori in quanto non è il tipo di rock che ci si aspetta, ma risulta molto più sofisticata e delicata, tanto da risultare quasi pop e infatti è stata classificata nel “pop glam rock”. Ma i quattro musicisti decisero che valeva correre il rischio pubblicandola, perché loro la consideravano un capolavoro e, di fatto, ha raggiunto il secondo posto nella classifica dei singoli del Regno Unito.

Innuendo:

Nacque in modo casuale durante una jam session ai Mountain Studios. Mentre stavano suonando Freddie ebbe una illuminazione e così iniziò una registrazione dal vivo della canzone. In seguito il brano fu sistemato dai membri della band e tutti parteciparono alla composizione della canzone, ognuno lavorò ad un arrangiamento. Anche la seconda sezione della canzone nacque in modo casuale. Steve Howe si trovava nello studio di Mountain Studios e mentre sentiva le prove dei Queen la band lo invitò a

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suonare con loro con la sua chitarra acustica che diede un ritmo spagnoleggiante al brano, tanto che lo stesso Steve Howe lo definì “flamenco heavy metal”. In una intervista Brian May fa notare come il motivo spagnoleggiante si senta fin dall’inizio con dei piccoli riff che ricordano un po’ il bolero. Per “Innuendo”, ovvero “Insinuazione”, fu registrato anche un video. Però, poiché i Queen erano troppo impegnati alla registrazione del nuovo album per lavorare alle riprese, i registri fecero ricorso a due tecniche: il rotoscoping, che prevedeva che i quattro membri venissero ridisegnati, Freddie come Leonardo da Vinci, Roger come Jackson Pollock, John come Paolo Picasso e infine Brian come delle incisioni vittoriane; e il claymation ovvero una tecnica che animava la plastilina. Inoltre nel video ci sono immagini in bianco e nero di: i funerali della cantante egiziana Umm Kulthum, Seconda Guerra Mondiale, Guerra del Golfo, soldati russi in marcia, Stonehenge, balli folcloristici ungheresi, flamenco, momenti di preghiera alla Mecca e alla Vergine di El Rocìo. Purtroppo la MTV, un canale televisivo americano, censurò alcune parti del video in cui c’erano dei filmati della guerra nel Medio Oriente e questo avvenne anche in altri paesi. In questa canzone Freddie Mercury fa una critica alla follie e l’avidità con cui si regna, le tradizioni, le superstizioni e le false religioni. Inoltre fa un invito a togliersi le maschere e a vivere una vita coraggiosa così da poter essere veramente liberi.

Seven Seas Of Rhye:

Il primo album dei Queen finisce con la canzone “Seven seas of Rhye…” che è un frammento musicale di un minuto e quindici secondi. Quindi l’idea per il secondo album, “Queen II”, uscito nel 1973, era quella di iniziarlo con la canzone “Seven seas of Rhye” come a riprendere il punto da cui si erano interrotti inizialmente. Lo sviluppo delle altre canzoni dell’albulm fece pensare che fosse più adatta come brano di chiusura. La canzone ebbe grande successo nonostante la semplicità e fu la loro prima canzone ad entrare in classifica. Questo successo fu determinato anche dal loro coinvolgimento in “Top Of The Pops”, programma musicale televisivo della BBC, in cui presero il posto di David Bowie che doveva esibirsi con la sua Rebel Rebel, ma per motivi tecnici non aveva potuto consegnare il pop-promo in tempo. Questa canzone si basa sull’intento del cantante di conquistare i “Mari di Rhye”. Con Rhye Freddie intende un mondo immaginario evocato durante la sua infanzia insieme alla sorella che viene ricordato anche in altre canzoni come “My fairy king” e “Lily of the Valley”. Il cantante ha affermato che questi “Sette Mari” non rappresentano niente in particolare e che sono solo frutto della sua immaginazione. Nella canzone si possono trovare anche dei riferimenti alla mitologia greca e la Titanomachia, che narra la guerra tra Zeus e i Titani, concludendo la canzone sfidando il potente Titano e i suoi trovatori.

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Sheer heart attack

È la prima canzone in cui i Queen, essendo consapevoli di poterlo fare, si sono cimentati nello stile punk rock. La canzone è stata completamente ideata e progettata da Roger Taylor che si è occupato non solo della batteria ma anche della chitarra ritmica, dei cori e persino del basso. Non tutti i membri erano del tutto convinti di questo progetto che Roger aveva in mente dall’uscita dell’album “Sheer heart attack”, ma la finì solo due album più tardi. Brian disse che spesso non si trovava mai d'accordo con Roger e anche in quel caso fu così. Brian sosteneva che non ci fosse bisogno di una canzone punk perché in un certo modo loro erano punk fin dal principio, ma Roger era sempre attento alle nuove tendenze e voleva che quella fosse la sua canzone punk. La canzone si trasformò anche in un confronto diretto sul terreno di gioco dei rivali ovvero i "Sex Pistols", gruppo di riferimento del punk al momento dell'uscita della canzone. Si parlò molto anche di uno scontro tra i membri delle due band, tra le quali si scoprì in seguito che in realtà c'era rispetto reciproco. Oltre a Roger, anche Freddie e Brian si adattarono benissimo allo stile della canzone. Freddie si lasciò andare a balbetti, come "ina ina ina ina inarticulate", tipici del genere e Brian partecipò con un bellissimo assolo di chitarra penetrante. Con questa canzone i Queen dimostrano di essere in grado di suonare lo stile punk che, sebbene fosse ruvido, risultava comunque levigato, preciso e pulito. La cosa sorprendente però è che Roger concepì la canzone tre anni prima della nascita del punk.

Crazy Little Thing Called Love:

La canzone fu scritta da Freddie Mercury mentre era immerso nella vasca da bagno nella sua camera d’hotel all’Hilton. Mentre si stava rilassando tra le bolle ebbe un’idea, uscì dalla vasca e impugnò una chitarra. Appena la canzone fu pronta chiamò subito la band per registrarla avendo paura di scordarsela. Freddie non era molto pratico con la chitarra, conosceva pochi accordi e disse che per lui quella era una buona forma di autodisciplina perché si era ritrovato a scrivere in modo semplice all’interno di una struttura limitata. Il brano è un omaggio a Elvis Preasly, infatti si pensa che sia una cover di una canzone poco conosciuta dell’artista oppure di una incisione ripresa da un archivio. Fatto sta che aveva l’intento di suonare con uno stile anni ‘50: per questo Brian May dovette rimpiazzare la sua solita Red Special con una Telecaster, nonostante ritenesse che non fosse giusta per il suo stile. Questa canzone rimase prima nella classifica americana per un mese intero. Letteralmente il nome della canzone significa “Piccola cosa pazza chiamata amore” e rappresenta l’amore come qualcosa di incomprensibile e folle a cui è difficile approcciarsi. Ma non c’è bisogno di preoccuparsene, se soffri di pazzia d’amore puoi sempre chiamare un dottore dell’amore...(Calling Dr. Love).

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CHIESA DI SANTA MARIA

La Chiesa di Santa Maria a Novoli è un luogo di culto cattolico che si trova in via Lippi e Macia a Firenze. È una delle Chiese più importanti fra quelle che facevano parte del contado fiorentino, oggi inglobate in quartieri come quello di Novoli.

Della Chiesa di S. Maria a Novoli si hanno notizie molto antiche. È menzionata infatti in un atto di vendita del 1162 e in una pergamena del 1201 in cui è riferito che il 6 agosto, "Cum per inundationem fluminis Arni eccl. S. Maria de Nucuole diruta esset atque destructa" e non ritenendo opportuno ricostruirla nello stesso luogo, la chiesa fu riedificata su un terreno di proprietà della Pieve di Santo Stefano in Pane.

Narrano le cronache che la chiesa venne concessa in beneficio nel 1473 al filosofo umanista Marsilio Ficino, il quale in età matura aveva ricevuto gli ordini religiosi. L'edificio, nel corso dei secoli, ha subito diverse trasformazioni fino a perdere l'aspetto originario. Al suo interno sono presenti dipinti attribuiti alla scuola del Ghirlandaio e un crocifisso attribuito a Giambologna stesso. S. Maria a Novoli esercitava in passato la sua giurisdizione sulle Comunità di Novoli e del Barco. È ancora vivo il ricordo in questa gente dell'ospitalità che il parroco Don Alfonso Gori diede agli sfollati quando le retroguardie dell'esercito tedesco distrussero la Mulina e gli edifici adiacenti. A Don Gori si deve anche la decisione, presa agli inizi degli anni `60, di edificare Maria Ausiliatrice, quando fu chiaro che S. Maria a Novoli non avrebbe potuto assicurare il servizio pastorale su una comunità che era notevolmente

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L’angolo dello sport

FORMULA

Si è conclusa il 20 novembre la 72 edizione della Formula 1. Anche quest’anno non sono mancati colpi di scena: un inizio ottimo della Ferrari, con un Max Verstappen straripante a caccia di record, con un Fernando Alonso imprevedibile e molto altro ancora. Per il secondo anno di fila a vincere è Max Verstappen diventando non solo l’olandese con più partenze nella storia, ma anche il primo pilota per gare vinte in un singolo anno (15). Inoltre la freccia arancione, insieme al team RedBull, è riuscita a togliere il titolo costruttori alla Mercedes, vincitrice degli ultimi 8 anni. In questa stagione abbiamo inoltre visto superare un altro record personale, questa volta battuto da Fernando Alonso, pilota spagnolo, che è diventato il primo per giri effettuati, riuscendo a togliere il primato al finlandese Kimi Raikkonen. Per la compagine ferrarista la stagione appena terminata tutto sommato positivamente, non può che essere considerata deludente: una macchina che era partita alla grande, prevalentemente quella sotto la guida di Charles Leclerc che sin dai primi giri si pensava potesse essere l’unica a contendere il Mondiale a Verstappen; col passare del tempo la F1-75 ha evidenziato problemi al motore che l'hanno costretta in molteplici gare al ritiro. Rimanendo tra i ferraristi, la F1 saluta Sebastian Vettel, 4 volte campione del mondo tra il 2010 e il 2013, il campione tedesco aveva già annunciato a inizio stagione che questa sarebbe stata la sua ultima a bordo della Aston Martin e di tutte le altre macchine di Formula 1. Altro addio alla F1, almeno momentaneo, è quello di Mick Schumacher, figlio della leggenda Michael, che a soli 23 anni per questioni personali preferisce lasciare questa strada, ma non esclude un possibile ritorno in futuro. Una stagione divertente e appassionante che si chiude fino ad anno nuovo, quando il 5 Marzo ripartirà dal Bahrain; i primi annunci sui siti ufficiali della case costruttrici fanno ben sperare, chi vincerà lo scopriremo, ma quello che sappiamo già è che noi appassionati di motori non vediamo l’ora di metterci sul divano a vedere una nuova Partenza!

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I m ndiali in Qatar

Dopo una lunga attesa da parte dei tifosi di tutto il mondo hanno inizio i contestatissimi mondiali di calcio in Qatar,mondiali fortemente criticati sia dai tifosi sia da molti allenatori di club , i quali ritengono folle il fatto che la FIFA abbia optato per lo svolgimento di questi mondiali in inverno.

La notizia che ha sconvolto tutto il mondo però è un’altra: Più di 7000 lavoratori sono morti dal 2010 fino ad oggi per la costruzione degli stadi che avrebbero ospitato l’evento calcistico più seguito al mondo. I dati sono spaventosi infatti la media è di circa 12 morti a settimana. Nonostante le contestazioni i mondiali hanno avuto comunque inizio e le proteste non sono mancate nemmeno in campo tra i giocatori delle diverse nazionali partecipanti.

Germania

La mano davanti alla bocca è stato il gesto simbolico scelto dai giocatori della nazionale tedesca prima dell’inizio della partita contro il Giappone per contrastare la decisione della FIFA di vietare l’utilizzo della fascia da capitano “One love” di colore arcobaleno e che simbolizza la solidarietà nei confronti della comunità lgbtq+, perché in Qatar l’omosessualià è considerata un reato.

Iran

Non sono mancate le proteste anche da parte dei giocatori dell’Iran, i quali alla partita iniziale del girone contro l’Inghilterra si sono rifiutati di cantare l’inno nazionale come segno di vicinanza nei confronti del popolo che chiede maggiore libertà al regime.

Bruxelles furiosa

A seguito della sconfitta della nazionale belga contro la nazionale marocchina per 0-2 pare che nel pieno centro della capitale belga un vasto gruppo di tifosi marocchini abbia seminato il panico dando fuoco a macchine, motorini e monopattini elettrici, ciò ha scatenato l’intervento delle forze armate che hanno cercato di ristabilire immediatamente l’ordine nel centro della città. Certamente non uno spettacolo gradevole che non rende onore allo sport del calcio che da sempre cerca di essere un motivo di unione e non viceversa. Goleador

Molti in questo periodo lo hanno criticato per via del suo inizio non sensazionale nel Tottenham di Conte, ma una cosa è certa: il gol di Richarlison di rovesciata contro la Serbia è un vero e proprio gioiello da custodire e che per molto tempo verrà ricordato non solo nella storia della nazionale brasiliana ma nella storia del calcio mondiale. La punta del Brasile che fino a quel momento non aveva disputato una gran partita, ha deciso di cambiare le carte in tavola e ripagare la fiducia data dal suo allenatore(il quale all’inizio dei mondiali ha deciso di convocare lui e non il dotatissimo attaccante del Liverpool Firmino) regalando con una doppietta la vittoria alla sua Nazionale contro una squadra ostica come la Serbia dell’ex viola Dusan Vlahovic. Un altro importantissimo gol che ha cambiato le sorti di una gara ostica tra Argentina e Messico è stata la perla messa a segno dal campione Lionel Messi che con un tiro da fuori area rasoterra verso l’angolo destro della porta ha cambiato l’inerzia di una partita monotona e affrontata con atteggiamento passivo da entrambe le squadre.

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THE CROWN

Informazioni principali

The Crown è una serie TV Netflix composta da cinque stagioni che narra gli eventi della Royal Family britannica, durante il regno della regina Elisabetta II. La serie è stata acclamata dalla critica sin dal suo esordio; in particolare, sono state apprezzate le interpretazioni di Claire Foy e Olivia Colman, che hanno ricoperto il ruolo della regina nelle prime quattro stagioni, di John Lithgow nel ruolo di Winston Churchill, di Helena Bonham Carter come la principessa Margaret nella terza e quarta stagione e di Elizabeth Debicki nel ruolo di Lady Diana nella quinta stagione, specialmente per la sua impressionante somiglianza con la principessa. Complessivamente, la serie vanta numerosi riconoscimenti, tra cui sette Golden Globe e otto Premi Emmy.

La scorsa settimana è uscita finalmente la quinta stagione che ha portato la serie in vetta alle classifiche di Netflix, ma molti hanno approfittato dell’occasione per guardarla nuovamente dall’inizio.

La quinta stagione

La quinta stagione di The Crown narra in particolare del Divorzio tra Carlo e Diana con la regina interpretata da Imelda Staunton (che, per chi non lo sapesse ha impersonato Dolores Umbridge in Harry Potter). Questa stagione ha come protagonisti principalmente Diana e Carlo, ma ci sono alcuni episodi che spiegano delle backstory molto interessanti, come la storia di Dodi, un fidanzato di Lady Di, oppure la storia d’amore tra la Principessa Margaret e Peter Townsend.

Curiosità

La quinta stagione è stata la prima ad andare in onda dopo la morte della Regina Elisabetta, infatti il giorno in cui la sovrana se n’è andata le riprese si sono fermate per ventiquattro ore. Inoltre, nella serie compaiono William e Harry da ragazzini, ed è interessante notare che l’attore che interpreta William è il vero figlio dell’attore che interpreta il Principe Carlo.

Come le altre stagioni, anche questa non è stata esente da critiche, soprattutto perché accusata di discostarsi troppo dalla realtà, quindi io vi consiglio di guardarla come se fosse la storia “romanzata” della Royal Family e non una serie molto fedele alla realtà. Provate a guardarla con i vostri occhi e decidete se questa stagione è all’altezza delle precedenti!

RECENSENDO
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di Valentina Manes

Le ali della lettura

È arrivato un altro mese, e con sé ha portato una scorta di letture non indifferente. Andiamo subito a vedere tre titoli che vi resteranno nel cuore

Partiamo con "Le sette morti di Evelyn Hardcastle" di Stuart Turton, pubblicato per la prima volta nel 2018. Questo romanzo è un vero e proprio rompicapo, in grado di far entrare il lettore nella trama e di renderlo incapace di liberarsene, una trappola perfetta. La storia narra di un uomo, Aiden Bishop che dovrà risolvere il mistero dell'omicidio di Evelyn Hardcastle, ma, sfortunatamente ogni mattina si troverà in un corpo diverso. Nel frattempo, deve ritrovare la memoria perduta la prima mattina, del prima ricorda un solo nome, Anna, a cui si appiglierà per riscoprire se stesso e trovare l'assassino di Evelyn. Il romanzo non è ricco di colpi di scena, ma è un colpo di scena, una sorpresa continua. Leggerlo è come creare un grande groviglio e poi iniziare a sciogliere pian piano, scoprendo ogni volta qualcosa di nuovo. «Da capogiro... abbagliante come il finale di uno spettacolo di fuochi d’artificio». Guardian

Proseguiamo poi con "L'ultima notte della nostra vita" di Adam Silvera, pubblicato per la prima volta nel 2019. Questo romanzo è fluido e leggero, ma allo stesso tempo tratta uno dei temi più seri per l'essere umano: la morte. La storia pone l'attenzione su una domanda fondamentale: sarebbe realmente bello come sembra sapere quando moriremo? È proprio su questo che indaga il romanzo, che ipotizza un mondo dove si riceve una chiamata non più di un giorno prima di morire, dove esistono app per ultimi giorni, lapidi scelte dal morto e prove del proprio funerale. I protagonisti sono due sconosciuti, Mateo e Rufus, che appunto si incontrano su Lastfriend, un'applicazione per incontrare un ultimo amico. <<Vivere è la cosa più rara al mondo. La maggior parte della gente esiste e basta>> Oscar Wilde.

Concludiamo, infine, con "Io sono Ava" di Erin Stewart, pubblicato per la prima volta nel 2019. Questo romanzo è stato molto apprezzato dalla critica anche italiana (come testimonia il commento positivo di Alessia Gazzola e Enrico Galiano), infatti ha vinto il premio Miglior libro dell'anno (negli Stati Uniti). La storia narra di una ragazza, Ava, rimasta vittima di gravi ustioni nell'incendio che ha ucciso i genitori, che ogni giorno deve fare i conti con il suo corpo sfregiato dall'incidente, e le pressioni si fanno maggiori quando torna a scuola. Proprio qui, però, Ava incontrerà Asad, un ragazzo a cui si legherà molto e che la aiuterà a superare le apparenze. <<Niente come la presenza degli altri può guarirsci dalle ferite>> Erin Stewart

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Fuoco, azione, brevità: furono queste le parole con le quali Giuseppe Verdi, nel 1843, commentò il suo Ernani, tratto dal dramma teatrale di Victor Hugo Hernani o L'onore Castigliano che tanto clamore suscitò tra le platee della Parigi del

Probabilmente non si sarebbero potuti trovare aggettivi che meglio potessero delineare la nuova produzione, in scena dal 10 al 20 novembre, del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino: infatti l'opera verdiana in cartellone si caratterizza proprio per la sua trama un po' insolita, in cui si mescolano amore, avventura e guerra. Oggigiorno, la storia del bandito Ernani (in realtà un giovane nobile spodestato), innamorato; ricambiato; della bella Elvira, promessa sposa allo zio Don Ruy Gomez de Silva e contesa anche dal re Carlo, usurpatore del regno del padre di Ernani; sarebbe assai bizzarra (per meglio dire, anticonvenzionale) perché venga rappresentata oggigiorno. Ma non si può non rimanere indifferenti alla solennità della musica di Verdi il quale, come fu Hugo a suo tempo, creò una nuova concezione di teatro, in piena antitesi con il L'opera, la cui Prima avvenne nel 1844, sin da subito divenne molto celebre in virtù dello spirito di ribellione e amor di patria di cui il testo è impregnato in molteplici punti e che ben si confaceva allo spirito risorgimentale del periodo, di cui Verdi ha sempre saputo rappresentare la linfa nelle sue composizioni: non è un caso che il coro Si ridesti il leon di Castiglia, in quegli anni sia stato usato come allegoria della voglia di ribellione degli italiani dal dominio austriaco (in analogia al Va pensiero, che Verdi aveva composto per il Nabucco due anni prima e che oggi è considerato il brano simbolo del Risorgimento). Proprio a causa del periodo politico di grande tensione, è intelligente e riuscita l'idea del regista Leo Muscato di spostare l'ambientazione dell'Opera dalla Spagna del 1519 all'Ottocento, trasformando Ernani in un membro della Carboneria, la società segreta rivoluzionaria ottocentesca a cui, in gioventù, aderì un nome fondamentale nella Storia d'Italia quale Giuseppe Mazzini.

L'orchestra è diretta dal maestro James Conlon, uno dei direttori più famosi e gettonati degli ultimi cinquant'anni e qui al suo primo Ernani: la sua direzione è solenne, veemente e squisitamente ardente, in piena sintonia con lo spirito Verdiano. Il protagonista è interpretato da Francesco Meli, tenore di punta dei nostri giorni: il suo Ernani si caratterizza per un'aura romantica ben delineata e un fraseggio efficace, che trova il suo punto di forza nell'interpretazione dell'aria iniziale, la struggente Come rugiada al cespite. Elvira è appannaggio di Maria José Siri, che inizialmente pare non in eccellente forma vocale, per poi rifarsi meravigliosamente man mano che l'opera prosegue. Don Carlo è affidato a Roberto Frontali, il quale offre un'interpretazione misurata e riuscita di quello che, per distacco, è uno dei personaggi più complessi e ambigui non solo dell'opera in questione, ma della Lirica in generale: efficace e commovente è la sua interpretazione dell'aria Oh, de' verd'anni miei. Silva viene ottimamente reso da Vitalij Kowaljov, che ben sa rendere il carattere autoritario e rigoroso del Grande di Spagna, sia vocalmente che attorialmente. Anche i ruoli di contorno sono assegnati ad interpreti adatti, a cominciare da Davide Piva, interprete ideale di Iago, servitore di Silva. Non da meno sono Xenia Tziouvaras e Joseph Dahdah, rispettivamente nei ruoli di Giovanna e Don Riccardo, nutrice di Elvira l'una e scudiero del re l'altro.

Anche questa volta il Maggio Musicale Fiorentino non ha deluso le aspettative e ci ha offerto una produzione notevole di un'Opera che non veniva rappresentata, ormai, da molti decenni.

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di Giovanni Gori

Cittadini del mondo

Ah, la France

di Sofia Moricci

Il tempo di Natale è ormai alle porte: le città si vestono con le loro più belle ghirlande, i negozi si riempiono di luci e regali. Anche Parigi è pronta per accogliere i suoi turisti provenienti da tutto il mondo.

La “Ville Lumière”, capitale della Francia, è una delle città più celebri e importanti d'Europa, poiché rappresenta il centro mondiale della cultura, dell’arte, della moda e della gastronomia. Situata sulle rive della Senna, al centro dell'Île-de-France, la sua architettura risale al XIX secolo ed è caratterizzata da antichi boulevard. In questa città sono presenti monumenti famosi come la Tour Eiffel e Notre-Dame, cattedrale gotica. Ma non è tutto! A Parigi si possono visitare posti come Montmartre, il punto più alto che si affaccia sulla città offrendoci una vista mozzafiato; il museo d'Orsay, dove vengono custodite opere di diverse correnti artistiche, il musée de l'Armée, custode della tomba di Napoleone e il museo del Louvre che ospita alcuni dei più grandi capolavori dell'arte antica e moderna. La Place des Vosges, uno dei luoghi più belli di Parigi, edificato secondo il modello della "piazza chiusa", circondata da palazzi realizzati secondo un progetto e uno stile univoci; l'Arco di Trionfo, monumento emblematico che ospita la tomba del milite ignoto la cui fiamma è rinnovata tutte le sere e offre, inoltre, una splendida panoramica sugli Champs Élysées, uno dei viali più belli del mondo. Proprio in questi giorni di feste, questo viale è illuminato da una pioggia di stelle cadenti realizzate con creazioni artistiche tra le più fantasiose. Inoltre, lungo la strada alberata i turisti si possono immergere nell'atmosfera natalizia, passeggiando nei famosi “marché de Noël” per completare i loro acquisti e assaggiare le specialità parigine.

In fondo, il viaggio per arrivare in questa città non è così inaccessibile: meno di 2 ore in aereo con tratta Pisa-Parigi Beauvais o in treno, di notte, Firenze-Parigi Gare de Lyon in 9 ore. E allora cosa aspettate a mettervi in viaggio!

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Hugo: “Chi guarda nella profondità di Parigi ha le vertigini. Niente di più fantastico, niente di più tragico, niente di più superbo”. di

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Victor Nora Campagni
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QUATTRO PASSI IN GIRO

PER... BOLOGNA

Viaggiare non significa necessariamente raggiungere l'altra parte del mondo e, spesso, per scoprire cose nuove non c'è bisogno di andare molto lontano. Questo mese, dunque, voglio parlarvi di una delle mie città preferite in assoluto che, per mia fortuna, si trova a soli quaranta minuti da Firenze: Bologna. Bologna: “la dotta, la rossa, la grassa” ed è proprio così. Me ne sono innamorata la prima volta che ci sono stata e penso che questi tre aggettivi ne riassumano perfettamente l'identità: è infatti il luogo dove venne fondata la prima università del mondo nel 1066 (che dopo quasi un millennio è ancora uno degli atenei migliori d'Italia), il colore prevalente che si vede camminando per le strade è effettivamente il rosso (che deve davvero piacere, altrimenti rischia di venire a noia) e, infine, la varietà di cibo che si può trovare è estremamente ampia e di alta qualità per tutte le fasce di prezzo (forse, la definirei quindi di più la “ghiotta”). Un'altra denominazione che però senza dubbio le si addice è “la porticata” in quanto presenta circa 53 chilometri di portici che si snodano su tutta la superficie rivelandosi non solo molto caratteristici, ma anche estremamente utili in caso di brutto tempo! Ovviamente io non sono un'esperta di questa città, né voglio sembrare di esserlo, tuttavia terrei a condividere alcune tappe che, da visitatrice, mi sento di consigliare per permettere di assaporare al meglio l'esperienza tra queste strade, sperando di farvele apprezzare ed amare come ormai io la amo.

Dalla stazione, per arrivare nel vero e proprio nucleo della città, è possibile respirare un po' di aria pulita passando attraverso il giardino della Montagnola, un'area verde presente fin dal XVII secolo, oppure concedersi un po' di shopping (o window shopping) percorrendo via Indipendenza, una delle strade (ovviamente porticata) con più abbondanza di negozi di ogni tipo. Proprio lungo questa strada si trova anche la Cattedrale della città, San Pietro, che mi stupisce sempre per il fatto che la facciata, estremamente imponente (e ovviamente rossa) si trovi all'interno di una strada e non a dominare una piazza.

Procedendo ancora, si giunge a Piazza Maggiore, la piazza principale della città al centro della quale si può ammirare il maestoso Palazzo di re Enzo, costruito nel XIII secolo al fine di ospitare il Podestà e il Capitano di giustizia della città, ma che hi in seguito assunto il nome attuale perché Enzo di Sardegna, figlio di Federico II di Svevia, vi fu tenuto prigioniero fino alla morte. Al suo fianco è collocata la famosa fontana del Nettuno, con la statua scolpita in bronzo dal Giambologna, mentre dall'altro lato della piazza si innalza la gigantesca Basilica di San Petronio che, con i suoi 51 metri di altezza, i 60 di larghezza e la sua facciata compiuta solo per metà, pur non essendo la Cattedrale, è probabilmente considerata la chiesa la più importante della città.

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Incamminandosi all'interno dei portici sulla sinistra della Basilica, si incorre poi nell'entrata del museo Archeologico, che consiglio per venire a conoscenza di qualcosa in più sulla storia dei primissimi insediamenti della regione, e successivamente in quella del cortile dell'Archiginnasio dove, con un biglietto (e, nel mio caso, molta fila), è possibile visitare gli antichi ambienti originali, le biblioteche e il gabinetto anatomico della prima università. Andando ancora avanti non per molto, si arriva a in Piazza Santo Stefano, uno dei luoghi più gettonati per le serate bolognesi degli ultimi tempi ma, soprattutto, sede della Basilica di Santo Stefano. Conosciuta anche con il nome di “Complesso delle Sette Chiese”, consiste in un agglomerato di sette edifici sacri piuttosto diversi tra loro, ciascuno con la sua storia e la sua epoca di costruzione, incastonati l'uno nell'altro nel corso dei secoli: molto particolare è la Chiesa del Santo Sepolcro, una struttura a pianta ottagonale risalente al V secolo concepita al fine di ospitare la riproduzione unica nel suo genere voluta dal Vescovo Petronio (San Petronio) del Monumento del Santo Sepolcro di Gerusalemme. Lasciando il complesso dal lato sinistro, si intraprende la direzione di Strada Maggiore, via Zamboni e piazza Aldrovandi, dove è possibile trovare numerosi posticini in cui concedersi una sosta tra cui botteghe, tipiche trattorie e osterie, banchi di Street Food e informali locali piuttosto accessibili dal punto di vista economico in quanto vicini alla zona universitaria.

Tra queste vie, infine, si trova anche l'ultima tappa, a mio parere indispensabile, con cui concludere questo ricco e variegato itinerario, ovvero la Pinacoteca Nazionale: nata nel 1808 come Accademia delle Belle Arti, oggi ospita capolavori emiliani e non solo risalenti al Duecento, al Trecento, al Rinascimento e fino al Settecento. Attualmente è anche esposto, in speciale prestito dalla National Gallery di Londra, il celebre Ritratto di Papa Giulio II di Raffaello, intorno al quale è stata articolata una mostra di approfondimento sul Rinascimento, della quale, a mio parere, è stata una scelta davvero brillante, che mi ha fatto sinceramente emozionare, l'aver collocato il ritratto di Giulio II proprio di fronte ad un altro capolavoro (e orgoglio bolognese) dell'artista, L'estasi di Santa Cecilia.

I luoghi da me proposti in questo articolo sono ovviamente tra i più noti e visitati della città, il cui indescrivibile fascino e splendore senza tempo sono confermati dalla grande e continua affluenza di persone che vi si recano; vi aspetto però il prossimo mese per parlare anche di qualche angolo meno conosciuto e inflazionato di questa meravigliosa città!

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Basilica di San Petronio

angolo dello scrittore

La ballata del rappresentante di classe

"Filastrocca del rappresentante Una ne azzecca e ne sbaglia tante. Toccano sempre a lui (o lei, dipende) Tutti gli oneri che la scuola rende. All'assemblea, con fare sicuro Parla ai compagni, davanti al muro E come illustra il suo programma Tutti lo eleggono in pompa magna. Dopo, finite che son le elezioni, Deve imparare tante lezioni Ché, ahimè, una classe rappresentare Non è una cosa assai bella da fare. Non può mai avere un secondo di pace Deve far sempre ciò che non gli piace: Scrivere ai prof per tutti i compagni Chieder di compiti, test e programmi.

Quando si vuole, alfin, riposare Le terga a qualcuno deve parare Perché egli abbia una giustificazione Onde evitare l'interrogazione.

Dopo già un anno di rappresentanza Ecco che inizia ad averne abbastanza

E quando il mandato è alla conclusione Non ripropone la sua elezione.

Torna a far solo il normale studente Non vuole più a che far aver niente Con scocciature qual tal mestiere Che l'esistenza non fa godere.

E come osserva il nuovo eletto Dice, guardandolo, "poveretto..." Così lui torna a godersi la vita

L ‘
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DEMONI

I suoni rimbombavano ovattati, come filtrati attraverso un oceano di latte caldo. Un latte stucchevole, che invitava l'animo a lasciarsi sempre più andare ad un sonno suadente e definitivo. La realtà appariva a sprazzi, lo chiamava attraverso una cortina di ottundente rassegnazione, scemando in un monotono brusio. Si sentiva pervaso da una calma serena, una quiete che gli ricordava le vecchie mani ruvide del suo maestro. Mani spaccate dal freddo, indurite dalla tenace pratica con la spada. Eppure sapevano accarezzare con una tenerezza tale da respingere ogni preoccupazione, ogni affanno. Voleva tanto abbandonarsi a quell'abbraccio, nuotare finalmente in acque placide. Se doveva oltrepassare il velo che divideva il mondo dei vivi dall'aldilà però non voleva farlo in quel modo. Gli sarebbe sembrato di tradire il suo maestro, quegli occhi che luccicavano di fierezza nel volto solcato dalle rughe. Quello sguardo che lo aveva scrutato ora severo, ora orgoglioso, che lo aveva visto crescere. Takeshi cercò di tornare in superficie, ma come chi è stato troppo sott'acqua si sentiva bruciare i polmoni. Quando infine riuscì a captare un'immagine sbiadita di ciò che lo circondava si augurò di non essere nello Yomi (uno dei tanti aldilà giapponesi), lottando come una belva ferita per liberarsi dalla morsa del torpore. Il bosco era sparito per lasciare spazio ad un locale angusto, che puzzava di muffa. La notte era ormai scesa, calando il suo mantello di tenebra sul paesaggio spoglio. Una sparuta finestrella lasciava passare la delicata luce lunare, permettendogli di distinguere il giaciglio di paglia su cui il suo corpo giaceva pesantemente abbandonato.Sentiva i muscoli bloccati, il corpo che protestava ad ogni prospettiva di movimento. La curiosità di scoprire dove si trovasse e perché non fosse morto ebbe però presto la meglio sulle stilettate lancinanti che esplodevano in ogni punto del corpo. Con il respiro spezzato si avvicinò al basso svano incassato nella parete umida, accedendo così ad una stanza più accogliente, che sembrava avere la funzione di sala da pranzo. L'ambiente era ammobiliato modestamente, ma non mancava nulla. Ad un basso tavolino sedevano una donna e due uomini, dall'abbigliamento quanto mai singolare. Gli uomini indossavano uno scuro abito liso, stretto in vita da una corda, mentre la donna era coperta da una tonaca nera che le lasciava scoperto solo il volto.Tutti e tre indossavano uno strano pendente, che gli ispirava un senso di avversione inspiegabile. Avvicinandosi notò che i loro tratti erano fuori del comune quanto i loro abiti, soprattutto quelli della donna. Aveva gli occhi color del ghiaccio, come la Yuki-Onna. Ma era un azzurro vivo, palpitante, che gli scaldava il cuore. Le labbra color ciliegia erano rosse di vita, stirate in un sorriso rassicurante, non sfacciatamente beffardo come quello dello Yokai. Sicuramente si trattava di gaijin occidentali, ma non riusciva a capire come fossero riusciti a spingersi così nell'entroterra. Solitamente i gaijin venivano nel regno del Crisantemo per due motivi: o commerciare o cercare di esportare le loro assurde credenze in ambito religioso. Questi, dato anche il basso tenore di abbigliamento,

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sembravano appartenere alla seconda categoria. In ogni caso il nobile Ishida gli aveva ingiunto di uccidere gli appartenenti ad entrambe le categorie, in quanto gli stranieri portavano sempre e comunque solo i loro problemi da risolvere. Appariva però evidente che quei gaijin lo avessero strappato alle grinfie del demone e un samurai non poteva macchiarsi del peccato imperdonabile dell'ingratitudine. Inoltre la donna dagli occhi color del cielo lo intrigava per quel suo volto così simile eppure così diverso dagli affilati lineamenti della Yuki-Onna. Si schiarì la gola,ma fu lei la prima a prendere la parola in un giapponese abbastanza fluido: -Sono contenta di vederti camminare. La furia dissennata dell'uomo ti ha ridotto in fin di vita, ma il Signore sa essere magnanimo con i suoi figli. Sei stato trovato da un contadino abbracciato ad un albero mentre deliravi perdendo sangue, così gli uomini del villaggio ti hanno portato qui… Nella casa del Signore c'è posto per tutti. Puoi restare finché non ti sarai rimesso-. Takeshi non credeva alle sue orecchie. Gli erano giunte voci che questi gaijin fossero strani, che predicassero di aiutare il prossimo e di vivere in povertà, ma le aveva liquidate come sproloqui insensati. Ma chi, se non qualcuno che davvero professasse tali follie, avrebbe potuto accogliere un ronin (uomo alla deriva, samurai senza padrone) come lui? Si grattò confuso la nuca, scoprendo una ruvida fasciatura che gli circondava il capo. Guardò quelle mani bianche delicate, ma coperte dai segni del lavoro, che con ogni probabilità avevano medicato il suo corpo martoriato. Per la prima volta da quando era sceso in battaglia sentì la tensione smorzarsi per lasciare spazio ad un vuoto indefinito. La diffidenza iniziale mutò in una tenue accettazione, che lo portò comunque ad informarsi guardingo su dove si trovasse la sua katana. La donna gli indicò un angolo del pavimento, dove giacevano abbandonati i pezzi della sua armatura leggera e la spada. -Come ti chiami?- le chiese indirizzandole uno sguardo grato e al contempo indagatore. -Raissa- rispose lei con voce suadente.Il tono era proprio quello della Yuki-Onna, elemento che ravvivò la sua curiosità, portandolo a fissarla con intensità. L'istinto allenato del guerriero avvertì subito il cipiglio ostile dei due uomini, che dovevano essere i compagni della donna. Gli occidentali avevano proprio degli usi strani:una donna con due mariti… gli sarebbe sembrato più normale il contrario. Non considerandoli neanche continuò a fissarla, provando un disagio viscerale per l'interesse che suscitava in lui la figura. Takeshi grugnì un ringraziamento sommesso,per poi tornare nell'altra stanza. Ancora non si fidava del tutto dei gaijin. Avrebbero potuto venderlo da un momento all'altro e ne era ben consapevole. Il suo maestro non parlava spesso degli occidentali, ma non aveva mai speso buone parole nei loro confronti. La gente li definiva contorti, ipocriti e dotati di un'astuzia mendace capace di raggirare anche il più esperto dei mercanti. Gli avevano lasciato le armi, ma nella loro posizione nessuno sarebbe stato tanto folle da mettersi contro un uomo d'armi, anche se ferito. Bastava aspettare la prima pattuglia dei Tokugawa inviata a scovare i superstiti e avrebbero potuto intascare una congrua ricompensa. Certo,se avessero cercato il profitto sarebbe stato sufficiente rivendere la katana e l'armatura, abbandonandolo alla sua sorte. Takeshi era confuso, quella situazione usciva completamente dagli schemi con cui gli avevano insegnato ad analizzare la realtà. Troppi aspetti non tornavano: anche il contadino che lo aveva soccorso invece di appropriarsi delle sue armi pareva un controsenso. La zona montuosa intorno alla piana di Sekigahara non era certo ricca e con le armi di un samurai un bracciante qualsiasi avrebbe potuto mantenere la famiglia per almeno un anno. Con questi pensieri Takeshi si lasciò andare ad un sonno tormentato, vigile come quello dei felini. La mattina seguente però i gaijin non lo avevano venduto e fatto ancora più strano, nessuno degli abitanti del villaggio lo aveva fatto. Mentre divorava una parca colazione a base di riso provò a rivolgere la parola ad uno dei due uomini, ma ottenne un brontolio

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disarticolato come risposta. -No, loro sono appena arrivati dal Portogallo. Io conosco il giapponese perché sono figlia di un mercante che lavorava nella zona di Nagasaki. Loro sono qui da più di un anno ma preferiscono parlare alle persone più con i gesti di carità che con le parole… -intervenne prontamente Raissa. Continuando la conversazione Takeshi scoprì che lei e i due uomini erano una sorta di ministri del culto degli occidentali, giunti lì con lo scopo di diffondere la parola del loro dio. Mentre la ragazza si esprimeva con una vivacità che scaldava il cuore gli altri due mantenevano uno sguardo vacuo e spento, che li faceva sembrare duri di comprendonio oltre che espansivi come un blocco di roccia. Takeshi sancì che non li avrebbe uccisi solo perchè probabilmente a Raissa sarebbe dispiaciuto, ma gli ispiravano un senso di pericolo che lo portava a rimanere sempre circospetto. Nonostante fosse ancora convalescente aiutò i gaijin spaccando la legna e curando il loro orto. Una delle prime cose che il maestro gli aveva insegnato era infatti che un samurai non prendeva mai senza dare nulla in cambio, se non ai nemici. Il corpo lo ammoniva ogni tanto con fitte improvvise, ma un vero guerriero sapeva farsi scivolare addosso il dolore, assorbendolo in ogni sua fibra per fortificarsi. Arrivato a sera notò con disappunto che anche dei lavori più pesanti si occupava Raissa, mentre i due corpulenti signori limitavano i loro movimenti tra la tavola e una grossa sala con una grande croce di legno. Il nobile Ishida i gaijin li faceva crocifiggere, proprio come era accaduto in un tempo remoto al loro dio. Di fronte ad una tale indolenza peccaminosa gli riusciva difficile immaginare una pena più appropriata. I bonzi giapponesi almeno scacciavano i demoni, scioglievano le maledizioni, mentre quei due sembravano contenti di infiacchirsi nel corpo e nello spirito. Se fosse stato la YukiOnna avrebbe volentieri sgretolato i loro cuori infingardi come il ghiaccio all'arrivo delle prime brezze primaverili, per poi avventarsi implacabile su quelle anime svogliate. Il giorno seguente accompagnò Raissa a cogliere delle erbe, perché i due monaci occidentali erano troppo indaffarati nella loro nullafacenza per ritagliarsi anche solo un brandello del loro tempo. Ciò che più sconvolgeva Takeshi non era tanto che lasciassero Raissa libera di andare dove più ritenesse opportuno, ma che non si curassero affatto se lui la accompagnasse o meno. Lasciare una donna sola con un uomo d'armi praticamente sconosciuto denotava un'ingenua imprudenza, o molto più probabilmente un disinteresse viscerale. Comunque a lui non dispiaceva passare del tempo con quello che era diventato il suo unico punto di riferimento,anche perché lo aiutava a dimenticare le voci rotte dei compagni che esanimi lo imploravano di ucciderli. Ormai li aveva sognati due notti di seguito: loro lo invocavano, ma lui si defilava sempre, lasciando che le loro preghiere si estinguessero in un rantolio sommesso. Raissa avanzava lentamente, l'andatura ben diversa dalle marce a tappe forzate a cui Takeshi era abituato gli permetteva di perdersi comunque in foschi pensieri. I capelli ribelli di lei sfuggivano alle strette maglie della cuffia nera, confondendosi con i rossastri raggi dorati dell'alba. Un odore di muschio umido accoglieva il timido sole, che si affacciava all'orizzonte infuocato. Il silenzio imperturbabile del mattino era rotto solo dai loro passi cadenzati sulle rocce scabre della strada, intervallati dal battito frenetico delle sue dita sull'elsa della katana.Takeshi aveva imparato ad apprezzare la quiete con le cicatrici: infatti quando tutto taceva un orecchio allenato poteva captare anche il più tenue dei sibili di una lama nemica. Ma stavolta il silenzio gli appariva stranamente ostile: si aspettava da un momento all'altro di sentire il fischio di un nugolo di frecce affilate profilarsi all'orizzonte, oscurando il sole. Avrebbe voluto dire qualcosa, spezzare quell'incantesimo glaciale che lo faceva sentire ancora avvinto tra le spire della Yuki-Onna. Con lo sguardo stralunato accompagnò Raissa fino ad una radura fiorita, per poi abbandonarsi sull'erba trapuntata di fiori appassiti. Si sentiva confuso e stordito,ma un'idea folle gli balenò in mente.Durante l'Hanami

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(fioritura dei ciliegi) lui e gli altri ragazzi del palazzo si rotolavano nei prati,organizzando delle vere e proprie gare di velocità. L'usanza era stata proibita dal maestro dopo che uno di loro si era aperto la testa su un masso e ormai sembravano passati secoli da quei tempi spensierati. L'Hanami era ancora ben lontano e sicuramente si sarebbe inzuppato i vestiti con la rugiada mattutina, ma poco importava. Nascose la katana dentro un vecchio tronco, quindi si tuffò nell'erba folta, acquisendo velocità sotto la spinta delle membra forti. Probabilmente si sarebbe riaperto qualche ferita, ma in mezzo a quella realtà ostile che sembrava opprimerlo da ogni lato cercava ossessivamente una parvenza di appagamento, anche effimero. L'aria gli scivolava rapida addosso, avvertiva i sassolini aguzzi, gli steli d'erba secca che gli pizzicavano la pelle del volto. Accelerò ancora, sussultando per un acuto grido improvviso. Prima che potesse rendersi conto della situazione impattò su una superficie morbida e dura al tempo stesso,che emise un lamento soffocato. Si alzò di scatto, trovando ai suoi piedi Raissa stordita che annaspava, cercando di liberare il volto dal velo che si era ripiegato su sé stesso. Le gambe affusolate di lei scalciavano l'aria come per colpire un nemico invisibile e le mani fangose cercavano febbrilmente di far riemergere gli occhi alla luce. -Dovrei aiutarla-pensò tra sé Takeshi, ma le sue forze erano impegnate a soffocare la risata fragorosa che gli pressava la gola. Quando però lei si strappò il velo con veemenza mostrando i capelli arruffati e lo inchiodò con uno sguardo al limite tra l'irato il confuso Takeshi esplose in una serie di suoni gutturali. Più provava a contenersi,più rideva. Raissa era visibilmente interdetta, ma riuscì a racimolare il fiato necessario per chiedergli con un sorriso: -Ma quanti anni hai? -Lui subito rispose piccato: -Diciassette. Ti sembro un bambino? E tu non mi sembri poi tanto più vecchia di me-. -No, ma almeno di anni ne ho diciannove- sogghignò lei tutta contenta- e non travolgo il mio prossimo con la scusa di accompagnarlo-. Takeshi cominciò a mordicchiarsi l'interno della guancia, sentendosi punto sul vivo. Ma non ebbe il tempo di mettere a punto una controffensiva efficace, perché la ragazza lo ghermì alle gambe, facendolo rovinare al suolo. Un guerriero non avrebbe mai dovuto abbassare la guardia, si era fatto raggirare come un bimbo inesperto. Gli facevano male i polmoni per le risate di prima, ma l'orgoglio di samurai pretendeva che l'onta venisse lavata con il sangue. Così avvolse le braccia robuste alle spalle di lei, imprimendole un moto rotatorio con il bacino verso il dolce declivio a lato. Ma Raissa lo arpionò con una stretta vigorosa che ben poco aveva di femminile, trascinandolo giù con lei. Guadagnarono più velocità di quanta Takeshi avrebbe creduto, per fortuna quella zona era abbastanza sgombra da massi di grande dimensione. L'impavido samurai reduce dalla battaglia era attenagliato dal terrore, attonito, mentre la giovane sembrava muoversi in un ambiente a lei familiare. Scoccava di tanto in tanto all'indomito guerriero occhiate di scherno neanche minimamente celato, che acuivano in lui l'asprezza dell'umiliazione. Quando finalmente si fermarono su uno spazio pianeggiante Takeshi rivolse uno sguardo carico di risentimento alla sua carnefice. Ma era difficile serbare rancore a quella figura ricoperta di terra da capo a piedi, che cercava di darsi un tono guardandolo con aria di distaccata superiorità. E intanto in quella chioma scompigliata aveva raccolto l'intero sottobosco. -Guarda che di ragazzi come te ne ho gestiti tanti. A Nagasaki tentavano quasi ogni giorno di lanciarmi in mare ed ero io a far schiarire loro le idee con un buon bagno salato- asserì lei tronfia, mentre cercava di riacquisire un contegno dignitoso. Più che una ragazza sembrava uno di quegli scavezzacollo che passavano ad accattare gli avanzi dalle cucine di palazzo. Risalirono piuttosto agevolmente la china, quindi Takeshi la aiutò a raccogliere delle erbe che da soldato aveva sempre calpestato come insignificanti. -Ma a che serve quest'insalata?- chiese quando cominciò ad avvertire il dolore penetrante delle

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ferite recenti che si lamentavano per le prodezze di poco prima. -Un bambino del villaggio ha la febbre-E come sai quali erbe devi prendere? -Mio padre era un erborista e si occupava di commercio al dettaglio di spezie, ma mi ha insegnato tutti i trucchi del mestiere- Takeshi aggrottò la fronte:un commerciante di spezie… quindi un uomo facoltoso. -Ma perchè hai deciso di servire il tuo Dio se tuo padre poteva benissimo pagarti la dote per un marito ricco?- Raissa non rispose subito, ma lo guardava con un malcelato risentimento negli occhi. Chissà come mai. Alla fine replicò con un sospiro rassegnato: -Mio padre doveva tornare in Europa, dove è sposato con una donna diversa da mia madre, che era giapponese. Mi ha avviato alla carriera monastica attraverso alcuni suoi contatti, così che non mi mancassero mai cibo e un tetto sopra la testa. Ma tu, oltre a menare fendenti su un campo di battaglia, hai mai parlato con qualcuno che non fossero i tuoi compagni bestie come te? -Takeshi era perplesso, ma decise di andare a recuperare la sua arma mentre cercava di capire cosa avesse detto di sbagliato. Dovevano sbrigarsi a tornare al villaggio, anche perché erano partiti all'alba e il sole ormai era già alto in cielo. Sicuramente i due pingui monaci si sarebbero preoccupati se nessuno avesse preparato loro la colazione. Man mano che si avvicinavano in silenzio al villaggio Takeshi sentiva un inspiegabile senso di angoscia crescergli nel petto, il timore incondizionato che bracca le prede. Raissa si era chiusa in un silenzio pensieroso e torturava con i denti bianchi lo stelo di una spiga di piantaggine. Dal villaggio lontano sembrava levarsi un tenue refolo di fumo, ma nessuno di loro due decise di dargli peso. La stagione non era ancora pienamente invernale, ma già i venti erano abbastanza freddi da penetrare nelle ossa. Così i contadini cercavano di scacciare con scarso successo il gelo dai loro tuguri con il fuoco scoppiettante che rallegrava gli irori (sorta di caminetti incassati nel pavimento). In quel periodo inoltre si terminava di potare gli alberi da frutto e le potature, raccolte in grandi mucchi, venivano bruciate, sprigionando una grande quantità di vapore a causa dell'elevata umidità. Perciò sarebbe stato ridicolo allarmarsi per un po' di fumo per chiunque fosse un minimo avvezzo ai ritmi della vita rurale. Man Mano che si avvicinavano a quella che Raissa definiva la casa di Dio però la sensazione di disagio si acuì per entrambi. Il fumo che da lontano era sembrato un filo sottile si dipanava in nembi minacciosi e incupiva i flutti tumultuosi del cielo come gocce d'inchiostro. Un odore acre di bruciato assaliva le narici assuefatte all'aria fresca di montagna provocando singhiozzi convulsi. Takeshi si girò inquieto verso Raissa e la vide accelerare il passo,uno strano bagliore negli occhi. Adattò l'andatura alla sua, anche quando la vide tirarsi su la veste e cominciare a correre. Sentiva le già precarie certezze implodere, accompagnate dal ritmo irregolare dei calli sbattuti sulla pietra. Quando arrivarono all'ultima curva che separava la chiesa dai loro sguardi impauriti, Raissa era paonazza, il respiro franto per lo sforzo. Le tremava il labbro, spalancato nella ricerca spasmodica d'aria, il petto si agitava impazzito, come se stesse per deflagrare con un tuono roboante.Takeshi non si capacitava di come potesse correre sepolta in quel sarcofago di vesti lunghe, ma d'improvviso il flusso dei pensieri si arrestò di fronte alla realtà, che si impose con prepotenza efferata. Il tetto di canapa intrecciata della chiesa era rovinato al suolo, della capanna rimaneva solo lo scheletro di assi avvinto dalle fiamme dirompenti. In tutto il terreno circostante l'incendio promanava un calore insopportabile, assediando gli arbusti secchi vicini alla costruzione.Takeshi sentiva la sua stessa carne bruciare, quella stessa carne che era scampata non troppo tempo prima alla morte glaciale della Yuki-Onna. Fuoco e ghiaccio, nulla di più diverso. Eppure tutti e due potevano strappare la vita, con la freddezza spietata che solo elementi imperituri potevano avere,dall'alto della loro esistenza senza fine. Invece Takeshi come Raissa un giorno sarebbe morto,

seguendo i compagni che lo avevano preceduto. La frustrazione gli faceva conficcare le unghie nella pelle dei palmi, fino a farli sanguinare, l'impotenza alimentava una rabbia cocente. Tokugawa, il ghiaccio, il fuoco. Li avrebbe sterminati tutti, avrebbe rovesciato quelle divinità che sembravano irraggiungibili dai loro troni alteri. Voleva vivere, ma soprattutto voleva che chi aveva fatto strazio dei suoi benefattori e della sua vita cascasse nella polvere, assaggiasse il ferro incandescente di un annullamento prostrante. Raissa singhiozzava accartocciata su sé stessa come un cane bastonato. I gemiti acuti di lei erano come olio sulle braci ardenti del suo animo, che cercava un colpevole su cui riversare l'ira atavica. Con fatica individuò due soldati che venivano verso di loro dai bassi pini che circondavano la radura. La luce delle fiamme danzava sui loro volti coperti di sudore, rivelando due figuri insignificanti. I loro lineamenti rozzi erano deformati da un sorriso cattivo, sovrastato da occhi piccoli e neri obnubilati dal desiderio. Bassi, tozzi, le gambe storte, ma soprattutto una casacca di cuoio con i petali dello stemma Tokugawa. Soldati semplici, sicuramente feccia. Takeshi con un sibilo liberò la katana dal fodero, piombando come un avvoltoio sui due malcapitati. Aveva la mente stranamente sgombra da pensieri, come ormai non gli succedeva da prima della battaglia di Sekigahara. La tensione lasciò spazio all'abitudine di un addestramento inflessibile, sostenuto dalla voragine di un odio insondabile. Uno dei due, che sembrava il più sveglio, cercò di colpirlo alla gola, ma lui lo evitò scartando di lato. Era ormai abituato alla danza mortale della battaglia e quei due mostravano un'inesperienza quasi commovente. Gli occhi di Takeshi ardevano, eppure erano anche due pezzi di ghiaccio affilato mentre calibrava il colpo con entrambe le mani. La testa del primo esplose in un fiore purpureo, mentre l'altro cercava disperatamente di defilarsi. Ma Takeshi lo seguiva con sguardo di demone, mentre voltava le spalle al compagno ormai esanime. Gli sembrava di sentire la voce della Yuki-Onna che lo chiamava, come aveva fatto nel deserto di ghiaccio illusorio. Ormai non temeva più neanche la morte che trafigge le ossa, avrebbe affrontato qualsiasi conseguenza per distruggere i suoi nemici. Ruotando su sé stesso infisse la lama nella schiena del fuggiasco fino all'elsa. Mentre quel corpo senza vita si abbandonava sull'erba disseccata dalle fiamme vicine il sangue caldo cinse il braccio del samurai che distese le labbra in un sorriso folle. Provava una gioia feroce, perché da preda era divenuto cacciatore. Da animale braccato aveva sbranato il tronfio inseguitore. Intorpidito dal delirio di onnipotenza non sentì però il fischio acuto che proveniva dalle fitte fronde degli alberi.

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