NO. 28 I’GIORNALINO

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I’GIORNALINO

NO 28 MARZO 2023

REDAZIONE

Direttrice

GEMMA BERTI (VB)

Vicedirettrice

ELENA CASATI (VB)

Redattori

LETIZIA CHIOSTRI (VB), GIORGIA VESTUTI (VB), MARIANNA BEZZENGHI (VB), MARCO BRUCIAMACCHIE (VB), RACHELE MONACO (IVB), MARCO MAGGIORE (IVB), GIOVANNI G. GORI (IVB), IRINA LIPPI (IVB), ALESSIA

CALCINAI (IVB), GIADA LUCILLI (IVB), FRANCESCA

SAMMICHELI (IVB), ALESSIA PICCINI (IIIA), SARA ROSSI (IIIB), DILETTA GIULIA PAPALEO (IIIB), CAROLINA

TOGNARELLI (IIB), NICCOLO’ GUARNA (IIB), GIACOMO

BERTI (IIB), SOFIA MORICCI (IIB), NORA CAMPAGNI (IA), GINEVRA MALAVOLTA (IA), VALENTINA GRASSI (IA), VALENTINA MANES (IA)

Fotografi

MARIA VITTORIA D’ANNUNZIO (VB)

NORA CAMPAGNI (IA)

Social Media

MARIA VITTORIA D’ANNUNZIO (VB)

GIORGIA VESTUTI (VB), DILETTA GIULIA PAPALEO (IIIB)

NORA CAMPAGNI (IA)

Ufficio Comunicazioni

ELENA CASATI (VB), SARA ROSSI (IIIB)

Impaginatori

GEMMA BERTI (VB);

Referenti

PROFESSORESSA TENDUCCI, PROFESSOR CASTELLANA

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INDICE MUSICANDO MR RAIN E I SUOI SUPEREROI……….…………………….…..4 LA FINTA SEMPLICE……………………………………………..5 JEFF BUCKLEY……………………………………………………7 MAITRE GIMS……………………………………………………..9 SANREMO 2023..…………………………………………………10 LED ZEPPELIN…………………………………………………..12 L’ANGOLO DELLO SCRITTORE DANCER LOVERS……………………………………………….14 DEMONI………………………………………………………..…17 TRA I BANCHI DI SCUOLA UN GIOVANE CHE AMA FANTASTICARE…………………….28 ARTE A KM 0 LA FINESTRA SEMPRE APERTA..………………………..……31 MUSEO DEGLI STRUMENTI MUSICALI …………………….32 MOSTRA “OLAFUR ELIASSON: NEL TUO TEMPO”…………35 IL CONTROVERSO ALLESTIMENTO DELLA GALLERIA NAZIONALE DI ARTE MODERNA A ROMA…….……………36 FOTO………………………………………………………………38 RECENSENDO LE ALI DELLA LETTURA.……………………………………...42 IL PROCESSO, KAFKA…………………………………………..44 3

“MR RAIN E I SUOI SUPEREROI” IL BRANO CHE SCALA LE CLASSIFICHE

Mattia Balardi, alias Mr Rain, è un rapper e un produttore discografico bresciano con all’attivo 700 milioni di streaming, 13 dischi di platino e 5 d’oro.

Ha iniziato la sua carriera nel 2011 ed ha pubblicato hit come “Fiori di Chernobyl”, “Meteoriti” e "Carillon".

Quest’anno è salito per la prima volta sul palco dell’Ariston con “Supereroi”, grazie al quale si è aggiudicato il terzo posto del podio.

Fin dalla sua prima esibizione, il brano “Supereroi” ha conquistato il grande pubblico, scalando e continuando a scalare tutte le classifiche ed è già disco d’oro.

Si è esibito sul palco dell’Ariston con un coro di otto bambini che studiano musica all’istituto Modern Music Institute di Vallecrosia

(Imperia): Mia Mauro, Seymur Postu, Alessandro Mora, Miranda Barbantini, Davide Passante, Camilla Mossutta, Noemi Taggiasco e Pierluigi Puglia, che hanno commosso ed emozionato diverse generazioni, dai più piccoli fino ai più grandi.

Grazie al successo sempre crescente, il brano si trova ai vertici di tutte le classifiche: è al terzo posto della Global Chart di Spotify come singolo di debutto, nella Top 100 della stessa Global Chart, ai vertici delle classifiche di Spotify Italia, Amazon Music, Apple Music e iTunes, nonché il brano più ricercato su Shazam e la canzone di Sanremo più popolare su TikTok.

È inoltre uno fra i pezzi più trasmessi dalle radio e il video ha superato le 9 milioni di visualizzazioni.

Il brano è arrivato perfino nella parrocchia di San Nicola di Bari a San Pietro a Maida in Calabria, dove il parroco don Andrea ha cantato "Supereroi" durante la messa, suonando la chitarra, con l'accompagnamento delle voci dei giovani chierichetti.

Come ha dichiarato Mr Rain la sua canzone è ispirata ad una storia personale, commovente, di solitudine ma, come ha dichiarato:

“L’importante è accettarsi e mostrare le proprie insicurezze, con l’innocenza che abbiamo da bambini”

Mr Rain

Musicando
di Valentina Grassi
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LA FINTA SEMPLICE

La stagione di Carnevale del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino si è aperta con la messa in scena de La finta semplice, opera composta nel 1768 da un Wolfgang Amadeus Mozart poco più che dodicenne e mai più rappresentata dopo la Prima assoluta (salvo qualche incisione discografica).

Per l'occasione, l'orchestra si è spostata al Teatro Goldoni di Firenze: scelta indovinata, in quanto l'opera ricalca molto lo stile delle commedie degli equivoci tipiche da portare in un teatro ampio ma di dimensioni ridotte.

La regia, firmata Claudia Blersch, riesce perfettamente a mescolare trovate del teatro settecentesco con alcune libertà dei giorni nostri: per cui l'atmosfera originale non viene tradita ed è preservato l'effetto comico che avrebbe sicuramente potuto suscitare in uno spettatore del settecento.

L'orchestra è stata diretta con la giusta grinta da Edoardo Barsotti in seguito all'indisposizione di Theodor Guschlbauer; il quale aveva diretto le prime due rappresentazioni.

Il cast, come spesso avviene, si dimostra indovinato sia da un punto di vista vocale che attoriale: per prima va menzionata Benedetta Torre nei panni di Rosina; la "finta semplice" a cui allude il titolo dell'opera: voce ben proiettata e di ampio volume, riesce perfettamente a rendere la personalità astuta e civettuola del personaggio. Il bassobaritono Eduardo Martinez Florez riesce a disegnare in modo convincente un Don Cassandro sospettoso, veemente e spaccone ma all'occorrenza anche piacione e ridicolo.

Luca Bernard nel ruolo di Fracasso delinea un'aurea romantica ben strutturata e una linea di canto che lo potrebbe portare a breve a fare una lunga strada nel repertorio belcantista.

Xenia Tziouvaras è una Giacinta romantica e preoccuopata al punto giusto, mentre Rosalia Cid offre una Ninetta di voce salda, con un'interpretazione opportunatamente

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frizzante. Lorenzo Martelli su Don Polidoro è, semplicemente, irresistibile: il giovane tenore è in possesso di una voce duttile e squillante, attraverso la quale contribuisce a rendere ancora più divertente il patetico personaggio che interpreta, un ragazzotto ingenuo e vigliacco.

Di singolare importanza è la storia della nascita di quest'opera, la quale, a quanto sembra, fu commissionata dall'imperatore d'Austria Giuseppe II in persona a un Mozart del quale, già a dodici anni, era universalmente nota la fama di enfant prodige e che già si dimostra il genio musicale che tutti conosciamo: per molti versi quest'opera può essere considerata un'anticipazione sul versante musicale dei Capolavori che ci offrirà negli anni ottanta del settecento con la collaborazione di Lorenzo da Ponte per il libretto (Le nozze di Figaro, Don Giovanni,Così fan tutte) e molti elementi di queste opere, tra le più note in assoluto di Mozart, possono essere riscontrati nella FInta semplice anche nella trama: ad esempio, il perdono finale ricorda molto (ma senza la solennità quasi religiosa del caso) la conclusione delle Nozze di Figaro.

Il libretto, generalmente attribuito a Carlo Goldoni, in realtà è di Marco Coltellini; il quale riadattò un testo di Goldoni; testo che, successivamente, venne musicato da Mozart: è comprensibile l'equivoco che attribuì per molto tempo il libretto all'autore de La Locandiera, giacché l'intreccio dell'opera presenta numerose analogie con quelli tipici dei capolavori del commediografo veneziano, specie nella caratterizzazione dei personaggi.

Anche stavolta, insomma, siamo di fronte a uno spettacolo più che gradevole da parte del Maggio.

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Jeff Buckley

di Valentina Manes

Anche se fino a questo momento questa rubrica ha trattato solo di artisti facenti parte del “27 club” oggi vorrei fare un’eccezione: vorrei parlare di un artista, infatti non deceduto a 27, anni, bensì a trenta, e forse meno conosciuto di altri: Jeff Buckley. Partiamo con una biografia: Jeff nacque nel 1966 in California, figlio del famoso cantautore Tim Buckley e della violoncellista Mary Guibert, ma ancora prima della nascita di Jeff, il padre la abbandonò, così Jeff visse la propria infanzia con la madre ed il patrigno, che, come ha dichiarato Buckley, ha contribuito molto alla crescita musicale del ragazzo. Jeff Buckley crebbe circondato dalla musica, soprattutto grazie alla madre ma anche al patrigno, che lo introdusse ad artisti come i Queen, i Led Zeppelin o i Pink Floyd. Jeff così a 12 anni decise di diventare un musicista, e ricevette in dono la sua prima chitarra. Negli anni seguenti si iscrisse al Guitar Institute of Technology, che poi definì “la più grande perdita di tempo. Nella seconda metà degli anni ’80 si appassionò a diversi generi quali il blues, il jazz, il rock e l’heavy metal, e fu introdotto anche al qawwali, una musica religiosa pakistana.

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Dopo la morte del padre a causa di un’overdose, si esibì ad un concerto in sua memoria, e da lì cominciò la sua carriera musicale. Cominciò a comporre insieme al suo chitarrista Gary Lucas e pubblicò così il suo primo album nel 1993, “Live at Sin-è”. Il suo secondo album, e il più importante, è Grace, definito da Jimmy Page “il mio disco preferito del decennio” e da David Bowie come uno dei dieci dischi che avrebbe voluto portare con sé su un’isola deserta. Il disco divenne disco d’oro in Francia, Australia e Stati Uniti e per sei volte disco di platino in Australia. Sicuramente le più belle canzoni sono Grace che dà appunto il nome al disco, e Hallelujah, che tutti noi abbiamo sentito almeno una volta, ma non molti sanno che questa canzone è stata scritta proprio da Jeff Buckley.

Dopo la pubblicazione di Grace, Buckley fece un tour in diversi paesi europei, negli Stati Uniti ed in Australia, e successivamente iniziò a comporre brani per il suo novo album: Sketches for my Sweetheart the Drunk che purtroppo rimase incompiuto a causa della sua morte prematura, avvenuta nel 1997, mentre si stava dirigendo verso gli studi di registrazione a Memphis. Durante il tragitto, Jeff chiese al suo autista di fermarsi perché voleva fare una nuotata nel Wolf River lì accanto, un affluente del Mississippi, dato che lo aveva già fatto in precedenza, e si immerse completamente vestito. Jeff probabilmente annegò a causa di un gorgo creato dal passaggio di un traghetto.

Un’autopsia successiva al ritrovamento del corpo rivela che Jeff non era sotto l’effetto di droghe o alcool, anzi: era completamente lucido. Jeff Barkley, quindi, era deceduto a solamente a causa di un incidente, a differenza di molti altri cantanti dell’epoca, morti a causa di eccesso di alcool, droga o per suicidio.

Venne definito da Bono degli U2 “una goccia pura in un oceano di rumore”.

Personalmente penso che Jeff Buckley sia un artista molto sottovalutato, e la sua ispirazione ad artisti di generi molto diversi fra loro, come Edith Piaf, la sua idola, Nina Simone, Billie Holiday, Judy Garland o Nusrat Fateh Ali Khan, ha contribuito molto alla costruzione di un musicista molto capace e originale.

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Maitre Gims

Nella Repubblica Democratica del Congo si verificano moltissime migrazioni, per varie ragioni come conflitti comunitari, violenze politiche, emergenze sanitarie.

Molte persone hanno affrontato viaggi molto lunghi e pericolosi al fine di trovare un posto sicuro dove poter vivere. Tra coloro che hanno affrontato l’intero tragitto dal Congo alla Francia, c’è un famoso rapper e produttore discografico, Gandhi Bilel Djuna, noto con lo pseudonimo di Maitre Gims. Nasce da una famiglia cristiana, ma nel 2004 si converte all’Islam. E’ sposato ed ha 5 figli. Parte dal suo paese natale, Kinshasa, all’età di 2 anni, da clandestino, vive in affido presso alcune famiglie fino al compimento della maggior età. Gims proviene da una famiglia di musicisti: suo padre faceva parte della banda di Papa Wemba e i suoi due fratelli sono rapper. E’ sempre vissuto a Parigi, ha scelto il suo nome d’arte Gims quando aveva cominciato a fare rap alle scuole superiori, aggiungendo più tardi Maitre. Con il Sexion d’Assaut, gruppo hip hop francese composto da vari membri, pubblica numerosi album che lo rendono famoso. Nel maggio del 2013 pubblica un album di debutto da solista Subliminal, raggiungendo un successo internazionale; nello stesso periodo lancia la sua prima collezione di abbigliamento Vortex, lanciando anche la sua etichetta discografica MMC. Nel 2015 con il singolo Estce que tu m’aimes?, contenuto nel suo secondo album da solista Mon coeur avait raison, diventa molto famoso anche in Italia, a tal punto da vincere nel nostro paese un disco di platino, e da essere invitato come ospite al Festival di Sanremo nel 2016 dall’allora conduttore Carlo Conti. Dopo la sua esibizione all’interno della prima serata, c’è stato un simpatico siparietto tra il musicista e il conduttore, il quale chiedendogli di togliersi gli occhiali, ha avuto come risposta un: “No, sono timido!” In realtà è noto che il rapper francese preferisca tenere le sue “lunettes” in pubblico, in modo da “separare” la sua vita privata dalla notorietà pubblica. Collabora anche con il rapper statunitense Pitbull nel 2013, all’interno dell’album “Subliminal” e con il musicista belga Stromae, quest’ultimo già noto agli ascoltatori italiani per esser stato in vetta alla classifica degli ascolti nel 2010 con “Alors on dance”. Maitre Gims è un esempio per le nuove generazioni di integrazione riuscita, e con il successo da lui raggiunto dà più speranza ai migranti che sperano in una vita migliore.

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Il Festival della canzone italiana, è un festival musicale che si tiene ogni anno in Italia a partire dal 1951. A questo festival hanno preso parte, nel corso degli anni, molti dei personaggi più noti della musica e della scena italiana: ogni anno infatti il palco dell’Ariston ci propone una sintesi dei principali eventi mediatici, politici e sociali italiani. La 73esima edizione del Festival della canzone italiana, come già da prima del suo inizio si poteva intuire, si è rivelata ancora una volta un corredo di polemiche e provocazioni.

“Chi vincerà Sanremo 2023?”. E’ stata sicuramente questa la domanda più gettonata dalle menti dei telespettatori italiani prima e durante il festival, davanti ai televisori. Sono stati migliaia i commenti sui social e varie pagine virtuali e cartacee a tentare di individuare quello che secondo loro sarebbe stato “il simbolo” della canzone italiana. certamente però, a livello mediatico, non sono mancate neanche le critiche, riguardanti le canzoni, le esibizioni e gli interventi delle celebrità italiane. Sicuramente in questa edizione non c’è stato niente di nuovo rispetto alle altre, poiché da anni ormai, tutto ciò che succede viene messo sotto i riflettori. Infatti già nel 1978 Rino Gaetano come sempre avanti anni luce rispetto sicuramente ad altre persone, scelse di portare sul palco dell’Ariston i commenti degli italiani sul divano, con un coro greco di persone normali, a cantare: "Ma chi sei? Ma che vuoi? Ma che

di Eva Conforti
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fai, con chi ce l’hai?". Oggi i commenti avvengono sui social, ma lo schema è lo stesso di qualche anno fa. Sanremo è Sanremo ormai da più di settant’anni, ed è già scritto prima di ogni edizione che in quei giorni tutta l'attenzione mediatica debba lasciare in sospeso i problemi che affliggono il mondo e l’Italia e concentrarsi su ”Sanremo”. Ogni anno inoltre, viene ricercata la visibilità, magari facendo condurre il Festival a persone che per qualcuno sono un modello dal quale prendere esempio. Tutto a Sanremo sembra dover incidere la pelle della società. Tutto deve lasciare il segno e sembra averlo lasciato anche quest’anno, vista l’attenzione mediatica che ancora una volta gli è stata data. Sanremo, rappresenta una sorta di specchio della nostra società. Infatti, oggi per allenare il sentimento collettivo sembriamo tutti avere bisogno di Sanremo. Capita infatti di vedere il processo di una società fondata sul consenso del popolo, dove è necessario abbassare il livello per avere la maggior attenzione. In un mondo dove si è bombardati da notizie, immagini, messaggi, dal costante bisogno di comprare e consumare, dove tutto si digerisce nel tempo di un like, fermare l’attenzione e farsi vedere, diventa per qualcuno una vitale necessità. E’ in un clima del genere che ha luogo Sanremo, dove Blanco in un atto di violenza recitata distrugge le composizioni di fiori perché sembrava esserci un problema tecnico nella sua esibizione. L’attenzione delle persone e lo stupore sembrano essere la cosa più importante e non importa quale sia il messaggio che si lascia. Chiara Ferragni in tutta la sua performance dall’inizio alla fine ha messo l'accento su qualcosa di forte e importante: il coraggio e la libertà di essere se stessi (ed in particolare, se stesse), oltre gli schemi e i ruoli sociali, ma tutto ciò è filtrato in quello che possiamo definire il solito linguaggio di Sanremo dalla facile retorica. Possiamo perciò dire che la frase che più rappresenta Sanremo ormai da anni è sicuramente la seguente: “Nel bene o nel male, purché se ne parli” ( Il ritratto di Dorian Gray, di Oscar Wilde).

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Se la strada per l’inferno è una autostrada, quella per il paradiso è una scala o almeno così sembrano ritenere i Led Zeppelin con la canzone “Stairway to heaven”. Ma quale è la loro storia?

I Led Zeppelin si sono formati nel 1968 quando il chitarrista Jimmy Page si mette in contatto con il polistrumentista John Paul Jones, il batterista John Bonham e il cantante Robert Plant e inizialmente si chiamavano i “New Yardbirds”. Il nome “Led Zeppelin” fu suggerito dal batterista degli “Who” Keith Moon con cui Page aveva formato una band in precedenza che non era destinata ad avere successo, anzi Moon dice che era destinato a precipitare “come una mongolfiera” mentre la nuova band di Page era destinata a decollare come un “Lead Zeppelin” e per questo Jimmy Pace decide di chiamare la nuova band “zeppelin”, ovvero “dirigibile”. Usarono il nome “New Yardbird” solo per un tour in Scandinavia.

Ci sono alcune curiosità molto interessanti riguardo a questa famosa band che vanno da accuse di satanismo alla pedofilia:

1) Partendo da una curiosità meno piccante, è interessante notare come la copertina del loro album “Led Zeppelin I” richiami allo schianto del dirigibile Zeppelin LZ 129.

2) I Led Zeppelin sono dei grandi fan del “Signore degli anelli” e per questo citano nella loro canzone “Ramble on” Mardor e Gollum e inoltre si pensava che la figura dell’eremita nell’album “Led Zeppelin IV” fosse un riferimento alla saga, ma in realtà è una carta dei tarocchi.

3) I Led Zeppelin sono stati i primi ad usare i laser in un concerto.

4) La canzone “All of my love” è stata scritta in ricordo del figlio di Robert Plant, Karac, che morì all’età di cinque anni a causa di una infezione allo stomaco

5) Il batterista John Bonham fu trovato morto a casa di Page il 25 settembre 1980. Morì soffocato dal suo stesso vomito dopo aver ingerito l’equivalente di 40 shot di vodka.

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6) Page era ossessionato dalla magia nera e in particolare dall’occultista Crowley, di cui comprò la casa a Loch Ness in Scozia che però abbandonò dopo poco affermando che era infestata.

7) Una famosissima leggenda sui Led Zeppelin riguarda la canzone “Stairway to heaven”. Infatti, secondo alcune interpretazioni, la canzone ascoltata al contrario conterrebbe un inno satanico esattamente come suggerisce di già la canzone con la frase <<Cause you know sometimes words have two meanings>> <<Perché lo sai a volte le parole hanno due significati>>.

Il testo della canzone dice:

«...If there's a bustle in your hedgerow, don't be alarmed now it's just a spring clean for the May Queen

Yes, there are two paths you can go by, but in the long run there's still time to change the road you're on...»

«...Se c'è trambusto nella tua siepe, non ti allarmare è solo la pulizia di primavera in onore della Regina di Maggio

Sì, ci sono due strade che puoi percorrere, ma a lungo andare c'è ancora tempo per cambiare la strada che hai intrapreso...»

Se ascoltata al contrario:

«Oh here's my sweet Satan, the one [whose] little path won't make me sad, whose power is saint... he'll give [the] growth giving you six-six-six, and in a little tool shed he'll make us suffer sadly...»

«Oh ecco il mio dolce Satana, [la cui] unica piccola via non mi renderà triste, il cui potere è sacro... egli darà [il] progresso dandoti il 666, [in una] piccola baracca di attrezzi ci farà soffrire tristemente...»

8) Agli inizi degli anni settanta Page ebbe una storia d’amore con una 14enne: Lori Maddox

9) Secondo una leggenda del 1969, i quattro membri della band, dopo una esibizione, si ritirarono nel loro hotel e si appartarono con una groupie dai capelli rossi e passarono la serata infilando pezzi di squalo nei suoi orefizi.

Alcune canzoni dei Led Zeppelin:

Babe I’m gonna leave you

Out of thr tiles

No quarter

Good times bad times

I gotta move

Ozone baby

Whole lotta love

In my time of dying

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dello scrittore

Dancer Lovers Capitolo III

di Irina Lippi

Salì sulla carrozza e subito le si formò un nodo alla gola. Non poteva sfuggire agli sguardi della madre e lo spazio era troppo piccolo per tenere una certa distanza dalle sorelle. Annis sulla sua destra continuava a tenere lo sguardo rivolto fuori dalla finestrella per evitare di cadere in una piena crisi di pianto isterico. Il suo vestito grigio argentato sembrava riflettere il suo animo che seppure triste mostrasse una calma assoluta. Kate, invece sulla sua destra, continuava a cercare di creare un'aria che per quanto tesa, potesse essere quantomeno respirabile. Cercava di risollevare gli animi. Solo una sua domanda li destò tutti quanti insieme: "Come pensate che sarà il Duca?". Tutti iniziarono a proporre le proprie sensazioni. Cominciò Annis che disse che per lei sarebbe stato un giovane elegante gentiluomo, moro con degli splendidi occhi azzurri. Toccò poi alla stessa Kate esporre le sue. Lei ripiegò il suo pensiero su un'uomo di trent'anni biondo con occhi verdi smeraldo. Per la madre invece era un Duca solo di titolo, brutto e sgarbato, con pochi capelli e seri problemi di egocentrismo. Questo pensiero destò la risata di tutti. Il signor d'Ambray pensava ad un ragazzo sui vent'anni, basso e seppure colto molto sgraziato e sbadato nei modi. La casa della famiglia de Civille brulicava di nuovi arrivati e ospiti, tutti i membri della famiglia erano indaffarati, il padre e la madre insieme ai tre fratelli maggiori accoglievano e intrattenevano gli ospiti, Scarlett e Finn rubavano i dolcetti dai tavoli, solo Thomas era escluso da questa vitalità e gioia. Seduto vicino alla finestra che dava sul giardino all'ingresso guardava triste le carrozze degli ospiti, aspettando quella di lei. Era stato imperdonabile il suo comportamento, ma lei non era ancora pronta, non l'aveva deliberatamente rifiutato. Avrebbe dovuto solo accettarlo e aspettare, invece aveva agito d'impulso e sgarbatamente, lasciandola senza parole e senza spiegazioni ulteriori. Dopo qualche minuto arrivarono le amiche di lei. Subito si precipitò da loro per avere ulteriori informazioni sul suo imminente arrivo. Riprese a respirare sentendo che Harriet e Paige lo rassicuravano sul fatto che avevano intravisto le luci della casa spegnarsi passandoci davanti. Harriet era avvolta nel suo magnifico abito viola lavanda, che le faceva risaltare i magnifici boccoli rossi. Profumava di rosa e i suoi occhi color nocciola lo scrutavano, come se lo stessero giudicando. Doveva aver saputo dell'accaduto. Si voltò poi verso Paige che nel suo fine, seppur semplice, vestito verde pino cercava di evitare completamente il suo sguardo e si

L ‘ angolo
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concentrava sulla sala da ballo. Dopo qualche secondo di profondo e pesante silenzio il campanello risuonò e la voce di Taylor destò l'attenzione del conte.

"Bene arrivati signori d'Ambray! Salve Kate, benvenute anche voi care Carmen e Annie!"

Subito il suo sguardo si concentrò sulla figura con il magnifico vestito blu elettrico che piano piano scendendo diventava sempre più scuro fino a raggiungere un nero completo. Si avvicinò ai nuovi arrivati e facendo un solenne inchino porse delicatamente la mano a Carmen per un imminente invito al ballo.

"Non ballo, Thomas, dovreste saperlo ormai!" disse lei guardandolo negligentemente. "Per favore concedetemi questo ballo... Carmen ve ne prego!" disse lui addolcendo il suo sguardo.

La ragazza senza dare ulteriore risposta si avviò nella sala da ballo e si unì alla conversazione tenuta con alcuni galantuomini e le sue amiche. Quando le passò di fianco per poi superarlo il suo magnifico profumo di Iris lo avvolse. Vide che Harriet la prese subito a braccetto e le sorrise dolcemente, mentre Paige salutandola, sorridendo dolcemente a sua volta, le chiedeva qualcosa. Si voleva avvicinare ulteriormente per prendere parte alla conversazione ma un'altra voce lo fece voltare.

"Thomas siete qui, finalmente vi ho trovato!" disse la voce squillante di Roselyn. Vide la ragazza bionda nel suo vestito rosa cipria che gli sorrideva maliziosamente. I suoi capelli biondi platino erano raccolti in una pettinatura degna di nota, con piccoli brillanti sparsi fra le sue ciocche. Il suo eccessivo profumo di narciso iniziava però ad inondare le sue narici.

"Roselyn!" disse lui forzando un sorriso.

"Non fate quella faccia non tutti hanno buon gusto a quanto veddo!" disse lei guardando alle sue spalle con aria altezzosa.

"O forse sono semplicemente confusi!" disse lui tenendo lo sguardo alzato e le braccia distese destro la schiena comprendo la vista alla ragazza.

"Non tutti sanno il valore di qualcosa fin quando non lo stanno per perdere!" disse lei guardando la sala da ballo sdegnata.

"Thom finalmente vi ho trovato!" disse la voce allegra di una persona a lui molto cara.

"Stephen dove eravate fuggito?" chiese Thomas guardando la figura dell'amico vestito con un elegante completo nero e una camicia bianca, probabilmente presa in una boutique francese durante il suo viaggio in Europa.

"Vi sono mancato dite il vero?" chiese il galantuomo che accarezzava delicatamente la spalla della sorella minore.

"Manca la vostra gioia!" rispose sorridente il conte.

"Raggiungiamo quel magnifico gruppo di giovani, che dite mio Conte?" disse l'altro guardando ammaliato una figura in particolare del gruppo.

"Volete avvicinarvi alla cara Adeline dite la verità?"

"Oh e vedo un'altra magnifica fanciulla che potrebbe interessarvi!" disse lui iniziando ad avvicinarsi.

Si unirono e dopo qualche secondo di conversazione Thomas si ritrovò imbambolato di fronte alla figura di Carmen che sorrideva alle battute e ai complimenti dei vari ragazzi che la circondavano e le chiedevano un ballo. Incrociò una sola volta il suo sguardo e dopo averla osservata per pochi secondi e aver notato il suo stato di smarrimento si allontanò immediatamente dal gruppo. Lei lo seguì immediatamente e avendolo raggiunto gli concesse l'onore di un ballo. Si posizionarono al centro della stanza e neanche il tempo di far ripartire la musica che un arrivo tanto aspettato bloccò ogni azione e ogni persona. Subito le loro mani si staccarono e lo sguardo di Carmen si

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concentrò sulle due sorelle che rivolgendogliene uno d'intesa videro la figura del ragazzo entrare nella casa, seguito da sorelle e fratelli. Teneva due ragazze a braccetto, e i due fratelli tenevano le altre due. Si sfilò il cappotto lo diede ai servitori della famiglia de Civille e alzando lo sguardo sulle due sale esclamò: "Perché fermate la musica, i discorsi e le danze?" .

Il suo sguardo cadde e si fissò su Carmen. Rimase affascinato dalla sua figura e non riuscì a concentrarsi su nessun altro per il resto del tempo. La musica ripartì. Carmen mentre tentava invano di concentrarsi sui passi cercava di evitare gli sguardi di tutti. L'entrata del nuovo ospite aveva destato l'attenzione di tutti ma gliel'aveva riattaccata in meno di pochi secondi. Il nuovo arrivato si mise a conversare con i propri zii e i cugini. Il suo sguardo però seguiva i movimenti e i passi dei due al centro della stanza. Quando finalmente si furono divisi e il cugino si presentò a lui concentrò il suo sguardo sui familiari. Erano una bella famiglia legata e cordiale. Le cugine le erano sembrate curiose riguardo lui e il suo arrivo. Gli ponevano mille domande, e lui provava a sviarne le risposte o addirittura a cambiare discorso chiedendo di poter iniziare a fare una cultura dei vari ospiti nella casa. Thomas e Johnatan scambiandosi uno sguardo d'intesa lo condussero per le stanze indicandogli le varie persone e le loro occupazioni, cercando di evitare Carmen.

"E quella ragazza con cui ballavate poco fa, cugino?" chiese divertito alla fine del giro di presentazione.

"Lei è la futura signora de Civille, cugino!" rispose Johnatan dando particolare enfasi all'ultima parola.

Il ragazzo non proferì ulteriori parole e sorridendo si allontanò dai due. Si diresse ai lati della sala da ballo e vide con particolare piacere che sua sorella gemella Cheryl, stava già danzando con un ragazzo, mentre gli altri fratelli e le sorelle maggiori si stava presentando ad un gruppo di altri giovani invitati. Si avvicinò a loro e riconobbe la famiglia le Blanch composta da Roselyn e Stephen, la famiglia Evans con Paige, Philip e Oliver, e per finire notò il fratello minore della famiglia Dumont Oscar. Mancavano alcuni membri, e tutti quanti riguardavano a quanto aveva capito la figura che più gli era sfuggita. Si diresse nella sala da pranzo e vide seduta all'angolo del tavolo imbandito l'oggetto della sua curiosità. Era seduta e intorno a lei stavano Harriet che seduta alla sua destra le teneva le mani, Paige che cercava di consolarla con sguardi dolci e comprensivi e Tereza che le accarezzava i capelli. Restò immobile sull'uscio della porta che separava le due stanze. Dopo pochi secondi venne circondato da altri invitati di cui aveva già scordato i nomi e solo allora il gruppo con lei si accorse della sua presenza.

"Perdonate la mia orribile intromissione, ma ve ne prego, potete darmi l'onore del prossimo ballo?" gli chiese lui cordialmente mettendosi al suo fianco mentre tutti gli amici di lei si dirigevano nell'altra stanza.

"Perché me lo chiedete come se io vi rispondessi già con una negazione?" rispose lei guardando il ragazzo alzando lo sguardo sorridendo dolcemente, allungando la sua mano verso di lui.

"Non ne ho proprio idea!" disse lui prendendo la mano di lei contraccambiando con un uno sguardo, seppur sempre misterioso, addolcito.

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DEMONI

Le membra gli fremevano. Era ormai da parecchio tempo che non godeva della compagnia di una donna:gli ultimi mesi li aveva passati insieme al nobile Ishida e agli altri uomini di fiducia del daymio. Giornate concitate, spese a pianificare ogni singolo dettaglio dell'assalto:in realtà non avrebbero dovuto combattere a Sekigahara, ma erano stati costretti all'azione dopo che le truppe orientali non erano riuscite a contenere Tokugawa, rimanendo confinate ad Akasaka. Takeshi ricordava bene lo scoramento che aveva affranto buona parte dello stato maggiore:dopo aver trascorso settimane intere nell'incertezza che il piano congegnato andasse a buon fine, la sconfitta si era abbattuta sulla tensione come un macigno. Anche se ciascuno degli ufficiali si era impegnato nell'analizzare a fondo la questione non per questo tutto si era concluso per il meglio:da quando la pioggia torrenziale aveva sorpreso lui e Raissa invece la situazione era migliorata in maniera incredibile senza profondere alcuno sforzo. Il maestro gli aveva insegnato a diffidare sempre dei risultati ottenuti con troppa facilità, sostenendo che i kami non concedessero nulla senza pretendere altro in cambio, proprio come gli uomini. Takeshi non si arrovellava insoddisfatto: Suiikein gli aveva offerto ospitalità, vestiti asciutti e ora si trovava in camera sua. Durante le visite ad Heiankyo si era recato spesso nel Yanagi Machi(il primo quartiere del piacere legalmente riconosciuto in Giappone), ma lì il prezzo dell'appagamento momentaneo si delineava come fin troppo chiaro:alcuni suoi compagni dilapidavano delle piccole fortune con le oiran(prostitute d'alto bordo) più rinomate, mentre lui si sforzava di soddisfare il bisogno senza rimanerne vittima. La sua vita apparteneva al nobile Ishida, in cambio dei suoi leali servigi riceveva un lauto stipendio da impiegare affinché le sue esigenze corporali non lo intralciassero. Un dare per ricevere, non aveva mai valutato i servizi delle prostitute in una luce diversa dai chioschi che vendevano onigiri ai viaggiatori affamati o ai ryokan che offrivano loro un posto letto. Suikeiin gli aveva concesso tutto senza pretendere nulla in cambio:non coglieva le ragioni dietro quel comportamento. Se la donna avesse voluto accattivarsi i suoi favori per via della vicinanza a Tokugawa che aveva millantato sarebbe bastato abbondantemente strapparlo ai pericoli della notte tempestosa, senza bisogno di compromettere il suo onore in quanto moglie di daimyo. Da quest'incertezza del suo animo diffidente scaturiva un'agitazione sottile, che si intrecciava con la libidine incalzante acuendone la prepotenza tirannica. La contropartita celata dietro quell'ospitalità gli sfuggiva, ma il respiro gli si era fatto affannoso, un calore familiare era dilagato in tutto il corpo. Da una piccola finestrella la luce delle stelle illuminava solo uno spicchio del volto di lei, incerto come la luna in una notte nebbiosa. Si chinò sul basso futon mentre i loro respiri affannosi si intrecciavano, inseguendo il contorno delle morbide labbra di lei come poche ore prima, bagnato sotto la pioggia, ricercava il calore. Intrecciò la mano robusta con i capelli serici raccolti dietro la nuca, saggiando il calore di quel corpo completamente abbandonato alla sua presa. Rispetto all' elsa di cuoio della katana la pelle vellutata risultava malleabile sotto quella stretta non avvezza alla delicatezza, incerta nel timore di stringere troppo forte.Mentre il kimono iniziava a

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scivolare via nel groviglio dei corpi Takeshi avvertì il ritmo del cuore accelerare all'improvviso, per poi congelarsi come colpito da un dardo intinto nel veleno. Una voce nota premeva per farsi strada nell'animo, nonostante lui ogni istante la ricacciasse indietro con veemenza crescente. Dei brividi brucianti, gli spasmi di un attimo attraversavano implacabili il petto seminudo, che si contraeva in maniera sempre più irregolare. Riconobbe le mani minute di Suikeiin che scendevano lungo l'addome, mentre lui digrignava i denti, dilaniato da una sofferenza così lancinante da mozzargli il respiro. Lei sembrava non essersi accorta di nulla, lui ogni attimo aveva l'impressione che la mente si infrangesse rovinosamente al suolo, disgregandosi in mille frammenti come il pesante specchio di una cortigiana. Nelle schegge della sua anima osservava il volto stralunato, le occhiaie incise a fondo nella pelle spaccata dal freddo. Un paio di zigomi affilati frangevano le rotondità del viso, rivelando un profilo pallido ed emaciato. Quando era diventato così magro? Avvertiva una miriade di piccole lame insinuarsi sinuose nel collo tenero, gli sfuggì un gemito affranto tra i denti stretti. Si sentiva mancare l'aria, osservava la scena che lo circondava come schiacciato da una coltre d'acqua gelida, nella quale sprofondava sempre di più. Ogni attimo la freddezza affilata che lo avvinghiava squarciava un altro lembo di carne pulsante, serpeggiando in direzione del cuore spaventato con un formicolio dal sapore definitivo. Contorse un attimo le palpebre nella speranza di sottrarsi al dolore:nell'oscurità della sua mente la raffica di fitte che si susseguivano crepitando rimase allora l'unica certezza, unita ad un senso di insicurezza pungente. Quando provò a riaprire gli occhi avvertì una morsa di debolezza interdirgli la luce, mentre brividi continui scuotevano quella calotta di oscurità alla quale si era ridotto il suo mondo. Portò le mani tremanti alle palpebre serrate come per aprirle a forza, le lacrime di frustrazione che cercavano brucianti una via d'uscita. Doveva essere stato avvelenato...anche se non riusciva a comprendere il vantaggio che la bella nobile avrebbe potuto ricavare dal prendersi la sua vita. Disciplinò i pensieri che si agitavano come venti in tempesta:doveva riprendere in mano la situazione. Morire non lo spaventava, ma la percezione del fervore vitale che si dissolveva per colpa delle lusinghe di una donna fomentava una vergogna profonda nel cuore orgoglioso:la fiamma che animava un guerriero doveva divampare sul campo di battaglia e lì infuriare finché non veniva sopraffatta da un incendio più grande di lei. Ogni attimo il tormento per la sua ingenuità si infiggeva come una lancia nel costato, un dolore ben maggiore di qualsiasi spasmo il corpo potesse mai sperimentare. Annaspò nel buio, trascinando la mano insicura all'elsa della katana: le dita sudate la accarezzavano cercando conforto, assorbivano un po' del freddo del metallo in un abbraccio che tante volte si era rivelato mortale per i suoi nemici. Strinse il pugno, una luce azzurrina si faceva strada verso di lui nel simulacro di tenebra. La accolse inerme, distinguendola a malapena attraverso il velo sottile che gli aveva abbrancato il volto, prostrato in posizione fetale.

-Takeshi...- la voce aveva un tono condiscendente, eppure sembrava spazientita. Gli ricordava terribilmente il suono emesso dalle labbra gelide della Yuki-Onna, privato però dell'affilatezza distaccata:pareva che il ghiaccio si fosse levigato in contorni smussati, brillando in un attimo di meraviglia mentre il sole primaverile ne decretava la condanna a morte. Sentì un alito di vento impalpabile che accarezzava la sua guancia, mentre gli faceva il solletico:in un attimo il peso tormentoso che gravava l'animo si dissipò, lasciando spazio all'azzurro infinito di un cielo terso.Lo sguardo vagava finalmente libero in quella vastità sconfinata, percepì appena il lieve tocco di brina della Yuki-Onna sulla spalla, mentre precipitava giù, nel turbinio incessante dei nembi. Dell'acuta sofferenza di poco prima era sopravvissuto solo un mal di testa fastidioso, che per qualche motivo lo spronava a slanciarsi in avanti con ferocia inaudita.

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-Piccolo...- la voce scomparve, insieme al dolce senso di invincibilità che gli aveva animato le vene fino a quel momento. Ma ormai si sentiva pronto all'azione:sguainò la katana cominciando a menare fendenti alla cieca, l'espressione feroce del cacciatore nell'atto di infliggere il colpo di grazia alla preda. I piedi gli sprofondavano nella melma vischiosa, ma non aveva nessuna importanza:ora che il corpo era tornato ad ubbidirgli sentiva la vita scorrere in ogni colpo, l'anima vibrava come in sintonia con la spada. L'arma affondava in un materiale che opponeva una certa resistenza, doveva trattarsi di un ambiente elastico ricoperto di un'altra sostanza viscida. La lama infatti, nonostante la forza poderosa che le imprimeva, finiva sempre per scivolare, lacerando quelle che al tatto parevano corde sfilacciate disordinatamente. In una situazione normale Takeshi probabilmente si sarebbe preoccupato per l'integrità della katana: la sua spada proveniva dai migliori fabbri di cui disponeva Mitsunari e colpire in maniera non ortogonale avrebbe potuto smussarne il filo sottilissimo. Ma il desiderio di rivalsa lo portava a non farsi troppe domande, non sapeva neanche dove si trovava ma in quel momento desiderava solo tagliare. Giunse infine a rivedere la luce fredda della luna, anch'essa pareva ostile, ma l'aria fredda che gli riempiva finalmente i polmoni divampò come olio sul fuoco. Mentre posava baldanzoso il piede sul terreno al di fuori del suo simulacro si accorse di trovarsi su una superficie instabile:sebbene non riuscisse ad individuarne la causa gli sembrava di oscillare legato ad un'altalena, di procedere su un cavo instabile come un equilibrista. Solo ad uno sguardo più attento riuscì a distinguere lo stesso reticolato fitto di fili di cristallo che gli era balenato davanti poco prima in uno sprazzo di delirio:pareva una ragnatela ,ma ispirava un senso tale di meraviglia che doveva essere stata realizzata da una divinità. Le trame esagonali di filo si configuravano come talmente fitte da permettergli di poggiare liberamente i piedi, che affondavano un poco nelle fibre appiccicose dell'imponente costruzione. Sotto di lui si profilava solo un'oscurità senza fondo, dalla quale dovette distogliere velocemente lo sguardo, come se avesse tentato di fissare la luce accecante del sole. Aveva presagito un vuoto enorme perforargli lo stomaco, lasciarlo debole ed esangue ad affogare nelle corde brillanti di muco viscido. Una sostanza molliccia gli aveva lambito per un attimo le pareti del cuore caparbio, facendolo trasalire mentre balzava all'indietro. Poco distante da sé individuò la luce pupurea che lo aveva condotto da Suikeiin, anzi quattro luci che brillavano appese nel vuoto di quel tempio sospeso. Sembravano avvicinarsi lentamente a lui, un attimo correvano furiosamente, un altro si bloccavano a mezz'aria ondeggiando. I suoi sensi si tesero all'improvviso quando dalla stessa direzione cominciò a spirare un odore dolciastro di putrefazione, che gli soffocava con le sue zaffate le narici spalancate. -Ameterasu, salvami tu...- il sibilo di un sussurro gli morì tra le labbra tese. La sicurezza incrollabile che l'aveva animato fino ad un momento prima si era sgretolata:non vedeva nessuna minaccia da tagliare, eppure ogni fibra del suo essere gridava solitaria, il lamento replicato all'infinito dall'eco ombroso di quella conca dimenticata. Lentamente, con passo cadenzato ed agghiacciante si abbozzarono nell'aria tetra quattro paia di zampe nere arcuate, che sembravano pattinare sospese sui fili trasparenti. Le coprivano fitti ciuffi di peli giallastri, che si arrampicavano crespi su tutto l'addome dell'animale. Ma il dettaglio più terrificante erano due paia di occhi rossi l'uno accanto all'altro, che lo fissavano cattivi. La coppia ai lati si estendeva per circa la metà di quella al centro, che coronava due acuminate tenaglie dello stesso verde traslucido della corazza di un maggiolino. Tutto il muso, leggermente schiacciato, era coperto da una fitta peluria simile a quella degli arti, ma a colpire l'immaginario del giovane samurai erano soprattutto le estremità delle fauci:si passava dal nero lucido ad un rosso macchiato di scuro che si confondeva in una serie di tentacoli irsuti spinti dall'alito mefitico

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dell'animale. Takeshi si sentì pervadere da un'ondata di sollievo, alzò la lama come un boia pronto a finire la vittima. Non sarebbe riuscito a spiegarne il motivo, ma nell'attimo in cui l'orrida creatura si era profilata in un lampo aveva raggiunto la consapevolezza di trovarsi di fronte a Suikeiin. Uno tsuchigumo (yokai ragno che assume le fattezze di donna):in definitiva le leggende lo descrivevano come piuttosto debole una volta che il suo inganno era stato svelato agli occhi della vittima. Ripensò ai baci, alle languide carezze che si erano scambiati quello che pareva solo un attimo prima:un'ondata di ribrezzo fece vacillare la stretta sull'elsa, ma si ricompose fulmineamente. Takeshi inalò un respiro profondo, preparandosi a danzare con quel vortice di arti mostruosi. Mentre scattava gli sfuggì un singulto sorpreso, quando avvertì le gambe forti slittare in avanti:non aveva tenuto conto del campo di battaglia. Quello era il territorio del ragno, quindi che gli piacesse o meno ammetterlo si trovava in una situazione di svantaggio:stava a lui da preda trasformarsi in predatore. Riuscì a stabilizzare il dorso molleggiando leggermente le ginocchia come quando caricava a cavallo il nemico, quindi roteò su se stesso per imprimere ogni alito della forza che gli restava in corpo al colpo fatale. Voleva cancellare quell'abominio dalla faccia della terra, si sentiva rivestito di aura divina come un kami superbo nell'atto di dispensare la sua sentenza ineluttabile. Gemette, mentre la lama si infrangeva in mezzo al cranio della belva immobile con un sibilo stridente. Il gigantesco ragno non si scompose, rimase solo immobile a scrutarlo infastidito, mentre il filo della katana sdrucciolava con un fischio sopra la sua corazza screziata. Takeshi si avvide troppo tardi che il corpo dello Tsuchigumo risultava coperto della stessa patina melmosa spalmata su tutta la ragnatela, ma tentò lo stesso di non lasciarsi annientare dalla sorpresa, caricando un colpo al centro delle fauci scoperte del ragno. Tuttavia nell'attimo di indecisione che seguì un liquido denso dall'odore acre finì per centrarlo in pieno volto, mentre il ragno spalancava le fauci rivelando una voragine violacea coperta dalla penombra. Gli occhi cominciarono a bruciare in maniera insopportabile, istintivamente si portò una delle due mani sopra gli zigomi, cercando di proteggersi inutilmente dal morbo che era già penetrato a fondo nella pelle indifesa. Ogni brandello di carne del volto pareva infiammato come un fagiano sullo spiedo, avvertiva l'eterea carezza bollente delle fiamme avvolgerlo implacabile, scavare attraverso i lineamenti contratti allo spasimo, scoprire le ossa bianche con la loro rete di vene palpitanti. Le gambe si piegavano, cedevano, era a terra. I fili della tela gli segavano la nuca scoperta, infiggendosi crudelmente anche sui polpastrelli delle mani abbandonate. Per quanto provasse a muoversi il torpore si faceva largo nelle membra provate paralizzandolo ,annaspava sul ciglio dell'incoscienza cercando l'aria. Pensò al nobile Ishida, poi a Raissa. L'aveva lasciata nella camera mostrata loro da Suikeiin, ma ignorava dove si trovasse ora. Più che altro non sapeva se la meravigliosa dimora che li aveva strappati al gelido abbraccio delle intemperie esistesse davvero: Raissa poteva benissimo trovarsi avvolta in un sarcofago di tela pronto ad essere scoperchiato dalle fauci del ragno affamato. Avrebbe voluto solo essere più forte, poter piegare una volta tanto a sè quella natura che sembrava di continuo volere sbeffeggiare la sua tenacia di imporsi. Provava pena:vedeva già gli avanzi mezzi sbranati del suo corpo sospesi nel vuoto, il rosso del sangue che si perdeva nella scura voragine, seppellito sotto il paio di tenaglie acuminate del suo aguzzino. A Raissa invece sarebbe capitata una sorte ben peggiore:i ragni, come aveva avuto modo di osservare varie volte nei locali della servitù, stordivano le prede per avere a disposizione sempre carne fresca. Molto spesso si trattava di bestie ben più grandi del cacciatore, che ne godeva con parsimonia:dopo averne staccato ad una una le zampe secondo il bisogno passava all'addome, di cui gustava con voluttà le interiora frementi. Ma era possibile osservare la preda disgraziata contorcere alcune parti

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del corpo ancora per diversi giorni dall'inizio del banchetto. La rabbia compressa dall'impotenza stava per esplodere, gli occhi vitrei fissavano il buio nel quale li aveva relegati il veleno. Sperava che il ragno lo finisse subito, o almeno avesse la premura di divorargli gli occhi lasciando solo due pozzi sanguinolenti prima che gli tornasse la vista. Non desiderava assistere al proprio corpo martoriato e percepiva la sostanza spostarsi dalla fronte alle vene gonfie di acredine del collo. Il suo sguardo cominciava già a recuperare sprazzi di luce attraverso la tenebra, ma una spossatezza agghiacciante gli aggiogava le membra .Specialmente non voleva osservare il corpo di Raissa fatto a pezzi da quel mostro, impegnato con le affilate tenaglie come un abile artigiano:l'idea gli suscitava un moto di repulsione istintiva, per quanto fosse stato addestrato a trattare il fisico umano come una macchina. L'alito della belva intanto si era fatto più vicino:quel respiro carico di morte non aveva alcuna remora né fretta nel compiere il suo dovere di macellaio. Le tenaglie erano arrivate a rasentargli il collo, la bava densa colava sui respiri irregolari del suo petto spaventato. Ad un'analisi attenta poteva sentire i tentacoli pelosi nelle fauci dello tsuchigumo graffiargli la bazza, raschiare le guance dove nei giorni di precedente incuria aveva cominciato a farsi largo la barba incolta.

-Tiaiutoio- La stessa carezza dolce che lo aveva avvinto mentre cercava di uscire dalla prigione untuosa di fili gli sfiorò il volto, scese al busto ripiegato su se stesso, l'impercettibilità di un attimo. Ormai era troppo tardi: le chele aguzze schiacciavano irriguardose i bordi del pomo d'Adamo, penetravano la carne debole come coltelli affilati mozzandogli il respiro. La vita però continuava a scorrere impetuosa in ogni frammento del suo corpo martoriato, avvinghiò con una presa di ferro le due tenaglie che si chiudevano a poco a poco strangolandolo. Il ragno s'era in un primo momento arrestato, poi cominciò ad arretrare spaventato:le lunghe gambe arcuate si contorcevano in maniera ributtante sulla ragnatela flessibile, affondando nel tentativo di opporre una resistenza maggiore. Ma Takeshi si mostrò implacabile:con un violento strattone tentò di sradicare l'unica arma di quel volto mostruoso, ma nuovamente la superficie viscida gli sfuggì dalle mani. Recuperò la katana che giaceva sotto di sé, quindi si levò lentamente, compiaciuto nell'osservare l'aria spaventata del nemico, i quattro occhi che rimbalzavano impazziti, avvinti dallo stesso terrore che aveva sperimentato lui prima. Il ragno diede inizio ad una fuga disordinata, provocando continui sobbalzi della tela che avrebbero destabilizzato qualsiasi guerriero, per quanto ben addestrato. La belva per la prima volta nella sua vita millenaria aveva paura:nella sua vita millenaria mai nessuna delle sue vittime si era ribellata, tutte si erano arrese alla dolcezza dell'evasione che i suoi sogni offrivano loro. La sua mente animalesca si agitava freneticamente:non poteva competere con quello yokai. Anche solo un assaggio del potere che sgorgava fuori da quella preda insolita gli aveva inchiodato le tenaglie, sentiva la miriade di villi nella sua bocca ritrarsi indolenziti. Una sensazione di freddo innaturale si era impadronita della sua testa, avvertiva una sensazione crescente di apprensione farsi strada nell'intreccio mostruoso di nervi che era il suo corpo. Non aveva mai conosciuto la paura:era scaturito dai desideri più foschi dell'uomo, nutrendosi della loro linfa vitale perversa. Uno sguardo fugace attraverso il pelo delle zampe costrinse il suo cuore nero ad inchiodarsi un attimo, annichilito. La preda non era crollata giù dalla tela, negli abissi dello Yomi, ad aggiungersi al livore degli spiriti ai quali aveva strappato le membra e la vita. Avanzava spavaldo, gli occhi color del ghiaccio, i capelli d'improvviso dello stesso colore della luce che lo Tsuchigumo tanto aveva rifuggito, rintanandosi negli antri più bui della terra. Un gelo terribile promanava da quel dio della morte, la spada in mano più eloquente di qualsiasi sentenza. Cominciò ad agitare la punta dell'addome ricurvo, gli occhi che cercavano disperatamente di incassarsi ulteriormente in quella testolina schiacciata.

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Sputò il suo filo di morte, ancora e ancora, fino a quando non sentì di non avere più fiato. Ma nella sua mente sapeva che si trattava di uno sforzo inutile:non aveva mai avuto a che fare con una simile preda. Il suo sguardo atterrito non poteva far finta di non scorgere i lampi azzurini che elettrizzavano l'aria intorno: doveva trattarsi di un kami,o quantomeno di uno spirito di rango altissimo. Infatti i fili di ragnatela viscosa non arrivavano neanche a lambirne la pelle diafana, d'improvviso si frantumavano come colpiti da lame di vento invisibile, mentre un sorriso sottile increspava le labbra d'un tratto esangui del giovane. Takeshi caricò all'improvviso, circondato da nubi sferzanti di vento gelido. La ragnatela parve accartocciarsi come un foglio di carta di riso sotto la pioggia, il ragno tentò disperatamente di avvinghiare le gambe del suo assalitore con le chele intorpidite, ma il colpo di spada del sumurai rintronò ogni angolo della sua robusta corazza. La katana infine esplose con sibilo lamentoso in una miriade di schegge affilate, che caddero nel vuoto accompagnate dall'eco sordo del fendente devastante. La speranza rifiorì un attimo nei gangli tenebrosi dell'animale, che levò la testa in segno di sfida:l'altro yokai non era tanto più forte di lui se nemmeno riusciva a scalfire la sua corazza. Levò uno dei rostri nascosti nella cavità delle sue mascelle, pronto a bere il sangue caldo che sarebbe sgorgato dalla gola squarciata del nemico. Lo slancio del ragno durò ancora pochi secondi, mentre il corpo decapitato si accasciava sul flusso giallognolo della linfa. La testa incredula osservò le zampe flessibili allontanarsi, agitando un'ultima volta il dente velenoso nel vuoto. La spada era tornata integra nelle mani del samurai, saldata da una serie di suture cangianti, color del ghiaccio al tramonto. Takeshi corse in avanti, pattinando sopra la ragnatela ormai inzuppata dagli umori che colavano dal busto del ragno ormai senza vita. Per timore che la creatura potesse ricominciare a muoversi si avventò sulle sue spoglie con una ferocia inaudita:tempestò di colpi prima le zampe, poi, dopo avere rovesciato la carcassa si volse con freddezza metodica a estirpare il cuore dell'animale dal torace livido. Dal busto si volse all'addome, finchè una strana protuberanza che sporgeva dalla carcassa dilaniata non attirò la sua attenzione. Attraverso uno dei tanti squarci si intravedeva un bagliore freddo di metallo, lo stesso delle armature che ricoprivano i corpi abbandonati sul campo di battaglia. Il senso di nostalgia fulminante suscitò in lui un moto di desiderio improvviso:ciò che restava della sua armatura giaceva ancora abbandonato tra macerie fumanti. La katana brandita dal braccio destro intanto esplose in una miriade di frammenti, che si infissero dolorosi nella carne coriacea del pugno. Confuso, allungò comunque risoluto le dita della mano sana attraverso le interiora mollicce, finché non strinse un oggetto rigido:lo estrasse con uno strattone violento, che gli inondò il volto di liquido melmoso. La dimestichezza sviluppata in anni di contatto con le armi non lo aveva ingannato poi molto:impugnava l'elsa fradicia di un'arma di splendida fattura. Il filo impeccabile risplendeva attraverso le incrostazioni del tempo, emanando una pesante aura intimidatoria. Avvertiva un senso di malignità inusuale sprigionarsi dai bagliori iridescenti della lama, tuttavia la sorte non avrebbe potuto mostrarsi più propizia: non rammentava quasi nulla del combattimento con lo tsuchigumo, ma ora che il suo valore si era avventato sul sangue putrido di quel demone doveva essersi riguadagnato il favore dei kami. Ancora un'ombra del calore che gli aveva illuminato la via nella lotta selvaggia fluiva nel suo corpo, ma nel complesso era stato rimpiazzato dal ronzio sordo della spossatezza. La mente vagava stordita tra spessi banchi di nebbia...

-Cosa aspetti?Muoviti!-Raissa lo tirava per un lembo della manica, lo sguardo inviperito che ogni attimo di più gli faceva rintuzzare la testa nelle spalle. Spalancò la bocca come per dire qualcosa, si guardò intorno. Si trovava nel salone dove avevano mangiato con Suikeiin la sera prima... Raissa continuava a strattonargli il braccio spazientita, così lui

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decise di seguirla senza fare troppe storie. L'animo sembrava aver infuso ogni anelito delle sue forze nello scontro contro lo tsuchigumo, così ora Takeshi si relazionava con la realtà apatico, limitandosi semplicemente a registrare gli eventi. Si scosse un minimo dal proprio torpore quando inciampò quasi nella figura robusta di un cadavere riverso in una pozza sangue, notò allora che la paglia del tatami era costellata da altri due corpi di uomini dall'aria non troppo raccomandabile. Anche così si limitò a seguire docile Raissa, del tutto insensibile agli stimoli esterni all'infuori del caldo rassicurante di quella mano che lo trascinava senza alcun riguardo. Il villaggio li accolse con la stessa solitudine velata di malinconia del giorno prima, solo qualche vecchia guardinga di tanto in tanto faceva capolino dai muti simulacri delle capanne. Il sole era già alto in cielo, Takeshi sapeva dai suoi viaggi precedenti che per la fine del pomeriggio sarebbero stati ad Heiankyo. Il calore del sole ravvivò i suoi sensi smarriti abbastanza da permettergli di analizzare con lucidità la loro situazione:non potevano certo arrivare in città dalla via principale. Condusse così Raissa in un sentiero secondario erto e sassoso, che aveva avuto modo di esplorare nei suoi viaggi precedenti. Procedeva per inerzia, ad ogni passo doveva compiere uno sforzo immane per evitare che le caviglie gonfie si accavallassero, precipitandolo in fondo alla china su qualche masso aguzzo. -Emh...Grazie comunque per avermi salvato- Raissa fuggiva il suo sguardo, contraeva le altere labbra rosee lasciandogli intendere di farsi bastare quella manifestazione di gratitudine spontanea. Takeshi rimase spiazzato, anche perchè non si ricordava affatto di averla liberata dalla tela insidiosa del mostruoso yokai. Si grattò pensieroso la nuca:-In ogni caso il ragno avrei dovuto ucciderlo, altrimenti mi avrebbe divorato-Parlò senza pensare, come era solito fare quando non sapeva come rispondere. Non era dell'umore giusto per intraprendere un discorso, quindi con un gesto le fece segno di tirare dritto senza dare troppo peso alla questione. Ma lei rimase immobile a fissarlo con gli occhi sbarrati, le braccia abbandonate ai fianchi. -Intendi l'uomo pelato con il ragno tatuato sulla nuca?- le labbra di Raissa erano appena aperte, parevano tremare quando il soffio di voce incerto le attraversava. Takeshi aggrottò un sopracciglio:in effetti non sapeva come i cadaveri che aveva visto poco prima fossero arrivati nell'antro dello Tsuchigumo. Doveva trattarsi di vecchie prede immagazzinate dallo yokai come riserva, che d'improvviso erano state catapultate nell'edificio quando la forza vitale del mostro si era esaurita. -No,non ho avuto il tempo di ispezionare i cadaveri.Parlavo dello tsuchigumo, di Suikeiin-Raissa continuava a riservargli uno sguardo poco convinto, gli occhi grandi spalancati:-Il ragno gigante che divora i viandanti?- Intanto scuoteva la testa come scoraggiata, Takeshi si sentì ferito dallo scorgere nel suo sguardo un barlume di commiserazione. Senza dargli il tempo di lamentarsi lei lo condusse con un cipiglio che non ammetteva repliche sotto l'ombra fresca di un ginkgo, costringendolo a sedersi con l'arroganza risoluta di un fratello più grande. A quel punto gli ingiunse perentoria di raccontarle tutti gli eventi di quella notte. Takeshi le riservò un'espressione seccata dall'urgenza ingiustificata della richiesta, ma si lasciò comunque andare ad una narrazione entusiasmante e rocambolesca:lei intanto evitava di fissarlo, facendo a pezzi con le dita rosate le foglie a forma di ventaglio del ginkgo. Avrebbe quasi detto che non lo stesse ascoltando, se ogni tanto non lo avesse rassicurato con un cenno netto della testa, che lo invitava a proseguire. Quando finì si era accalorato tanto che aveva il fiatone, ma le ultime parole gli morirono in gola quando lei alzò gli occhi. Raissa era davvero preoccupata:non sapeva cosa fosse successo di preciso con Suikeiin, ma le sue certezze erano già state minate dal comportamento feroce di Takeshi. La sera prima il samurai era sparito a divertirsi con quella donna dagli occhi languidi:lei lo capiva, anche suo padre era solito barricarsi nella sua stanza con prostitute d'alto bordo. Intanto,

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stesa sul morbido futon, non riusciva a prendere sonno:un'irritazione sottile si era insinuata nel suo animo, a forza di rigirarsi tra le calde coperte di lino. Un caldo innaturale per la stagione le aveva bagnato le membra di sudore appiccicoso, spronandola ad alzarsi per fare quattro passi. Gli andon erano ormai stati spenti, così, dopo aver rintracciato l'anta scorrevole della porta, si era diretta con passi incerti verso la sala dove Suikeiin li aveva ricevuti e avevano consumato la cena. Non riuscendo ad orientarsi bene aveva seguito un raggio di luce che fendeva caparbio l'oscurità, immaginando che una lanterna almeno nella sala principale rimanesse sempre accesa. In realtà proveniva dai locali di guardia, immediatamente adiacenti alla sua meta, ma non ne ebbe contezza finchè non udì una voce rude increspare la quiete immobile della notte. -Taro, non riesco ad apettare-Come al solito sei una bestia. Quando il sonnifero avrà fatto effetto sull'altro imbecille potremo agire- -Ma...- -Hai visto come si muove quello? Si vede che è un ronin lontano un miglio. Lo uccidiamo mentre dorme, zero rischi e veniamo anche ricompensati dalla signora- Raissa si era coperta la bocca con le mani, temeva che anche solo un suo respiro potesse farla scoprire, ma non riusciva a controllare il tremito che dalle ginocchia era salito al bacino. Un urlo del tutto inumano aveva incrinato il silenzio imperturbabile della magione, lei aveva fatto un balzo all'indietro, andando ad urtare uno spigolo aguzzo con la spalla. -Che succede?- I due uomini con un terzo si erano precipitati fuori dalla stanza come tre furie scatenate, sorprendendola ancora tesa nello sforzo di trattenere un mugolio lamentoso compresso in gola. Gli occhi disabituati alla luce erano rimasti scottati dal tenue chiarore dell'andon nelle mani di uno dei figuri, ma ben più sgradevole era stata la voragine che le si era spalancata nel petto, come se stesse precipitando nel vuoto. -Bene, visto che la straniera è qui sappiamo come ammazzare il tempo- La soldataglia si era già ricomposta, pensando che fosse stata Raissa a levare l'urlo agghiacciante di poco prima. Un braccio nerboruto si era allungato verso di lei, che aveva tentato di voltarsi e mettersi a correre, ma le gambe erano paralizzate dal terrore. Levò un grido a pieni polmoni, non tanto perché si aspettasse davvero di essere aiutata, quanto piuttosto per scaricare la tensione divenuta insostenibile. Una mano rude, due, tre:le lacrime le solcavano copiose le guance tenere, avrebbe voluto mantenere un contegno dignitoso, ma la rabbia cocente dell'umiliazione le sconvolgeva il petto. Odio, paura, ira:il cuore confuso era avvolto in un alone di vapore bollente, una miriade di goccioline incandescenti che sovrastavano crudeli la sua vergogna. Le palpebre si chiudevano, non volevano assistere a quello scempio. Uno dei tre la buttò all'improvviso sul pavimento duro, incoraggiato dalle risate sguaiate dei compagni. Strinse i denti, cominciò a scalciare in aria finché un violento calcio nelle costole le mozzò il respiro. Poi lo vide. Mezzo nascosto nell'oscurità, l'andon dei soldati illuminava solo una metà di quel volto terribile. I lineamenti erano deturpati in una smorfia feroce, gli occhi non avevano niente di umano: la ferocia di quello sguardo le trapassava le palpebre, penetrava nell'immaginazione irruente e selvaggio come uno sperone di ghiaccio. Il respiro umido e maleodorante di uno dei tre uomini le impattava affannoso sulla guancia, ma il suo sguardo era immobilizzato dal bagliore allucinato di quegli occhi:le pareva di riconoscervi una figura familiare, ma non ne era del tutto sicura. -Che guardi?- Uno dei soldati, infastidito dal contegno assorto di lei, la stordì con un calcio improvviso. Si volse nella direzione dello sguardo annichilito della ragazza, intenta ancora a fissare nel vuoto:la sfuggente aggressività del ghigno che fino ad un attimo prima affiorava dall'oscurità si era dissolta come un'ombra fugace. Il carnefice impietoso la strattonava violentemente, le sputava a più riprese sul volto, ma lei rimaneva inerte tra le sue braccia grossolane, più atterrita che mai. L'incubo di un attimo, eppure percepiva quel viso deformato dalla perfidia come una minaccia ben maggiore rispetto ai

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tre soldati avvinazzati. Un liquido caldo le colò inatteso lungo la fronte, udì a malapena un fruscio tortuoso fendere scattante l'aria viziata. Ruotò lentamente le spalle sbigottite:una testa rotolava per terra, un fiotto di sangue denso macchiava il pavimento di paglia, mentre il tronco decapitato si agitava in spasmi repentini. I due soldati rimasti si scrutarono perplessi un attimo, ebbero appena il tempo di dilatare le insulse pupille nel gesto di uno sgomento avvilito, poi rovinarono al suolo vomitando schiuma rossastra. Raissa si alzò come per fuggire, in un insensato scatto istintivo, poi distinse con un colpo d'occhio spaurito quei lineamenti che tanto l'avevano atterrita. Le grida le morirono in gola, il diaframma smise di agitarsi irregolare, ma non riusciva a sentirsi del tutto sollevata:aveva visto il volto compiaciuto di un assassino, il balenio di una follia dilagante. Mise istintivamente le mani davanti all'addome, come per proteggersi:non era affatto sicura che sarebbe stata risparmiata da quel furore sferzante. Quello spettro temerario continuava a scrutarla implacabile, anche se un po' di lucidità trapelava tra i fumi di deliri sognanti nei pozzi insondabili del suo sguardo. Rimasero a fissarsi per un tempo che parve un'enormità, poi finalmente la belva demoniaca serrò le palpebre, permettendole di avvicinarsi titubante. Notò solo allora che stringeva tra le mani irrigidite una katana diversa, l'elsa rossa con uno strano disegno nero che non riusciva a distinguere. Si sentiva turbata, ma non si riteneva consapevole di come si muovessero i signori della guerra:tutto sommato forse poteva definirsi fortunata per non essere caduta anche lei sotto i colpi di quell'irragionevole eccitazione sanguinaria. Quando finì Takeshi la osservò a lungo muto, la delusione incisa nello sguardo perso. -Quindi mi stai dicendo che sono pazzo?- nello sconforto si riscontrava anche una punta di rabbioso scetticismo, che fece trasalire Raissa. Se una parte di lei avrebbe voluto accordargli per buona la sua versione dei fatti fin da subito, l'orgoglio la spronava invece a non darsi per vinta. Il samurai era immensamente più robusto, avrebbe potuto stritolare in un batter d'occhio il sottile filo che la teneva ancorata alla vita. Temeva di vedere riaffiorare la follia in quegli occhi confusi, ma il desiderio di aiutare il compagno le pungolava davvero l'animo. Non si sentiva di condannarlo per ciò che era accaduto, ma non gli avrebbe permesso neanche di fuggire dalle proprie responsabilità obliterando semplicemente il passato scomodo. In quel momento si sentiva arrabbiata come una sorella maggiore che rimproverava il fratellino:cercava di intrecciare nelle parole la tenerezza ad un'ostinata fermezza.

-Non so cosa sia accaduto con Suikeiin...- il suo sguardo appariva più eloquente di mille parole, ma non esprimeva una netta condanna degli sproloqui del samurai, piuttosto sembrava redarguirlo con garbo. I ricordi di Takeshi sullo scontro epico con lo Tsuchigumo apparivano sempre più distanti, ma lui era certo di aver carpito da quelle carni maledette la vita palpitante con lo sfrigolio dell'acciaio incandescente. La fissò un attimo, titubante, poi si limitò ad annuire rassegnato come era solito fare quando non capiva le decisioni dei daymio suoi superiori. Per quanto ne sapeva poteva aver tratto fuori dalle grinfie della soldataglia Raissa anche dopo aver abbattuto lo Tsuchigumo. In definitiva però si rendeva conto che la nuova spada appesa alla cintola non costituiva una prova che i fatti si fossero svolti come lui aveva sostenuto. Nella casa di un nobile solitamente non era difficile reperire armi, anche perché il padrone dell' abitazione non aveva nulla da temere:un folto manipolo era sempre posto a guardia delle entrate. Di certo quella di cui si era appropriato lui era una katana di splendida fattura, infatti Takeshi aveva sempre goduto di una spiccata capacità di valutazione in merito alla qualità del metallo e del filo. Un unico rammarico lo tormentava:la katana che aveva perso lo aveva accompagnato dalla fine dell' addestramento fino ad allora, salvandolo innumerevoli volte dal ferro acuminato del nemico. Se Raissa gli credesse o meno

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risultava quindi un problema del tutto secondario:lei era davanti a lui viva e vegeta e stranamente lui ravvisava in sè un'energia vivace e speranzosa. Si alzò dall'erba umida tendendole la mano sorridente, Raissa la accettò dopo un attimo d'esitazione, continuando a fissarlo in una spirale di preoccupazione irresoluta. In definitiva quell'uomo doveva solo accompagnarla ad Heiankyo, poi si sarebbero separati. L'idea le provocava un senso di sollievo, ma al contempo anche un istintivo dispiacere:sebbene le instillasse timore con i suoi impeti d'ira tutto sommato Takeshi le era sembrato un ragazzo gentile. Se da una parte il ricordo recente delle mani lorde di sangue, della follia acuminata che spirava da quegli occhi la facevano rabbrividire, dall'altra non poteva dimenticare la presa gentile di quelle stesse braccia, che tante volte l'avevano issata sulla schiena robusta. Quello sguardo, che quando rimaneva indietro prima la fissava accigliato e minaccioso, poi da spazientito arrendevole. Takeshi promanava un'allegria dirompente, eccitato forse anche dal ritorno di un cielo terso con il sole splendente. Raissa inizialmente gli rispondeva a monosillabi, poi si lasciò contagiare dall'energia del giovane samurai, anche se per causa sua non aveva chiuso occhio. Fu verso pomeriggio inoltrato che cominciarono a scorgere le prime costruzioni farsi strada tra gli alberi tortuosi e imponenti che costeggiavano il sentiero. Attraverso le spesse fronde potevano sentire il vociare continuo dei viandanti sulla Tokaido, sulla quale ormai furono costretti a rientrare. Takeshi notò con soddisfazione che sporchi di polvere come erano con ogni probabilità chiunque li avrebbe scambiati per semplici popolani, ma si premurò comunque di nascondere veloce l'arma sotto le vesti. Ciò che più lo preoccupava erano i soldati, dei quali per il momento non si vedeva neanche l'ombra:si aspettava però di imbattersi nei controlli all'ingresso della capitale, ciò che lo più lo impensieriva sarebbe stato incontrare qualcuno che potesse riconoscerlo. Talvolta aveva accompagnato il nobile Ishida ad Heiankyo, ma dubitava che qualche soldato semplice disponesse di uno spirito d'osservazione tale da potersi ricordare di lui. Invece i vertici della fazione di Tokugawa dovevano conoscere bene i suoi lineamenti:era considerato l'ombra, il braccio destro di Mitsunari. Alcuni nell'ambiente dei samurai avevano preso a soprannominarlo "la spada di Ishida" con disprezzo, calcando l'attenzione su come il suo signore si servisse di lui:in effetti Takeshi portava a termine anche i compiti più pericolosi e moralmente discutibili. Ma quel nomignolo non lo toccava affatto:era anzi per lui motivo di grande orgoglio essere considerato uno strumento affilato nelle mani del daimyo. Raissa procedeva spedita, il capo chino: Takeshi apprezzò quell'atto giudizioso, constatando freddamente che altrimenti quegli occhi azzurrissimi avrebbero certamente catturato l'attenzione dei passanti. Il brulichio della folla, che andava intensificandosi mano a mano che si avvicinavano all'entrata della città aveva risvegliato in lui un'ansia inspiegabile, temeva quasi di non riuscire a raggiungere la sua meta, travolto da quell'ammasso vociante di genti. Si guardava intorno circospetto, ormai doveva mancare poco:con uno sforzo immane si issò sulle assi di legno del Sanjo Ohashi(ponte a Kyoto), tendendo la mano a Raissa per non perderla in mezzo alla folla. Lei aveva del tutto dimenticato la prudenza di poco prima ed ora che si apprestavano a raggiungere il cuore della città sembrava aver messo da parte anche tutte le raccomandazioni ricevute durante il viaggio. Si guardava intorno mentre gli occhi le brillavano, nel momento in cui lui le rivolgeva la parola si limitava ad annuire distratta. -Non mi avevi detto che eri già stata ad Heiankyo?-Sì,per accompagnare mio padre in un viaggio d'affari.Ma ero così piccola...Takeshi ebbe un colpo al cuore quando notò una cascata di ciocche bionde ribelli sfuggire da sotto il sugegasa(cappello di paglia conico)che le aveva procurato per nascondere la folta capigliatura. Raissa gli aveva spiegato che solitamente le donne

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dedite al culto del Dio occidentale si tagliavano i capelli per offrirli nel loro matrimonio con Cristo, ma a lei era stato"accordato"di tenerli lunghi, perchè figlia di un uomo molto influente. Una volta tanto che una delle sue stranezze disarticolate da gaijin poteva tornare utile lei chiaramente doveva trovare il sistema per risultare più d'ingombro possibile. Takeshi sospirò rassegnato:non faticava ad immaginare il povero padre con un piede già sulla nave per tornare in Europa, la figlia aggrappata alla giacchetta a strappare la spontanea concessione. Con uno strattone poco riguardoso la trasse verso la ringhiera esile del ponte, inciampando quasi nelle gambe rachitiche di un mulo.

-Vedi di fare più attenzione, perché io ci devo arrivare vivo ad Heiankyo- digrignò tra i denti indicandole il capo frastornato. Gli stranieri non erano apprezzati neanche in tempi di pace, con le braci della guerra recente ancora scoppiettanti da certe stradine della capitale era probabile non uscire vivi. Rimasero un attimo in silenzio a fissare i gorghi tortuosi del Kamo: lei pareva avvilita, ma perlomeno aveva stretto la fascia che le ancorava i capelli alla nuca. Il vento le lambiva gli occhi ora pensierosi, come per formare una barriera protettiva dallo sguardo spazientito del samurai.

-Almeno sai dove possiamo trovare altri cristiani come te?- Lei continuava imperterrita a nascondere lo sguardo risentito nelle acque scure rigonfie di rami spezzati, che si rincorrevano nello scroscio furioso della corrente. Con un dito tormentava il labbro tremulo:-Beh,no. È troppo tempo che non vengo qui. Comunque il motivo del viaggio di mio padre era di prendere accordi con altri mercanti giapponesi. Se non ricordo male non c'erano occidentali-

A Takeshi girava la testa:-Quindi sei venuta qui ad Heiankyo senza neanche sapere dove andare?-

Il sangue gli stava andando al cervello, la stessa voglia martellante di tagliare furiosa di quando combatteva gli faceva prudere le mani. Ora si trattava di scegliere:o abbandonarla lì seduta stante, come qualsiasi altro samurai leale gli avrebbe consigliato di fare oppure addossarsi l'onere di proteggere anche lei mentre ordiva le sue trame per liberare il nobile Ishida. La prima scelta sicuramente si configurava come la migliore, ma un senso di colpa sottile lo portava ad escluderla a priori, assillante come una puntura di vespa. Infatti una donna giovane lasciata da sola nella capitale non poteva vivere a lungo:l'unica via di sostentamento possibile consisteva nei bordelli, ma anche lì le prostitute di basso rango spesso morivano di malattia. Dall'altra parte però avrebbe preferito poter svolgere il suo dovere di buon samurai senza doversi occupare anche di lei:l'avrebbe esposta solo a rischi inutili. L'elemento di tutta la questione che lo gettava nel buio del panico più totale però era un altro:in quel momento le sue riflessioni non mettevano al primo posto il nobile Ishida, come invece era giusto che fosse. Aveva davanti lei, gli occhi felici di prima rinchiusi in quella silenziosa gabbia di malinconia, persi nei ricordi di un passato recente inaccessibile. -E che dovevo fare?- gli angoli teneri delle labbra scavate dalle intemperie innalzati in un eccesso di sgomento rabbioso fino agli zigomi, gli occhi persi nelle assi polverose del ponte. Takeshi si limitò a guardare in avanti, oltrepassando quel volto corrucciato, perdendosi nel variopinto vociare della folla. Lui la sovrastava sia per corporatura sia per mezzi:eppure la sfrenatezza dell'insolenza di cui era capace quel pulcino biondo non finiva mai di stupirlo. Un sorriso spontaneo gli increspò le labbra:-E allora muoviti, andiamo da Chiko-. Si augurava solo che la smodata vivacità occidentale di lei non gli creasse problemi con gli abitanti di Heiankyo, ma avrebbe saputo tenerla a bada.

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Recentemente, un nostro compagno della classe III B (classico), Andrea Yuki Parigi, da attore, si è calato nella parte di scrittore, pubblicando il suo primo libro, Anime Vaganti, fra le nubi di un cielo di farfalle. Data la giovane età alla quale ha raggiunto un tanto grande traguardo, ero curiosa di conoscere la sua storia.

«Com’è che un ragazzo diciassettenne si è ritrovato a pubblicare un libro?»

« È stato un po’ tutto casuale, in realtà: è cominciato più o meno durante la pandemia. Nel lockdown, stando chiuso in casa, mi annoiavo tremendamente; perciò, mi sono messo a scrivere tutto ciò che mi veniva in mente, racconti, pensieri... Inizialmente non avevo un vero e proprio schema, seguivo più una specie di flusso di coscienza, ma col tempo credo che mi abbia preso la mano. Poi mi è venuta in mente una storia che mi era stata raccontata da un ragazzo che conosco e che, anche se molto rielaborata, è diventata il filo rosso del mio libro. Ci sono stati alti e bassi e perfino momenti in cui non ho scritto nulla, ma, quando, alla fine, ho visto il frutto del mio lavoro, ho provato a lanciarmi in questa avventura: così, ho inviato il mio scritto ad una serie di editori, sperando che prima o poi qualcuno mi avrebbe risposto».

«E quando poi, finalmente, ti hanno risposto?»

« Quando, dopo circa tre mesi, mi hanno risposto, ho pensato: “allora ho scritto davvero un libro!”. Ero senza parole, non mi aspettavo che qualcuno potesse veramente essere interessato, e invece...»

«Ci potresti raccontare in breve di che cosa tratta la storia?»

Un giovane che ama fantasticare Tra i banchi di scuola

« Il libro parla di un cammino di un ragazzo che passa dall'avere tutto, dall’aver raggiunto il suo sogno di essere un attore, da avere il suo teatro e

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la sua compagnia, a perdere tutto. In uno schiocco di dita, si ritrova senza niente e tutto quello che aveva fatto è stato praticamente vanificato. Perciò, in preda alla disperazione, taglia tutti i suoi contatti con il mondo, esce di casa e inizia un cammino, anche interiore, durante il quale incontrerà e si confronterà con alcune figure, fino ad arrivare in una specie di baracca in mezzo a un bosco. Lì

ritroverà quattro dei personaggi che aveva incontrato lungo il cammino e, costretti a non poter uscire a causa di una tempesta, scopriranno di avere in comune qualcosa che non avrebbero mai immaginato...»

«Oltre alla storia del tuo amico, che cosa ti ha ispirato?»

« Inizialmente mi era venuto in mente il mito di Teseo e il Minotauro. L’eroe greco si avventura nel labirinto per uccidere il mostro, il Minotauro. Ecco, il nostro protagonista è come Teseo, il labirinto rappresenta il suo viaggio mentale e il Minotauro è la risposta che cerca di trovare, cioè il motivo per cui ha perso tutto. Ma, durante il tragitto, l’eroe è costretto a confrontarsi con sé stesso, a ricercare il mostro dentro di sé e ad affrontarlo in qualche modo».

«È buffo: neppure in questo libro hai perso il tuo amore per il teatro!»

« Eh sì... Nella storia da cui ho preso spunto, questo ragazzo aveva trovato un lavoro per bene, ma alla fine ha dovuto mollare tutto. Io, però, volevo raccontare qualcosa che mi fosse un po’ più vicina, in modo da poter meglio esprimere ciò che penso lui abbia provato in quel momento».

« Con quale stato d'animo il lettore si deve avventurare in questa lettura e cosa vuoi tramettere al tuo pubblico?»

« Probabilmente questo libro va letto con una mente aperta. In questa storia viene raccontato un momento che tutti prima o poi proveranno o che hanno provato, cioè quello essersi smarriti, e da qui il titolo “anime vaganti”. Vorrei che il mio libro fosse una spinta. Tutti si trovano a dialogare con sé stessi, sia con la parte migliore sia con quella peggiore, e forse è bene trovare un equilibrio e non farci sopraffare da nessuna delle due. Anche perché l'equilibrio non vuol dire una vita piana, ma più un continuo sali-scendi: si cerca di andare avanti, ma se ci sono due difficoltà non dobbiamo abbatterci, quanto riuscire a trovare un modo di superarle e di godersi anche quei momenti più tristi, perché forse è davvero in quei momenti davvero che si capisce l'importanza di vivere felicemente».

«Continuerai a scrivere in futuro?»

« Per ora sono stato molto concentrato sul pubblicizzare e presentare il libro, perciò è da tanto che non scrivo, se non alcune idee che mi girano per la testa... Aspetto la scintilla. Comunque continuerò sicuramente a scrivere, pubblicare vediamo...»

«Secondo te, quali sono le somiglianze e le differenze nella modalità di comunicazione, anche di emozioni, fra la scrittura e la recitazione?»

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« La recitazione, forse, arriva a più persone, dal momento che possiamo trovarla non solo in teatro, ma anche al cinema e alla televisione. Dall’altra parte, però, nello scritto c’è un po’ più di libertà: dopotutto, l'attore deve sottostare a quelle che sono le indicazioni del regista, mentre lo scrittore fa contemporaneamente da attore, regista, scenografo ecc. Ma c’è maggiore libertà anche per il lettore: nel teatro e nel cinema ci sono le immagini che, però, molte volte non lasciano spazio alla fantasia. Al contrario, nel libro non c'è libertà di immaginazione, di crearsi nella mente gli ambienti e i personaggi. Forse questo aiuta a far arrivare di più ciò che l'autore vorrebbe trasmettere al suo pubblico».

«Si dice che spesso i giovani non leggono, che i giovani non si interessano alla scrittura o alla lettura, però te sei un ragazzo diciassettenne che non solo ama scrivere, ma anche ha pubblicato un libro...»

«Certo, è difficile generalizzare, però è vero: almeno, da quello che vedo nella mia sfera di amici e conoscenze, non molti giovani sono appassionati di lettura. Ma, alla fine, dipende da come sei educato, da come ti istruiscono da bambino: se io ho dei genitori che, prima di andare a dormire, fin da quando ho tre anni, mi raccontano le storielle e mi fanno vedere i libri, poi, crescendo, è più facile coltivare questa passione. Altrimenti, a meno che a scuola non ti assegnino da leggere il libro che ti cambia la vita - cosa che succede poche volte -, è difficile che qualcuno si appassioni alla lettura da grande. Adesso ci sono giovani che con una mano tengono il libro, ma con l’altra tengono il telefono. E allora, se tanto posso trovare i riassunti o i film online, è difficile che ci sia la voglia né tanto meno la necessità da parte di noi giovani di prendere un libro incuriositi dalla trama e di leggerlo. Ma un libro ti permette di immaginare, di fantasticare, un videogioco o un film non ti lasciano questa libertà.»

«Stiamo perdendo il contatto con la carta, dunque?»

«Beh, non tanto con la carta: esistono anche gli ebook. Stiamo perdendo il contatto con la fantasia. Siamo tutti fissati su questa bruta realtà davanti al telefonino, non c'è nemmeno lo spazio per pensare e immaginare».

«Qual è il tuo messaggio per i giovani che vanno contro corrente e amano la lettura e la scrittura?»

«Meno male che c'è qualcuno pazzo oltre a noi pochi in rischio di estinzione! Meno male che c'è qualcuno che legge, scrive, pensa, immagina. Non smettere mai».

«E il tuo messaggio per quelli non leggono?»

«Consiglio di provare. Magari non solo con i libri che assegnano a scuola, ma si può trovare un genere che ci intrighi, anche una rivista di qualsiasi tipo, perché, alla fine, ci sono vari temi da approfondire. E se poi non ti piace, pazienza, ma quasi sicuramente ci sarà qualcosa che ti possa interessare!»

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La finestra sempre aperta

Anche Firenze come Verona presenta la sua sotto specie di balcone dell’amore, ovvero la finestra di Palazzo Grifoni in Piazza Santissima

Annunziata.

La leggenda narra la storia d’amore infelice fra un rampollo della famiglia Grifoni e sua moglie, personaggi vissuti intorno al 1500.

Si dice che il loro amore fosse appassionato e speciale, ma purtroppo furono costretti a separarsi per colpa delle varie guerre dell’epoca e del reclutamento di lui.

La donna, per salutarlo un’ultima volta, si affaccia alla finestra del Palazzo, speranzosa di rivederlo presto. Ogni giorno da allora decide di affacciarsi e sentire la città attorno a lei fino al giorno della sua morte.

Poco dopo la sua scomparsa i proprietari del Palazzo decisero di chiudere la finestra, ma si narra che qualcosa di davvero inaspettato sia successo da lì a poco. Infatti viene raccontato che dopo la chiusura della finestra libri e ornamenti della stanza iniziarono quasi a prendere vita volando fuori dalle librerie e per terra. Così la finestra venne riaperta e mai più chiusa con il pensiero che la donna sia ancora affacciata ad aspettare il suo sposo.

Arte a km 0
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MUSEO DEGLI STRUMENTI MUSICALI

Il Conservatorio Luigi Cherubini è stato fondato nel 1849. Si trova in piazza delle Belle Arti, a poca distanza dall’Accademia e dalla Galleria dell'Accademia. Il direttore è Giovanni Pucciarmati. Il conservatorio, prende il suo nome dal fiorentino Luigi Cherubini, compositore esponente del Classicismo. Fu fatto realizzare dal granduca Pietro Leopoldo nel 1784, come testimonia anche un’iscrizione sul portale principale. L'edificio occupa una parte del monastero femminile benedettino, soppresso da Pietro Leopoldo di Lorena nel 1782. Il granduca infatti, espresse la propria volontà di destinare il complesso a un’accademia. L'Istituto musicale conobbe la sua origine nel 1849, come corso dipendente dall'Accademia di belle arti, che tuttavia dal 1811 aveva stabilito insegnamenti dedicati alla musica. Datati nell’anno 1853 vi sono infatti vari disegni dell'Archivio storico del Comune di Firenze che attestano la compilazione da parte dell'architetto Francesco Mazzei di un progetto di ristrutturazione dell'intero complesso. Nel 1860 invece, l'istituto fu reso quindi autonomo prendendo il nome di Regio istituto musicale di Firenze. Nel 1931 a seguito dell'acquisizione di nuovi ambienti, venne fatta trasformare su direzione dei lavori dell'architetto Rodolfo Sabatini la sala del Buonumore e gli spazi ad essa adiacenti in una grande sala da concerti. Inizialmente si trovava presso il primo piano il museo degli strumenti musicali, successivamente allestito in spazi annessi alla Galleria dell'Accademia.

Inaugurato nel 2001, il Museo degli Strumenti Musicali espone all’incirca cinquanta strumenti musicali provenienti da collezioni private dei granduchi di Toscana, raccolti tra la seconda metà del secolo XVII e la prima metà del XIX e passati successivamente al Conservatorio Cherubini di Firenze, che dal 1996 li ha concessi alla Galleria dell’Accademia. Questa collezione mostra quanto la musica abbia svolto un

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ruolo di fondamentale importanza presso la corte medicea, celebrando per esempio l’invenzione del pianoforte, creato proprio per i Medici. Verso gli inizi del 1700, periodo in cui il clavicembalo era molto in voga, Bartolomeo Cristofori inventò un sistema di leve meccaniche e di martelletti che hanno dato origine al pianoforte. Si tratta di uno strumento appartenente alla famiglia dei cordofoni a percussione, produce quindi il suono attraverso martelletti che ne fanno vibrare le corde. L’antenato del pianoforte è appunto il clavicembalo che è simile per quanto riguarda la struttura ma ha tuttavia una meccanica che funziona in maniera estremamente diversa. In esso infatti, le corde non vengono percosse, ma solamente pizzicate da un plettro. In seguito all'invenzione di Bartolomeo Cristofori furono costruiti modelli di clavicembalo con il nuovo meccanismo, e vennero chiamati fortepiano. Questo strumento, modificato numerose volte, divenne sempre più grande e sempre più utilizzato dai compositori, infatti fino ai primi dell’800 fu un punto di riferimento per tanti grandi artisti. Tuttavia, innovativi costruttori perfezionarono il fortepiano e si arrivò gradualmente alla definizione del moderno pianoforte. Nel corso dell’800, la popolarità e le infinite possibilità timbriche e armoniche di questo strumento lo resero così popolare da essere diffuso in gran parte del mondo. La fama di questo strumento è giunta ai nostri giorni intatta e si è ampliata nel corso di tutto il 1900, secolo che ha prodotto grandi compositori e pianisti grazie ai quali il pianoforte ha raggiunto livelli eccelsi. Bartolomeo Cristofori fu chiamato alla corte fiorentina dal Gran Principe Ferdinando come costruttore di strumenti musicali nel 1688. Si dedicò a sperimentazioni di nuovi materiali per gli strumenti e alla creazione di sonorità innovative. Per la prima volta nella storia si trova elencato in alcuni documenti uno strumento che prende il nome di “pianoforte”, nasce quindi nella città di Firenze, lo strumento forse più conosciuto e apprezzato di tutti i tempi. Un altro strumento fondamentale di questa collezione e sicuramente uno dei più importanti di essa, è la viola Stradivari chiamata anche viola tenore toscana o medicea. E’ stata costruita da Antonio Stradivari nel 1690. Strumento dall’eccellente fattura, fu fatta costruire come tenore di un quintetto, creata per essere suonata nella corte dei Medici E’ l'unica viola tenore ad essere sopravvissuta della produzione stradivariana, ma si ha notizia della costruzione di altre due andate perdute, ed è l'unico suo strumento conservato fino ad oggi in condizioni quasi originali, motivo per il quale riveste un'immensa importanza storica. La viola fa parte di un insieme di cinque strumenti noti come quintetto mediceo, costituito da:due violini, una viola contralto, il tenore ed un violoncello. Questi strumenti che oggi hanno un immenso valore, furono fatti costruire per l'erede al granducato di Toscana, Ferdinando de' Medici.

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Stradivari aveva realizzato i due violini ed il violoncello e visto il grande apprezzamento degli strumenti da parte della corte medicea, gli era stata richiesta la costruzione di due viole per completare il quintetto. Il modello impiegato per costruire la viola tenore è conservato nella collezione Dalla Valle del museo stradivariano ed è datato 4 ottobre 1690. Nel 1762 le due viole furono affidate al marchese Eugenio de Ligniville assieme ad alcuni archi, tuttavia al 1776, è documentata la restituzione della sola viola tenore. Tra il 1823 e il 1829 la viola è stata sottoposta ad un restauro, commissionato ad Arcangelo Bimbi. Intorno al 1844 ha avuto altri restauri, i quali sono stati commissionati a Gaetano Piattellini. Il 31 luglio del 1863 lo strumento viene consegnato al segretario dell'allora Regio Istituto Musicale Luigi Cherubini. Nel 1869 lo strumento è stato sottoposto nuovamente a lavori di restauro, questa volta effettuati dal liutaio Giuseppe Scarampella, che ha evidenziato che il piano armonico era stato corretto e rinforzato da Antonio Stradivari. La viola tenore, non è tuttavia l’unico pezzo del liutaio Antonio Stradivari esposto, infatti possiamo anche trovare un violoncello del 1690 e un violino del 1716. Sono esposti anche un violino e un violoncello datati al 1650 del celebre liutaio cremonese Niccolò Amati, maestro di Antonio Stradivari. Il capostipite della famiglia Amati, fu Andrea Amati, che iniziò la sua attività di liutaio nella città di Cremona intorno all’anno 1520. Anche se non sappiamo molto su di lui, secondo diversi studiosi sarebbe stato il primo a costruire il violino. Di tutta l’immensa produzione sono rimasti in tutto il mondo solo 16 strumenti costruiti tra il 1564 e il 1574. Tutti questi strumenti hanno chiaramente un immenso valore e appartengono al museo di Oxford in Inghilterra, al South Dakota Museum negli USA, al Comune di Cremona e a due collezioni private. Sono stati fatti numerosi restauri nel coso dei secoli e anche le vernici sono state rimaneggiate. Gli strumenti si dividono in tre gruppi: il primo, fa parte della collezione del re Carlo IX di Francia, il secondo della collezione di un ricco marchese e il terzo gruppo invece non si sa per chi siano stati costruiti e non presentano decorazioni. Esistono solo tre violoncelli della collezione Amati e fanno tutti parte della collezione di Re Carlo IX. Gli strumenti appartenenti a quest’ultima collezione sono stati decorati in un secondo momento e ad oggi non sappiamo da chi. Ognuno di essi raffigura gli stemmi e i motti del Re Carlo IX, uno di essi è "PIETATE ET IVSTITIA”. Tornando al Museo degli Strumenti Musicale, vi è inoltre, una sezione multimediale che permette ai visitatori di ascoltare il suono di molti degli strumenti esposti, ripercorrendo inoltre la nascita e lo sviluppo del teatro a Firenze. Si tratta quindi di un immenso patrimonio culturale, all’interno di un museo che ospita il maggior numero di opere di Michelangelo nel mondo.

Il liutaio Antonio
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Mostra “Olafur Eliasson: nel tuo tempo”

Si è recentemente tenuta (dal 22 settembre 2022 al 22 gennaio 2023) a Firenze presso Palazzo Strozzi la mostra “Nel tuo tempo”, esposizione dedicata all’artista Olafur Eliasson, noto per la creazione di installazioni capaci di porre lo spettatore al centro dell’opera stessa. La mostra è costruita su tutte le aree rinascimentali di Palazzo Strozzi, diventato anche questo parte dell’esposizione. Nella mostra, l’artista ha dato allo spettatore la

possibilità di interpretare le sue opere, avendo la possibilità di interagire (seppur poco) con queste infatti arriva anche lui a sentirsene parte. Nelle sue opere sono ricorrenti le forme geometriche, i colori e la luce e sono usate dall’artista come strumento per avvicinare le persone all’ambiente e alla natura che le circonda. l’obiettivo è che coloro che guardano la sua arte volgano ed amplino il loro sguardo, così da essere consapevoli di ciò che accade attorno a noi.

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IL CONTROVERSO ALLESTIMENTO

DELLA GALLERIA NAZIONALE D'ARTE MODERNA DI ROMA

La Galleria Nazionale d'Arte Moderna a Roma (acronimo “GNAM”) è un vero e proprio orgoglio artistico italiano costituito da una collezione nata nel 1883 che comprende numerosissime opere dall'Ottocento all'epoca contemporanea. Dal 1914 è collocata all'interno del “Palazzo delle Belle Arti” a Roma, realizzato nel 1911 dall'architetto Cesare Bazzani in occasione dell'Esposizione Universale: si trova sul viale delle Belle Arti, nei pressi dei giardini di Villa Borghese, e si presenta come una gigantesca struttura bianca di impianto neoclassico, all'esterno dotata di colonne e statue, all'interno, invece, decisamente moderna e molto luminosa. La collezione conta circa 20.000 pezzi tra quadri, sculture e installazioni di diversi materiali e dimensioni, vantando numerosi nomi molto prestigiosi e conosciuti, italiani e stranieri, tra cui Antonio Canova, Giovanni Fattori, Marcel Duchamp, Alberto Burri e Vasilij Kandinskij; oltre alla ricchezza del patrimonio però, ciò per cui negli ultimi anni il museo ha maggiormente fatto parlare di sé è la particolare decisione della direttrice Cristiana Collu (in carica dal 2012) di modificarne le modalità di allestimento.

Il museo nasce dopo l'Unità d'Italia come Galleria Nazionale con l'idea di documentare lo sviluppo dell'arte del Paese, appena ufficialmente unificatosi, mostrandone così il prestigio e la forza; nel 2014 tuttavia, prendendo le distanze dall'originale obiettivo, dopo aver acquisito maggiore autonomia dirigenziale con la Riforma del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, la direttrice ha stravolto la tradizionale disposizione

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in ordine cronologico dell'allestimento, puntando invece su un'associazione delle opere su base tematica a cui ha dato il nome di “Time is out of joint”. Ciascuna sala della struttura possiede dunque un determinato tema come fulcro centrale o un filo conduttore che mette in relazione a livello logico e di assonanze percettive le diverse opere, permettendoci di apprezzare all'interno di uno stesso ambiente mondi apparentemente lontanissimi, come un nudo di donna neoclassico accanto ad un ritratto di Modigliani. Senza rivelare troppo a chi volesse visitare la galleria, un esempio molto interessante è costituito da una delle prime sale (tra le più conosciute e criticate), dove l'imponente Ercole e Lica di Canova è stato posizionato al centro dello spazio in modo tale da riflettersi nei 32 mq di mare circa di Pino Pascali, un insieme di pannelli installati sul pavimento contenenti acqua colorata in diverse sfumature di blu, la cui geometricità viene ripresa da un Mondrian appeso sulla parete attigua e il cui colore richiama quello di una vicina opera di Yves Klein con il suo caratteristico blu.

La scelta di sconvolgere un'impostazione definita ormai da più di un secolo - e con essa anche l'essenza originale del museo come documentazione dello sviluppo artistico nazionale - è stata decisamente ardita e avanguardistica e proprio per questo controversa e non di rado criticata.

Fin dal 2014 infatti vi sono state diverse posizioni sulla questione, tra chi ha ammirato l'innovatività della decisione e chi la considera deleterea per la collezione, la tradizione e la missione del museo. In prima linea a difendere quest'ultima opinione troviamo lo storico dell'arte Claudio Gamba, che definisce tale modalità di collocazione delle opere applicabile unicamente in strutture del tutto nuove o nell'ambito delle mostre, ma reputa impossibile operare su “un simbolo e un canone di valori culturali quali la Galleria”come se si trattasse, appunto, di una mostra - “cancellando ogni traccia dei precedenti allestimenti (frutto di decenni di studi e ricerche) e smontandone l’impianto storico”. Mentre gli allestimenti temporanei hanno infatti l'obiettivo di presentarsi con aspetto “accattivante” e cercare di suscitare emozioni immediate in chi guarda, Gamba dichiara che lo stesso risultato non può essere ricercato nella sistemazione di un museo permanente, in quanto va a ledere aspetti molto importanti quali la contestualizzazione e, soprattutto, la didattica.

La direttrice Collu, per difendersi da tale tipo di accuse, ha fatto presente la necessità che il museo ha, in quanto attrazione di prim'ordine di una città come Roma, di comunicare con un pubblico estremamente variegato e non composto unicamente da “spettatori privilegiati”, ovvero esperti in materia d'arte. Partendo dalla forte convinzione che il passato “non debba restare imbalsamato, ma possa (e, anzi, debba) essere riletto e interpretato”, la Collu rivendica la legittimità del nuovo allestimento come “una stimolante lettura e reinterpretazione odierna della storia della Galleria e delle sue collezioni”, che non va a sminuire od oscurare queste ultime ma piuttosto a valorizzarle e offrirne una nuova prospettiva.

Il dibattito artistico è sicuramente una tipologia di discussione che (per fortuna) non si esaurirà mai e di rado vede un netto “vincitore”; in merito alla questione, personalmente ho apprezzato la ventata di novità portata da alcuni dei bizzarri accostamenti proposti e non ho riscontrato particolari problemi nel seguire il percorso nonostante la grande quantità di opere.

Se state programmando qualche giorno a Roma, oltre alle classiche mete, consiglio sicuramente di dedicare una visita anche a questa Galleria e il tragitto per raggiungerla inoltre, se fatto a piedi, può costituire un piacevole esercizio fisico e un'occasione per ammirare vari scorci della stupenda città.

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Foto di Nora Campagni 38
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Le ali della lettura

Il mese scorso si è tenuta la settantatreesima edizione del Festival di Sanremo. In questa occasione, non solo molte case editrici si sono fatte pubblicità, ma anche il "pubblico a casa" si è divertito sia nell'associare libri ai cantanti che nel creare Meme ironici a sfondo letterario partendo proprio dagli eventi del Festival più divertenti. Con questo spirito, quindi, andiamo a vedere alcuni libri da leggere questo mese.

Se "Due Vite" la canzone vincitrice fosse un libro sarebbe ... la Trilogia delle Gemme di Kerstin Gier. I tre libri, Red, Blue e Green, pubblicati in lingua inglese tra il 2009 e il 2010, e in Italia dal 2011 al 2012, hanno riscosso grandissimo successo e da questi sono stati poi tratti I tre film Ruby Red, Ruby Red il Segreto di Zaffiro e Ruby Red Verde Smeraldo. Il romanzo racconta di Gwendolyne, che a sedici anni scopre di poter tornare indietro nel tempo, sebbene si credesse che fosse la cugina Charlotte destinata ad avere tale potere. Tra una famiglia che la sottovaluta e la Loggia del Tempo che ha grandi aspettative nei suoi confronti, Gwendolyne dovrà imparare a sostituite la cugina in ciò a cui era stata preparata per anni. Al suo fianco c'è un altro viaggiatore del tempo, Gideon, che però, oltre a non essere entusiasta del cambiamento, incarna esattamente il tipo di persona da cui Gwendolyne starebbe alla larga. "Se questa è l'ultima (canzone e poi la luna esploderà) Canzone sarò lì e dirti che sbagli che sbagli e lo sai, qui non arriva la musica. Tanto lo so che tu non dormi, dormi, dormi, dormi, dormi mai. Che giri fanno due vite.” Due vite, Marco Mengoni.

Se Mr Rain fosse un libro sarebbe ... Il GGG. Scritto da Roald Dahl, il libro racconta di una bambina, Sofia, che una notte si ritrova nella tana del Grande Gigante Gentile. Il GGG è l'unico gigante vegetariano e si occupa di distribuire sogni ai bambini, ma i suoi colleghi mangiano bambini. Per questo, i due ideeranno un piano per fermarli e coinvolgeranno anche la

Recensendo
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Regina Elisabetta. Proprio come il GGG, Mr Rain nonostante la sua grande statura con il suo coro di bambini e la faccia sorridente ha impresso affetto e sicurezza al pubblico dell'Ariston. "Camminerò, a un passo da te, e fermeremo il vento come dentro gli uragani. Supereroi, solo io e te, se avrai paura allora stringimi le mani" Supereroi, Mr Rain. Se Alba di Ultimo fosse un libro sarebbe ... Il Sole a Mezzanotte di Rrish Cook, pubblicato per la prima volta nel 2017. La storia racconta di Katie, affetta da una malattia rara che le impedisce di esporsi alla luce solare, che nella notte del diploma incontra Charlie, il ragazzo di cui è segretamente innamorata da quando è piccola. Questo evento le cambierà la vita e la porterà a dare peso a cose che non aveva preso in considerazione sino ad allora, come vedere l’alba. "Ho ascoltato i miei silenzi e ho avuto i brividi, perchè dentro un mio respiro sei tu che abiti, e quando vivi un giorno bello ridi e pensami, a me basta solo questo per non perderti, ma t'immagini se tutto questo fosse la realtà?" Alba, Ultimo

Se Mostro di gIANMARIA fosse un libro sarebbe ... il fabbricante di lacrime, di Erin Doom. Nato su wattpad e pubblicato nel 2021, ha riscosso grandissimo successo. Il romanzo narra la storia di Nica, che dopo anni da quando è arrivata all'orfanotrofio Grave, viene adottata da una coppia, solo che insieme a lei viene adottato anche Rigel, un ragazzo con una forte personalità e che nonostante agli occhi di tutti sembri il ragazzo perfetto, per Nica è un mostro, la perfetta incarnazione del fabbricante di lacrime. Mostro è la presa di coscienza in un momento di smarrimento, l'identificazione di se stessi nel male perché si perseguono i propri obiettivi, per i propri desideri e allo stesso tempo la visione che gli altri hanno di noi in alcune fasi della nostra vita, in altre parole, la versione in musica dei pensieri di Rigel e Nica all'inizio della storia. "Ma che ti sembrò un mostro, guarda che sono a posto, ero solo distratto da me" Mostro, gIANMARIA.

Se Sangiovanni, ospite nella seconda serata, fosse un personaggio di un libro sarebbe ... Mr Theodore Lawrence di Piccole donne di Luisa May Alcott. Pubblicata per la prima volta nel 1868, il libro racconta la storia di quattro ragazze che in periodo di guerra devono supportare la madre e coprire le mancanza del padre, arruolato nell'esercito. Con il suo abito serioso e il nuovo taglio di capelli che ricorda un giovane uomo ottocentesco, Sangiovanni sembra l'incarnazione di Mr Lawrence, uno dei personaggi più importanti del romanzo, con il suo aspetto serioso e allo stesso tempo un animo giovane.

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Il Processo, Franz Kafka

Il Processo è un romanzo breve (o racconto lungo) dello scrittore boemo di lingua tedesca Franz Kafka. Il libro fu dapprima scritto tra il 1914 e il 1915, mentre imperversava la Prima Guerra Mondiale, e pubblicato solo nel 1925, postumo.

Il romanzo/racconto tratta la storia di Josef K., un giovane impiegato di banca che conduce una vita tranquilla e monotona. Questo fin quando trova in casa sua due poliziotti che lo arrestano. Scopre di essere imputato di un reato, del quale tuttavia non sa la natura. Scopre anzi che il processo è già in atto. Chiede consiglio alla vicina, la signorina Bürstner, ma l’assenza di informazioni sulla colpa di K. la porta a rifiutare.

Il signor K. prova a svincolarsi da questa situazione ricorrendo al consiglio di avvocati e altri, ma fallendo miseramente. Dapprima, in una conversazione con la signorina Bürstner, le chiede un qualche aiuto; ma lei rifiuta quando K. le dice di non conoscere il reato a lui attribuito. K. si affida poi all’avvocato Huld (un vecchio amico di suo zio; questi però sembra aiutare il nipote più per una questione di reputazione familiare che per sincero affetto), un uomo vecchio e viscido che però si rivela inefficiente e opportunista. Questi, infatti, sembra approfittarsi dei clienti dilatando i tempi della difesa. Inoltre, così come sembra impossibile affrancarsi dalle accuse, si rivela altrettanto per quanto riguarda il processo.

Josef K. finisce così in una spirale di sentenze, impicci burocratici e giudiziari che assumono un carattere esistenziale. Lui non può far altro che subire le processi e sentenze, che si succedono l’uno dopo l’altro senza che lui possa portare avanti alcuna effettiva difesa.

Negli ultimi due capitoli, quando K. sembra aver ripreso la vita di tutti i giorni, gli viene ricordato prima dal cappellano del carcere che il suo destino è segnato. Egli è colpevole, e non può farci niente. Tuttavia K. sembra accettare tale destino, tanto che – dopo una vana resistenza – si lascia prendere dai due uomini per essere poi ucciso nel buio e nel silenzio della sera. Dopo lunghe procedure, l’uomo viene trafitto con un coltello da macellaio, come un agnello sull’altare del sacrificio.

Il tema principale dell’opera è il sentimento di oppressione dell’essere umano rispetto a un’entità superiore, la quale lo costringe in una situazione assurda di vessazione e

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disorientamento; il processo ne è una metafora. L’impiegato di banca Josef K. viene fin da subito messo a processo, già nelle prime righe del romanzo (“Lei non può andarsene, lei è prigioniero” dice nel primo capitolo una delle guardie). Tuttavia, dall’inizio alla fine non viene mai indicato il reato di cui K è colpevole. Basti pensare che quando K chiede al poliziotto quale sia la colpa di cui è imputato, gli risponde “Non siamo tenuti a dirglielo”. Anche nelle varie udienze, non viene mai fatte menzione della presunta colpa di K. Egli viene processato per un reato di cui non è a conoscenza. Infatti, in una consultazione con l’avvocato Huld, viene detto a K. che è stato imputato e devono agire “alla cieca”, non potendo accedere all’atto d’accusa. A tal proposito, K. dice tra sé: “Soprattutto era necessario, se bisognava ottenere qualcosa, respingere fin da principio qualunque idea di colpa. Non c’era colpa”. Oltretutto, le stesse autorità giudiziarie da cui è messo a processo appaiono come qualcosa di estraneo, con cui è impossibile comunicare.

Il tribunale è una realtà aliena, quasi metafisica. I suoi uffici si trovano infatti nascosti in un edificio, al cui interno sembra trovarsi una dimensione estranea, quasi parallela, al mondo esterno. Qui K. si muove confuso, perseguitato dai giudici e dalla giuria che governano una macchina burocratica fredda e spietata; tale macchina sembra regolata da una legge parallela a quella umana, quasi divina, che agisce e decide secondo meccanismi ignoti.

L’Alta Corte, quella che aveva stabilito le colpe e la sentenza di K., è un’entità solenne e oscura, quasi astratta. Pochi, se non nessuno, sono veramente a conoscenza di tale entità e delle sue intenzioni. Persino le guardie che K. si ritrova in casa all’inizio, non le conoscono (“…e io le conosco solo ai livelli più bassi” dice uno di loro).

Il fatto che K. venga ucciso con un coltello da macellaio è un dettaglio apparentemente insignificante, ma che rivela molto sul significato del romanzo. L’assassinio finale di K., infatti, se da una parte può essere inteso come un regolamento dei conti con il Tribunale, dall’altra è interpretabile come un vero e proprio sacrificio a una divinità suprema, solenne e ignota, identificabile con il Tribunale stesso.

È interessante inoltre un episodio del libro: la moglie dell’usciere del tribunale ha una relazione ambigua con un influente studente di legge. Lei prova disgusto del sentimento morboso con cui lo studente le si attacca, ma non riesce a liberarsene. Il marito accetta nolente, dato che lo studente ha una posizione privilegiata e opporvisi gli farebbe perdere il posto. Questo episodio è interpretabile come una metafora dell’uomo, il quale si sente oppresso dalle strutture sociali che lo circondano, ma il loro potere è tale che l’uomo non può liberarsi dal suo attaccamento (la si può considerare una peculiare, quasi grottesca, forma di “sindrome di Stoccolma”).

Il libro di Kafka può essere considerato una “allegoria vuota”, come disse lo scrittore e critico letterario Walter Benjamin in riferimento allo stile allegorico kafkiano. Lo scrittore, deceduto poco prima di concludere il libro, non dà precise indicazioni su cosa rappresentino il Processo e l’Alta corte. Dunque il tema del libro è interpretabile in diversi modi: il mondo frammentato e caotico successivo alla Prima guerra Mondiale; un’entità divina indefinita (potrebbe avere un’analogia con quell’altrui con cui Ulisse, nel canto XXVI dell’Inferno di Dante, indica il Dio cristiano); la società capitalistica, che riduce l’uomo a mera macchina di produzione e consumo; un’allusione freudiana alla figura del Padre sempre pronta a giudicare il figlio (vedi Lettera al Padre del 1952), o un’allusione alla condizione dell’ebreo in Europa, e quindi all’Uomo tout court.

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CONTATTI: @i_giornalino I’Giornalino dell’Alberti Dante ilgiornalinodellalbertidante@gmail @

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