September 2020

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Gorizia News & Views Anno 4 - n. 8 Settembre 2020

UNA PIOGGIA D’INTERROGATIVI SUL DRAMMA DI STEFANO

AL “VERDI” UNA POLTRONA PER MAIA

pag. 12 e 13

pag. 7

UNDICI SERATE COL PREMIO AMIDEI pag. 12 e 13

LA DANZA ABBATTE I CONFINI

I SETTANT’ANNI DELLA DOMENICA DELLE SCOPE

pag. 6

ALLARME-DROGA: CI VOGLIONO PIU’ DIALOGO E PREVENZIONE pag. 4 e 5

pag. 8 e 9

SCARAMELLA UN TALENTO DEL JAZZ pag. 21


Pag. 3 Regione e Asugi: è necessario un piano d’emergenza per affrontare una possibile recrudescenza del Covid-19

SOMMARIO

Pag. 4-5 Droga, un problema che andrebbe affrontato meglio non con le telecamere, ma parlando con i giovani Pag. 6 Con “Visavì” riflettori puntati sulla grande danza contemporanea Pag. 7 Dedichiamo a Maia una poltrona del teatro Verdi e a “Gigi” Genovese un convegno di studi giuridici Pag. 8-9 La domenica delle scope e altre “diavolerie” ci hanno insegnato come la libera circolazione sia un diritto umano e inarrestabile Pag. 10 L’importanza del confronto con la cultura degli immigrati Pag. 11 L’annunciato smantellamento del Consorzio universitario sarebbe un passo indietro incomprensibile per la nostra città Pag. 12-13 Una pioggia di interrogativi sulla fine di Stefano inghiottito a tredici anni dal pozzo del Parco Coronini Pag. 14 Il Parco del Castello: una risorsa da scoprire Pag. 15 Frank parte per le vacanze ma all’aeroporto trova i voli cancellati Pag. 16 Dal Messico a Gorizia: il Salice del deserto in Largo Pacassi Pag. 17 A Bologna, 40 anni fa: andavo da un amico in cerca di lavoro e mi ritrovai sul piazzale della stazione il giorno dopo la strage Pag. 18-19 La Gorizia di Medeossi: mi aiutò la biografia di Pocar ma bastava entrare in un’osteria per scoprire un mondo Pag. 20 Lo scandalo del Guttalax in quel Giro d’Italia vinto da Saronni Pag. 21 Scaramella, un talento del jazz da tenere d’occhio con la passione per i silenzi che offre solo la montagna Pag. 22-23 Ironia, spirito critico e colori sgargianti: così da 40 anni Martin Parr esplora il consumismo come ultima ideologia

Gorizia News & Views è reperibile in forma cartacea nei seguenti punti di distribuzione: A Gorizia Generale: Biblioteca Statale Isontina di via Mameli, Kinemax e Mediateca Ugo Casiraghi di piazza Vittoria, Music Shop di via Mazzini, Kulturni Dom di via Brass, Casa delle Arti di via Oberdan, Ugg di via Rismondo, negozio Il Laboratorio di piazza Vittoria e Sushi Fashion di corso Italia. Librerie: Leg, Voltapagina e Ubik di corso Verdi, Libri Usati di via delle Monache e Faidutti di via Oberdan. Edicole: Tutte le Edicole di Gorizia Tiratura: 1000 copie

E’ consultabile on line all’indirizzo: www.gorizianewsandviews.it

Note in città: ultimi concerti Questi gli appuntamenti in programma in settembre (la conclusione del ciclo è prevista proprio per il 18 di questo mese) nell’ambito della rassegna Note in città 2020. Alle 6 del mattino di sabato 5 la Gorizia Guitar Orchestra si esibirà nel piazzale Seghizzi, davanti al Castello, in un omaggio musicale alla mostra “Massimiliano I – Il fascino del potere”. Al termine del concerto sarà possibile visitare la mostra. Venerdì 11 alle 21 ai Giardini pubblici suonerà la Gone with the Swing Big Band, diretta da Raoul Nadalutti. Infine venerdì 18 alle 21, nel giardino di Palazzo De Grazia saranno di scena i Cameristi del Fvg (Marta Di Lena al flauto, Marco Di Lena alla chitarra e Roberto Squillaci al clavicembalo).

Sofferenze psichiche Un convegno al Verdi Venerdì 18 e sabato 19 settembre al teatro Verdi si terrà il convegno “Sofferenze psichiche: dallo psicofarmaco alla scienza dell’auto-cura psichica”. L’organizzazione è dell’associazione Ama-Linea di sconfine, presieduta da Marco Bertali, responsabile del progetto Sconfinata-Mente. Il fittissimo programma della due giorni di convegno (si comincerà venerdì alle 9 per finire alle 19 di sabato) prevede interventi di medici, psicologi e psichiatri. E’ rivolto ad operatori della sanità ma aperto anche all’associazionismo, alla cooperazione sociale e a tutti gli interessati.

Novecento inedito al Kulturni Dom

Gorizia News & Views Reg. Trib. Gorizia n. 1/2017 dd 11/12/2017 mensile dell’APS Tutti Insieme http://tuttinsiemegorizia.it/ info@gorizianewsandviews.it DIRETTORE RESPONSABILE Vincenzo Compagnone REDAZIONE Eleonora Sartori (vice direttore) Ismail Swati, Rafique Saqib, Felice Cirulli, Renato Elia, Eliana Mogorovich, Timothy Dissegna, Anna Cecchini, Stefania Panozzo, Aulo Oliviero Re, Lucio Gruden, Martina Delpiccolo, Elio Candussi, Giorgio Mosetti, Liubina Debeni, Paolo Bosini, Luigi Casalboni, Paolo Nanut PUBBLICATO SU www.gorizianewsandviews.it 2

Ricomincia la rassegna Novecento Inedito con due appuntamenti, entrambi al Kulturni dom Gorica. Martedì 8 settembre ore 18 - Presentazione del libro di Anna Di Gianantonio e Gianni Peteani 1945. Ich bin Schwangerer (sono incinta). Introduce Nadia Slote Martedì 15 settembre ore 20.30 - Presentazione del libro di Luana de Francisco e Ugo Dinello Crimini a Nord-Est. Introduce Anna Di Gianantonio. L’iniziativa è organizzata da ANPI VZPI Gorizia-Gorica e Irsrec FVG con la collaborazione di Kulturni dom Gorica, Forum Gorizia e Isonzo Soča Giornale di Frontiera/Časopis na meji.


Regione e Asugi: è necessario un piano d’emergenza per affrontare una possibile recrudescenza del Covid-19

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li attuali “Padroni del vapore” della sanità regionale e isontina devono trovare il coraggio di riconoscere i loro errori. Serve ripensare l’ impostazione generale della sanità regionale, e rivedere le modalità di gestione della emergenza, per affrontare meglio una possibile seconda ondata della pandemia. Durante la prima fase dell’emergenza, Regione e Asugi (Azienda Sanitaria Universitaria Giuliano Isontina) hanno evidenziato la mancanza di una strategia preventiva; i Dps (Dispositivi Personali di Sicurezza) sono stati distribuiti agli operatori sanitari e ai medici di medicina generale con grave ritardo. I nostri ottimi operatori sono rimasti per lungo tempo privi di chiare e univoche disposizioni sulle modalità di approccio sanitario al virus; sono mancate linee guida di intervento coerenti e complessive; è mancata una base di informazione e formazione per gli operatori sanitari e assistenziali. Ora ci si appresta ad affrontare una nuova fase e serve cambiare rotta. Prima di tutto si deve rafforzare il Sistema Sanitario pubblico e universalistico. Mentre l’Amministrazione regionale ha scelto di raddoppiare la quota del budget della sanità regionale destinata al “privato mercantile” - sottraendo risorse al nostro Servizio Sanitario Regionale - la pandemia ha evidenziato il ruolo fondamentale e imprescindibile del Servizio Sanitario pubblico e universalistico. Secondariamente si deve ridare centralità alla Medicina Territoriale. La recente riorganizzazione dei servizi sanitari voluta dall’Amministrazione regionale di centrodestra ridimensiona il ruolo dei servizi territoriali e dei Distretti, li impoverisce, compromette il loro radicamento territoriale e la loro governance locale. Tutto l’opposto di ciò che abbiamo capito in questi mesi: e cioè che, in assenza di servizi sanitari territoriali forti e fortemente integrati con i Medici di Medicina Generale, la gestione del Covid-19 è inadeguata e tardiva. Distretto e servizi territoriali vanno rafforzati, va perseguita la domiciliarità delle cure, si devono attivare strutture territoriali che siano punti di riferimento multiprofessionali integrati con i servizi sociali. Va completamente ripensata l’assistenza agli anziani e alle persone fragili. Con la massima urgenza Regione e Asugi devono dotarsi di un Piano di emergenza che permetta di intervenire in modo tempestivo ed efficace in caso di recrudescenza del contagio. E tuttavia anche il miglior piano possibile si rivelerebbe del

di Franco Perazza tutto insufficiente se contemporaneamente non si mettesse mano alle gravi carenze nell’organico del personale sanitario ospedaliero e territoriale. Per la sanità goriziana si tratta di una vera emergenza che colpisce ogni reparto e ogni servizio, nessuno escluso: dalla ortopedia alla cardiologia, dal centro di salute mentale all’ambulatorio dietistico, dalla fisioterapia alla pneumologia, dal sert al Dipartimento di Prevenzione. Un problema scottante per la realtà isontina è rappresentato dalla mancata definizione della organizzazione ospedaliera e delle funzioni da attribuire ai due presidi ospedalieri isontini. La Direzione Generale deve esprimersi subito, con chiarezza, sul destino degli ospedali di Gorizia e di Monfalcone: vanno fatte scelte razionali, coerenti con i bisogni veri della popolazione, libere da ingerenze politiche di “campanile” e da interessi professionali. La nostra popolazione è caratterizzata dalla presenza di molti anziani. E’ dunque indispensabile garantire che le fratture di femore siano operate entro quarant’otto ore con una successiva immediata riabilitazione, che un “pace-maker” cardiologico sia impiantato senza richiedere un ricovero a Trieste. Ma ci vuole anche una forte infrastruttura dei servizi di prossimità. E’ indispensabile che gli anziani stiano più a lungo possibile a casa loro grazie alle “microaree”, che si attivi finalmente la rete assistenziale integrata per le demenze, che si possa beneficiare di cure palliative a domicilio, che ci siano trasporti gratuiti verso l’ospedale Hub di Trieste. Vanno altresì ridotti i tempi di attesa per tutte le prestazioni che hanno subito ritardi a causa della scelta di destinare l’ospedale di Gorizia alla gestione dei pazienti Covid-19. Nello scenario che si sta delineando è d’obbligo sviluppare lo strumento della Telemedicina: quanto mai utile alla luce del distanziamento fisico richiesto dalla pandemia, adatto a rendere più agevole la gestione a distanza dei pazienti con patologie di lunga durata riducendo in tal modo le occasioni di contagio connesse alle visite ospedaliere. Ci attende una crisi economica senza precedenti, aumenteranno le disuguaglianze sociali che peseranno sui determinanti sociali di salute ( alimentazione, reddito, istruzione, stile di vita, sono già colpiti) e questo si farà sentire pesantemente sulla salute dei cittadini. O sapremo avviare un nuovo Welfare di Comunità solidale, inclusivo, integrato o la vera partita della sanità sarà persa.

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Referendum: discussione pubblica sulle ragioni del NO Forum Gorizia: basta silenzio sul taglio dei parlamentari e sul referendum del 20 e 21 settembre. Discussione pubblica sulle ragioni del NO, il 14 settembre prossimo, in piazza Vittoria. Il risparmio ottenuto dalla riforma costituzionale che taglia il numero dei parlamentari (1 euro e 35 centesimi per cittadino all’anno) vale la perdita di rappresentatività di territori e popolazione ( la nostra Regione ridurrebbe i deputati da 13 a 8 e i senatori da 7 a 4): NO Meno parlamentari alla Camera e al Senato garantisce - in assenza di una legge elettorale proporzionale e di una diversa composizione delle liste dei candidati - maggiore qualità nella produzione legislativa? NO Otterremo maggiore efficacia sul controllo dell’operato del Governo attraverso l’attività ispettiva dei parlamentari? NO Il taglio a Camera e Senato renderà più efficiente l’esercizio della sovranità da parte del popolo, frenerà le ambizioni di Governi che impongono a scatola chiusa norme e decisioni al Parlamento invece di eseguire quanto deciso dalle due Camere, restituirà dignità a deputati e senatori ridotti a yes men: NO Un Parlamento più piccolo consente il riavvicinamento dei cittadini alla politica, permette una diffusa rappresentazione delle istanze di giustizia sociale, economica, ambientale? NO Forum Gorizia ha organizzato una discussione pubblica su questi temi. L’appuntamento è per il 14 settembre, con il politologo Marco Cucchini e il Consigliere regionale Furio Honsell, in piazza Vittoria, alle 18.30. L’intento è quello di spiegare perché la riforma è sbagliata quanto a contenuti, finalità e persino relativamente alle modalità con cui è stata adottata. E di motivare le ragioni del NO al voto del referendum popolare sul taglio dei parlamentari: un taglio che ha superato a stento il vaglio parlamentare ( tant’è che è stato possibile dare ad elettrici ed elettori l’ultima parola) e che è stato via via “rinnegato” dagli stessi che nel 2019 l’hanno approvata, con molte eloquenti ambiguità, in nome della “governabilità” e degli accordi politici di maggioranza, e che ora si sono tardivamente accorti del rischio devastante che incombe sulla democrazia italiana in assenza di strumenti per assicurare attraverso il voto una diversa selezione della classe politica e della composizione delle Aule del Parlamento.


Droga, un problema che andrebbe affrontato meglio non con le telecamere, ma parlando con i giovani

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di Eleonora Sartori, Luciando Capaldo e Andrea Picco

ei luglio 2020: muoiono a Terni due ragazzi per aver assunto metadone. Avevano 15 e 16 anni e non era la prima volta, da quanto confessato dallo spacciatore, che lo facevano. Dall’indagine aperta in conseguenza di questa drammatica vicenda è venuta a galla un’allarmante consuetudine tra i ragazzi, soprattutto adolescenti, appresa da video su Internet

cui ho dato dei soldi stando ben attenta a non toccargli la mano.

responsabile per la Coop Reset del servizio d’ambito Bassa Soglia di Monfalcone.

DEGRADO

“Da una parte c’è il dato biologico: ogni essere umano, nella storia come oggi, nutre bisogni non solo fisici, ma anche psichici. Non c’è solo la necessità di nutrirsi ma anche di provare emozioni che tendenzialmente soddisfano un piacere, dunque il piacere è un bisogno psichico. L’uomo ha sempre ricercato il soddisfacimento dei piaceri anche con l’uso (oggi

Due episodi, avvenuti a poca distanza l’uno dall’altro, in due Stati diversi. La punta microscopica di un iceberg gigantesco che sta sott’acqua… Sotto il tappeto della vergogna, dell’omertà oppure sotto la pesante coperta fatta di ciò di cui si sceglie di parlare a scapito di altro. Oggi

Distribuzione percentuale delle sostanze primarie dei diversi servizi territoriali per sostanza di abuso primaria (anno 2018). Fonte: Fonte: mFp5 (estrazione dati il 01/10/2019)

o da alcune canzoni trap, di assumere metadone diluito o codeina diluita con acqua o con altre bevande, al fine di ottenere un effetto rilassante. EFFETTORILASSANTE 16 agosto 2020: arrivo a Lubiana e mi fermo in un locale del centro. Dopo un po’ un ragazzo mi viene vicino. E’ molto giovane, bello, mi fa pensare immediatamente a mio figlio da grande. Non ho capito subito volesse dei soldi. Non avevo capito fosse messo male. Finché ho sentito il suo odore e mi è salito un conato di vomito. Tremendo. Gli ho dato due euro, glieli avrei dati comunque. Ma volevo allontanarlo al più presto per l’odore. Era insopportabile. Ha ringraziato ed è sceso dal triplice ponte. Dopo un po’ mi alzo e mi ci affaccio. Il ragazzo a cui poco prima avevo dato l’elemosina è seduto tra i rifiuti e si sta facendo una pera. Una bella città. Pieno centro. Turisti. E l’ultimo degli ultimi che si buca nell’immondizia, molto probabilmente con i soldi che gli ho dato io. Non mi interessa questo ultimo aspetto. Quando do dei soldi a qualcuno non penso a cosa ne farà. Ma ho ancora impresso il volto di quel ragazzo biondo e maleodorante a

è il Covid a saziare il nostro appetito di notizie, domani chissà. MAILCOVID NONLOSCEGL I L A D R O G A S I’ Le sostanze stupefacenti le scegli veramente? Chi sono le persone che imboccano una via spesso senza ritorno? Cosa le spinge? Risposte valide preconfezionate, purtroppo, non esistono. Le righe che seguono, scaturite da una chiacchierata con chi conosce il problema, non sono altro che riflessioni ad alta voce. L’intento è quello di ripensare gli approcci di intervento, attenuare il giudizio che porta allo stigma sociale, aumentare la consapevolezza rispetto a una situazione, l’uso di sostanze, che c’è, esiste, è sempre esistita e verosimilmente sempre esisterà. Siamo tutti coinvolti: singoli, cittadini, utenti ed operatori, e Istituzioni. CULTURAVERSUSCONSU MO “Per affrontare il fenomeno a livello di amministrazione comunale o a qualsiasi altro livello bisogna innanzitutto inquadrarlo a livello culturale e antropologico” – dichiara Luciano Capaldo, in passato

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consumo) di “agenti esterni”, tra i quali le sostanze psicoattive, dal caffè all’eroina. Ognuna di esse produce un “effetto positivo” e un “effetto collaterale negativo”, banalizzando potremo dire che nel caffè il secondo è insignificante e nell’eroina è massimo, l’importante, però, è tenere sempre in considerazione il “punto di vista del consumatore”. Per l’eroinomane è prevalente l’effetto positivo della sostanza anche se egli razionalmente sa che sta “problematizzando” la propria vita”. Gli effetti collaterali della sostanza sono gli unici negativi? Assolutamente no. Esiste la reazione della collettività in cui vivi, influenzata da regole sociali scritte e morali, giudizi negativi o positivi, un contesto che ti esclude o non ti esclude dai tuoi diritti/doveri quando prende atto dei tuoi consumi. L’alcool è più tollerato di altre sostanze pur non essendo affatto innocuo. Questo è un esempio tipico della differente reazione della collettività. Nella storia dell’uomo l’uso di sostanze era caratterizzato da elementi culturali molto forti, che ne determinavano modalità e motivi di assunzione. Il modello sociale contemporaneo ha spinto moltissimo il “bisogno psichico” di cui


sopra verso le logiche di tipo consumistico. Non solo le droghe, ma il cibo, il rapporto con gli oggetti e con la stessa informazione, perfino le relazioni o la cultura oggi è “consumata”, secondo un modello usa e getta. Oggi ci troviamo, da una parte una richiesta sfrenata di soddisfare bisogni psichici e dall’altra una società altamente regolata da leggi che tengono “dentro o fuori” “includono o escludono” i comportamenti, ma soprattutto la persona nella sua totalità. Si passa da un estremo “ti proteggo, non ti curo, ma mi prendo cura di te”, ad un altro “ti controllo socialmente, ti curo ma di fatto ti spingo ancora più ai margini” perché la tua presenza giustifica il mio divieto legislativo agli altri. Quanta e quale parte gioca l’educazione? Non si può negare che l’educazione, sia essa preventiva, di accompagnamento ad una cura o di riduzione del danno, sia fondamentale. Educazione significa, tuttavia, “educere” “condurre fuori”, significa che in rapporto al problema non devi fare e basta (quello che spesso dice la legge scritta o morale), il processo educativo va in contraddizione. Educere significa che devo, nell’ambito dall’amplissimo raggio di scelte di consumo che una persona ha per soddisfare quel bisogno psichico, tirare fuori dal soggetto la capacità di saper scegliere. E’ un concetto che vale per chi sceglie di avere delle esperienze con le sostanze psicoattive, ma vale anche nel rapporto con il cibo, con la sessualità, con la capacità di instaurare relazioni significative. Uno scenario, dunque, opposto a quello delineato dal proibizionismo… Il problema del proibizionismo non è il voler affermare o meno le droghe in una società, anche perchè la storia ci insegna che ci sono sempre state e, nonostante dal dopoguerra in poi si siano affermate politiche proibizioniste, sono aumentate, diversificate, ma soprattutto “diluite” nel consumismo, il proibizionismo mina alle fondamenta la possibilità di poter costruire un rapporto educativo permanente, che sta nella scuola, con un programma serio e strutturato, e non un’occasione “spot”, che possa affrontare la questione delle droghe da un punto di vista più

do: primaria, educazione alle emozioni, medie, educazione al passaggio adolescenziale, superiori, educazione alla vita e critica al consumismo. Qual è lo stato dell’arte? Nonostante le resistenze istituzionali, le stesse scuole si stanno, anche se non in modo sistemico, attrezzando, e in parte agiscono già. Un semplice Comune, pur in un quadro che rende difficile costruire “rapporti educativi significativi” su questi temi, può sperimentare politiche amministrative che vanno nella direzione della costruzione di essi. In italia e in Europa vi sono tante esperienze municipali. Oltre a interventi dentro la scuola per i quali il Comune dovrebbe garantisce una “sistematicità” di intervento, si possono immaginare servizi di prossimità che organizzati nei luoghi dove i giovani si riuniscono. Alcuni progetti sono nati, ad esempio in questo territorio “Overnight” e “What’s up”, ma spesso hanno poca durata e non si riesce a creare una generazione di operatori con il knowhow adeguato. E da noi? Cosa succede a Gorizia? Spesso abbiamo appreso dalla stampa locale e dalle dichiarazioni degli assessori di turno che il problema c’è, non è così manifesto, ma esiste. Sappiamo, ad esempio, che il parco del Comune è un luogo in cui spesso si trovano flaconi di metadone e siringhe abbandonati, ma sappiamo altresì che la risposta più gettonata al fenomeno del consumo di sostanze stupefacenti è l’aumento del numero di telecamere di sorveglianza. TROPPODOLORETROPPA HEROINA “Troppo dolore, troppa heroina”. Non so chi sia l’autore di questo capolavoro che si trova sul muro all’incrocio tra via Terza armata e via Vittorio Veneto, ma chi ha scritto quella frase non solo ha capito perfettamente, ma ha anche regalato a chi vuol capire la chiave di lettura di più aderente alla realtà” – afferma Andrea Picco, operatore nell’ambito delle dipendenze e Consigliere comunale. “Il binomio scorsoio tra dolore e eroina, lì, sul muro, spiega più di mille trattati.

La scritta “Troppo dolore troppa heroina” sul muro di via Scuola Agraria

ampio, che abbracci la parte psichica di ognuno di noi, senza negarla. Oggi nelle scuole ci sarebbe bisogno di una vera e propria materia scolastica, declinata diversamente a seconda dell’ordine e gra-

Se, infatti, l’avvicinarsi ad una sostanza come l’eroina può essere mascherato come la ricerca di un “piacere così intenso, mai provato con altro”, ciò che in realtà avviene col passare del tempo è

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proprio il tentativo di placare un dolore che è “troppo” per essere sopportato. I dati che arrivano dai servizi per le dipendenze parlano chiaro: su 100 persone che si rivolgono al Sert, 77 lo fanno perché dipendenti da oppiacei (eroina o metadone). In 25 anni di frequentazione dei servizi per le dipendenze in regione, vi posso garantire che non ho mai incontrato una persona felice grazie a questo piacere immenso che le sostanze danno. Non ne ho trovata nemmeno una ricca, o serena. Ho sempre visto persone in difficoltà, per troppo dolore e troppa heroina, o troppa cocaina, o troppo alcool, l’abuso del quale metto sullo stesso piano dell’uso delle altre due. Ho visto soprattutto tanta solitudine, che il tempo di una pera o di una sbronza sospende fino alla prossima pera, alla prossima sbronza. Ma chi ha una dipendenza da eroina? Chi sono queste persone? A Gorizia, chi sono? Ce lo siamo mai chiesti? La politica, intendo, se l’è mai chiesto? È, sarebbe, un tema importante da affrontare, o è qualcosa di marginale, che si può nascondere sotto qualche “tappeto di frontiera”? Interessano le vite di queste persone, o interessa che non sporchino il racconto della città? Ogni volta che se ne è discusso in Comune, la proposta è stata più telecamere. Mi permetto di dire che ogni telecamera in più è una parola in meno. Non è un problema di ordine pubblico, è un problema di relazione. Il fatto che siano giovani, e tanti, non è forse un tema politico, quando gli stessi giovani, e tanti, schifano tutto ciò che è politico? C’è sempre stato e sempre ci sarà questo desiderio di esplorare mondi sconosciuti attraverso esperienze di questo tipo. Ma ci sarà sempre troppo dolore? Perché è da lì che si deve partire. Fumata o iniettata in vena, perché per alcuni l’eroina è la risposta? Ai servizi accede di solito chi non ci sta più dentro, o a livello economico o perché troppo intossicato, oppure chi è stato beccato dalle forze dell’ordine. La punta dell’iceberg, quindi. Sotto, si muove tutto un universo di “consumatori” veri propri, poliassuntori si dice in gergo medico, ossia chi prende di tutto un po’, e poi magari l’eroina o il metadone comprato in strada per tornare in qua pronto a una nuova settimana di lavoro. Qualche anno fa ingenuamente chiesi a una persona come facesse a lavorare sedici ore al giorno e poi uscire anche a divertirsi. “Con la coca”, mi rispose stupito dalla domanda sciocca. Ormai le sostanze si trovano ovunque a poco prezzo, di qualità pessima che ne aumenta la pericolosità. I due ragazzini di Terni avevano preso il metadone da una persona che lo aveva avuto dal servizio pubblico, e se lo vendeva per tirar su due soldi. Lo hanno assunto assieme ad altre pastiglie e sono collassati nel sonno, tutti e due. Due vite, andate”. DUEVITEANDATE

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Con “Visavì” riflettori puntati sulla grande danza contemporanea di Eliana Mogorovich

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mbastire un evento cullato da tre anni: immaginarlo, iniziare a lavorarci e poi vederlo allontanarsi verso un imprecisato “dopo” il lockdown. E, ora, in tempi che permangono incerti, continuare a crederci: perchè l’ottimismo, la determinazione e il senso di responsabilità verso il pubblico e i lavoratori dello spettacolo sono dati caratteriali di Walter Mramor e dei suoi collaboratori. Ha preso forma così il “Visavì Gorizia Dance Festival”, un inedito evento transfrontaliero dedicato alla danza contemporanea, promosso da a. Artisti Associati e che si terrà dal 22 al 25 ottobre fra il teatro Verdi di Gorizia e l’Sng di Nova Gorica con tappa finale in piazza Transalpina, dove si concretizzerà il messaggio di vicinanza e dialogo contenuto nel titolo scelto per la manifestazione. Ma è prudente organizzare un festival data la fluidità delle norme di sicurezza da seguire?

a. Artisti Associati (nonchè direttore artistico dei teatri di Gorizia, Gradisca e Cormòns) Walter Mramor, che prosegue: «Con la pandemia, avevamo davanti due strade: sospendere tutto o procedere recuperando i progetti e dando un segnale forte sia per sostenere il nostro lavoro sia quello degli artisti, un atteggiamento positivo che è l’unico modo per combattere questo momento. Inoltre, sento anche nel pubblico il desiderio di tornare a teatro e, certo, auspichiamo che non ci siano restrizioni più stringenti di quelle attuali. Abbiamo comunque due strutture molto capienti su cui contare e, anche con le norme in vigore, potremmo ospitare circa 200 persone a Nova Gorica e attorno alle 350 a Gorizia». Lei ha sempre trattato la danza con un occhio di riguardo: come mai? La mia vita artistica è sempre stata molto istintiva e circa 15 anni fa mi sono reso conto che in regione non esisteva una vera distribuzione della danza, ma solo eventi sporadici. Come operatore artistico, ho sentito doveroso attivarmi in questo settore: ho fatto un investimento triennale e, grazie a questo, a. Artisti Associati sono stati riconosciuti a livello ministeriale come promotori del Circuito Danza regionale, portato avanti per nove anni e ora gestito da Ert sempre con la nostra collaborazione. Ora sono circa 20 i teatri della regione che vi aderiscono con una programmazione ad hoc e questo mi ha permesso di arricchirmi e acquisire esperienze per cui, accanto all’intuizione iniziale seguita dall’esigenza percepita negli spettatori di poter assistere a spettacoli di danza, ci sono sempre stati il rispetto e la curiosità con cui ho trattato questa disciplina. Quali sono i punti di forza del festival? È unico per il suo carattere tran-

«Il progetto non è nato in questi mesi e non solo per la lunga preparazione che richiede: l’idea è maturata subito dopo la chiusura di NID Platform (acronimo per New Italian Dance), ospitato a Gorizia nell’ottobre 2017. L’evento, una vetrina rivolta alla promozione e diffusione della danza contemporanea che si tiene ogni due anni in diverse città italiane, aveva contribuito alla nascita di nuove sinergie e progetti da cui siamo partiti per immaginare che il 2020 potesse essere l’anno perfetto per avviare un festival annuale importante per la regione e per la nostra città, dove per città intendo anche la parte slovena». Così spiega il direttore artistico di

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sfrontaliero e per il suo guardare con attenzione al centro Europa, rispetto al quale Gorizia si pone in posizione centrale. “Visavì” ospiterà delle prime mondiali, quindi solleciterà l’interesse di spettatori e operatori internazionali, magari consolidando o creando nuove collaborazioni rispetto a quelle già attivate dalla Nid. Come sono state scelte le compagnie? Principalmente in base alla qualità dei loro progetti, alcuni già noti in Europa come lo spettacolo inaugurale di Igor e Moreno “Beat”, al teatro Verdi, mentre per altri si è puntato su proposte originali senza trascurare ciò che propone il territorio (è il caso di Giovanni Leonarduzzi, in prima mondiale al Verdi con “Profumo d’acacia”)). In altri casi ha predominato la curiosità verso musicalità per noi lontane come quelle proposte da Roberto Zappalà (il travolgente “Instrumental love”, sempre al Verdi) mentre “Together” di Petra Hrašćanec, in prima mondiale all’Sng, è stato scelto dal pubblico perchè vincitore della call. Quale feedback spera di avere dal festival? Il feedback principale lo attendo dal pubblico, grazie anche alla direzione dell’Sng che ha ampiamente divulgato questa iniziativa. Poi mi auguro che sia una piattaforma di lancio artistico per le compagnie, con opportunità di lavoro nazionale e internazionale per gli operatori, quindi tournée e nuovi progetti: abbiamo già avuto adesioni di partecipazione da parte di direttori di diversi teatri interessati al nostro evento. Mi aspetto, quindi, che “Visavì” possa trasformarsi da progetto a festival stabile, che sia un’officina di nuove creatività e un momento di conoscenza per il pubblico e per gli addetti al mondo della danza. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


Dedichiamo a Maia una poltrona del teatro Verdi e a “Gigi” Genovese un convegno di studi giuridici

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di Vincenzo Compagnone

uesta estate già così cio”, ma un giudizio del genere poteva E un omaggio – ci viene in mente un sbiadita e funesta per uscire soltanto da una conoscenza molto convegno di studi giuridici a lui dediGorizia (in molti la superficiale: era semplicemente una cato, ma se qualcuno ha idee migliori si ricorderanno, più che donna di carattere, una grande donna, faccia avanti - se lo merita anche Luigi per il Covid, per la che quando c’era da bacchettare bacchetGenovese, avvocato di lungo corso, che tragedia del piccolo tava, quando c’era da criticare criticava. con Maia aveva in comune la generosità Stefano di cui parliaSchietta, aperta, senza filtri. La ricordiae la passione per il proprio lavoro, che mo in altra parte del giornale) ha tolto mo onnipresente alla stagione teatrale fino agli ultimi giorni ha portato avanti all’affetto di tanti concittadini anche due del Verdi nella sua poltrona centrale di nello studio di viale 24 maggio. Gigi era personaggi che definire popolari sarebbe seconda fila: spesso all’intervallo, o alla un uomo di legge atipico, l’antitesi di riduttivo. Maia Monzani rappresentava fine della rappresentazione, si avviciquello che, nell’immaginario collettivo, un faro, un’icona del teatro. Era da più nava a noi, seduti a sinistra nei posti si identifica con il “principe del foro”. Un di mezzo secolo la signora del palcosceriservati alla stampa, e se il suo giudizio siciliano mite e tranquillo, che rifuggiva nico, al quale aveva dedicato una vita sugli attori in scena non era benevolo, lo dal protagonismo e dalle cruente battaintera, oltre ad esercitare la professione diceva senza troppi fronzoli (come, allo glie che spesso gli avvocati ingaggiano di logopedista, a nelle aule dei tribufare l’insegnannali. Conciliante, te di dizione, a cercava sempre di far collaborare con prevalere la forza del tante personalità ragionamento pacato, illustri a cominnon alzava mai i toni, ciare – nei lonevitava di ricorrere tani anni 60 – da a quelle diavolerie Franco Basaglia procedurali alle all’ospedale psiquali talvolta i suoi chiatrico di via colleghi si appigliano Vittorio Veneto. per allungare i tempi Maia (che si dei processi o per chiamasse da mettere i bastoni fra nubile, in realtà, le ruote alla conMaria Maddatroparte. Il diritto lena Malfatti lo del lavoro era il suo abbiamo appreso ramo principale, ma dai necrologi quando per esempio apparsi sui muri doveva occuparsi dopo la sua di una separazione scomparsa), oltre fra coniugi, cercava a calcare le scene sempre di mettere fino all’ultimo d’accordo consen– ricordiamo sualmente gli interesla sua interpresati, magari davanti tazione de “Le Maia Monzani con Simone Cristicchi in uno scatto di Walter Menegaldo a una pastasciutta ultime lune”, nel fumante e non nell’a2017 al Kulturni Dom, e più di recente la stesso modo, esternava le proprie lodi settica stanza dello studio, senza che si partecipazione a “Orcolat 76”, lo spettase lo spettacolo era di suo gradimento). arrivasse ad epiloghi burrascosi in stile colo con cui Simone Cristicchi, di cui era Ecco, si è già parlato, dopo la sua morte, “Guerra dei Roses”. E poi era un uomo diventata amica, aveva voluto ricordare di omaggiarla con l’intitolazione di uno impegnato politicamente, sul fronte il terremoto che sconvolse le nostre terre spazio legato in qualche modo al teatro delle lotte per i diritti civili: il suo cuore – si prestava sempre volentieri a delle (i toponimi sono ammessi solo dopo 10 batteva a sinistra, e fece anche un’espe“letture” dei brani più significativi di anni dalla scomparsa). Lanciamo una rienza da consigliere comunale nelle file romanzi scritti da autori locali. Lo faceva proposta: il Comune le dedichi quella dei Verdi del “Sole che ride”. Appassioin occasione delle presentazioni nelle poltrona di seconda fila dove continuenato del volo, fondò e fu il principale librerie cittadine – facendo coppia per remo a immaginarcela mentre sorride animatore dell’Associazione culturale esempio col “nostro” Giorgio Mosetti – e oppure brontola. Una bella targa col suo dei siciliani, organizzando incontri con immancabilmente strappava l’applauso nome impressa sullo schienale – qualcol’autore e tante altre iniziative. Passerandel pubblico presente per la nitida e sa di simile avviene anche in altri teatri no, infine, alla leggenda i mega-banchetcoinvolgente recitazione. La vita non italiani, per esempio quello di Savona ti che organizzava, preferibilmente Ai era stata generosa con Maia, le aveva – la ricorderà agli spettatori di oggi e di tre Soldi goriziani, in occasione dei suoi sottratto la figlia Adriana, psicologa, domani. A lei l’idea sarebbe piaciuta, ne compleanni, con amici e colleghi che arnel 2013 a soli 56 anni, e molto tempo siamo convinti. E bene ha fatto, intanto, rivavano da ogni dove, musica e sorpresa prima il marito Antonio, generale degli il Collettivo Terzo teatro a intitolare a finale. Con Maia e Gigi la città ha perso alpini, nel 1988. Ciononostante proprio lei il premio per la migliore attrice al due pezzi di storia, che quasi ognuno di la generosità e l’altruismo erano forse i festival Castello di Gorizia. noi, per un motivo o per l’altro, ha avuto tratti caratteriali più riconoscibili nella modo di conoscere e apprezzare. sua personalità forte, granitica. Secondo *** alcuni aveva addirittura un “caratterac©RIPRODUZIONE RISERVATA

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La domenica delle scope e altre “diavolerie” ci hanno insegnato come la libera circolazione sia un diritto umano e inarrestabile

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acconto questa storia a mia nipote, che ha ventidue anni e non ne sa nulla. Si fanno vicini tutti gli altri, curiosi. Siamo una decina di età diverse dai novanta ai vent’anni. Tutti ascoltano con gli occhi sgranati una vicenda che pare appartenere a un altro mondo. E invece il mondo è proprio il nostro, quello in cui siamo nati, quest’angolino fatto di montagne, pianura e mare percorso dai brividi straordinari della storia. Una storia non abbastanza raccontata che più la si ricorda meglio è. Sarebbe bello farlo in una serata fredda, magari davanti al fuoco, i vecchi sul seggiolone, i più giovani sui cuscini con le gambe incrociate e gli occhi accesi, mentre una voce calma narra lo srotolarsi delle vicende. Quando comincia questa storia? Quanto indietro dobbiamo andare per testimoniare la presenza di una popolazione che ha l’unica colpa di essere come un cesto ricolmo di frutti e verdure con tanti nomi diversi? Susine, cespes, sliva, mele, milùc, jabolka, zucchine, zuchetis, bučke. Si compra e si vende in italiano, friulano, sloveno e tedesco, durante la lunga dominazione austro-ungarica. In città ci sono italiani, cecoslovacchi, austriaci, boemi, ungheresi, sloveni, croati. C’è benessere e confusione, una miscellanea di contaminazioni culinarie, di giornali in varie lingue, di mercati che espongono pesche di pianura, ciliegie del Collio, funghi del Nanos e capelunghe dell’Adriatico. Un territorio che va dalle Alpi al mare, un piccolo compendio del tutto, il Litorale, con un capoluogo dove si moltiplicano ville e edifici pubblici, tra lo sferragliare dei tram, l’eleganza dei cappellini e la vivacità dei circoli letterari. Quand’è che le cose si guastano? L’Impero diventa sempre più indigesto, l’irredentismo serpeggia come un vento che poi rinforza, scoperchia le tegole e sradica gli ippocastani. E porta la guerra, quella che ha divelto un ordine secolare e messo in ginocchio un territorio. Si cambia bandiera e divisa, il popolo diventa stato senza essere nazione. La città non si riprenderà mai più. Non si parla più il tedesco e presto neppure lo sloveno. Una nuova parentesi buia e dolorosa sovverte equilibri centenari e cambia i cognomi. Persecuzioni e violenza inenarrabili, bocche imbavagliate

di Anna Cecchini e filastrocche da dimenticare. Il gelo di quei vent’anni sfocia in un’altra tragedia, una nuova guerra mondiale. Stavolta ci si mettono nuovi appetiti e diversi ordini mondiali ad accanirsi sul territorio. Come in Germania, calano colpi di scure che squassano di nuovo individui e comunità. Nel settembre del 1947 dentro la città passano matasse di fili spinati. Di qua l’occidente, di là il comunismo. Una frattura profonda quanto gli orrori del Novecento. Berlino e Gorizia, a voler far paragoni che paiono azzardati, ma non lo sono. Bisogna scegliere da che parte stare prima che mettano giù i paletti, anche se è una scelta impossibi-

le. Finisce che le galline becchettano di qua e vanno a dormire nei loro ricoveri di là. Perfino una mucca si trova con le zampe anteriori in Jugoslavia e quelle posteriori in Italia. Per le persone è peggio. Le famiglie si spaccano e la separazione totale durerà tre lunghissimi anni. A mia nipote vengono gli occhi lucidi. Si è immedesimata. Ha capito che sarebbe potuto succedere a noi. Io di qua, loro di là, o viceversa. Tre anni senza abbracciarsi, senza la favola di una nonna prima di andare a letto o una mangiata di gnocchi di susine sotto il gelso. Ha mandato giù questa rivelazione come un brutto rospo che l’ha lasciata senza saliva. “E poi, nonna, cos’è successo?” E’ successo che i governi si sono parlati e che questa vergogna andava in qualche modo lenita, se non cancellata. Durante

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l’estate del 1950, quando l’Italia si scopre povera ma bella, a Gorizia si faranno le prove per abbattere i muri. Domenica 13 agosto la gente preme sui confini già dalle prime luci dell’alba. Si dice in giro che ci si potrà incontrare nella terra di nessuno. La folla si ammassa dietro i fili spinati, di qua e di là. Tutto comincia con ordine e lunghe file silenziose in attesa di dare il proprio nome e quello dei parenti dall’altra parte. Poi c’è la chiamata, dopo estenuanti ore sotto il sole d’agosto. Sotto il cavalcavia ferroviario della Casa Rossa è tutto uno sbracciarsi, chiamare, stringersi. Il tempo è poco perché tutti devono potersi salutare e la folla è immensa. Le ore passano e verso le due del pomeriggio accade l’inim-

maginabile. Il brusio cresce, la folla preme e poi sfonda gli sbarramenti. Il confine viene forzato e una fiumana sudata e irriverente si riversa in città. Le guardie confinarie nulla possono o forse decidono saggiamente di non far nulla per non innescare un detonatore. Fanno bene. La gente affolla le osterie, riempie le strade cittadine. I negozi alzano le serrande, i cortili delle case si affollano, si mangia, si beve e si fa festa. La domenica delle scope, viene chiamata quella giornata pacificamente sovversiva. “Perché, nonna, domenica delle scope?” Siamo abituati a un’unica storia. E invece non c’era solo Gorizia, lacerata e privata della sua gente e del suo circondario. Di là c’era una comunità a cui era stato sottratto un centro commerciale, sociale e amministrativo. Mentre il neonato stato jugoslavo stava faticosamente edificando Nova Gorica, nuovo contrappeso urbano, mancavano


asili, negozi, medici, trattorie e luoghi di ritrovo. Non erano stati strappati solo gli affetti, ma anche tutto quanto costituisce una cittadinanza. Mancava quasi tutto, di là. La gente raggranellò tutto quello che poteva, perfino valuta antiquata e fuori corso, per un bicchiere di vino, un gelato, un po’ di biancheria.

qualche litro di grappa casalinga o per un paio di jeans alla moda. I trucchi per contrabbandare erano ingegnosi, come le scarpe da donna col tacco amovibile per nasconderci valuta pregiata, elaborati sottofondi di auto o complicate stratificazioni di capi di abbigliamento. Molto di tutto questo lo potrete vedere,

S’inventarono di portare con sé burro, uova e perfino galline e conigli da barattare con caffè, vestiti e utensili.

toccare e perfino annusare (sì, perché sono esposte in un piccolo cassetto di plexiglas le tavolette di cioccolato di fabbricazione jugoslava che si acquistavano nei supermercati di Nova Gorica negli anni ’70 e di cui è piacevole riassaporare l’aroma) nel Museo del contrabbando, allestito nell’ex posto di confine del valico pedonale di Rafut: una piccola chicca utile per comprendere quegli anni e quel fenomeno scolpito nella memoria collettiva.

E le scope, sì, le scope di saggina per spazzare. Nessuno ci pensò, in quella domenica di festa, ma accaddero due cose che segnarono questo confine: il suo essere “morbido”, a confronto con l’impenetrabile “cortina di ferro” che tagliava in due l’Europa, e una nuova vocazione, che salvò la Gorizia svuotata del dopoguerra, trasformandola in un polo commerciale per i paesi dell’est, come Trieste. Quella giornata finì al tramonto, con lunghe file ordinate di “fuggiaschi” che tornavano ordinatamente di là, con le scope di saggina sulla spalla, qualche sporta preziosa in mano e il dolore di una nuova separazione. Gli jugoslavi con qualche piccola scorta, gli italiani che non avevano il cuore spezzato contavano le monete raggranellate in una domenica d’agosto, altrimenti destinata all’ozio inoperoso. Sono passati settant’anni da quello storico evento. Di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia. Oggi, che a Gorizia le serrande si abbassano una a una, siamo noi ad andare “di là” per un pranzo fuori porta, per la natura intatta e un’idea di turismo, cultura e consumi sostenibili. Allora Gorizia costruì il proprio benessere attraverso il commercio di beni di consumo che scarseggiavano in Jugoslavia, mentre varcava intimorita la frontiera per acquistare carne, sigarette, benzina e poco altro. Di là con trenta chili di caffè si poteva pagare un matrimonio e per conoscere davvero cosa accadeva nel mondo era necessario procurarsi giornali e riviste italiane. Bisognava rischiare, da ambo le parti, per

Anni di file estenuanti, di sotterfugi e diavolerie che ci hanno insegnato che le frontiere sono dei colabrodo e che la

libera circolazione delle persone e delle cose è un diritto umano e inarrestabile. Lo abbiamo provato tragicamente proprio di recente, a sedici anni dalla cancellazione del confine, quando

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la pandemia ci ha improvvisamente separati. E di nuovo le persone hanno dovuto incontrarsi oltre una rete e ne hanno provato orrore. Abbiamo dovuto tornare alla piazza Transalpina, tristemente tagliata in due da una recinzione, per scambiare medicinali e baci furtivi, cesti di radicchio, libri e fatture commerciali, perché nessuno dei due territori può esistere compiutamente senza l’altro. Mia nipote ha rinunciato a trovarsi con gli amici sloveni negli accoglienti lounge bar di Nova Gorica, e anche a un conveniente pieno di benzina, è vero. Ma lei non sapeva di quanto ci sia costato in questi lunghi anni rimanere separati e cos’abbia significato quella domenica d’agosto di settant’anni fa. Ora lo sa e sono certa con non dimenticherà più. In occasione della storica ricorrenza, Gorizia e Nova Gorica hanno voluto ricordare la “domenica delle scope” con diverse iniziative congiunte che hanno avuto luogo lo scorso 9 agosto. Aperture straordinarie del Museo del contrabbando di Rafut e del Confine in Transalpina, spettacoli teatrali e tavole rotonde nelle due città sono il modo giusto per condividere e rafforzare i contenuti che porteranno all’ultimo step del prossimo dicembre, quando si deciderà della candidatura comune a città della cultura europea 2025. Chi volesse approfondire la conoscenza su questo evento unico dovrà accontentarsi di consultare il numero 14 della rivista Isonzo- Soča, uscita nella primavera del 1994, e leggere la bella intervista al compianto senatore e professor Darko Bratina che ha il merito di aver riportato alla luce questa storia imprescindibile del nostro vissuto, e il simpatico libro di Roberto Covaz “La

domenica delle scope e altre storie di confine” edito dalla Leg. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


L’importanza del confronto con la cultura degli immigrati di Renato Elia

“S

ettembre, andiamo / E’ tempo di migrare”

Chi ama la poesia sicuramente riconoscerà l’inizio de “I Pastori” di Gabriele D’Annunzio. Da quanto tempo sulla terra l’essere umano s’incammina alla scoperta del suo futuro? Da dove veniamo, dove andiamo, chi siamo, quale lo scopo della vita? Sono tutte domande che, da sempre, le persone prima o poi si pongono. Cosa cerchiamo in questo nostro pellegrinaggio, fisico o mentale che sia? Cerchiamo del cibo, la sicurezza, l’affetto mancante, la nostra anima? I giovani immigrati che ci circondano ormai da diversi decenni, per quanto fortemente osteggiati da molti cittadini, anche

politici e amministratori, portano in loro l’esperienza, la memoria della loro storia e quindi del loro cammino. Si tratta di una storia diversa, o forse simile a quella di tanti di noi che abbiamo avuto percorsi difficili, in contesti diversi. Per comprendere l’altro ci vuole non solo l’umiltà di ascoltare, di non giudicare, di accettare la loro diversità culturale, ci vuole il coraggio del proprio cambiamento. La loro memoria contiene molte e interessanti informazioni che, una volta acquisite, potrebbero essere

utili al nostro vivere. Non a caso il mio incontro con i ragazzi provenienti dall’Africa, presso la Caritas diocesana - parliamo del 2009 -, e oggi con gli asiatici, afghani e pakistani, ospitati dalla struttura del Nazareno di via Brigata Pavia in quanto richiedenti asilo, mi hanno permesso di abbracciare, in primo luogo, il mio essere profondo, il pezzo mancante della mia cultura politica. Ho acquisito, tramite loro, i tanti ritagli mancanti del mio “altro”. Un lavoro certosino, cercare e trovare la congiunzione, che permetteva il passare oltre. Il continuo stare insieme, tramite una formazione aperta, ha creato un flusso reciproco di fiducia e di scambio del sapere. Per esempio, la democrazia

non si può capire se non si conosce la dittatura, l’indottrinamento subito sin dall’infanzia, dove il controllo è costante in tutti i momenti, compreso nel gioco. È impossibile svagarsi liberamente, tutto è imposto e persino l’affetto viene spezzettato. La nostra Costituzione, confrontandola per esempio con quella afghana, ci fa capire quanta strada dobbiamo percorrere ancora per mantenerla attiva. Come dicevamo, se noi siamo memoria le parole che leggiamo in essa ci inducono

il nostro fare. Così, dentro la mia storia, ho trovato zone chiuse, altre in ombra: erano pezzi di tirannia che umiliavano i miei sentimenti, il mio voler agire secondo una consapevole libertà. Il mondo gira e girerà sino alla fine dell’universo e così ciascuno di noi è il pastore dei propri ricordi e potrà con la sua esperienza riproporre il valore della “Libertà”, una luce viva nel buio delle sofferenze, dell’ingiustizia e dei tanti inutili conflitti generati dall’incuria dei poteri. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Top Five Libreria Ubik 1) “Sedici parole” (Neva Ebrahimi) 2) “Qualcuno ti guarda” (Lisa Jewell) 3) “Love” (Roddy Doyle) 4) “Paura verticale” (Linwood Barclay) 5) “Heart-breaker” (Claudia Dey)

Top Five Music Shop 1) “Rough and Rowdy Ways” (Bob Dylan) 2) “Home Grown” (Neil Young) 3) “Folklore” (Taylor Swift) 4) “Unplugged” (Liam Gallagher)

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5) “Whoosh!” (Deep Purple)


L’annunciato smantellamento del Consorzio universitario sarebbe un passo indietro incomprensibile per la nostra città di Laura Fasiolo

D

opo la proposta del Sindaco di Gorizia di sopprimere il Consorzio Universitario, considerato “vintage”, in favore di un “Tavolo di concertazione permanente per gli studi universitari e di alta formazione di Gorizia” con la presenza degli stessi soci (Comune e Cciaa Vg), degli stessi finanziatori (Regione -Fondazione Carigo), dei medesimi Atenei, Udine e Trieste, mi sono chiesta quale sia il rivolgimento epocale: aggiungere il supporto/collaborazione di Isig e Gect? E quando mai non si sarebbero potute mantenere o valorizzare, ove necessario, tali collaborazioni stante il Consorzio? Incrementare i soggetti del Tavolo con Atenei stranieri, quali l’Università di Lubiana, Vienna, Klagenfurt e chi più ne ha più ne metta? Ai sensi dello Statuto consortile vengono auspicate proprio tali collaborazioni, attivate da tempo. Perchè, prima di pensare alla soppressione di un ente pubblico funzionante, dinamico, con politiche di apertura internazionale di tutto rilievo se non uniche in Italia, e per di più in attivo, non si è provveduto a leggere il suddetto statuto che già consente, anzi, auspica collaborazioni e apertura verso l’Europa e il mondo? Le nuove competenze, il portierato e i contratti, che si è ora deciso di affidare alla “Agenzia Regionale per il Diritto agli Studi Superiori” (Ardiss), sarebbero la rivoluzione innovativa? Un silenzio assordante, invece, sui tanti risultati positivi realizzati dal Consorzio in questi anni, sul cui operato non è stata fatta alcuna valutazione critica in termini di efficienza, efficacia, economicità dei servizi. Silenzio sul fatto che Ardiss, in tutti questi anni, abbia proceduto con estrema lentezza alla risoluzione del problema “mensa “ di via Alviano, tema rimasto una scatola vuota.

tile, ma semmai il suo rafforzamento, il maggior finanziamento e investimento per combattere le disuguaglianze, rivedendo qualche clausola statutaria e dinamicizzando, con personale esperto, la già qualificata e ricca progettazione internazionale, introducendo ulteriori benefit e borse di studio agli studenti. Ma non basta: Oggi si apre la grande opportunità di investire nell’università, istruzione e ricerca una parte cospicua del Recovery Found, e ci auguriamo che Gorizia ci sia a presidiare i propri corsi, e che il Consorzio venga reinvestito di una nuova centralità (come hanno ben capito i pordenonesi che se lo tengono stretto). Consapevoli che, smantellando

anno accademico; progetti proposti dalle Università e finanziati dal Consorzio, anche extrafrontalieri; viaggi di istruzione a Bruxelles presso le Istituzioni europee con full immersion per una settimana; stage trimestrali di formazione post laurea presso le Ambasciate europee ed extraeuropee, più recentemente presso la Farnesina, completamente a carico del Consorzio, della durata di tre mesi e per il costo di 3000 euro pro capite; più recenti, i corsi intensivi di lingua cinese gratuiti della durata di 9 mesi, selezione dei 10 migliori studenti per anno accademico per stage in Cina, interamente finanziati dal Consorzio per 35.000 €; contributi al Dams per il Film Forum, un fiore all’ occhiello del territorio per la sua internazionalità e quella della Spring School, con seminari professionalizzanti e conferenze per i dottorandi; 20 borse di Studio per anno accademico assegnate sulla base di graduatorie di merito/reddito, e così via. Le attività, unite alla riconosciuta alta qualità della docenza, hanno determinato negli anni l’incremento delle iscrizioni ai Corsi di Laurea di Scienze Diplomatiche ed Internazionali (oltre il doppio del numero previsto) e di Relazioni Pubbliche, con oltre 250 iscritti e persino al Corso di Laurea a ciclo unico di Architettura.

il Consorzio, si smantella un’ istituzione tesa a difendere e valorizzare politiche universitarie che giovano al territorio, altrimenti subalterno a realtà più forti e dominanti.

Silenzio su quale modello economico si insegua, senza un accenno alla necessità di finanziare di più l’Istruzione e la ricerca, i servizi, ridotti all’osso.

Si smantella un’istituzione se è debole, quando non funziona, per sostituirla con una più forte, non per definirne una dal titolo altisonante ma nei fatti copia sbiadita e strutturalmente debole.

Se il prospettato Tavolo di concertazione dovesse farsi interprete di un’inedita modernità, la soluzione ricercata mi pare un maldestro tentativo di fare cassa di risonanza su un nulla sostanziale, poiché ne viene declinata una modalità operativa già prevista dallo Statuto. Se si voleva innovare, si è sbagliata strada. Il punto non è lo scioglimento dell’ente consor-

Qualche osservazione: tra le varie attività promozionali sono state efficaci le politiche di sviluppo praticate verso gli atenei e gli studenti, gli assegni di ricerca triennali (75.000 € anno cadauno) su materie indicate dalla Camera di Commercio, legate all’economia della Provincia; contributi ai due Atenei nella misura complessiva di 60.000 Euro per ateneo/

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Non nego infine la preoccupazione, in caso di soppressione del Consorzio, per le ripercussioni sugli studenti provenienti da fuori regione, o da aree molto lontane del Paese come pure da aree oltre confine: il rischio di compromettere il funzionamento delle attività ordinariamente svolte per la promozione dell’offerta formativa e dei servizi in un contesto in cui il territorio locale già soffre di un grave deficit di laureati e che, considerato il problema Covid, genera preoccupazioni tra studenti e famiglie e richiede risposte. Eliminare un presidio territoriale centrale per Gorizia, significherebbe rinunciare a spazi di decisionalità che tanto abbiamo faticato a rivendicare, favorendo l’accentramento della regìa regionale. E’ un passo indietro. che va nell’onda di un disegno di retrocessione e recessione della nostra città, un segnale incomprensibile di resa incondizionata.

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Una pioggia di interrogativi sulla fine di Stefano inghiottito a tredici anni dal pozzo del Parco Coronini di Vincenzo Compagnone

È

ammissibile che un ragazzino di 13 anni abbia perso la vita precipitando nel buco nero di un pozzo profondo 30 metri, in un parco pubblico, mentre stava giocando a una sorta di “caccia al tesoro” insieme a otto coetanei di un centro estivo? Riteniamo che non ci siano risposte alternative a un secco “no”. Eppure è successo. Il 22 luglio, in una calda mattina d’estate. Nella mente dei goriziani il volto pulito ed educato di Stefano Borghes rimarrà impresso ancora per moltissimo tempo. Basterà passare davanti al complesso museale della Fondazione Coronini, dove si è consumata la tragedia. Oppure nei pressi dello stadio dell’Azzurra di Straccis, teatro di un commovente abbraccio collettivo alla famiglia del bambino da parte di una folla strabocchevole che, nella circostanza così dolorosa dei funerali, ha riscoperto un raro, forse inedito senso di comunità. Ma a tenere accesi i riflettori sull’atroce vicenda che ha sconvolto e paralizzato un po’ tutti i goriziani – per trovare un precedente il nastro della memoria ha dovuto riavvolgersi fino a vent’anni fa, allorchè il piccolo “Giò” Schilirò morì travolto dalle ruote di un autobus all’uscita da scuola – ci penseranno, com’è logico che sia, i servizi dei quotidiani che stanno seguendo l’inchiesta aperta dalla magistratura. Abbiamo pensato che il nostro giornale, lontanissimo dall’idea di aprire processi

del Centro estivo parrocchiale “Estate tutti insieme”, che aveva organizzato la gara di orienteering. Alla fine di settembre il professor Carlo Moreschi depositerà l’esito della perizia necroscopica sul corpicino di Stefano, il primo “atto irripetibile” disposto dal magistrato che conduce l’inchiesta e che, proprio in previsione dell’autopsia, ha inviato gli avvisi di garanzia alle persone coinvolte a vario titolo nella vicenda affinchè potessero nominare, eventualmente, un perito di parte. Successivamente, il pubblico ministero ha raccolto la deposizione del “compagno di squadra” di Stefano, unico testimone oculare del dramma, che – a giudizio unanime – ha ricostruito con chiarezza e lucidità quei

Il commovente post che il padre del bambino, Roberto Borghes, ha dedicato al figlio su Facebook

o anticipare sentenze, avventurarsi in fantasiose supposizioni o in polemiche inopportune, non potesse però sottrarsi alla necessità di ricordare Stefano in queste pagine, formulando inoltre alcune considerazioni e ponendosi degli interrogativi la cui risposta spetterà ovviamente agli inquirenti. I fatti, a grandi linee, li conoscete. In estrema sintesi, ricorderemo che 14 persone sono indagate per omicidio colposo: l’intero Curatorio della Fondazione Coronini, allargato agli ex componenti in rappresentanza della Regione e della Soprintendenza, e i due educatori

L’area del parco Coronini in cui si trova il pozzo nel quale è precipitato, perdendo la vita, il tredicenne Stefano Borghes

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Fondazione, nulla sarà come prima Chissà per quanto tempo il complesso museale della Fondazione Coronini Cronberg rimarrà off limits al pubblico. Era – con il Castello e il piazzale della Transalpina – la principale attrazione turistica della città. Il portone di viale XX settembre è ermeticamente chiuso. Un duro colpo anche per la mostra “Verde sublime” – non memorabile a dire il vero, l’avevamo vista poco prima della disgrazia – in programma fino a gennaio ma alla quale si può accedere soltanto attraverso una porticina seminascosta sul retro, in via Coronini. Verrà naturale, purtroppo, associare il parco alla terribile tragedia del bambino caduto nel pozzo. Il premio Amidei, che Francesco Donolato e Beppe Longo avevano fortemente voluto, nonostante le restrizioni legate al Covid, in luglio si è interrotto bruscamente a metà. Fossimo negli organizzatori, ci penseremmo su due volte prima di riproporre il parco come sede della rassegna cinematografica nel 2021. Così, per una questione di stile e di buon gusto. Difficile ridere o essere spensierati davanti a uno schermo pensando che a distanza di pochi metri ha perso la vita un ragazzino. Il tempo, forse, lenirà le ferite. E speriamo che quanto accaduto non getti ombre pesanti anche sul futuro stesso della Fondazione, la cui immagine potrebbe essere seriamente danneggiata. C’è chi dice anche che le casse dell’ente non siano floridissime, venduto ormai tutto ciò che si poteva vendere (le proprietà immobiliari del conte Guglielmo a Vienna, Firenze e Venezia). E le spese di gestione sono elevate. Il quadro generale non è esattamente quello che il nobile goriziano avrebbe desiderato.


tragici momenti che gli rimarranno per sempre scolpiti nella memoria. Il piccolo amico era salito “carponi”, praticamente in ginocchio, sul coperchio circolare in acciaio del pozzo (alto mezzo metro e del diametro di un metro e venti) per afferrare un foglietto con la mappa delle indicazioni posizionato da un animatore. Involontariamente Stefano aveva “fatto leva” sulla piastra che, dopo pochi secondi, aveva ceduto, finendo in fondo al pozzo in verticale. Così come il bambino, caduto a testa in giù e morendo, si pensa, quasi sul colpo, rendendo vano l’immediato intervento dei vigili del fuoco che si erano trovati di fronte a una scena straziante. Ma il passaggio-chiave dell’inchiesta sarà rappresentato dalla perizia sul pozzo e sulla copertura. Un professionista gradiscano, l’ingegner Carlo Pozzati , avrebbe già compiuto un’ispezione su incarico del magistrato. Non se ne conosce l’esito. Ma la perizia vera e propria – nel momento in cui scriviamo - dev’essere ancora affidata, e anche in questo caso gli indagati potranno nominare dei consulenti di parte. I tempi, quindi, non saranno brevissimi. La domanda che – dopo il rispettoso silenzio che ha accompagnato i giorni immediatamente successivi alla tragedia – tutti si sono posti, è stata: chi era il responsabile della sicurezza del parco? Possibile che sia stata commessa una leggerezza così imperdonabile al punto che – secondo l’avvocato Franco Ferletic, difensore dei due educatori – le tre staffe del coperchio non erano neppure fissate? Il sindaco, Rodolfo Ziberna, presidente pro tempore della Fondazione in virtù della sua carica amministrativa, sin da subito ha affermato: “Con regolarità sono stati commissionati ad esperti esterni dei piani della sicurezza, destinati a prevenire possibili infortuni, gli ultimi

nel 2016 e nel 2019”. La domanda, ovvie, che ci si pone è: possibile che la pericolosità del pozzo, evidentemente non in sicurezza, sia stata grossolanamente sottovalutata? Il manufatto era in quello stato, e non è stato mai toccato, già nel 1990, quando – dopo la morte del conte Guglielmo Coronini, in base al suo testamento olografo – villa, parco e tutti i suoi beni sono passati a una Fondazione a gestione privata – poi trasformata in Onlus – con l’obiettivo di “renderli accessibili al pubblico godimento”? (in tal caso la tragedia sarebbe potuta accadere prima, in qualsiasi momento, bastava che un turista si fosse seduto sul manufatto per una foto). Come mai nessuno ha pensato di sigillarlo ermeticamente come tutti i pozzi di tutti i parchi di questo mondo? Oppure di riempirlo di sabbia fino all’orlo? Perché una voce insistente afferma che i sopra citati controlli avrebbero riguardato soltanto la villa e non il parco? Ma soprattutto: come mai nell’elenco dei 14 indagati non figurano gli “esperti esterni” incaricati delle verifiche? Nella lista, non c’è neppure il responsabile della manutenzione e sorveglianza del parco, indicato alla voce “Staff ” nel sito web della Fondazione (stando alla vox populi la persona in questione svolgeva in realtà un mero ruolo di custode effettuando alcuni lavoretti di scarsa importanza). E allora, chi doveva vigilare sulla sicurezza di un frequentatissimo luogo pubblico dove già in passato, solo per dirne una, si erano svolte prove di orienteering da parte dei centri estivi? Sappiamo che in mano agli avvocati difensori dei 14 indagati c’è un Pos (piano operativo sicurezza) e che tale Pos deve, per sua stessa natura, contenere il nome dell’Rspp (responsabile dei servizi di prevenzione e protezione). Ma, sempre secondo delle voci, tale piano riguarde-

Quel legame invisibile con “Mondo” Bonansea Per farsi un’idea di quanto gentile ed educato fosse Stefano, è sufficiente un episodio rievocato subito dopo la sua agghiacciante scomparsa. Nel dicembre del 2019 il ragazzino, che giocava a calcio come attaccante con la maglia dell’Azzurra-esordienti, aveva rinunciato a segnare un gol a porta vuota per soccorrere l’estremo difensore della squadra avversaria, rimasto a terra infortunato. Per questo gesto di grande fair play, il ragazzino aveva ottenuto il riconoscimento “Le eccellenze dello sport”, da parte dell’Associazione atleti olimpici ed azzurri d’Italia, Stelle al merito dello sport del Coni e Panathlon. Lo stadio dell’Azzurra, nel quale Stefano giocava e che ha fatto da cornice anche ai funerali, è intitolato a Edmondo Bonansea, un vero maestro di sport e di vita, che dopo aver giocato e allenato a ottimi livelli, negli ultimi anni si era dedicato con profitto a crescere giovanissimi talenti calcistici. “Mondo” e Stefano non si sono mai conosciuti, però, pensate: avevano in comune le stesse passioni, il calcio appunto e la musica. Nella fattispecie, suonavano lo stesso strumento, il violino. Se lo avesse avuto come allievo, Bonansea non ne avrebbe fatto il suo pupillo perché si sa, i bravi allenatori non devono avere predilezioni per nessuno. Però le analogie sono impressionanti: Stefano avrebbe incarnato alla perfezione il suo modello di giocatore. Anche quel gesto di fair play avrebbe potuto benissimo ispirarglielo lui, rientrava nei suoi valori e nel suo modo di intendere lo sport. Per questo, in quella torrida giornata di luglio, al funerale, quando è spuntata improvvisamente una nuvola ci è venuto in mente che il primo ad abbracciare il piccolo, lassù, sarà stato certamente il vecchio, caro “Mondo”. rebbe solo la prevenzione di infortuni che dovessero capitare a dipendenti della Fondazione. Possibile? Tanti interrogativi, tanti dubbi, tanti perché. Che sono sorti nella mente di chi ha seguito la vicenda, ma che non hanno scalfito l’incredibile, ammirevole compostezza dei genitori di Stefano. Non una parola d’accusa, non un gesto di rabbia, fuori dalle righe. Quella dignitosa accettazione che probabilmente soltanto la fede può dare. Li abbiamo visti consolare, in chiesa e al funerale, chi voleva consolare loro. Abbiamo letto un affettuoso messaggio di saluto, nella chat di whatsapp, agli altri genitori dei piccoli calciatori dell’Azzurra. Una forza che certamente non è da tutti e che li rende degni di un enorme stima e rispetto che anche noi ci sentiamo qui di manifestare nei loro confronti. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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Il Parco del Castello: una risorsa da scoprire di Elio Candussi

rischio, ma non è bizzarro? Alcuni ragazzini ciondolano e chiacchierano. Nel parco non sono andati oltre. Per imboscarsi (letteralmente) è sufficiente stare lì. La carrareccia prosegue senza illuminazione con modesta pendenza sul lato destro del bosco. Il parco qui è abbastanza privo di sottobosco favorendo così una leggera luminosità, lasciando passare timidi raggi solari solamente al mattino. Viceversa l’area del parco che si affaccia su via Carducci, cioè quella in fondo alla via Franconia di cui ho parlato mesi fa, è selvaggia, incolta, ben poco invitante. Ci sono alcune panchine e dei cestini per le immondizie, il tutto piuttosto trascurato. La manutenzione del sentiero e delle

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ra da diverso tempo che non andavo a passeggiare nel parco del Castello di Gorizia. A dire il vero ho constatato che non sono l’unico goriziano a trascurarlo, molti lo snobbano, forse perché sta alle spalle della città e guarda verso la Slovenia, forse perché manca un semplice collegamento pedonale col comprensorio del Castello. Ma, se ci addentriamo nel bosco, capiremo perché. Ero incuriosito, perché di recente si sono conclusi dei lavori di riqualificazione di una sua parte. Lasciata la macchina nel parcheggio in fondo alla galleria Bombi, inizia l’esplorazione. Il sentiero è in realtà una comoda carrareccia ben larga, con fondo compatto e i lati con un canale di scolo dell’acqua. Vedo che è pulito, libero da foglie e intasamenti vari, solo nella parte superiore. Ci sono anche dei pali per l’illuminazione del percorso. A metà salita c’è un pozzo antico che era completamente ricoperto da piante rampicanti: ora è stato reso visibile e recintato per evitare infortuni. In fondo a questo tratto rettilineo troviamo un parco giochi che sta proprio sopra l’ingresso della galleria Bombi. I giochi sono già stati deturpati da scritte con lo spray; chissà se le telecamere hanno filmato i vandali… Un cartello del Comune avverte che l’accesso all’area è consentito solo 2 ore la mattina e 2 ore la sera; curioso perché, non essendo recintato, l’accesso è di fatto libero. Forse significa che l’uso dei giochi al di fuori dell’orario avviene a proprio

indica che ci troviamo sul ”sito 8” del ”Percorso Permanente Transfrontaliero” dedicato al tema della Grande Guerra. Nonostante ciò questo collegamento appare poco sfruttato sia dai turisti, sia dai goriziani. Incontro due donne velate che portano a passeggio i loro bambini, mi salutano cordialmente e paiono godere del parco meglio dei goriziani. Poco oltre questa scala, proseguendo lungo le mura del Castello, si incontra un recinto all’interno del quale si vede un tetto con tanti camini. Che sarà mai? Un cartello indica che è un impianto di Irisacqua. Infatti lì sotto si trova il vecchio serbatoio dell’acquedotto di Gorizia, tuttora in funzione, quello che fornisce d’acqua il centro della città.

Il curioso avviso del Comune con gli orari di apertura del parco giochi che, in realtà, è sempre accessibile.

attrezzature è alquanto carente, qua e là la vegetazione tenta di debordare. Più si sale e peggiore è la cura del verde. Peccato perché l’aspetto generale sarebbe comunque gradevole, al riparo dalla calura estiva. In cima a questo zigzagare si arriva sotto le mura del Castello, lato Bastione Fiorito, là dove arriva il costruendo impianto di risalita da piazza Vittoria. Si incontra la recinzione del relativo cantiere, che protegge la via di accesso per i mezzi di lavoro, quindi non è valicabile. Qui si capisce come sarebbe utile poter proseguire verso via Franconia appunto e oltre verso piazza Vittoria, creando un circuito naturalistico continuo in partenza da via Giustiniani. Proseguendo verso sinistra, invece, si passeggia sotto le mura del Castello, incombenti e alte, in un ambiente piuttosto buio. Attraverso gli alti alberi si aprono degli scorci verso Castagnevizza, villa Lasciac, bosco del Panovec e dintorni, meglio visibili d’inverno quando cadono le foglie. A un certo punto una scala metallica di costruzione abbastanza recente consente di salire sul torrione del Castello, all’“Osservatorio del re”, riguardo il quale si possono apprendere delle informazioni grazie alla targa ”Let’s GO” fissata al suolo. Il panorama si apre meraviglioso sulle colline verdi verso est; ancora pochi passi e si accede all’area del Castello e al piazzale Seghizzi. Una targa sbiadita 14

Pochi sanno che si tratta del terminal dell’acquedotto costruito negli Anni Trenta del secolo scorso e che attinge l’acqua potabile in località Fontefredda, lungo l’Isonzo, ora in Slovenia. Più in basso, il portone d’accesso al serbatoio è decorato dai soliti graffiti a spray. Si potrebbe proseguire e scendere alla via chiamata Salita Monte Verde: ma è piuttosto complicato, il sentiero ripido e il bosco incolto. Continuando ancora sotto il bastione del Castello si va a sbattere contro un cancello che impedisce purtroppo di proseguire, perché risulta esserci una proprietà privata. Un vero peccato che una striscia di 10 o 20 metri privati impedisca di raggiungere via del Colle, quella strettoia che scende dalla Porta Leopoldina verso la Casa Rossa. Quando ero ragazzo questo impedimento non c’era. Nella mappa posta all’ingresso del parco infatti il transito risulterebbe libero. Misteri goriziani. Il ritorno di questo piccolo tour cittadino deve ahimè avvenire sullo stesso percorso dell’andata. Non incontro più nessuno: ormai è sera, il luogo appare poco invitante, ma mi affascina nella sua penombra; mi accompagna qualche rumore non ben definito, un capriolo, una civetta, chissà... Non vedo animali, ma li sento ed è come se mi salutassero. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


Frank parte per le vacanze ma all’aeroporto trova i voli cancellati di Giorgio Mosetti

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niente, a causa del Coronavirus mi tocca andare in vacanza. In Sardegna, perché mia figlia Alice dice che dobbiamo aiutare i fratelli italiani economicamente provati dal lockdown. Io francamente avrei preferito preparargli un piatto di minestra a casa mia, ma poi anche Leon ha insistito, visto che nei suoi dodici anni di vita non abbiamo mai fatto una vacanza assieme. Così mando giù il rospo e tiro fuori il mio zaino di Star Wars. Lo riempio con il minimo indispensabile. Un ricambio, un costume, un asciugamano, il necessario per lavarmi, le ciabatte e due stecche di sigarette. Va a sapere se in Sardegna ce l’hanno le sigarette, mi son detto. Monto in macchina e partiamo. Destinazione Alghero. Alice mi spiega che ha studiato una soluzione fantastica: macchina fino a Monfalcone, poi treno

fino a Bergamo e infine aereo per la Sardegna. A me pare una follia, ma lo tengo per me. Come se non bastasse, ci becchiamo una giornata da diluvio universale. Piove che Dio la manda, e il viaggio in treno è stramaledettamente lungo. Quando finalmente arriviamo nella città orobica, scendo dal treno di corsa fregandomene di tutti, anche di un’anziana signora e del suo nipotino che faccio cadere a terra. E sotto lo sguardo accusatore di chi mi circonda lancio lo zaino sulla panca e mi tiro fuori una sigaretta. L’accendo. Inspiro, e sento il fumo scivolarmi lungo la trachea con la stessa placida dolcezza di un lago di montagna. Mentre espiro, l’emozione è talmente intensa che mi si chiudono gli occhi. Quando li riapro vedo davanti a me Leon e Alice. Mi stanno osservando. Sulle labbra un sorriso beffardo. “Va meglio, nonno?” Lo ignoro. Prendo Star Wars e me lo carico in spalla. Fuori dalla stazione vediamo i taxi in attesa. “All’aeroporto”, dico al tassista. E nel dubbio allargo le braccia per imitare un aereo. Piove senza sosta. Lungo la strada vedo gente correre frenetica verso un luogo che non conosco, dove si parla una lingua che non capisco. La radio ci delizia con la musica di Morricone. Così appoggio la testa allo schienale e chiudo gli occhi. La sigaretta ha fatto effetto, e mi sta venendo sonno. “Guarda, nonno”, mi strattona Leon per un braccio. Riapro gli occhi e lo osservo. Lui mi indica l’autobus davanti a noi. Sul retro c’è un cartellone pubblicitario con la copertina di un libro, e a fianco un faccione da idiota. Grugnisco. “Non è il tuo amico scrittore?” mi chiede. “Non è mio amico”. “Vabbè, dai, quello che è”. “Un idiota. Ecco quello che è”. Da quando quel cazzone si è messo a scrivere racconti Zen su Gorizia News & Views ha avuto un successo della madonna. E pensare che una volta, per curiosità, ne ho pure letto uno. Nauseabondo. Una storia di una banalità disarmante, melensa e piena zeppa di retorica e luoghi comuni. Leon osserva il cartellone mentre l’autobus accelera e si allontana. “Però ha una faccia simpatica”, dice. Lo guardo come se mi avesse ammazzato il gatto. All’aeroporto veniamo accolti da una folla oceanica, nonostante le norme di sicurezza anti Covid. Quell’andirivieni frenetico e lo starnazzare da pollaio mi fan girare la testa. Mi concentro allora sugli altri per capire cosa fare. Qualsiasi cosa, pur di levarmi da lì. La realtà è che non sono pratico di aerei e aeroporti. L’ultima volta che ne ho preso uno c’erano ancora i fratelli Rusjan alla cloche.

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Così mi affido al genio del mio nipote dodicenne. Il suo volto, però, mi inquieta. “Che succede?” Con un cenno indica il tabellone. “Là, vedi? Stanno cancellando tutti i voli”. Guardo quel marchingegno. A fianco dei nomi delle città scorgo finalmente qualcosa. Delle scritte. E se delayed proprio non so che diavolo significhi, cancelled non lascia spazio al dubbio. “Cacchio”, dico. “Già”. “E hanno cancellato anche il nostro?” “Non ancora. Ma solo perché manca un sacco di tempo”. “Magari non lo cancellano”, butto lì in un impeto di ottimismo. “Non lo so. So solo che tutti i voli da qui a un’ora sono stati cancellati”. “E quindi?” “E che ne so”. Mi guardo attorno. Vedo in lontananza un drappello di persone che circonda - a meno di un metro di distanza - un tizio in divisa che gesticola alacremente. “Là”, dico. “Proviamo a chiedere a lui”. Mi faccio largo e arrivo giusto in tempo per sentire il tizio dire “mi dispiace, ma come vi dicevo il problema è la pista”. “In che senso la pista?” chiedo io. Tutti si voltano verso di me. Il tizio mi guarda e fa un sospiro. Sarà la centesima volta che deve raccontare la stessa storia. “Sono in corso dei lavori di asfaltatura”, dice, “ma a causa del maltempo non sono riusciti a completarli. Quindi la pista è troppo corta per decollare con questa pioggia”. “Questo vuol dire che verranno cancellati tutti? Anche quello per Alghero?” Il tizio allarga le braccia. “Mi spiace, ma proprio non lo so. Monitoriamo la situazione di minuto in minuto. È tutto quello che posso dirle”. E si allontana. Guardo Leon e Alice. Li vedo abbacchiati. “Ehi, ragazzi, mica vi lascerete scoraggiare per così poco?” Loro mi guardano mordendosi il labbro inferiore. Ho notato che lo fanno spesso quando sono a disagio. “Dai”, faccio, “intanto andiamo a fare quella cosa dei bagagli”. “Il check in?” fa Leon. “Proprio quello”. “Ma se poi l’aereo non parte?” “Beh, se non parte, allora andiamo al bar e ci sbronziamo”. Niente. Non riesco a farli ridere. Sono troppo preoccupati. “Coraggio ragazzi, facciamo sto benedetto checin”, rilancio. Ridono. Finalmente. “Dove hai imparato l’inglese, nonno?” mi chiede Leon. “A Saigon”. Ridono di nuovo. ( 1 – Continua) ©RIPRODUZIONE RISERVATA


Dal Messico a Gorizia: il Salice del deserto in Largo Pacassi di Liubina Debeni

negli anni una altezza di 10 metri. E’ una pianta decidua, cioè lascia cadere le foglie in autunno. Ha fiori profumati di colore lavanda e viola in grappoli terminali sui rami. L’epoca migliore per ammirare quest’albero è proprio quando fiorisce nei mesi di giugno-settembre. Quest’anno la fioritura è stata spettacolare in luglio. Dopo il fiore segue la maturazione dei semi racchiusi in un baccello sottile e allungato. Con il clima che sta cambiando velocemente in cui eventi estremi di calura, ventosità e freddo si susseguono, potrebbe essere questa la pianta adatta in ambito urbano. Infatti, oltre ad avere una forma contenuta che può essere impostata ad albero o arbusto, possiede una buona resistenza al caldo e alla siccità.

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edere nascere, crescere, divenire grande è una grande gioia. E non solo per quanto riguarda il genere umano o animale ma anche vegetale. Un bambino cresce in fretta, un animale diventa presto adulto ma… un albero? Ci vuole pazienza ma la soddisfazione di vederlo grande in uno o due decenni è impareggiabile. Da un piccolo seme messo in terra, curato, bagnato, nutrito, protetto da intemperie può svilupparsi una grande pianta che a seconda del genere potrà vivere anche centinaia di anni. Lo ha fatto un’ex guardia forestale di Gorizia, che ringrazio per avermela fatta conoscere, il quale - da semi ricevuti dal Messico 25 anni fa e seminati in un vaso - ha ottenuto una pianta che poi, messa in terra nel suo giardino è diventata un grande albero. Un albero particolare e unico a Gorizia. Un albero da scoprire: salice del deserto - Chilopsis linearis - Ubicazione: Gorizia, Largo Nicolò Pacassi n. 4, giardino privato. Tra storia, botanica e curiosità – E’ un piccolo albero o arbusto, originario degli Stati Uniti sud-occidentali, dove cresce nelle zone desertiche e lungo i fiumi. Da qui il suo nome. Anche se è detto salice per le sue foglie lunghe e lineari, non appartiene a questa Famiglia. Raggiunge

quanto l’esportazione di frutta, soprattutto ciliegie, susine avveniva per ferrovia entro panieri di vimini. L’arte di intrecciare con vimine continuò nella fabbricazione di mobili da giardino. Chilopsis linearis è una pianta ornamentale ancora poco pubblicizzata e utilizzata nei nostri giardini ma la si può trovare in vendita nei cataloghi di vivai specializzati in piante esotiche e tropicali oppure, se avrete la fortuna di possedere i suoi semi potrete, attendendo con pazienza, veder crescere questo albero nel vostro giardino. Il primo personaggio a descrivere questa pianta, darle il nome e farla conoscere al mondo è stato Antonio José Cavanilles (17451804). Spagnolo, sacerdote, botanico, vissuto per molti anni a Parigi e poi a Madrid, dove divenne direttore del Reale Orto Botanico e professore di botanica dal 1801 al 1804.

Nel suo paese d’origine i rametti decorticati venivano usati per intrecciare cesti, come ampiamente usavamo noi fino a pochi decenni fa con i rami del nostro Qualcuno L’originale albero si trova in un giardino di Largo Pacassi vimine Salix potrebbe viminalis. obiettaIn passato c’era una grande richiesta di re che non è giusto utilizzare piante questo materiale per la fabbricazione di straniere importate da altri continenti nasse per pesci, borse per la spesa, ceste mentre abbiamo la nostra flora autoctoper spedire merci all’estero. L’esportana. Però, se ci pensiamo bene, l’attuale zione della frutta, coltivata nelle zone nostra flora - alberi, cespugli, fiori - è collinari e nella pianura di Gorizia, stata accresciuta nei secoli da piante straebbe un grande incremento con l’avniere importate, che si sono acclimatate, vento della ferrovia Meridionale a metà naturalizzate, diventando a volte anche Ottocento e con la Transalpina ai primi invasive. Questa introduzione è avvenudel Novecento. A Fogliano esisteva nell’ ta già molti secoli fa. Abbiamo notizie di generi di piante introdotte in epoca romana, medioevale e poi via via sino ai giorni nostri. A volte l’ introduzione di piante in Europa è avvenuta a scopo alimentare, come la pianta del pomodoro, l’ananas, le patate, il mais. Altre piante sono state importate volutamente da altri continenti a scopo ornamentale, come gli agrumi, l’ippocastano, le gerbere, la Stella di Natale. Altre ancora a scopo utilitaristico come il gelso bianco, le cui foglie erano cibo per i bachi da seta, il tabacco con le sue estese coltivazioni (fonti di reddito e piacere per i fumatori) e la quercia da sughero, unico albero al quale si toglie parte della corteccia del Ottocento una scuola industriale per tronco senza per questo arrecare danno. panierai, dove i ragazzi imparavano a coltivare, in un orto sperimentale, più Il “mondo “ delle piante è una continua specie di vimini per poi utilizzarli nel scoperta...proviamo a conoscerlo. confezionamento di vari modelli di cesti. il mestiere era praticato da quasi tutta (3 – continua) la popolazione maschile e femminile e ©RIPRODUZIONE RISERVATA veniva tramandato in famiglia. Questi manufatti venivano molto richiesti in 16


A Bologna, 40 anni fa: andavo da un amico in cerca di lavoro e mi ritrovai sul piazzale della stazione il giorno dopo la strage di Lucio Gruden

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omenica 3 agosto 1980. 40 anni fa. Ero in viaggio sulla mia modesta utilitaria, che all’epoca era un piccolo lusso per un ragazzo di 21 anni, e andavo a Bologna. Bologna la grassa, Bologna la dotta, Bologna la rossa. L’obiettivo era trovare un lavoro che mi consentisse l’autonomia economica che a Gorizia avevo, grazie alle varie attività radiofoniche, per cambiare università ma senza pesare sulla famiglia. Quella di Trieste mi appariva tristemente disorganizzata, attardata culturalmente con professori non sempre aggiornati e al di fuori dalle dispute concettuali del tempo e quindi periferici rispetto al confronto culturale che era politicamente molto vivo. Il decennio precedente fu quello della violenza terroristica, i cosiddetti anni di piombo. Un decennio inaugurato dalla strage di piazza Fontana, nel dicembre del 1969, e culminato in Italia nel 1978 con l’Affaire Moro, come Leonardo Sciascia titolò quel suo instant book che è la pietra miliare che accese i riflettori sui meandri obliqui della vicenda del rapimento e dell’uccisione del segretario della Dc, fatto trovare cadavere dalle Brigate Rosse nel bagagliaio di una R4 in via Caetani, simbolicamente a metà strada tra la sede del PCI e la sede della DC. Quei 55 giorni erano stati un no violento all’ipotesi di compromesso storico, il progetto politico di Moro che intendeva portare al governo, accanto alla Dc, proprio il Pci, il più affermato partito comunista dei paesi del Patto Atlantico. L’Italia vibrava e si chiedeva chi c’era dietro alla morte di Moro. Solo le BR o anche la CIA? Una parte della Dc riteneva il male assoluto un governo con i comunisti di Enrico Berlinguer. Chi era disposto a uccidere per lasciare le cose come stavano? Poi, nel 1979, ci fu l’assassinio di Mino Pecorelli, una sorta di Dagospia dell’epoca che indagava e pubblicava incalzando Giulio Andreotti sui suoi assegni finiti ad alcuni componenti dei servizi segreti. La sera in cui venne ucciso da un sicario, Pecorelli aveva già pronto un numero del suo Osservatore Politico dal titolo “Gli assegni del presidente”.

Ma non era finita. Domenica 3 agosto 1980, dopo che il 27 giugno precedente c’era stata la strage di Ustica, io dovevo raggiungere la casa di Alessandro, un caro amico goriziano che da tempo si era trasferito a Bologna per lavoro e che faceva il maestro di tennis. Mi avrebbe ospitato volentieri nell’appartamento di via Lame 4, in pieno centro. Agosto in città, dunque, alla romantica ricerca di un lavoro come rappresentante di alimentari, con l’illusione di riuscire poi a gestire il mio tempo per continuare a studiare Filosofia, in quella che era la più antica università del mondo, fondata nel 1088. Avevo sentito alla radio della strage alla stazione del giorno prima, sabato 2 agosto, ma non sapevo cosa fosse una strage perpetrata dall’uomo. Conoscevo la furia della natura, il terremoto del

Friuli del 1976, pur senza una presa di coscienza diretta delle vite spezzate nemmeno in quella occasione. Ma la strage per mano dell’uomo è una cosa diversa, con quel fuoco di rabbia che ti sale prepotentemente dentro davanti alla scelta di uccidere deliberatamente fatta da qualche tuo simile, contro l’uomo senza colpe. Un pesante colpo basso per intimorire, per sovvertire le regole in nome di un nuovo ordine e azzerare ogni speranza di progresso che per i mandanti e gli esecutori valeva il sacrilegio di tutti quei corpi ignari e incolpevoli. Faceva caldo, un caldo polveroso, come se qualcuno avesse soffiato sulle ceneri di un falò. Passato davanti alla stazione non potei fare a meno di fermarmi, scendere

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dall’auto e recarmi nel piazzale, circoscritto e vigilato dalle forze dell’ordine, anche se con qualche pertugio permissivo. Così entrai davanti all’ala interamente crollata, ai resti dei reperti inventariati, al lavorio efficiente delle tante persone che mute cercavano risposte che lì non c’erano. Ci si incrociava guardandosi negli occhi, tutti consapevoli che l’assassino torna sempre sul luogo del delitto e che non ci si poteva mai più fidare di nessuno, perché ognuno poteva essere il bastardo che aveva commesso quello scempio e magari stava misurando la sua perversa soddisfazione. Io ho imparato così cos’è il timore di una nuova esplosione, che c’è sempre in quei momenti e che combatte con la voglia di conoscere, che batteva quel timore. Ho capito che anch’io avrei potuto essere tra le vittime e che solo per caso ero lì il giorno dopo. La fatalità di una vita che finisce a causa del terrore di chi cerca apposta l’ora di punta nella settimana di punta, per aspergere alito di morte in nome delle proprie convinzioni. Oggi, dopo avere prima studiato e dopo vomitato le varie teorie dei giochi a somma zero, so che ci sono lezioni che la vita ci offre solo a saperle cogliere. In un attimo ci portano a sviluppare scelte definitive che si piantano dentro di noi come chiodi da scalata nella salita della vita, e stabiliscono così la nostra personale gerarchia di valori. Al di sopra della quale dovrebbe esserci per tutti il sommo valore della vita – di qualunque vita – rispetto alle nostre convinzioni ideologiche e a qualunque obiettivo di vittoria, di vincita o rivincita. Ma non è così. Non lo era ieri e non lo è oggi. Ed è proprio su questo nostro implicito bisogno di sconfiggere il prossimo per sentirci vivi e vitali che dobbiamo lavorare, provando a sgrezzare la pietra rude che è in noi e che in fondo nasce dalla nostra debolezza. Con la sua durezza, questa pietra rischia di fare di noi solo delle pessime persone, degli attaccanti accaniti anche quando non esiste partita, oppure dei perdenti in una contesa che, se la guardi dall’alto, è senza senso, senza ragione e senza ragioni. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


La Gorizia di Medeossi: mi aiutò la biografia di Pocar ma bastava entrare in un’osteria per scoprire un mondo

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e città aspettano di essere raccontate. Monumenti, angoli, lapidi attendono sguardi, attenzione, curiosità. Generosissime allora si concedono, rivelano storie, personaggi, umanità. Mutano al mutare di chi le osserva e le vive. Si potrebbe descrivere un luogo in una molteplicità di modi attraverso l’occhio e la memoria di ogni singolo abitante o passante. Preziosa nella sua unicità, genuinità e profondità è la Gorizia che emerge dalla chiacchierata spassosa e insieme densa di conoscenza ed esperienza con Paolo Medeossi. Il destino lo fa nascere a Udine nel 1952 e, a un certo punto, lo conduce per motivi lavorativi nella città isontina. Ma andiamo per ordine. Giornalista del Messaggero Veneto dal 1973 al 2013, tuttora impreziosisce le pagine del quotidiano, dopo aver ricoperto, nel tempo, il ruolo di caporedattore di Cronaca di Udine, Provincia, Regione, Sport, Cultura e anche della Redazione di Gorizia. Com’è stato esordire nel giornalismo a Udine, agli inizi degli anni Settanta? Un miscuglio di incoscienza, senso del dovere, entusiasmo, impegno, voglia di fare e di cambiare il mondo. L’inizio è stato condiviso in una redazione di giovani, poco più che ventenni, assunti da Vittorino Meloni. Si spartiva tutto: appartamento, scrivania, amicizia, vita lavorativa e notturna. Sono stati gli anni del terremoto e della ricostruzione, che ci hanno catapultati nei paesi colpiti, ma anche gli anni di un fermento interno al giornale che ci ha visti promotori di un impegno sindacale come Comitato di redazione nel Friuli sconvolto. Tra i giovanissimi del Messaggero Veneto di allora, Francesco Durante, che poi è decollato anche come traduttore, operatore culturale, dirigente editoriale, scomparso improvvisamente un anno fa; e Vincenzo Compagnone, oggi direttore di Gorizia News & Views. Proprio con lui, in quegli anni, prendeva forma un libro a quattro mani sulla droga, che con verità e sensibilità analizzava la questione da varie angolature, medico-scientifiche, sociali, culturali. Possiamo definirvi coraggiosi e “precoci” o addirittura “profetici” nell’affrontare una realtà così complessa? Il libro, “Droga in Friuli”, venne pubblicato nel 1978 e fu contestato un po’ da tutti, centro, destra e sinistra, proprio

di Martina Delpiccolo perché l’argomento era attuale, scottante e contraddittorio. Raccontavamo una realtà drammatica, che scompaginava ogni punto di vista, ogni dogma. E così siamo finiti nel tritacarne tra censura e attacchi violenti di chi si faceva paladino di una controcultura. Ma, ripensandoci, fu un piccolo libro molto necessario. Quando l’approdo lavorativo a Gorizia? Nella vita all’interno di un giornale, capita di cambiare sede. La mia stagione goriziana si è aperta nel gennaio del 2001 ed è continuata fino a metà 2003.

Il giornalista e scrittore friulano Paolo Medeossi. Sono sue anche le foto a corredo dell’intervista, scattate durante la permanenza lavorativa a Gorizia.

Eppure, l’arrivo professionale a Gorizia non è stato un battesimo nelle acque dell’Isonzo perché già, in fondo, attraverso i ricordi familiari e parte dell’infanzia, il futuro giornalista era stato proiettato nel Goriziano e anche nel Monfalconese. Potremmo usare la metafora dei binari della vita o delle stazioni di fermata per raccontare nel modo più realistico e significativo il passato familiare? È l’immagine che meglio rappresenta la storia della mia famiglia. Mamma Renata era orfana di ferroviere. A nonna Emilia, vedova con quattro figli, era stato assegnato, dopo la morte del marito, il casello di Salcano, che confinava con la dimora della contessa Lyduska, dunque conoscente e vicina di casa. Altre

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stazioni o caselli hanno poi scandito la storia familiare, che ha gravitato anche nella zona di Monfalcone e di Cervignano. Ma Gorizia era da sempre presente nei ricordi di mamma Renata che aveva frequentato la scuola presso le Orsoline della città. Torniamo in redazione. Che Gorizia era quella degli anni 2001-2003 che hanno visto Paolo Medeossi come caporedattore? Prima di tutto era una piccola redazione con quattro giornalisti e un nugolo di bravi e promettenti collaboratori. E poi, fatto molto anomalo, ci confrontavamo con un giornale dello stesso editore, cioè Il Piccolo. Situazione strana, ma che non attenuava una sana rivalità. Il Duemila si apriva con prospettive inedite legate anche all’ingresso della Slovenia nell’Unione europea e questo si rifletteva nella politica e nell’economia cittadina. Insomma, gli argomenti da raccontare non mancavano, tra annunci e speranze. Poi sappiamo come è andata… Mi piacerebbe provare a sfogliare insieme, idealmente, le pagine di allora. Proviamo? Per far concorrenza al Piccolo avevamo aumentato le pagine del fascicolo goriziano con tre al giorno dedicate alla città, due ai fatti culturali, tre alla provincia e due allo sport che in quel periodo registrava, accanto a basket e calcio, il momento d’oro dell’hockey a rotelle con la Grigolin Hit in serie A. Tutti al sabato si andava nel palazzetto della Valletta del Corno per applaudire i nostri eroi, a cominciare da Sandez, un argentino che danzava sui pattini. In cronaca invece abbiamo raccontato il Millenario di Gorizia che accompagnò tutto il 2001 con tante iniziative, e poi la riapertura del teatro Verdi e quella di palazzo Attems, oltre alle elezioni comunali che portarono al sorprendente successo di Vittorio Brancati. Cominciavano poi i folti arrivi di profughi che la notte passavano attraverso il Carso o si presentavano al valico della Casa Rossa. Questo alimentava anche la massiccia presenza di agenti e carabinieri mentre da Roma sbarcavano a frotte i politici di spicco per continui e spettacolari comizi. Erano i segnali iniziali di una situazione che poi sarebbe esplosa in tutta Italia. Insomma, con Vincenzo e la nostra rampante redazione non ci si annoiava. Come si è rivelata questa città? In che modo si è raccontata al cronista giunto da Udine?


L’ho annusata, vista, osservata, ascoltata soprattutto durante la pausa pranzo quando, dopo una sosta nelle straordinarie trattorie e osterie, vagavo da curioso flaneur armato di macchina fotografica, cercando uno spunto, una scritta, un dettaglio. E così ho scoperto a poco a poco le lapidi, i monumenti, i mille segni lasciati qui da una storia che non si è certamente risparmiata, facendo sentire il suo peso. Un po’ alla volta ho capito che, in questa terra di confine, le sofferenze, le pene, i sacrifici, i dolori sono stati distribuiti dovunque, tra rancori e memorie complesse, che hanno toccato ogni famiglia, nessuna esclusa. Solamente se si vive a Gorizia o ci si lavora, frequentando la sua gente, è possibile capirlo. Non è un discorso politico, ma umano, personale, sociale. Lo dimostrano anche le bellissime librerie e le case editrici di qui, che pubblicano stupendi libri, lettissimi. Gorizia è un mondo a sé, anche rispetto a Trieste e a Udine. Il mestiere di cronista, per le sue caratteristiche, permette di entrare in una simile realtà e, al di là del lavoro quotidiano, fornisce gli strumenti per elaborare una propria idea di questo mondo, narratoci per esempio con passione e tanto struggente amore da un grande personaggio come Ervino Pocar. Ecco, nella sua biografia personale, io trovo quella di tutta una città. Quindi questo viaggio goriziano, durato due anni, è stato un perdersi non solo tra le vie della città ma anche tra le pagine dei suoi libri? Certamente, cominciando proprio dalla vita di Pocar narrata da Celso Macor in un libro del 1996 pubblicato da Studio Tesi. In quelle pagine c’è anche il ritratto di una generazione, quella uscita dalla prima guerra mondiale, e di un sogno di rinascita, traumaticamente interrotto dall’incidente di montagna in cui nel 1923 morì Nino Paternolli, anima della miglior gioventù di allora. La sua scomparsa diede il via a una diaspora che riguardò Pocar, divenuto poi il più grande traduttore italiano della letteratura tedesca, Biagio Marin e altri. E poi cito “Fisica ingenua”, scritto nel 1990 da Paolo Bozzi, ordinario di metodo-

logie delle scienze del comportamento all’università di Trieste, che traccia un meraviglioso quadro della sua infanzia goriziana. E poi ancora mi imbattei nella storia goriziana di Lorenzo da Ponte, il librettista di Mozart, che transitò da queste parti nel 1777 sulla strada di Vienna. Nelle memorie spiegò bene che cosa era la Gorizia di allora: un luogo dove si viveva in un incrocio di culture e lingue; e così è stato ancora a lungo fin quando le guerre hanno spento l’anima della città, composita e unica. Un

della sinagoga.

discorso interessante su come collocare alla fine Gorizia l’ho trovato nei saggi e nelle pagine scritte da Sergio Tavano, in particolare in uno scritto intitolato emblematicamente “Gorizia. Il Friuli come problema”, pubblicato dalla Filologica. Infine, tra i tanti libri da poter ricordare, un accenno alla storia della famiglia Michelstaedter narrata da Alessandro Arbo. Una gemma preziosa che fa luce sulla situazione a inizio Novecento. Il testo mi aveva colpito in quanto dedicato anche alla figura del padre Alberto, alle sue attività, a come si era radicato nella realtà cittadina, dentro quel mondo ebraico che viene svelato ora ai visitatori grazie al bellissimo museo realizzato all’interno

Alberto Princis o il musicologo Quirino Principe, ed era un piacere star lì ad ascoltarli. Oppure, da avventore solitario, riuscivo a catturare le parole di due gentili signori impegnati in una conversazione sui misteri della musica. Insomma a Gorizia nulla è normale e consueto, nemmeno il livello medio delle persone che incontri. In qualche maniera esce sempre la sua eccezionalità, esito di una storia e di una cultura molto speciali.

E tra i personaggi incontrati per le vie di Gorizia, qualche ricordo particolare? Su chi ci si poteva imbattere? Bastava entrare in un’osteria e si incontrava un mondo. Persone semplici, come dovunque, ma poi improvvisamente scattava l’antica magia goriziana, quella insomma che stupì Lorenzo da Ponte nel 1777. E dunque entrando nella trattoria “Al Sole” trovavo come vicino di tavolo il giornalista Demetrio Volcic, il poeta

Quali i consigli o i segreti per scoprire luoghi goriziani di inattese suggestioni? Bisogna girare, fiutare l’aria, lasciarsi guidare dal caso. Nulla pare banale attorno a piazza Vittoria. Nulla di clamoroso come in certe città d’arte, ma tutto qui ha un senso. Il mio Virgilio in questo viaggio personale, da affiancare al lavoro di cronista, a un certo punto è diventato l’architetto Diego Kuzmin, profondo conoscitore dell’architettura e delle vicende cittadine, che cominciò un dialogo diretto con i nostri lettori attraverso la rubrica “Camera con vista”, in seguito, dal 2004, continuata sulle pagine del Piccolo come “Punti di vista”. Ne è uscito anche un libro straordinario, che rappresenta la guida ideale tra luoghi e atmosfere. Ecco, lì dentro c’è anche un pezzetto della mia Gorizia, che ho portato con me, com’è successo a tutti quanti sono passati di lì con lo sguardo giusto e un po’ di cuore. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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Lo scandalo del Guttalax in quel Giro d’Italia vinto da Saronni di Paolo Nanut

Saronni alloggiava dunque con la sua squadra nell’albergo alla periferia della città e si apprestava a cenare prima dell’atto conclusivo di un Giro un po’ particolare nel suo svolgimento. Alla vigilia, infatti, si prospettava alquanto anonimo, dal momento che Francesco Moser – storico rivale di Saronni - viveva una stagione deludente, mentre il campione transalpino Bernard Hinault aveva deciso di non partecipare alla corsa rosa.

(mentre il saldo sarebbe stato consegnato il giorno dopo a Giro concluso) trovò così Luznik vestito da cameriere che lo arrestò ammanettandolo al momento, per la gioia dei fotografi che si erano già piazzati nell’hotel. Così per Saronni, ignaro fino al termine dell’ultima tappa, la sera e la notte della vigilia passarono nella massima tranquillità. Quel Guttalax avrebbe rischiato anche di mandare all’ospedale l’ignaro corridore. Nella migliore delle ipotesi gli avrebbe fatto passare una notte… tribolata con le immaginabili conseguenze del giorno dopo. All’indomani, invece, la cronometro si svolse regolarmente e per lui arrivò il meritato trionfo nel capoluogo friulano. Anche se va detto che era un Saronni alquanto stanco, provato dalle fatiche delle tappe di montagna, mentre Visentini era decisamente più pimpante. Infatti il veneto inflisse 49 secondi di distacco alla maglia rosa, che conservò un vantaggio di un minuto e 7 secondi all’ultimo traguardo, sufficiente per aggiudicarsi il secondo Giro d’Italia della sua carriera. Era, insomma, un Saronni un po’ alle corde al quale il Guttalax avrebbe senza ombra di dubbio dato il colpo di grazia.

S

iamo alla vigilia dell’ultima tappa del Giro d’Italia del 1983, una cronometro di 36 chilometri che avrebbe portato la carovana da piazza Vittoria, a Gorizia, a Udine. In maglia rosa c’era Beppe Saronni, che era partito con la maglia iridata di campione del mondo. Dietro di lui il bresciano Roberto Visentini. Era il 4 giugno, un sabato, e si era appena corsa la Arabba-Gorizia, vinta con una stoccata sulla rampa di via Aquileia dal rampante Moreno Argentin, veneto di San Donà di Piave. Argentin, come una freccia scoccata da un arco invisibile, si era involato alle porte della città ed era riuscito a mantenere un esiguo vantaggio, una manciata di secondi sul gruppo – che gli aveva consentito di tagliare a braccia alzate il traguardo posto di fronte alla chiesa di Sant’ignazio. Fin qui, tutto regolare. Ma il fattaccio che avrebbe portato Gorizia alla ribalta della cronaca, con titoloni sulla Gazzetta dello Sport e sugli altri quotidiani non solo sportivi, accadde il giorno stesso all’Hotel internazionale di via Trieste, nel ristorante-pizzeria gestito da un simpatico baffone napoletano, il signor Vuolo, rientrato in Italia dopo anni di lavoro in Germania.

Giuseppe Saronni in maglia rosa

Quel Giro invece si dimostrò, tappa dopo tappa, uno dei più appassionanti di quegli anni con il duello all’ultimo metro d’asfalto fra Saronni e Visentini. Ma a farlo ricordare agli sportivi fu, oltre alle imprese dei ciclisti, quel che accadde a Gorizia alla vigilia dell’ultima tappa.

Va detto ancora che i corridori della Inoxpran, la squadra di Visentini, corsero quell’ultima “crono” con il nome dello sponsor cancellato con il nastro adesivo, in solidarietà con la Del Tongo e a dimostrazione che la squadra stessa non c’entrava nulla con quello stupidissimo gesto, frutto di un’iniziativa del tutto individuale, fortunatamente sventato dall’onestà dei camerieri goriziani. Fu lo stesso industriale ad attribuirsi la paternità del misfatto escludendo che ci fosse stata una macchinazione più ampia.

Come si è detto, il caso fece scalpore: il Un autentico scandalo: un industriale lunedì la Gazzetta titolò in prima pagina bergamasco, uno degli sponsor del“Hanno tentato di avvelenare Saronni” e la squadra di Roberto Visentini, la la notizia fece il giro del mondo, portanInoxpran, alla quale forniva le ruote, si do Gorizia inaspettatamente alla ribalta presentò all’albergo Internazionale di della cronaca.. via Trieste dove alloggiava la Del Tongo, squadra di Giuseppe Saronni e avvicinò ©RIPRODUZIONE RISERVATA due camerieri del locale tentando di corromperli con “l’affare del Guttalax”, il potente lassativo che avrebbero dovuto mettere (ovviamente una dose piuttosto massiccia, pari a un’intera boccetta) nella minestra del campione piemontese. Compenso pattuito: due milioni di lire. Ma non aveva fatto i conti con l’onestà dei due ragazzi che fecero finta di stare al gioco avvisando peraltro subito il titolare e la questura. Un poliziotto – si trattava di un personaggio molto noto in città, Massimo Luznik – partecipò alla “trattativa” chiedendo un altro milione Quando il “nemico” di Saronni tornò con il flacon- Il titolo in prima pagina della Gazzetta del 6 giugno 1983 cino e con i soldi dell’anticipo

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Scaramella, un talento del jazz da tenere d’occhio con la passione per i silenzi che offre solo la montagna di Stefania Panozzo

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o conosciuto Giulio Scaramella in un caldo pomeriggio d’agosto e mi ha raccontato molte cose interessanti sulla sua passione per la musica e per il jazz in particolare. Grande talento della scena musicale, possiamo definirlo un figlio d’arte, perché anche suo padre Walter, medico di professione (come la mamma, Teresa Carbone) é un grande appassionato di musica ed è stato il fondatore di un’originale band composta da medici e infermieri, chiamata “Prognosi riservata”.

Ho frequentato il “Tartini” di Trieste dove ho avuto la fortuna di trovare un bravo insegnante nel professor Igor Cognolato che mi ha accompagnato dall’inizio del mio percorso di studi fino al diploma. Com’é nata l’idea di suonare in un trio? A volte succede di conoscere un altro musicista con la tua stessa passione e di scoprire che c’é una sorta di complementarietà tra te e lui. Tra me e Federico Missio é successo proprio questo: ci siamo conosciuti al conservatorio e abbiamo scoperto che tra noi c’era un’alchimia speciale. Più tardi si é aggiunto Mattia Magatelli, un ottimo contrabbassista.

33 anni, goriziano doc, Giulio ha sempre suonato il pianoforte e si é diplomato al conservatorio Giuseppe Tartini di Trieste, ottenendo il massimo dei voti e la lode. In seguito si é specializzato presso la prestigiosa scuola di musica da camera del Trio di Parma, conseguendo la laurea di secondo livello in interpretazione Jazz. Attualmente suona in un trio che porta il suo nome ed é completato da Federico Missio al sax soprano, contralto e tenore, e da Mattia Magatelli al contrabbasso. E’ coinvolto, peraltro, in diversi progetti musicali: Trieste Early Jazz Orchestra, Joplin Ragtime Orchestra, Soul Circus Gospel Choir, Fade Ou3 (che unisce musica classica e jazz), Oirquartett, M D’s Quartet. Ha partecipato a parecchi festival nazionali e internazionali e, a partire dal 2013 ha registrato per la casa discografica Abeat Records, sotto la cui produzione è uscito un cd di composizioni proprie, “Making Friends” – con guest star Klaus Gesing, uno dei maggiori esponenti europei del sax soprano – “Oirquartett” (2015), “E penso a te” (2017). Per Artesuono ha pubblicato invece il recentissimo “Opaco”, uscito nel dicembre 2019, vicino alla musica colta del Novecento e con una rilettura di pagine di Ligeti, Coltrane, Bechet e altri autori. Com’é nata la tua passione per la musica? In parte è una cosa genetica: fin da piccolo ho ascoltato musica insieme ai miei genitori. A 6 o 7 anni ho cominciato a suonare il pianoforte, indirizzandomi verso la musica classica, ma più tardi ho cambiato rotta e ho scoperto di avere una passione particolare per il jazz, per la libertà interpretativa e l’assenza di dogmi stilistici ai quali doversi attenere.

trovo che ci sia un’interconnessione tra loro. Nel mio tempo libero, ad esempio mi capita di andare al cinema, ma lo vedo più come un momento di svago. A proposito di tempo libero, come lo trascorri? Praticando molto sport: sono amante della montagna. Mi piace fare sci alpinismo durante l’inverno, camminare o dedicarmi alla mountain bike. Per un periodo ho praticato anche l’arrampicata, ma poi ho dovuto smettere, perché mi creava problemi alle mani. Oltre a suonare, insegno anche musica e quindi sono immerso in questa forma d’arte. Per cui se posso passare qualche ora nel silenzio della montagna e liberare il cervello dalla musica, lo faccio più che volentieri. Ho visto che hai collezionato diversi riconoscimenti nel corso della tua carriera… Si, nel 2015 ho ricevuto il Premio Franco Russo come miglior musicista emergente. In quell’occasione ho suonato sul palco principale del festival internazionale Trieste Loves Jazz. Nello stesso anno il mio cd “Oirquartett” ha vinto il premio come miglior opera prima al concorso nazionale Chicco Bettinardi. Anche se questi riconoscimenti mi hanno sempre fatto piacere, mi auguro di non partecipare più a un concorso, perché non mi piace il mondo della competizione musicale.

Il pianista jazz Giulio Scaramella

Accade spesso nel mondo jazzistico di essere anche compositore? Assolutamente sì, ed è molto facile che i vari compositori si influenzino a vicenda perché c’è più libertà di contaminazione rispetto, per esempio, alla musica classica. Quali sono i musicisti che ti hanno maggiormente influenzato? Mi vengono in mente Fred Hersch, Bill Evans, Danilo Perez, ma anche Bach, Schumann, Bartok… se penso all’ultimo album, credo che il disco a cui mi sono maggiormente ispirato nel concepire le sonorità del gruppo sia “Temporary Kings”, di Ethan Iverson e Mark Turner, registrato tra l’altro proprio da Stefano Amerio che ha prodotto “Opaco”. Che rapporto hai con le altre forme d’arte? Non é che non mi piacciano, ma non

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Immagino che anche la tua attività sia stata quest’anno condizionata dall’emergenza Covid, è così? Eh sì, molti impegni già programmati in primavera sono stati rimandati all’estate che é diventata molto ricca di appuntamenti. Ad esempio il 7 agosto abbiamo partecipato alla rassegna “Note in città” suonando ai giardini pubblici di Gorizia. Più tardi suonerò per l’inaugurazione della stagione della scuola di musica Lipizer e ho in cantiere un progetto che mi vedrà suonare alcuni preludi e la Rapsodia in blu di Gershwin nell’ambito di una monografia sul grande compositore. Quali programmi hai per il futuro più a lungo termine? Mi auguro di continuare a suonare e ad insegnare musica magari cercando di bilanciare il tempo che dedico alla musica suonata con quello dedicato all’insegnamento. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


Ironia, spirito critico e colori sgargianti: così da 40 anni Martin Parr esplora il consumismo come ultima ideologia di Felice Cirulli

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ell’articolo apparso nel numero di luglio-agosto di Gorizia News & Views, abbiamo parlato del concetto di bellezza applicato alla fotografia e di come un reporter come Steve McCurry sia stato capace di farne un elemento fondante di un racconto fotografico anche quando la realtà che la narrazione interpreta non è propriamente ciò che si può definire come contesto idilliaco per coloro che in quell’ambiente trascorrono la propria esistenza quotidiana. Nel pezzo che vi proponiamo ora, all’opposto, andiamo a presentare un fotografo che ha fatto e fa della sua arte fotografica l’antitesi di ciò che si può intendere come espressione di bellezza e rappresentazione del lato migliore dell’umanità. Parliamo di Martin Parr, nato in Gran Bretagna, per la precisione nel Surrey, nel 1952. Come molti grandi fotografi, gli capita di usare la macchina fotografica e di assistere in camera oscura al “miracolo” della nascita di una stampa fotografica fin da bambino, tant’è che si appassiona a tal punto da intraprendere gli studi di fotografia al Politecnico di

Manchester. Negli anni Settanta, Parr, si immerge con tutto sé stesso nell’ambiente che gli è congeniale organizzando mostre, cercando di uscire però dai canoni tradizionali della “fotografia appesa al muro” ma definendo nuove modalità di fruizione

delle immagini attraverso installazioni in luoghi e con modalità estemporanee. L’artista britannico ha rincorso, durante tutta la sua carriera di fotografo, il preciso scopo di raccontare e documentare le persone nella loro “grezza ma naturale” quotidianità, di esporre le loro semplici abitudini quotidiane e facendo di esse una pressoché brutale raffigurazione delle modalità di comportamento della gente comune, spesso sostenute dalla spasmodica ricerca dell’appagamento consumistico. La sua intenzione non è di natura critica ma bensì puramente documentaristica, nello sforzo di tratteggiare i cambiamenti di costume e di abitudini, anche alimentari, che la società inglese, e quelle occidentali in generale, stavano attraversando tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta. Il suo lavoro fotografico diventa così un catalogo, in continuo divenire, di quelli che sono i simboli del percorso verso quella che possiamo definire la “massificazione” della società occidentale data da nuovi “valori” ispirati dal marketing commerciale, dalla spinta verso la ricerca di un benessere spesso solo materiale e dalla perdita del senso del pudore. Per chi guarda le sue fotografie c’è la sensazione di avere a che fare addirittura con un fotografo dilettante, poco attento alla composizione e ai soggetti che riprende, incline a dare eccessivo spazio al colore. Eppure, con un’analisi non su-

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perficiale, si può riuscire a comprendere come le sue immagini siano attentamente volute così come prodotte, con il preciso scopo di suscitare non attenzioni e valutazioni di tipo estetico, ma piuttosto domande e discussioni sulla loro verosimiglianza con l’ambiente reale. Per molti versi alcuni dei suoi lavori fotografici puntano anche a rappresentare la deriva, a tratti irreversibile, verso il degrado ambientale di molte zone fortemente frequentate dal turismo di massa e di come, in particolare, i cittadini britannici della classe media siano stati al tempo stesso artefici e vittime di questo decadimento. Dal 1994, pur in presenza di forti contrasti tra i vari associati, viene ammesso alla celebre Agenzia Magnum che da sempre ha incarnato il tema di una fotografia di tipo umanista, nel senso alto del concetto. Lui è, all’opposto, completamente controcorrente e insegue invece l’idea di una fotografia “pacchiana”, ridondante di colore ed esteticamente poco attraente ma molto vicina ad una “verità” volutamente messa in secondo piano nel nome di una rappresentazione più “nobile” dei comportamenti umani. Pur essendo considerato uno dei fotografi più in vista e quotati dei nostri tempi, la sua è una fotografia indisponente, che suscita spesso dissenso tra i cultori della “purezza” teorica e dell’attaccamento agli schemi confortevoli di un approccio consolidato e condiviso dai più. Martin Parr può apparire un provocatore, ma la sua proposta fotografica non è finalizzata ad emettere giudizi, è piuttosto una modalità per raccontare i nostri

tempi in maniera fortemente realistica, indugiando spesso sui particolari che fanno parte della cruda quotidianità, ponendo l’accento sull’espressività involontaria delle persone, rimarcandone la gestualità naturale, somministrandoci storie che fanno parte ormai di meccanismi di comportamento consolidati e privi di filtri. L’Occidente ludico, turistico e consumistico raccontato dal fotografo inglese è un déjà-vu che fa parte del nostro DNA

sociale, è una parte della nostra attuale identità culturale, è un modo di essere che ci appartiene ma che cerchiamo di mantenere distante dalla rappresentazione di noi stessi. Spesso le sue raccolte fotografiche costituiscono uno spietato inventario di ciò che emerge a seguito dell’omologazione culturale ed estetica di grandi porzioni della società civile contemporanea. Il suo lavoro si contraddistingue per originalità e per il coraggio necessario per costruire immagini che superano gli schemi tradizionali. Le sue possono apparire come fotografie banali, ma mai per questo scontate e fini a sé stesse. Va rimarcato infine che molte sue stampe sono esposte al Moma (Museum of modern Art) di New York e nelle più importanti gallerie mondiali. Parr ha pubblicato, inoltre, un numero ragguardevole di libri che disegnano l’evoluzione (o involuzione?) della società umana degli ultimi quarant’anni. Al fotoreporter ha reso omaggio il Museo Revoltella di Trieste che, dal 27 ottobre dello scorso anno al 6 gennaio 2020, gli aveva dedicato una mostra personale intitolata “Life’s a beach” (La vita è una spiaggia). All’inaugurazione era intervenuto lo stesso autore che aveva preso parte anche a un incontro con il pubblico. Di lui è stato detto: «Le sue fotografie sono originali e divertenti, accessibili e facili da comprendere. Ma allo stesso tempo ci mostrano in maniera penetrante il modo in cui viviamo, come ci mostriamo agli altri e ciò che apprezziamo». (Thomas Welsky)

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