April 2021

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Gorizia News & Views Anno 5 - n. 4 Aprile 2021

Mercato senso unico e lampioni: il centro nel caos pag. 12 e 13

Didattica a distanza: pochi “pro” molti “contro” pag. 6 e 7

La campagna vaccinale decolla a fatica pag. 3

Cibo e salute: incontri on line dell’Andos pag. 22

Addio a don Renzo Boscarol, amato prete-giornalista pag. 4

Agenzia Appiani, una pagina di storia pag. 17


Ciao Renzo infaticabile prete-giornalista e amico di una vita

aprile 2021

Campagna vaccinale, troppa discrezionalità tra le Regioni Tardiva la competenza esclusiva rivendicata dallo Stato

nº 4

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Don Sinuhe, guarito dal Covid: proviamo ad accettare le restrizioni, perché tutta la società finalmente rinasca Dalla parte della maestra: la Dad può essere occasione di crescita Dalla parte dei genitori: i bambini delle elementari costretti a pagare il prezzo più alto della “zona rossa” E allora le foibe? Dal discusso libro di Eric Gobetti spunti per superare gli ultimi rivoli del nazionalismo

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E’ drammatica la crisi occupazionale a Gorizia: in pochi anni centinaia di posti di lavoro in fumo

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Tra via degli Scogli e via Brigata Etna, scopriamo le principali tracce del vecchio “pomerio” cittadino Senso unico, lampioni, mercato coperto: lasciano a desiderare chiarezza e stile nella gestione della città

Noi vecchi derisi, umiliati chiediamo soltanto un po’ di rispetto

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Donne coraggiose di ieri e di oggi Con i semi dell’”albero dei rosari” si possono confezionare collane e bracciali: ma attenzione, la pianta è tossica Quei tre piroscafi sulla facciata dell’agenzia Appiani che facevano sognare viaggi verso mete lontane Ricordo di Giovanni Gastel, nipote di Luchino Visconti con i suoi ritratti toccava l’anima dei personaggi celebri

Quando il tifo dei “fan club” seguiva la Pro … ma non solo Una piccola impresa sportiva: 50 anni fa, la medaglia d’argento della nostra squadra di basket ai Giochi della Gioventù di Roma Andos e buon cibo: un connubio vincente

Gorizia News & Views

“Gli animali della nobiltà”: Covid permettendo aprirà in giugno l’annuale mostra di Villa Coronini

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Reg. Trib. Gorizia n. 1/2017 dd 11/12/2017 mensile dell’APS Tutti Insieme http://tuttinsiemegorizia.it/ info@gorizianewsandviews.it DIRETTORE RESPONSABILE Vincenzo Compagnone REDAZIONE Eleonora Sartori (vice direttrice) Ismail Swati, Rafique Saqib, Felice Cirulli, Renato Elia, Eliana Mogorovich, Timothy Dissegna, Anna Cecchini, Stefania Panozzo, Aulo Oliviero Re, Lucio Gruden, Martina Delpiccolo, Elio Candussi, Giorgio Mosetti, Liubina Debeni, Paolo Bosini, Paolo Nanut

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Campagna vaccinale, troppa discrezionalità tra le Regioni Tardiva la competenza esclusiva rivendicata dallo Stato

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n ossimoro politico. Si potrebbe definire così il paradosso per il quale la nostra Regione ha i dati più “rossi” d’Italia e, allo stesso tempo, il suo Presidente, sulla gestione della pandemia, un gradimento nei sondaggi inferiore solo a Zaia e Bonaccini: forse, nel campione preso in considerazione, ci si è scordati che solo qualche mese fa Fedriga era sceso in piazza contro le chiusure decise dal governo. Due indagini, del “Il sole 24 ore” e della Fondazione Gimbe, hanno confermato, a distanza di pochi giorni, la stessa, inequivocabile, sentenza: siamo proprio i peggiori. Del resto i segnali di sofferenza del sistema sanitario hanno continuato a manifestarsi: a Udine il Pronto Soccorso è nuovamente intasato; a Trieste gli infermieri di terapia intensiva, da un anno

sotto stress, si sono visti bloccare, per l’ennesima volta, le ferie; i medici di base sono stati coinvolti solo da poco nella campagna vaccinale, con una trattativa imperniata solo sui dati economici e conclusa a fatica; sulle modalità di accesso al vaccino manca qualsiasi certezza, mentre in altre Regioni alle persone nelle fasce d’età dai 79 ai 70 anni è già stato comunicato il periodo nel quale saranno vaccinati. Difficile non vedere in tutto questo una carenza di programmazione e non cogliervi responsabilità congiunte della giunta regionale e dei 3 direttori delle aziende. Il quadro è stato complicato dalla sospensione del vaccino di AstraZeneca, che ha portato ulteriori rallentamenti. Una vicenda che ci fa volgere lo sguardo verso problematiche più generali. I fatti sono noti: vi sono stati casi di prossimità cronologica tra inoculazioni

di Franco Belci* e alcuni decessi, in Italia e in Europa, che hanno suggerito, dopo molte esitazioni, una misura cautelare, anche in assenza dell’individuazione di un rapporto di causa-effetto. La gestione del problema da parte di UE, Ema e Aifa è stata contradditoria ed ha sconcertato il cittadino medio, seminando dubbi e ansie e sollecitando comprensibili risposte emotive. Tuttavia occorre andare oltre, affidandosi alle evidenze della scienza, pur nella consapevolezza che essa non esprime verità, ma metodi, sperimentazioni e approssimazioni. Il riferimento non può che essere costituito, in questo caso, dalle evidenze statistiche che mettono in luce come il rapporto tra il numero complessivo delle vaccinazioni e quello delle morti sospette sia coerente con il tasso complessivo dei decessi per le stesse sindromi in rapporto alla popolazione.

Ma il ricorso alla razionalità non deve impedire una pacata valutazione dell’impatto psicologico del caso, né delle spie che si stanno accendendo una dopo l’altra. La prima attesta la timidezza con la quale la Commissione UE ha negoziato con le multinazionali del farmaco: si è consentito loro, nel migliore dei casi, di assumere impegni di produzione che non sono riuscite a mantenere; nel peggiore, di dirottare fiale destinate alla UE verso Paesi disposti a pagarle molto di più. In sostanza, big pharma tiene in pugno un intero continente, nonostante i miliardi di investimenti pubblici nelle proprie ricerche. Si tratta di una lezione amara, che deve portare a modificare, anche dal punto di vista legislativo, il rapporto tra istituzioni e aziende, almeno sul tema dei brevetti e sulla cogenza delle logiche di mercato durante una pandemia. Ma un’altra lezione riguarda il nostro Paese: si deve investire molto di

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più in ricerca di base, applicata, specialistica, sia pubblica che privata: siccome non sappiamo quando questa pandemia finirà ed altre non sono certamente escluse, è bene creare i presupposti per una ragionevole autosufficienza, almeno nel progettare e produrre matrici e nell’individuare cure che consentano il trattamento domiciliare nei casi non gravi. Così come va ripensato, in sanità, il riparto delle competenze tra Stato e Regioni: la campagna vaccinale è stata finora condotta con un tasso troppo basso di trasparenza e troppo alto di discrezionalità. Lo Stato ha saputo rivendicare solo da poco la competenza esclusiva, dopo aver accordato incomprensibili margini di autonomia gestionale alle Regioni che hanno portato solo effetti negativi. Non può più essere eluso, inoltre, il tema dell’obbligatorietà del vaccino per chi lavora in Sanità, puntando alla massima tutela dei pazienti. Per gli operatori che non intendono vaccinarsi si può pensare a un cambiamento di mansioni, ma, se i casi si moltiplicassero in maniera significativa, non sarebbe fuori luogo un provvedimento legislativo simile a quello introdotto, in passato, per altre malattie infettive. Infine, c’è la questione della comunicazione. Quella ufficiale va definita in modo preciso e coerente, evitando rassicurazioni smentite dopo poche ore, com’è avvenuto con AstraZeneca, dalla stessa fonte. L’effetto è devastante, perché induce inevitabilmente sospetti e mina l’autorevolezza delle istituzioni. Quella non ufficiale rimane affidata al buon senso degli scienziati, che dovrebbero rinunciare a propinarci le loro (spesso opposte) opinioni, sedotti da un’improvvisa occasione di visibilità, e a quello dei media, che dovrebbero rinunciare al sensazionalismo e trattare il tema con maggiore pacatezza ed equilibrio. Forse venderebbero qualche copia in meno, ma darebbero un importante sostegno a una gestione dell’emergenza improntata alla razionalità. Last but not least, vanno messi aI bando i toni apodittici, che non sono solo propri dei “no vax”, ma anche dei khomeinisti del vaccino. Un livello di rischio esiste, come per tutti i farmaci dello stesso genere, e ognuno deve poter valutare il rapporto costi-benefici. Nel caso di una pandemia, a quella valutazione va certamente aggiunta un’assunzione di responsabilità di fronte al benessere della collettività. Ma senza assumere una logica punitiva, inutile e controproducente. *Ex segretario regionale della Cgil ©RIPRODUZIONE RISERVATA


Ciao Renzo infaticabile prete-giornalista e amico di una vita di Vincenzo Compagnone

quale un giorno chiesi: “Quanto tempo ci vuole per confezionare un settimanale?”. E lui, serafico: “Dipende dalla voglia di lavorare di Renzo”. E di voglia di lavorare Renzo ne aveva tantissima, sempre di corsa, sempre trafelato ma sorridente, gioviale, pronto alla battuta magari in “bisiaco”. Al Messaggero veniva a scrivere i suoi pezzi, dopo essersi confrontato con Maurizio e aver salutato gli amici della redazione (con me c’era anche, tra gli altri, il mio caro amico d’infanzia Roberto Collini, pure lui ultrà del Milan). Don Renzo, che divenne poi per vent’anni direttore di Voce Isontina e, successivamente, della rivista Iniziativa Isontina, è stato uno di quegli ormai rari esemplari – non me ne vogliano i colleghi - di giornalisti con la schiena dritta: Voce Isontina – mi spiegò – non doveva essere soltanto un bollettino diocesano, ma un modo di fare informazione a 360 gradi, che non aveva paura di denunciare una certa politica, vissuta non come espressione di servizio all’uomo e al bene comune, ma per il tornaconto personale. Fu questo il suo insegnamento, che accompagnava con la frase: “Scrivi comunque sempre con la saggezza del cuore”.

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ppeso come un piccolo quadro, a una parete della vecchia redazione del Messaggero Veneto di via Diaz, a Gorizia, c’era un calendario. Ma non di quelli che elencano i mesi e i giorni. Era il calendario del campionato di calcio, con i risultati delle partite e la classifica aggiornata. Per due squadre soltanto: il Milan e la Juventus. A compilarlo ci pensavano il capocronista, Maurizio Calligaris (supertifoso del Milan) e don Renzo Boscarol (fan sfegatato, come me, della Vecchia Signora bianconera). Tutte le storie hanno un inizio e questo, per forza di cose improntato alla simpatia, contrassegnò il mio primo incontro con don Renzo, che il maledetto Covid si è portato via in una tristissima giornata di marzo. Mi ero affacciato alla redazione del Messaggero da timido collaboratore ventenne, che voleva occupare con la passione per la scrittura il tempo libero dagli studi universitari. Avevo ovviamente bisogno di imparare i rudimenti del mestiere, anche se, dopo il primo pezzo, Calligaris se ne uscì con un gratificante “La stoffa c’è!”. Maurizio e Renzo furono, senza alcun dubbio, i miei primi maestri, quelli ai quali uno, poi, rimane affezionato per sempre. Il “don” era all’epoca il factotum della Voce Isontina, il settimanale diocesano, diretto da don Maffeo Zambonardi, al

Diventammo subito, come ho detto, molto amici: fu lui a sposarmi con Giuliana e a battezzare mio figlio Daniele, al quale per l’occasione regalò un giocattolo, un enorme camion dei vigili del fuoco. Divenuto parroco di Sant’Anna celebrò il rito funebre per mio padre, esordendo con una considerazione che mi commosse: “Di quest’uomo, e non è la solita retorica, ho sempre sentito parlare soltanto che bene”.

Tornato nella sua Ronchi, don Renzo continuò ad adoperarsi in modo infaticabile nel suo impegno a tutto campo, nella fede e nella cultura, nell’aiuto ai più deboli, nell’ascolto e nel dialogo. Lo rivedevo di tanto in tanto, a eventi o festival letterari come “Leali delle Notizie”. Sempre prodigo di osservazioni centrate, spunti di riflessione, battute cordiali. Ciao Renzo, continuerai a vivere nei pensieri di chi ha conosciuto te, la tua profonda cultura, il tuo essere intelligentemente fuori dagli schemi, e la tua grande umanità. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Don Renzo Boscarol (1944- 2021), vittima del Covid

Grazie, don Boscarol Mi sembra di vederlo, serenamente seduto su una nuvola, lassù dove si trova ora, con in mano un’agenda dalla quale spuntano fogli e post-it di varie dimensioni, con lo sguardo sornione e benevolo, mentre assiste alle tante attestazioni di affetto e di riconoscenza, un po’ seccato, forse, da questo gran parlare di lui, abituato ad accompagnare il suo agire con l’umiltà e la discrezione. Don Renzo era un uomo dal multiforme ingegno e dalle molteplici passioni, un campione di Humanitas, intesa nella sua accezione di empatia e di condivisione del difficile cammino dell’essere uomini in tempi in cui umanità è un termine obsoleto. Uomo di alto spessore culturale e morale, aperto al dialogo , con il dono di rapportarsi tanto con gli ultimi quanto con i primi della scala sociale, è stato educatore, insegnante, promotore di continue iniziative culturali e sociali, con un occhio attento e vigile verso la Politica, intesa come attività quotidiana e disinteressata, al servizio dei cittadini. Sono tantissimi i ricordi legati a don Renzo, a partire dal 1976, quando, assieme ai suoi fraterni amici don Sergio e don Diego venne nominato cappellano a S.Anna, nel periodo più critico della storia del borgo. Tra le numerose iniziative promosse la costituzione all’interno della Parrocchia del Gruppo Universitari. Attorno al tavolo della sala da pranzo che fungeva da scrivania, dove troneggiava la sua macchina da scrivere, si discuteva, ogni giovedì sera, di Attualità, di Etica, di Morale, di Cultura, di Storia e della Storia di queste terre, della necessità di superare le ataviche divisioni, ma anche della Juventus, dei preparativi della Sagra, delle prove del Coro, di scampagnate, di vacanze, e del futuro di Gorizia. Grazie per averci insegnato ad esaminare la realtà sotto varie angolature , per essere stato la coscienza critica della nostra città in diversi momenti della sua storia, per tutti gli input lanciati per il superamento dei suoi confini mentali e per il suo miglioramento! Rosy Tucci e il gruppo “Giovani” di S.Anna

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Don Sinuhe, guarito dal Covid: proviamo ad accettare le restrizioni, perché tutta la società finalmente rinasca

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osa c’è dietro i numeri del Covid? Ad esempio, dietro la cifra tristemente enorme dei deceduti? C’è una famiglia per ogni vittima. E ci sono sacerdoti che silenziosamente hanno celebrato un funerale, con fede, ma anche con la consapevolezza dei rischi e l’amarezza di non poter stringere forte la mano di chi vive un lutto. Hanno rischiato e in molti si sono ammalati. C’è una lista di “don” che, a causa dell’epidemia, impartirà a noi la benedizione da Lassù. Ai parroci, oggi, il compito non facile di tenere vive le parrocchie, trovare il modo di arrivare ai fedeli, a chi crede e ha bisogno di nutrimento, e a chi non crede, si è perduto o è alla ricerca di un perché. Incontriamo una di queste silenziose guide, perché siamo affamati di senso, spiritualità, risposte, in questo tempo di incertezze, smarrimento e paura.

di Martina Delpiccolo e fa piegare la corrente attorno a sé. Don Renzo era lo scoglio, con idee forti e soprattutto con la tenacia di sostenerle nel tempo. Sarà una grossa mancanza per la nostra Chiesa e per il territorio. Nel corso della storia, pur nell’evoluzione delle conoscenze scientifiche e nel progressivo approccio razionale verso la malattia, le epidemie sono state spesso viste come una punizione, un castigo. Anche oggi si è detto che forse ce lo siamo meritati per la frenesia e superficialità con cui stavamo vivendo. Dio è amore, non castigo, vero? Vorrei essere paradossale: se fosse un castigo sarebbe una fortuna, vuol dire che qualcuno ci vuol bene e fa sì che non ci mettiamo in pasticci più gravi. Meglio ricevere un ceffone da nostra madre che ci ama e ci sta dicendo qualcosa di

Don Sinuhe Marotta, nato a Gorizia nel 1958, dove è stato parroco dal 2004, è tornato dal 2018 nella comunità di Cervignano del Friuli, che lo aveva visto come cappellano fino ai primi anni ’90. È guarito dal Covid e ora ha ripreso a “curare” le anime. Come sta? È una domanda non scontata, importante. Ne abbiamo riscoperto il senso profondo in questo anno. Grazie a Dio, sto bene. In questo ringraziamento al nostro Creatore e Signore ci metto evidentemente anche il cortisone, l’antibiotico e i medici che mi hanno consigliato e seguito. E i confratelli sacerdoti che, quarantenati per solidarietà pur essendo sani, hanno avuto tanta pazienza e delicatezza. E senza dimenticare l’affetto delle tante famiglie che facevano a gara ogni giorno per portarci il pranzo, essendo noi impediti ad uscire. Ci mettiamo anche i tanti fedeli e le nostre Suore del Kenya che hanno pregato e gestito bene la chiesa. Stare bene significa sì avere i parametri vitali a posto, ma essere anche inseriti in una rete solidale e fraterna di relazioni. Papa Francesco docet. Tanti i sacerdoti che hanno contratto il Covid. E tanti coloro che ci hanno lasciati, ma anche che hanno lasciato un segno. Un ricordo di Renzo Boscarol. Qualcuno ha detto, con un’immagine, che ci sono due modi per affrontare la complessità contemporanea, paragonata ad un fiume che scorre impetuoso: il giunco, che si piega e si adatta alla corrente, e lo scoglio, che resta al suo posto

Don Sinuhe Marotta

serio, piuttosto che da un rapinatore che non sappiamo chi sia… Detto questo, guarderei al futuro invece che al passato: se riusciamo ad imparare qualche cosa da ciò che viviamo, come singoli e come umanità intera, sarebbe una vera grazia. Seconda Pasqua con Covid e restrizioni. Cosa ci deve dare e lasciare nell’animo la Passione e la Resurrezione? Gesù ha detto con chiarezza che per “risorgere” è necessario “morire” e l’ha vissuto duramente sulla sua pelle. Tanto che nella quinta domenica di Quaresima il Vangelo propone la figura del chicco di grano, che soltanto se è disposto a perdersi sotto terra produce frutto. Su questo, credo che come società occidentale abbiamo delle difficoltà, non siamo disposti a perdere niente, neanche la giovinezza, che già di suo naturalmente vorrebbe andarsene per farci diventare finalmente adulti. Penso ai legami d’amore, come il matrimonio: c’è un momento in cui bisogna decidere se “perdersi”, dicendo di nuovo il proprio “sì”,

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o fuggire, cercando di “salvarsi” in altro modo. Anche le restrizioni, così dure soprattutto per tanti che avranno serie conseguenze economiche, potrebbero essere lette come una forma di morte da vivere e accettare perché tutta la società finalmente rinasca. C’è una domanda che arriva nella disperazione. Dov’è Dio? Ci aiuta lei, don Sinuhe, a trovare risposta? Beh, non serve arrivare alla disperazione per aprirsi a Dio. Il Vangelo è molto chiaro: Dio, che per noi si è fatto uomo in Gesù Cristo, si nasconde e ci attende in chi ha bisogno di noi e del nostro aiuto. Poi rivaluterei quello che succede in chiesa: quando si dice sull’altare “questo è il mio Corpo” – e non si parla certamente del prete - magari qualcosa davvero succede… Restrizioni, chiusure, limitazioni e distanziamenti, seppur necessari, ci fanno sentire il bisogno e il valore di un abbraccio nell’ambito personale, ma anche “geografico” tra popoli. Abbiamo capito il valore della vicinanza e dell’incontro? Abbiamo sicuramente capito che siamo tutti sulla stessa barca. E come il virus non conosce confini, così anche la fraternità, la giustizia, che poi vuol dire in pratica le risorse naturali, le condizioni di vita, di salute e così via, non possono essere patrimonio esclusivo di alcuni, che le difendono in maniere a volte moralmente indifendibili». Ho iniziato chiedendole come sta. Ora le chiedo: come sta la nostra fede? E come sta la Chiesa? Beh, questo dipende dai battezzati e da chi si dice cattolico o “credente”… La Chiesa sono loro. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

“20eventi delle 20e20” del Circolo ArciGong Continuano gli appuntamenti con la rassegna “20eventi delle 20e20” del Circolo Arci Gong di Gorizia: 2 aprile: “Una notte in fondo al cielo. Un artista in fuga”, romanzo inedito di Dora Bassi. Conversano Emanuela Uccello e Cristina Feresin, le curatrici. 9 aprile: “La sporca bellezza. Indizi di futuro tra guerra e povertà”. Rapul Pantaleo conversa con Sergio Pratali Maffei. 16 aprile: Carlotta Bevilacqua converserà di cooperazione internazionale con Antonietta Piacquadio. 23 aprile: “Perchè comincio dalla fine”. L’autrice Ginevra Lamberti dialoga con Alessio Sokol.


Dalla parte della maestra: la Dad può essere occasione di crescita di Ilaria Cecot

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aestra, mangio i biscotti con le pinzette perché ho paura del virus”.

prenderete che anche mangiare i biscotti con la pinzetta testimonia una situazione didattica alquanto compromessa. La scuola, l’abbiamo sentito ripetere spesso, è un ambiente sicuro ma non è sottovuoto. I rigidi protocolli, l’ impegno del personale docente e non docente e soprattutto, l’ impegno degli alunni, ci aveva permesso di restare in presenza fino a marzo, nelle ultime settimane però la situazione, a causa delle diverse varianti e dei comportamenti sconsiderati dei singoli, era diventata davvero difficile, si facevano i salti mortali tra il turbinio delle sostituzioni degli insegnanti sottoposti a vaccino, i casi di positività e le conseguenti quarantene di intere classi, la didattica integrata per alunni in quarantena con la classe a scuola, fino al paradosso di avere l’insegnante in quarantena e le classi in presenza. La relazione educativa e la continuità didattica erano quindi fortemente a rischio, non da ultimo, molti bambini percepivano la tensione che aleggiava nei corridoi, nelle parole preoccupate di insegnanti e genitori, manifestando a loro volta una certa preoccupazione. I bambini ascoltano, sentono, vedono ed era impensabile sperare di rendere per loro normale una situazione che nor-

Questa affermazione potrà sembrarvi assurda eppure è stata la risposta di una mia alunna, quando, incuriosita da una situazione che mi sembrava strana, le chiesi perché stesse mangiando del biscotti in quel modo. Quando parliamo di scuola in presenza o a distanza, non possiamo non considerare tutti gli effetti che questo nemico invisibile ha prodotto e può ancora produrre su un bambino. Quella che stiamo vivendo è una situazione complessa e nuova, che non accetta risposte semplici e deterministiche. Nelle ultime settimane, invece, l’opinione pubblica si è polarizzata tra favorevoli e contrari alla famigerata Dad (acronimo di didattica a distanza). Da insegnante ed educatrice, vi propongo una terza strada: didattica a distanza, quando? La premessa necessaria, per quanto scontata, è che la Dad non può e non potrà mai sostituire la didattica in presenza, perché la relazione educativa, fondamento di ogni apprendimento, pone le proprie radici nella relazione umana e dinamica tra educatore ed educando all’interno di una situazione didattica condivisa ed ha come orizzonte il pieno ed armonico sviluppo della personalità dell’alunno. La Dad è una situazione didattica filtrata o se preferite schermata, in cui la dinamicità e l’umanità della relazione perdono immediatezza e spontaneità condizionandola ma, se vi soffermerete a riflettere un attimo, com-

alla funzionalità di questo strumento, ne è imputabile all’istituzione scolastica, è piuttosto un problema serio di mancanza di politiche sociali strutturali capaci di sostenere la genitorialità nel nostro Paese. La pandemia ha drasticamente evidenziato tutte le carenze di un sistema di welfare fragile e obsoleto, spesso messo in agenda durante le varie campagne elettorali ma sul quale, in realtà, da anni nessuno mette più le mani. Il sistema scolastico italiano invece ha reagito e sta reagendo all’emergenza sanitaria e, per quanto potrà sembrarvi strano, si sta rafforzando ed innovando, accogliendo elementi di flessibilità impensabili, che con il tempo impareremo ad apprezzare. Questo nuovo modo di fare scuola andrebbe considerato come un’occasione di crescita, come una possibilità per eliminare distanze e anche se non sostituirà mai il rapporto tra alunno e insegnante, permetterà a quell’alunno e a quell’insegnante di non sospendere la loro relazione educativa quando, come succede oggi, eventi contingenti ed imprevedibili impediranno loro di trovarsi nella situazione educativa tradizionale. Quindi didattica a distanza, quando? Quando il grado di sostenibilità della didattica in presenza la rende necessaria nel rapporto tra costi e benefici rispetto al bene del singolo e della collettività. I bambini, non essendo meno custodi di visioni prestabilite, stanno vivendo con serenità le loro classi virtuali, che hanno il limite, questo si insormontabile, di non permettergli di giocare assieme a ricreazione o di non consentir loro il lancio della carta appallottolata ma le risate ed il chiasso non mancano, neanche su meet. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

male, non era. In uno scenario di questo tipo, il contesto esterno ha determinato pesantemente la vita scolastica, perché la scuola non è avulsa dalla realtà. Di contro la Dad veniva vista da molti come il male assoluto, probabilmente a causa dell’esperienza dello scorso anno, quando la scuola, come del resto ciascuno di noi, non era preparata ad affrontare una pandemia. Un anno però è passato e non siamo rimasti fermi, sapevamo che poteva succedere nuovamente e ci siamo fatti trovare pronti per affrontare la sfida della didattica a distanza, che ribadisco, non è la migliore situazione educativa possibile ma in questo preciso momento e per un tempo limitato, rappresenta il male minore in termini di continuità didattica e di tutela della salute pubblica. Sono altresì comprensibili le preoccupazioni dei genitori, costretti a mille peripezie per conciliare i tempi di lavoro e l’accudimento dei figli in Dad ma con estremo rispetto, mi permetto di sottolineare che questo problema non è legato 6

Consigli di lettura Vi segnaliamo due libri recenti usciti per Le strade bianche di Stampa Alternativa, nuova iniziativa dell’“editore all’incontrario” Marcello Baraghini. I volumi, uno scritto da Pericle Camuffo (Viaggio senza comitiva) e l’altro dallo stesso Camuffo assieme a Monica Zornetta (La vera storia dei Benetton in Patagonia), sono scaricabili integralmente e gratuitamente sul sito stradebianchelibri.com.

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Dalla parte dei genitori: i bambini delle elementari costretti a pagare il prezzo più alto della “zona rossa”

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ensate a un pilastro e a cosa accade quando vi si mette mano. Se non esiste un progetto serio di ristrutturazione la casa ti cade addosso. Basta non aver effettuato le necessarie manutenzioni nel tempo e alla prima scossa di terremoto, anche lieve, rischi di venire sepolto dalle macerie. Mi sono servita di una metafora per descrivere ciò che la scuola rappresenta, o dovrebbe rappresentare, nella società odierna e cosa le è accaduto, dopo anni in incuria, quando è stata sottoposta a un forte stress. Il Coronavirus ha pesantemente sollecitato un pilastro molto forte ma che per anni non è stato oggetto di interventi rafforzativi e migliorativi.

di Eleonora Sartori Veniamo al problema numero due: la dotazione tecnologica di una famiglia media. Se essa è composta da quattro membri e un genitore è in smartworking ci sarà bisogno di tre dispositivi (pc, notebook, tablet…) e una connessione wi-fi molto probabilmente non sarà sufficiente a sostenere il l’attività di tutti. Senza considerare poi gli spazi. Mi piacerebbe sapere quanti nuclei familiari si trovano a dover condividere non più solo lo spazio di vita ma anche quello di lavoro/scuola in poco più di 50 metri quadrati, ma credo siano moltissimi. Accade spesso, infatti, che nel corso delle lezioni si sentono in sottofondo i rumori dell’aspirapolvere, della Tv, ma anche purtroppo di litigi tra

La parola “pilastro” non l’ho scelta a caso: elemento portante che trasferisce i carichi della sovrastruttura alle strutture sottostanti preposte a riceverlo. Rende bene l’idea dell’importanza che la scuola riveste nella società contemporanea: non babyparking, come con malcelata malignità è stato insinuato da alcuni, ma Istituzione assolutamente non sostituibile. Nella buona scuola si apprendono nozioni, ma soprattutto si impara a relazionarsi con gli altri, si sperimenta il gioco di squadra, si raggiungono i primi successi, si inciampa nei primi fallimenti e si matura la consapevolezza che rialzarsi è sempre possibile. Le famiglie lo hanno capito benissimo che tutto questo non può essere sostituito e la Dad, anche quando è organizzata bene, è solo l’unico modo per garantire una continuità didattica, il resto è congelato, nel duplice senso di fermo e asettico, freddo. Non mi addentro nelle conseguenze psicologiche e sociali che bambini e adolescenti hanno patito e patiranno perché non ne ho competenza, mi limito a descrivervi cosa accade in una famiglia tipo quando deve si far fronte alla chiusura della scuola. Il problema numero uno è banalmente la sorveglianza: se i genitori lavorano entrambi e non possono beneficiare dello smartworking, con chi rimangono i ragazzini con un età inferiore ai 14 anni che per la legge italiana non possono in alcun caso restare soli? Con i nonni, nella migliore delle ipotesi, quando ci sono e sono sani, andando incontro a tutti i pericoli del caso. I congedi esistono, è vero, ma coprono il 50 per cento della retribuzione e se essa è di 1500 euro al mese fateli voi i conti…

distanza di un anno dal primo lockdown, non c’era un vero e proprio piano in caso di stop. A dirla tutta, non ce lo aspettavamo anche perché i protocolli di sicurezza nelle scuole hanno funzionato molto bene, non facendo registrare focolai almeno dalle nostre parti. I bambini le regole le hanno introiettate subito, magari senza nemmeno capirle, e oggi si ritrovano a dover pagare il prezzo più alto di questa ennesima zona rossa. Inutile negare che rabbia, sconcerto, frustrazione e disagio serpeggiano nelle famiglie che non sanno dove sbattere la testa, perché in Italia non esiste una reale e funzionale rete di supporto che entra in azione per mettere in sicurezza il pilastro scuola quando esso traballa. Diventa sempre più difficile, dunque, pensare che “andrà tutto bene”, quando a un anno dall’inizio della pandemia i bambini e i ragazzini continuano ad essere privati di un loro diritto fondamentale: quello all’istruzione, quando le lacune e i problemi relazionali aumentano e la strada per recuperare è in salita. Se già prima della pandemia esistevano differenze importanti tra gli alunni, dovuti anche a situazioni di emarginazione e disagio, la Dad le ha fatte diventare vere e proprie voragini.

gli altri componenti della famiglia. Veniamo, infine, al problema forse più grande, ovvero l’affiancamento dei ragazzini più piccoli durante la Dad. Se gli studenti delle scuole medie e superiori sono in gran parte o totalmente autonomi, lo stesso non accade con i bambini delle scuole elementari. La Dad, nel momento in cui scrivo, è prevista anche per questa fascia d’età e vede impegnati tutti: i bambini spesso sopraffatti dalla frustrazione, i genitori (in gran parte le mamme) e i maestri, molti per la prima volta alle prese con questa modalità di insegnamento. Secondo voi un bambino di 8 anni è autonomo davanti allo schermo di un pc e nello svolgimento dei compiti assegnati? La risposta è no e lo sanno bene anche le maestre, anche le più esperte, che fanno una gran fatica a tenere una classe di 20 e più componenti. Un genitore, dunque, deve affiancarli con conseguenze facilmente prevedibili sul proprio lavoro. La verità è che non ci aspettavamo la chiusura delle scuole elementari e che a

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E’ vero, il virus nessuno poteva prevederlo, ma non possiamo non chiederci cosa sarebbe successo se avesse trovato una scuola pronta e forte (di Didattica a Distanza ne sento parlare da anni ma evidentemente si trattava di pura teoria) e, soprattutto, se il periodo febbraio 2020-febbraio 2021 fosse stato impiegato per investire su persone (docenti) e non su cose (banchi a rotelle). Non si tratta di una polemica fine a sé stessa o il non voler riconoscere lo sforzo compiuto dalla scuola, piuttosto una riflessione sul suo ruolo oggi in Italia. Se non sarà tra le priorità nelle politiche nazionali di investimento non solo non sarà possibile ripulirla dalle macerie che il Covid ci ha lasciato, ma non sarà nemmeno possibile ricostruirla in vista delle sfide del futuro. E mi riferisco, ovviamente, alla scuola pubblica e gratuita per tutti, quella che assicura possibilità di riscatto e miglioramento delle proprie condizioni di vita a tutti, quella che era un nostro fiore all’occhiello e che dovrebbe ritornare tra i primi punti programmatici di una vera forza democratica e progressista. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


E allora le foibe? Dal discusso libro di Eric Gobetti spunti per superare gli ultimi rivoli del nazionalismo

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i è fatto un gran parlare, negli ultimi mesi, dell’interessante libro di Eric Gobetti, E allora le foibe?, Laterza 2020. Si tratta di un breve testo (106 pagine, suddivise in 9 capitoli) che si prefigge di suggerire spunti di riflessione da approfondire, intorno ai delicati e controversi temi legati alla situazione del confine orientale d’Italia (o di quello occidentale della ex Jugoslavia!) nel corso del XX secolo. L’autore è uno storico e dimostra di essere un accurato ricercatore, anche se la sua opera ha in questo caso un intento essenzialmente divulgativo. Il linguaggio molto chiaro offre percorsi e concetti comprensibili anche a chi non è studioso di fenomeni storici e forse proprio questa intenzionale accessibilità, accanto a recensioni positive, ha suscitato reazioni ai limiti della violenza e della minaccia nei confronti dello scrittore. Eppure non c’è nulla di sostanzialmente nuovo, se non appunto l’intento di coinvolgere un numero maggiore di persone in un’analisi e in una discussione troppo spesso viziata da pesanti pregiudizi. Essi sono stati determinati dal comprensibile stato d’animo di chi in qualche modo è stato coinvolto nelle vicende narrate ma anche dall’inaccettabile strumentalizzazione attuata per finalità pseudopolitiche che nulla hanno a che fare con la correttezza storica. Una rapida sintesi del libro di Gobetti consente di enuclearne, quasi a modo di un indice, i temi principali. Utilizzando impropriamente un termine che è stato giustamente coniato per denunciare il tentativo di minimizzare le azioni e le colpe del nazismo, vengono spesso tacciati di “negazionismo” coloro che studiano, in modo serio e consono al metodo storiografico, i temi legati alle “foibe” o all’”esodo” degli italiani da Istria e Dalmazia. Gobetti, ma con lui anche ricercatrici e ricercatori del territorio che forse meriterebbero almeno una citazione bibliografica, respinge decisamente

di Andrea Bellavite tale accusa, non nascondendo affatto la realtà dei fatti, meno che meno l’umana pietas nei confronti delle vittime. Rileva tuttavia che soltanto una precisa contestualizzazione degli eventi e una scrittura totalmente innestata nel dato documentale, possono permettere di

avvicinarsi a un concetto di “verità” che consenta di impedire al passato una venefica e paralizzante influenza sulle vicende del presente. Da questo punto di vista, è indispensabile uno sguardo complessivo sugli avvenimenti, procedendo dalla destabilizzazione degli Imperi seguita alla prima guerra mondiale al trionfo degli Stati “nazionali”, dall’instaurazione del regime fascista sulle zone della Slovenia e della Croazia assegnate al regno d’Italia al tempo del terrore nazi-fascista tra il 1941 al 1943 nella cosiddetta “provincia di Lubiana”, dalla lotta partigiana alla “Liberazione”, dall’occupazione delle truppe anglo-americane al Trattato di Parigi (10 febbraio 1947). Secondo Gobetti, uno degli elementi scatenanti la tensione è stato il nazionalismo, dovuto in Europa al passaggio dal sistema dell’Impero Austro-Ungarico, caratterizzato dal rispetto delle diversità culturali e linguistiche, a quello dello Stato “moderno”, identificato con un’unica “nazionalità” alla quale si ritiene debba appartenere chiunque abiti nei suoi confini. Nel caso specifico la violenta “italianizzazione” del territorio assegnato all’’Italia dai Trattati che hanno posto fine alla Grande guerra, ha creato subito un’atmosfera di risentimento e di oppressione, resa ancor più evidente e soffocante con l’avvento del fascismo. 8

Questa concezione dello Stato-Nazione ha inoltre alimentato la perniciosa identificazione tra l’essere “italiano” e l’appartenenza all’ideologia “fascista”. Il legame tra “italianità” e “fascismo”, è stato proclamato e propagandato dai fascisti stessi nel corso dell’intero ventennio. Anche se tale constatazione avrebbe potuto spiegare un’eventuale successiva ritorsione da parte degli oppositori, in realtà, nel corso della guerra partigiana e nel periodo dell’occupazione di Trieste e dell’Istria da parte delle truppe che avevano combattuto contro gli eserciti di Hitler e Mussolini, secondo Gobetti non c’è stata affatto una persecuzione degli italiani in quanto tali. Ciò può essere facilmente dimostrato dal fatto che, se pochi soldati italiani sono stati accolti come combattenti nelle file dell’esercito jugoslavo prima dell’8 settembre 1943, moltissimi antifascisti sono stati arruolati dopo e hanno partecipato con pari coraggio e dignità ai combattimenti. Interessante è anche il capitolo dedi-

Norma Cossetto, uccisa dai partigiani jugoslavi


cato al cosiddetto esodo e agli italiani che hanno deciso di rimanere in Istria e Dalmazia, i cui discendenti costituiscono oggi un’importante componente culturale, numericamente minoritaria in Slovenia e Croazia.

zione dei luoghi e nel computo delle vittime.

Raccogliendo le idee proposte da Gobetti, senza negare in alcun modo il diritto alla dolorosa memoria delle persone che sono state provate Secondo Gobetti, non si può quindi dall’esperienza della violenza, prima, parlare di genocidio, dal momento che durante e verso la fine della guerra, non si può in alcun modo dimostrare solo un esame accurato dei documenti una specifica volontà di soppressione e dei monumenti che vengono reperiti delle persone in quanto appartenenti a negli archivi storici, può offrire la base per una nuova stagione di dialogo e di interpretazione costruttiva degli avvenimenti. Il documento congiunto del 2000, sottoscritto da storici sloveni e italiani che hanno lavorato insieme, relativo alla storia del territorio dalla fine dell’800 alla metà del ‘900, può essere un punto di partenza di una ricerca in grado di riportare il dibattito al riconoscimento delle Il campo di concentramento di Arbe dove bambini sloveni moriroautentiche dinamino di fame sotto gli occhi dei soldati italiani che storiche, senza fare i conti con le una particolare identità culturale. C’è quali diventa difficile immaginare una stata senz’altro una violenta persestagione di definitiva pacificazione e cuzione ideologica, non certamente collaborazione tra le popolazioni che giustificabile se non come ultimo vivono intorno al vecchio confine. atto della Seconda guerra mondiale, nella quale l’Italia fascista si è trovata Senza togliere nessuna delle lacrime invischiata per volontà di Mussolini, provocate dalla sofferenza anche di macabramente acclamato dalle folun solo uomo, diventa difficile immale esultanti in Piazza Venezia, il 10 ginare un ragionamento storico che giugno 1940. Si è trattato invece di non porti ad adeguare i luoghi della un fenomeno dettato dall’ideologia memoria alla loro essenziale realtà, politica, come dimostrato dal fatto che riscontrabile soltanto attraverso studi le vittime di quel tremendo periodo approfonditi, da svolgere in piena non sono state solo italiane, ma anche libertà (ci mancherebbe altro!), con croate e slovene, legate in qualche serenità d’animo e anche con i nuovi modo alla collaborazione con i passati mezzi di indagine e di perlustrazione regimi. che potrebbero offrire molte nuove opportunità di conoscenza e di ricordo. Se è vero che, nella confusione generale, non sono mancati errori e deUno studio congiunto di tali eventi, plorevoli vendette personali, non è in promosso dai Comuni di Nova Gorica alcun modo accettabile la speculazione e Gorizia attraverso incarichi a studiosi politica di alcuni esponenti partiticaratterizzati da competenza e onestà ci italiani, giunta fino all’incredibile intellettuale, potrebbe essere uno dei equiparazione tra le “foibe” e i campi progetti in vista della “capitale europea di sterminio nazisti. Anche una certa della Cultura 2025”. Anche perché, retorica, incrementata da spettacoli senza un accordo chiaro su questi temi teatrali e da discutibili ricostruzioni e senza superare gli ultimi rivoli del cinematografiche relative a singoli connazionalismo, soprattutto italiano, una troversi episodi, ma sposata perfino simile gigantesca opportunità non ridai vertici dello Stato in occasione uscirebbe a trasformare il territorio in delle annuali “Giornate del Ricordo”, autentico laboratorio di pace, giustizia, ha reso difficile uno sguardo saggio accoglienza e libertà, nel cuore della e documentato sugli eventi, anche nuova Europa. semplicemente sul piano dell’ancora parziale metodologia nell’identifica©RIPRODUZIONE RISERVATA 9

Nella toponomastica cittadina uomini battono donne 112 a 7

Può essere molto scomodo, sia per le amministrazioni comunali che per i cittadini, rivedere la toponomastica. Tuttavia essa riflette le varie situazioni storiche nelle quali vivono le città e i paesi. Si scelga come esempio una realtà come quella delle Gorizia che si preparano a essere capitale europea della Cultura 2025. Di che cosa parlano le vie della “vecchia” e della “nova”? Prendendo per ora in esame la Gorizia millenaria, escludendo i quartieri periferici e limitandosi alle circa 200 strade maggiormente ricercate dai visitatori (dato internet), si rilevano dei dati sicuramente interessanti. Pur comprendendo l’intento riabilitativo di alcune figure importanti, non si prendono in considerazione larghi, scalinate e viuzze prive di abitazioni nei dintorni. Certamente non è un’indagine scientifica, ci possono essere errori e dimenticanze, ben vengano eventuali segnalazioni. La prima constatazione, macroscopica, riguarda la “gara” tra uomini e donne, con un risultato umiliante, 112-7. Per la cronaca, le donne sono Santa Chiara e Sant’Angela Merici, Eleonora Duse, Angiolina d’Austria, Adelaide Ristori, Giuseppina Furlani e Carolina Luzzatto. La seconda rileva il rapporto tra la comunità di lingua italiana e le altre componenti, del passato e del presente, della città. Anche qua le proporzioni sono da brivido, 75 strade o piazze sono legate alla storia d’Italia, in gran parte al Risorgimento (più di 40) e alla prima guerra mondiale (ben 28 tra generali sopravvissuti, giovani soldati massacrati, brigate e reggimenti combattenti). A personaggi della vecchia Gorizia austro-ungarica sono dedicate 3 vie, 4 sono i rappresentanti della cultura slovena, Henrik Tuma l’unico del XX secolo. Si salvano numerosi toponimi locali, una sessantina, legati a particolari luoghi della città, dalla Riva del Corno alla Piazzutta, dalla via del Cotonificio alla Via Poligono, dalla Via della Cappella alla Via del Seminario e così via. Si tratta di una considerazione puramente statistica, ma da tenere presente. Se “le” Gorizia vogliono essere unite nella loro straordinaria interessante diversità, è indispensabile valorizzare chi ha contribuito a raggiungere i traguardi attuali, oltre che donarsi reciprocamente nomi, luoghi e vicende storiche che hanno costruito pace, bellezza, fraternità, cultura e giustizia sul territorio. (a.b.)


E’ drammatica la crisi occupazionale a Gorizia: in pochi anni centinaia di posti di lavoro in fumo

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di Marco Rossi dati

Dal 2015 al 2019 a Gorizia si sono persi ben 878 posti di lavoro nel saldo tra lavoratori assunti e cessati. Il dato è pubblicato in un documento ufficiale della Giunta comunale (allegato al bilancio comunale 2020-2022): è andato perduto il 6,5 per cento dei posti di lavoro, in appena quattro anni. Se andasse avanti così per quindici anni, insomma, a Gorizia di lavoro ne resterebbe ben poco! E questo scenario, di per sé preoccupante, era la fotografia un anno prima dello scoppio della pandemìa che ha rivoluzionato tutto, compreso un mercato del lavoro dove ristorazione e piccolo commercio erano contesti di impiego abituale di giovani e donne, le categorie più penalizzate dalla crisi attuale. Nel 2019 i goriziani in cerca di occupazione erano 1.693 (in pratica, un paese intero come Mossa o San Lorenzo): un numero che certamente la crisi ha accresciuto.

sviluppo più complessiva che porti a Gorizia occupazione (aziende) e quindi abitanti, e turismo e quindi clientela. Limiti enormi, dunque, di quella classe politica che invece resta legata ad un modello non più attuale, e si ostina a proporre: il centro commerciale di via Terza armata (ancora presente nel Piano regolatore nonostante il treno giusto lo abbiamo perso ormai più di vent’anni fa!), il “Gambero rosso” al posto del Mercato coperto (forse “gambero” si riferisce ad una politica che guarda indietro invece che avanti?), l’outlet in via Rastello annunciato dal sindaco Ziberna

Che fare? Ci sono a Gorizia enormi superfici dismesse che attendono un progetto di riqualificazione e riutilizzo. Sul bimestrale Gorizia Europa, l’architetta Luisa Codellia parlava alcuni anni fa di 87 ettari di aree dismesse: l’assenza di un pensiero organico di recupero significa anche condannare questi vasti spazi a un inesorabile degrado. Già nel 2018, vale la pena ricordarlo, Legambiente chiedeva un censimento delle aree dismesse.

Il lavoro dev’essere la priorità della politica Gorizia sta vivendo, da una ventina d’anni a questa parte, una vera e propria crisi occupazionale. Meno prospettive di lavoro significano, poi, meno prospettive di realizzazione personale e familiare per i più giovani. E non è un caso che la popolazione di Gorizia si assottigli sempre più: ormai, siamo sotto i 35 mila abitanti. Per un ventenne, infatti, il rischio è che la strada obbligata sia quella del trasferimento o di una vita da pendolare per Udine, Trieste, Monfalcone. Eppure negli anni Settanta e Ottanta, ancora, Gorizia era un centro industriale rilevante: lo ha raccontato mirabilmente Italico Chiarion nella sua autobiografia Comunista a Gorizia: mezzo secolo nelle file del PCI, racconto della politica goriziana vista attraverso le vicende della sua classe operaia. Di tutto questo resta poco. È stata fallimentare la traiettoria che si è ritenuto di dare alla città. Si può davvero pensare che per Gorizia nel 2021 l’unico modello possibile sia quello «emporio»? Emporio di chi? Possiamo credere davvero nel piccolo commercio di frontiera, quando questa frontiera non c’è quasi più (Covid permettendo) e semmai sono i goriziani a recarsi a fare acquisti a Nova Gorica, anziché il contrario? Mostra tutti i suoi limiti, logici ed economici, l’idea che il futuro di Gorizia passi dall’attrattività commerciale slegata da una politica di

da organizzazioni datoriali, sindacali, sistema camerale e Regione – sono la pianificazione urbana e le intese istituzionali con Stato e Regione, il Fondo Gorizia, e gli altri strumenti di legge: tra i quali la fiscalità di vantaggio, come quella prevista da quella Zona Logistica Semplificata che consentirebbe di realizzare investimenti produttivi a condizioni vantaggiose. Nonostante la mozione approvata dai Consigli regionale e comunale nell’estate 2020, il Comune di Gorizia recita invece un ruolo attendista – conferma ne è venuta dalla deludente risposta ad una interrogazione consiliare presentata a febbraio da chi scrive – anziché essere l’ente che spinge per la sua veloce attuazione.

e altre amenità. Un esempio di politica miope: ma la politica deve fornire una traiettoria di qui ai prossimi dieci o vent’anni. Cioè parlare a chi oggi ne ha 20, di anni, e entro quell’orizzonte di tempo avrà invece raggiunto la maturità professionale e sarà a lui che consegneremo le “chiavi” della nostra città. Gli strumenti che ha in mano il Comune – ma in questo dev’essere affiancato

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Aree che possono richiedere interventi di bonifica, di riqualificazione, riurbanizzazione, ridestinazione. Ma solo in questo modo possono tornare attrattive per gli investimenti, sia che la destinazione sia produttiva sia che vengano destinate ad aree residenziali o di servizio o a verde. Investimenti produttivi, poi, da rilanciare decisamente orientandosi alla collaborazione con la ricerca e l’università, e ricordando che a 40 chilometri da Gorizia vi è Area Science Park, principale parco scientifico nazionale che nel 2019 ha aperto una sede a Salerno mentre a chi scrive risulta un interessamento per l’area del Parco Basaglia che purtroppo le istituzioni preposte non hanno saputo cogliere. Il conflitto case-fabbriche può essere superato, nel XXI secolo, orientando le norme urbanistiche affinché privilegino l’insediamento di attività a basse emissioni e occupazione di qualità, quell’industria 4.0 al quale il sistema Paese deve necessariamente guardare anche per creare posti di lavoro ad alta qualificazione e buone prospettive professionali. O vogliamo stare fermi pensando che tornerà il tempo della zona franca? ©RIPRODUZIONE RISERVATA


Tra via degli Scogli e via Brigata Etna, scopriamo le principali tracce del vecchio “pomerio” cittadino

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n rituale complesso governava la fondazione di una città romana o etrusca. Il primo solco, che delimitava il confine vero e proprio, dove erano interrati simboli religiosi per assicurare alla futura città benessere, prosperità, pace e giustizia, era tracciato con l’aratro. In attesa di edificare le fortificazioni, era tracciato un secondo solco circolare più esterno. La striscia di terra compresa tra il primo e il secondo solco veniva chiamato pomerio (probabilmente da post-moerium, dopo le mura). In questo territorio i sacerdoti confinavano gli spettri, i fantasmi, i demoni delle malattie e gli spiriti della guerra, della fame, delle pestilenze e tutto ciò che poteva recare pregiudizio alla città e ai suoi abitanti. Era proibito fabbricare, arare ed entrare in armi. Una sorta di “zona franca” a presidio della città. Anche Gorizia ha il suo pomerio, anche se ha poco a che fare con le reminiscenze romane. I confini cittadini furono disegnati al tempo di Maria Teresa e del figlio Giuseppe II. Dopo il terremoto del periodo napoleonico, con un avviso del Capitanato circolare del 24 marzo 1840, entrato in vigore il 1° giugno dello stesso anno, veniva costituito un “distretto di circondario” di Gorizia, così come riportato in un documento giacente nell’Archivio Statale di Gorizia (ASG Trib. Civ. Prov. b317 f536). Gli Austriaci quindi decisero di tracciare questi confini segnandoli con dei cippi distanti circa 500 metri l’uno dall’altro e identificati con la scritta “Pomerio di Gorizia”, completi di numeri a indicare la strada e lettere alfabetiche che indicavano la progressiva. Questa linea, che delimitava un percorso di circa 35 chi-

di Anna Cecchini lometri di sviluppo, mutuava il termine latino ma, di fatto, individuava il confine del distretto goriziano, che confinava con la circoscrizione distrettuale di Aidussina.

Alcuni di questi cippi sono arrivati fino a noi e si trovano lungo le direttrici principali della città, secondo i quattro punti cardinali. Alcuni sono ben visibili, altri quasi interrati, altri ancora accostati ai recinti delle abitazioni sorte in seguito, ma la gran parte è andata perduta. Se ne rintracciano due (confine nord) in via Monte Santo, contraddistinti con i numeri 4 e 5 mentre a Salcano ce n’è uno con il numero 8 e poi, verso Nova Gorica, uno con il numero 9. Il confine est del Pomerio si trovava a S. Pietro, in messo ai campi, tra la Vertoibizza e la linea ferroviaria slovena, e reca il numero stradale 55. Il numero 62 invece si trova in via dei Grabizio. A Sant’Andrea il cippo di via Pola non riporta alcun numero ma, trovandosi in un giardino privato, è probabile che sia stata spostata e non siamo in grado di stabilire a quale strada campestre corrispondesse. Ma le tracce più consistenti, che permettono pure una piacevole passeggiata, le troviamo tra via degli Scogli e Brigata Etna.

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In queste giornate primaverili, pur fra tante limitazioni, un breve giro nella campagna in piena fioritura può consentirci tante e piacevoli riflessioni. Se ci portiamo in via Montesanto laddove ha inizio via Brigata Etna, troveremo proprio sull’angolo il primo cippo, posto a ridosso di un muro di cinta, che inaugura il percorso. E di cui dobbiamo distinguere con un po’ di attenzione le incisioni ormai sbiadite degli scalpellini. Proseguiamo lungo la via osservando piccoli appezzamenti coltivati, vigne e campi di lavanda, immaginando quella che fu la fiorente area orticola goriziana, che, oltre uva, susine e ciliegie, forniva il nutrimento dei bachi per l’industria tessile della seta che, dal Settecento, aveva reso famosa la città e richiamava operai e piccoli imprenditori da tutto l’Impero. Alcuni gelsi secolari sono ancora qui, a testimoniare un piccolo pezzo della storia economica e antropologica della città. Questi gelsi, minacciati oggi come i cippi dai lavori in corso per la realizzazione delle opere d’irrigazione della zona, sono balzati all’onore della cronaca grazie alla campagna promossa da Legambiente, che ha posto all’attenzione cittadina e delle autorità, la necessità di tutelarli tramite il loro inserimento nel novero degli alberi monumentali o notevoli per continuare a raccontare a tutti un pezzo di storia della città. Se proseguiamo quindi la passeggiata e osserviamo attentamente i bordi strada, li noteremo, questi testimoni silenziosi dell’opera dell’uomo. Non li considereremo più semplici “alberi” ma formidabili narratori. E se guarderemo a terra con attenzione, troveremo anche i cippi. Alcuni seminterrati e un po’ storti. Altri più diritti e orgogliosi. Dovremo abbassarci, allontanare dalla pietra qualche ciuffo di lamio o di tarassaco per scoprire le scritte sbiadite e riflettere su quanti confini contenga la città e quanto indietro dobbiamo andare per respirare la sua storia. Magari guardando giù scopriremo qualche ciuffetto di sclopit che raccoglieremo per un risotto. Poi ci rialzeremo, ci puliremo le ginocchia sporche d’erba, guarderemo a est verso Collio e Brda che si stanno colorando del bianco dei ciliegi. Guarderemo la sommità brulla del Sabotino e poi verso quel confine a nord, tristemente chiuso, aspettando che il muro cada di nuovo. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


Senso unico, lampioni, mercato coperto: lasciano a desiderare chiarezza e stile nella gestione della città

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ulla vicenda del senso unico in corso Italia, che continua a tenere banco in città, offriamo ai nostri lettori un aggiornamento degli eventi e anche, come cerchiamo spesso di fare, allarghiamo lo sguardo ritenendo di dover provare ad andare oltre al singolo fatto. Spesso vi sono interrogativi che restano senza risposta, con uno scaricabarile e accuse generiche prive di fondamento. E’ uno stile ma anche un segno di debolezza. Noi proviamo a cogliere da che parte soffi il vento, per indicare ciò che sarebbe coerente rispetto alle tante promesse fatte da chi amministra la cosa pubblica, ma soprattutto ciò che ci sembra positivo per la città.

di Lucio Gruden Una prima osservazione, quindi, è che la polarizzazione delle posizioni ha creato un pessimo fanatismo, dove non conta la cosa in sé, ma solo chi la proponga, perché si cerca solo il vincitore, in una contesa sbagliata e insana. La massima rappresentazione della libertà, oltre al possibile dissenso del cittadino, è il rigoroso rispetto del confronto democratico istituzionale, che si esplica in quella sede naturale che, a livello locale, è il consiglio comunale. La petizione popolare chiede di tornare indietro, per studiare i flussi di traffico (quante biciclette, quante automobili, quali disagi?) e confrontarsi poi su un Piano del traffico da approvare in consiglio comunale. Questo mancato confronto ricorre troppo spesso

Come noto, è stata presentata una petizione a norma degli articoli 75 e 68 dello Statuto del Comune di Gorizia, con 2.108 firme. E’ un numero che mai si era visto a Gorizia su un tema di viabilità. Erano state 851 quelle raccolte, ancorché più informalmente, quando l’ex sindaco Vittorio Brancati propose - analogamente a Ziberna - il senso unico in corso, sebbene con direzione di marcia nel verso opposto. Tante firme oggi, in epoca di Covid. Sicuramente. Ma Giulia Roldo – una delle promotrici della petizione assieme a Rossella Dosso e Luca Michelutti, che ha visto attivi nella raccolta anche l’avvocato Daniela Orlandi e una trentina di esercenti e commercianti – ci ha precisato che certamente più del doppio, se non il triplo, erano le persone che, pur dichiarandosi d’accordo con la mozione, non hanno ritenuto di firmarla per il “timore”, dovuto alla loro attività lavorativa o ai rapporti di conoscenza personale con il sindaco o alcuni componenti della giunta. A Gorizia ci si conosce praticamente tutti e certamente questo è un segnale che lascia l’amaro in bocca, perché la partecipazione, soprattutto nel dissenso, è una prerogativa di civiltà. Se essa viene meno, anche solo nel percepito delle persone – di un timore magari infondato – ciò aumenta un distacco tra l’amministrazione e chi vive la comunità.

nella nostra piccola città, ed è un fatto che va al di là del senso unico del Corso o del Piano del traffico che non c’è: è uno stile di amministrazione della cosa pubblica che ci pare improduttivo e sbagliato. Certo, la questione del Corso è rilevante perché rientra in un’idea di città, con zone che dovrebbero essere considerate strategiche e invece non sono considerate. Ma la conduzione della querelle ci dice tanto proprio su come si è scelto di praticarla. Chi vince un’elezione, non acquista un diritto al “comando”, ma ha la facoltà di scegliere cosa proporre, purché ciò avvenga nel rispetto delle dinamiche di trasparenza, con le procedure previste e nelle sedi istituzionali. Se non lo fa, viene meno al suo primo dovere, che è quello di rispettare tutti i cittadini, anche coloro che non l’hanno votato, perché

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essi sono comunque rappresentati in consiglio comunale. Bene o male non importa, questo lo stabiliranno gli elettori con il loro assenso o dissenso verso i vari consiglieri, anche quelli di minoranza, i trasformisti, i poco presenti. Ma chi ha il pallino in mano, per dare impulso alla città con la sua visione della stessa, deve giocare nel rispetto di tutti. Torniamo ai fatti. Su imbeccata del sindaco, il quotidiano locale ha lanciato una sorta di referendum raccogliendo un migliaio di coupon dei cittadini, incentrati sulle opzioni indicate dal sindaco che si è dimostrato “aperturista”, tuttavia, solo dopo che la protesta contro il senso unico era esplosa sui social e in città. Il lavoro del Piccolo ha ottenuto un risultato il cui spoglio ha espresso – a maggioranza assoluta – la contrarietà dei goriziani al senso unico, a fronte di un gradimento per lo stesso di appena il 9%. Ora, nel momento in cui andiamo in stampa, si è in attesa della risposta alla petizione, dovuta a norma di Statuto. I radar tacciono, anche se nel frattempo si sono registrate dichiarazioni del sindaco che si dice disposto a un confronto, anche se non si capisce bene né con chi, né in che forma. Speriamo che non si dimostri irrituale e osservi lo Statuto. In tale contesto, comunque, il primo cittadino ha ritenuto di dover rassicurare tutti dicendo di non essere un masochista: non lo sarà, ne prendiamo atto, ma ci sia concessa qualche ulteriore considerazione. La vicenda della corsa forsennata al senso unico, senza consultare preventivamente gli uffici comunali (a proposito: appare grave in questo momento la scelta del Segretario comunale di andarsene), ha fatto emergere due questioni dovute al pressapochismo. L’ammissione della dimenticanza dei nostri amministratori nel coinvolgere - prima dell’avvio dei lavori - i professionisti della sicurezza (trasporto sanitario, vigili del fuoco, forze di polizia, ecc.), nonchè la dimenticanza della verifica preventiva con la Soprintendenza alle Belle Arti relativamente ai numerosi “pali neri” (per il rifacimento dell’illuminazione del corso) subito acquistati e subito conficcati a terra, in questa strana idea di sperimentazione, che poi il sindaco ha dimezzato


a “soli” sei mesi dopo l’insorgere del malcontento popolare. Facile osservare che in questi due casi l’illuminazione – chiamiamola così – non sia stata generosa e non abbia premiato l’attivismo del sindaco e del suo assessore, visto che ora quei “pali neri” andranno tolti e portati in qualche deposito comunale. Infatti, la bocciatura delle Belle Arti ha decretato che il sistema di illuminazione del Corso dovrà rimanere tale e quale a ciò che è da 83 anni, da quando cioè i lampioni vennero posati nel 1938 per salutare la visita in città di Benito Mussolini. Ma qualche illuminazione pare essere mancata al sindaco anche in altre recenti vicende. Ziberna ha fatto due affermazioni che proprio non quagliano nel giro di un paio di giorni. Ha affermato al TG3, in sede di commento alla vicenda del Mercato coperto (che il sindaco si era impegnato a trasformare e consegnare per trent’anni alla Camera di Commercio della Venezia Giulia, per farne qualcosa di diverso sotto l’egida del Gambero rosso, inviando anche un avviso di sfratto agli attuali esercenti) che le opere non si fanno a Gorizia a causa del “No se pol” dell’opposizione. Un sindaco, per legge, può contare sul 60% dei consiglieri comunali, mentre all’opposizione compete il 40%. Sarebbe stato facile, con una maggioranza unita, portare in consiglio la delibera e far passare l’impegno verso la Cciaa, ma così non è stato (il consiglio comunale doveva deliberare entro il 31 dicembre scorso). Il perché è presto detto: la maggioranza questo sindaco non ce l’ha più da tempo, e proprio per questo sta evitando di portare le questioni più spinose in consiglio. Inoltre, il capogruppo della Lega, Claudio Tomani, si è detto contrario, per cui lo scaricabarile sull’opposizione appare davvero pretestuoso. Rileviamo che, nella vicenda, la nostra città non è stata ben rappresentata dal suo sindaco in tv, qualificandola come la città del “No se pol”. Un sindaco ripreso peraltro pubblicamente dal presidente della Cciaa della Venezia Giulia, il triestino Antonio Paoletti, che ha dichiarato di avergli illustrato il progetto già a maggio 2020 e che Ziberna aveva tutto il tempo per portarlo in consiglio entro il 31 dicembre. E così emerge la contraddizione, perché a quel punto il sindaco ha detto al quotidiano locale di non aver potuto convocare l’assemblea civica sulla questione entro il 31 dicembre, aggiungendo che la causa era il Covid. Ma non era tutta colpa dell’opposizione nella città del “no se pol”? Comunque sia, mentre andiamo in stampa la situazione è la seguente: è stato

stornato l’importo di tre milioni di euro dal Fondo Gorizia, che la Cciaa ha ritirato, ma pare ci possa essere una ripartenza nell’intera vicenda, con una tardiva consultazione del consiglio comunale e un confronto con gli operatori storici del Mercato. Vedremo cosa dirà la Lega con Claudio Tomani.

Passiamo infine a un altro argomento, inerente allo stile nella gestione della città. In tempi recenti una riunione di consiglio comunale c’è stata. In essa, a parte i giochini politici di alcuni consiglieri – che ritengono che presentare mozioni e poi ritirarle sia utile alla loro

immagine –, si è scoperto che Gorizia, a fronte di un possibile finanziamento regionale (a “compensazione” di quello assai consistente concesso a Monfalcone per le Terme Romane), avrebbe dovuto presentare dei progetti cantierabili per ottenerlo. Ma dalle parole esplicite verso il sindaco del capogruppo di Forza Italia, Fabio Gentile (dello stesso partito di Ziberna), si apprende che quei progetti non ci sono. Perché? Perché nessuno li ha mai fatti, nonostante i quasi quattro anni di amministrazione della città. Però il sindaco ha pensato bene - sempre secondo Gentile -, di provare a farsi concedere ugualmente il finanziamento dalla Regione, indicando come opere il rifacimento del PalaBigot e un nuovo 13

parcheggio interrato, proprio presso l’area del Mercato. Peccato però che entrambi gli interventi non siano ubicati in “centro città”, come previsto invece – sempre secondo le parole di Gentile in consiglio comunale – dalle rigorose condizioni dell’articolato per la concessione del finanziamento regionale: non sappiamo se sia effettivamente così, ma ci sembra che l’insieme delle questioni indichi che l’interruttore è spento e che quindi l’illuminazione sia non affievolita, ma proprio azzerata. Si corre in tutte le direzioni, si fanno continui annunci (salvo poi smentirli), si prova a incantare le persone come fossero un pubblico da coccolare, si cerca di intestarsi vittorie e di scaricare responsabilità alla rinfusa, ma non si produce nulla di concreto, e quando lo si fa – come nel caso del senso unico – forse sarebbe stato meglio non averlo fatto, perché i costi poi ricadono sui cittadini. Già avevamo scritto che se si vuole guardare a un futuro transconfinario della città, alla tessitura cioè dell’inurbamento unico tra Gorizia, Nova Gorica e San Pietro – nella logica di una maggiore compenetrazione che pure il sindaco sostiene di volere perseguire, anche in ragione della scadenza del 2025 – allora andrebbe considerata maggiormente l’intera linea confinaria, su cui investire progetti e risorse. Aggiungiamo oggi i luoghi antichi del sotto castello, delle vie Oberdan e Boccaccio che sono proprio attorno al Mercato, e delle vie Carducci e Rastello, in cui per fortuna c’è l’iniziativa privata di persone, come Chiara Canzoneri, una signora che si prodiga con tenacia e fantasia per far rivivere gli splendidi luoghi che pure ci sono a Gorizia. Crediamo che la città meriti un confronto più trasparente sul suo futuro e che vada recuperato un maggior rispetto istituzionale. Servono meno annunci (il critico Fabio Gentile, riferendosi al sindaco, ha parlato di “meno cassetti aperti”) e più concretezza. Perché occorre ridare alla città una chiara visione prospettica e una speranza, dopo questa lunga stagione di inesorabile perdita di residenti e di chiusura di attività. Purtroppo, però, non pare esserci chiarezza all’orizzonte, nemmeno nelle proposte di discontinuità e di alternativa. Servirà un sindaco autorevole, che non debba pagare alcun pegno alle dinamiche del suo partito, per far rinascere un orgoglio goriziano attorno a un’idea di città. Ruolo che oggi appare – è proprio il caso di dirlo – assai poco illuminato. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


Noi vecchi derisi, umiliati chiediamo soltanto un po’ di rispetto di Viviana Marini*

ci ha donato-invece, anche in questo caso, assistiamo quasi quotidianamente a casi di omicidio, suicidio, uxoricidio, parricidio... Ma dov’è finita la morale? Dove sono finiti l’amore, l’etica, la pietà, la dolcezza, la condivisione? Che tristezza! Che grande vuoto! Per questo non c’è da meravigliarsi se noi, poveri vecchi , siamo considerati inutili, merce scaduta da buttare,spessissimo fonti di puro guadagno (vedi case di riposo o strutture pseudo-sanitarie in cui manca un briciolo di umanità ). Ove non ci sono percosse ed incuria c’è spesso umiliazione o derisione. Ma può far ridere un volto solcato dalle rughe? Non si pensa che ogni segno impresso dalla vita ha significato uno sforzo, una lotta una fatica,una delusione! Il peso degli anni ha curvato la nostra schiena? La nostra persona era eretta una volta ed eravamo forti e belli... con coraggio abbiamo portato il nostro fardello affrontando con la spavalderia tipica della gioventù le inevitabili pene ben maggiori delle gioie.

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ispetto. Una volta questa parola aveva un significato... Importante, anche!

Rispetto per le persone, per gli animali,per le cose, per la Natura, per la vita stessa. Il momento che stiamo vivendo ora, intendo come umanità, è invece rivolto al solo e mero consumismo ed egoismo. Quante persone sfruttate nel mondo! Ridotte quasi in schiavitù per un tozzo di pane... E ciò che fa più male è che anche i bambini fanno parte di questa orribile catena di indifferenza e crudeltà. Anche gli animali vengono spesso maltrattati e costretti a vivere in condizioni di estremo degrado. Per le cose poi non ne parliamo! -viviamo in un’ epoca di spreco estremo... Si buttano oggetti, suppellettili, mobili quasi nuovi, per puro capriccio, seguendo la moda del momento... (naturalmente questo discorso non vale per la povera gente). Che dire poi dello scempio fatto all’ambiente! Vediamo come la Natura si sta ribellando ai troppi esperimenti nucleari, alle troppe incurie perpetrate nel tempo e negli spazi che ognuno di noi dovrebbe tutelare e difendere con tutte le forze! Infine la vita... il dono più bello che Dio

Ci canzonano perchè parliamo male portando la dentiera… ma un tempo le nostre bocche erano come le vostre ora... belle, sane, con dentature bianche e forti! Le nostre bocche hanno baciato, hanno sussurrato dolci nenie, hanno cantato e riso... ora, sempre più spesso ed accoratamente le labbra si muovono in silenziose preghiere. Anche le mani nodose e deformate dall’artrite possono raccontare di noi! Abbiamo accarezzato cullato, imboccato, trasportato, cucinato, stirato, spazzato, lavato... Una volta non c’erano tante comodità e tanti elettrodomestici eppure abbiamo svolto al meglio e quotidianamente le nostre mansioni, per la famiglia ma anche per il vicinato... Perchè una volta ci si aiutava, e se i piedi ti portavano a correre dove c’era bisogno di aiuto, le mani, pazienti, amorose davano sollievo a chi ne aveva necessità. Siamo sordi? Forse abbiamo sentito troppe cose brutte e la nostra mente e la nostra anima hanno bisogno di silenzio...Forse è la natura stessa che ci aiuta in questo senso... Così come per gli occhi... Sono velati e lacrimosi? Hanno pianto troppe volte e la realtà non è più così bella da vedere. Ragazzi,mi rivolgo a voi... Voi siete il futuro della società e a voi chiedo una cosa sola...RISPETTO! Per me, per i vostri nonni, per il vecchietto che a fatica attraversa la strada, per chi nel bus è costretto a stare in piedi quando giovani sguaiati e maleducati occupano i posti a sedere... Per chi si sta avvicinando all’altra dimensione... RISPETTO! Almeno questo ce lo dovete. Se sarete fortunati, fra qualche decennio vi troverete nella medesima situazione 14

e forse, allora, capirete e ricorderete. E che non sia un rimpianto, il vostro, o un rimorso ma una carezza lieve sull’anima per aver donato,un giorno lontano, un sorriso a chi non se l’aspettava riscoprendo i valori del cuore e della vita stessa. *Viviana Marini è un’ex insegnante triestina che per 22 anni ha lavorato all’ospedale infantile Burlo Garofolo con ragazzi portatori di gravi handicap psicofisici. Al suo attivo ha più di 150 scritti tra novelle, racconti, filastrocche e fiabe. Ha pubblicato due volumetti distribuiti nelle scuole. Da un anno i suoi scrìtti sono rivolti a un pubblico adulto “perché tante, troppe – afferma – sono le problematiche che affliggono la nostra società”. Da questo numero, inizia la sua collaborazione con la nostra rivista. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Pillole di Frank

“Nonno Frank?” “Dimmi Leon”. “Pensi che la gente debba fare il vaccino?” “Assolutamente no”. “Dici davvero!?” “Puoi giurarci. Spero che tutti leggano i messaggi di pericolo che girano, soprattutto quelli farlocchi e idioti, e lo facciano il meno possibile”. “Perché?” “Perché così a me lo fanno prima”. (Giorgio Mosetti)

Il prefetto Marchesiello trasferito a Udine Il prefetto Massimo Marchesiello, dopo tre anni e mezzo, ha lasciato Gorizia per andare a ricoprire lo stesso incarico a Udine. Nel momento del commiato, ha detto che si porterà Gorizia nel cuore. Senza retorica, possiamo affermare che il dottor Marchesiello, allo stesso modo, rimarrà nel cuore di tutti noi. Era arrivato in un momento delicatissimo, con i profughi accampati nella galleria di piazza Vittoria. Ha saputo gestire l’emergenza con molto pragmatismo, intelligenza ed equilibrio, finchè essa è cessata per il trasferimento della commissione richiedenti asilo a Trieste. Sempre con i fatti e con poche, ma ben calibrate parole, ha affrontato il problema del Cpr di Gradisca e quello del Covid con la chiusura del confine. Persona attenta e riservata, sempre disponibile all’incontro, è stato un amico del nostro giornale: alle mostre dei migranti del Nazareno, che la nostra associazione di promozione sociale Tutti Insieme proponeva, era sempre presente. Col prefetto abbiamo affrontato, nel rispetto di ruoli, le problematiche dell’immigrazione, della “Famiglia allargata”, dell’informazione e molto altro ancora. Auguriamo a Massimo Marchesiello un buon lavoro a Udine e diamo il benvenuto al suo successore, dottor Raffaele Ricciardi. (renato elia)


Con i semi dell’”albero dei rosari” si possono confezionare collane e bracciali: ma attenzione, la pianta è tossica

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orizia possiede alberi davvero particolari. Possiamo ammirarli percorrendo le vie della città: sono piantati lungo le strade, nelle piazze o nei parchi, abbelliscono le aree spartitraffico o alcune zone antistanti edifici pubblici. Nelle abitazioni private ornano giardini, piccoli orti, cortili, giardini pensili. Succede che alcuni di questi alberi risultino sconosciuti oppure ci facciano innamorare tanto da volerli piantare nel nostro giardino. A me succede ogni tanto di possederne qualcuno che poi coltivo nel mio giardino in campagna, dove posso sperimentare, osservare e far crescere nuove specie arboree… tra cui questo albero. Per quanto concerne l’albero di cui vi parlerò, mi è stato “presentato” - se così si può dire - da Gianfranco, un ex forestale che continua ad amare la Natura e la sua città. Un albero da scoprire: albero dei rosari Melia azedarach. Ubicazione: Gorizia, via del Monte Santo n. 17, giardino di edificio pubblico. Tra storia, botanica e curiosità: la Melia azedarach è un albero spogliante originario dell’Asia, e in particolare dell’Himalaya, ma già in epoca antica la pianta

L’albero si trova nel giardino dell’Ersa di via Montesanto. 25 anni fa un dipendente ne aveva portato i semi di ritorno da un viaggio in Messico

di Liubina Debeni in quello che nel 1850 era lo “Stabilivenne messa in coltura estendendosi così mento orticolo Antonio Seiller”, primo a tutti i paesi dell’Asia e di altre zone trovivaio di piante a Gorizia. Il vivaio era picali. L’albero raggiunge i 10-15 metri di famoso all’epoca perché venivano coltialtezza. Ha foglie composte da tante fovate migliaia di piante, alberi da frutta, glioline frastagliate che cadono in autunalberi e arbusti ornamentali, piante da no. Il bello è che, in inverno, sull’albero aranciera che avevano mercato in tutto spoglio rimangono i semi che pian piano l’Impero Austro-Ungarico. All’interno di maturano diventando di colore dorato e rendendo l’albero ancora piacevole. In primavera spuntano le nuove foglie e all’inizio dell’estate si schiudono fiori, riuniti in grandi pannocchie, profumati, bianco-lilla, a forma di stella con cinque petali. Dopo la caduta dei fiori seguono i nuovi frutti, che sono delle drupe ovoidali di colore verde con dentro un seme scannellato. La particolarità del nocciolo, facilmente perforabile, si presta a confezionare rosari e collane, cosa che avviene nel suo paese d’origine. In primavera spuntano le nuove foglie, mentre i fiori si schiuDeve a questa particoderanno nei mesi estivi larità il nome comunemente usato di “albero dei rosari“ o “albero di una pubblicità del vivaio Seiller, datata perline”. 1865, troviamo tra gli altri alberi anche la Melia azedarach. Si vede che era deIn natura alcune piante sono tossiche o stino che a distanza di tanti decenni un addirittura velenose. La Melia è tossica albero così particolare venisse piantato in tutte le sue parti se ingerita da animali presso lo storico vivaio, che era ubicato a e dall’uomo. Eppure veniva utilizzata fianco e che cessò l’attività nel 1884. nella farmacopea per i suoi principi attivi. Infatti nel suo luogo d’origine Vi consiglio di fare una passeggiata in viene utilizzata per la sue proprietà anprimavera in via del Monte Santo per tielmintiche; le foglie e la corteccia per il vedere questo albero in fiore. Si sa che la trattamento della malaria, l’olio ottenuvita di un albero dipende da vari fattori, to dai suoi semi per curare le eruzioni malattie, vecchiaia, eventi atmosferici cutanee. Una domanda può sorgere tra che lo possono danneggiare: quindi, una i lettori: come mai a Gorizia è arrivato passeggiata per ammirarlo merita farla. un albero così particolare? Il merito è proprio di Gianfranco, l’amico forestale Una curiosità: possiamo anche noi conche, al ritorno da un viaggio in Messico, fezionare bracciali, collane o rosari con aveva portato alcuni semi di alberi tra i semi dell’albero dei rosari. Basta avere cui quelli di Melia azedarach. L’edificio pazienza di togliere la polpa dal seme e presso cui lavorava era la sede dell’Ersa, poi lavarlo. (Ente Regionale dello Sviluppo Rurale) di Via del Monte Santo. Seminati in vaso, Quando è ancora bagnato sarà necessabagnati, curati i semi si erano trasforrio usare un grosso ago per allargare il mati in giovani alberelli. Uno di questi buco naturalmente presente. Lasciare venne piantato dove lo vediamo ora, ed è asciugare i semi e poi infilarli con un un albero di ormai 25 anni. filo sottile. Attenzione a non mettere le mani in bocca mentre si lavorano i Se si approfondisce la nostra storia locasemi perché, come ricordato, si tratta di le sotto il profilo botanico, si scoprono una pianta tossica. tante notizie interessanti. Già all’inizio della seconda metà dell’Ottocento questa ©RIPRODUZIONE RISERVATA tipologia di albero era presente a Gorizia 15


Donne coraggiose di ieri e di oggi di Stefania Panozzo

Nei Paesi poveri le donne e i bambini sono le categorie più fragili e le donne subiscono più frequentemente violenza. Inoltre, secondo le statistiche, ogni minuto muore una donna di parto o di conseguenze legate alla gravidanza, per problemi a noi sembrano risolvibili, ma che diventano insormontabili laddove non ci sono strutture sanitarie e loro non sono libere di decidere della loro salute. Da ciò si può dedurre che Medici senza frontiere si impegna a tutelare la salute delle donne, dal momento che impedire che una donna muoia di parto significa irrobustire la sua famiglia e consentire ai suoi figli di vivere più a lungo e di conseguire un livello di istruzione accettabile. L’ostetrica Giulia Maestrelli ha concluso la sua testimonianza sostenendo che gli uomini sono gli alleati su cui si deve contare per salvare le donne, perché il cammino verso la parità di diritti deve essere comune e dobbiamo continuamente confrontarci gli uni e gli altri condividendo i propri punti di vista.

L’

8 marzo scorso il mondo ha ricordato la giornata internazionale della donna, e sono state numerose le iniziative che, pur nelle modalità che abbiamo imparato a conoscere dall’inizio della pandemia, hanno contribuito a celebrare questa importante ricorrenza. Di primo acchito può sembrare una data come un’altra, tra mimose e cioccolatini che l’hanno rivestita nel tempo di una patina “commerciale”, ma che invece dev’essere vissuta come un modo per far luce e riflettere sulla situazione di disagio e violenza in cui vivono le donne oggi, in tutti i Paesi compreso il nostro. Quella sera ho partecipato a un incontro in diretta Facebook organizzato dalla sezione di Udine di Medici senza frontiere e pubblicizzato dal Comitato di quartiere di Straccis, dal titolo “Donne coraggiose di ieri e di oggi” nel corso del quale l’attenzione si è focalizzata su tre figure di donne: Giulia Maistrelli, un’ostetrica di Medici senza frontiere che lavora nei Paesi poveri (Sud Sudan, Yemen…) e che ha parlato di come la situazione femminile in quei Paesi incida negativamente sulla salute dei bambini, e due donne coraggiose vissute tra il IV e il V secolo d. C: la scienziata Ipazia d’Alessandria, martire della libertà di pensiero, il cui ritratto é stato presentato brevemente dalla storica dell’antichità Claudia Giordani e santa Macrina che fondò una comunità monastica incentrata sulla predicazione del Vangelo, la cui biografia é stata tracciata dall’archeologa Antonella Testa.

Come ho premesso all’inizio, l’interessante incontro a cui ho partecipato era promosso dal Comitato di quartiere di Straccis, nato nel dicembre 2014 dopo lo soppressione dei dieci Consigli di quartiere che erano stati istituiti nella nostra città. Non si tratta di un’associazione, ma di un comitato spontaneo, senza vincoli legali, composto da persone unite dalla convinzione che il cambiamento possa partire dal basso, cioè dai cittadini che, unendo le loro idee e le loro forze possono compiere delle piccole azioni per migliorare la propria vita e quella degli altri. Il comitato ritiene che il quartiere di Straccis rappresenti la dimensione ideale per creare una comunità radicata sul territorio dove l’individualismo possa lasciare spazio alla centralità delle persone che hanno bisogno di incontrarsi e condividere i propri problemi per trovare soluzioni e superare la paura della diversità. Nel corso di questi anni il Comitato di Straccis ha organizzato numerosi incontri grazie ai quali i partecipanti hanno potuto ripercorrere la nostra storia, come testimoniano per esempio le proiezioni dei docufilm di Cristian Natoli (tradizione che ci si augura di poter riprendere quando la pandemia sarà finita), ma anche iniziative di economia solidalecome il patto della farina e quello del miele, e conferenze volte ad approfondire tematiche internazionali che si riflettono sulle nostre scelte, ma spesso ci trovano inconsapevoli della situazione vissuta delle persone che creano i prodotti che noi consumiamo. Ne è un esempio il coltan (contrazione di columbite-tantalite), che viene utilizzato per la fabbricazione di telecamere, cellulari e altri apparecchi elettronici, e di cui il sottosuolo della repubblica democratica del Congo é

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estremamente ricco. A questo metallo, che sembra essere salito agli onori delle cronache dopo l’omicidio di cui sono state vittime circa un mese fa l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e il loro autista Mustafà é stato dedicato un interessante incontro già nel 2018. Da un anno a questa parte le iniziative del Comitato hanno subito un rallentamento a causa della pandemia che ha impedito gli incontri in presenza, ma l’attività non é stata del tutto sospesa come testimonia l’iniziativa “Dal dire al fare” cominciata durante il periodo di Natale e che continua ancora oggi con l’obbiettivo di fare in qualche modo compagnia alle persone fragili (facendo loro una telefonata o portandogli un pacco con generi di prima necessità). Alla base di questa iniziativa c’é l’idea che le parole sono certamente importanti, ma vanno accompagnate da azioni concrete. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Punti di riferimento Abbiamo bisogno di qualche punto di riferimento per potere affrontare il futuro. Lo diceva anche Leonardo da Vinci: “No’ si volta chi a stella è fisso”. L’essere umano è fatto per la vita e non solo per le cose. Non a caso la nostra libertà è guidata dalla Carta costituzionale, un punto di riferimento per tutti i noi. Una libertà sociale che ci orienta nel difficile presente e ci indica il domani da offrire alle nuove generazioni, che sono il vero obiettivo del ciclo vitale. Se perdiamo il collante della continuità generazionale sarà facile cadere negli abissi della belligeranza permanente. Ora, nel 2025, Gorizia diventerà (con Nova Gorica) capitale europea della cultura. Come ci presenteremo? Con quale biglietto da visita? Rifaremo la solita grande ammucchiata in centro, tipo Gusti di Frontiera, oppure cercheremo di coinvolgere gli spazi periferici? L’importanza della periferia è un problema che mette in discussione il potere centrale. Basta leggere le notizie provenienti dalle grandi città. Del resto, perché la ruota possa girare serve un centro collegato alla sua periferia, e questo, nel caso di Gorizia, sono i consigli di quartiere. Proprio questa rottura, voluta nel passato, sta provocando un’anomalia nel sistema del governo amministrativo che, incapace di leggere la realtà complessiva, si affida al quotidiano, senza anticipare una progettazione di lungo respiro e completa visione ( un esempio il nuovo Corso Italia). Se pensiamo solo e sempre alla campagna elettorale, paranoica, non abbiamo compreso la naturale funzione della politica. Senza il coinvolgimento dell’intera cittadinanza e soprattutto della gioventù per questo territorio non ci sarà futuro. L’amara conclusione per quanti hanno operato con spirito di altruismo e vera passione civica. (Renato Elia)


Quei tre piroscafi sulla facciata dell’agenzia Appiani che facevano sognare viaggi verso mete lontane

L

asciarsi andare all’onda dei ricordi può essere senza dubbio una pratica piacevole e romantica, ma – forse – quando lo si fa un po’ troppo spesso non è un buon segno: vuol dire che la nostalgia del passato supera abbondantemente la soddisfazione per il presente. Succede così che nei gruppi Facebook “Sei di Gorizia se…” e “I love Gorizia” (ma ce ne sono anche altri) è invalsa da qualche tempo l’abitudine, da parte di numerosi utenti, di postare fotografie, anche molto belle e suggestive, che rimandano alla Gorizia di un passato più o meno remoto. Ha riscosso un successone, per esempio, la pubblicazione della vetrina e delle insegne della storica agenzia viaggi Appiani, un autentico pezzo di storia goriziana, chiusa per fallimento nove anni fa, nel 2012. In molti, nei commenti, si sono chiesti che fine abbiano fatto i tre grandi ovali, uno dei quali con i piroscafi stilizzati, che campeggiavano sulla facciata (rivedendoli la memoria non può fare a meno di andare all’apparizione del leggendario Rex nel film “Amarcord” di Federico Fellini) ma anche gli affascinanti arredi interni in legno di color marrone scuro, con le scaffalature, gli intarsi e il grande lampadario che sovrastava il locale. Trattandosi di un fallimento, tutto ciò è stato acquistato all’asta da privati. Ma in questo servizio vorremmo ripercorrere in estrema sintesi la storia dell’agenzia, che nel 2012 dovette soccombere alla crisi economica, quella stessa che oggigiorno, dopo un anno di pandemia, sta mettendo a dura prova la resistenza del settore. Anche negli anni che vanno dal 2009 al 2013, peraltro, il calo del giro d’affari era stato mediamente del 50 per cento a livello nazionale, e aveva sferrato un colpo da ko pure alla più antica agenzia di viaggi goriziana, la centralissima Appiani di corso Italia, costretta a chiudere i battenti. Le vicende dell’”Ufficio viaggi e turismo Renato Appiani” s’intrecciano con quasi un secolo di storia goriziana, perché se è vero che nel suo ultimo “format” l’atti-

di Vincenzo Compagnone vità era scattata il 25 aprile del 1952 (la chiusura avvenne dunque all’…età di 60 anni), le origini della società affondano addirittura nel lontanissimo 1928. Il primo gennaio di quell’anno, al numero 18 del Corso che all’epoca era intitolato a Vittorio Emanuele, il 31enne Renato Happacher (cognome che due anni più tardi sarebbe stato italianizzato in Appiani, secondo le consuetudini del regime fascista), abitante in piazza De Amicis con la moglie Luigia Trampus e

la figlioletta Claudia di 3 anni, diede vita al primo embrione dell’Agenzia viaggi, con uffici staccati anche a Gradisca e a Idria. La famiglia Happacher era nota a Gorizia sin dall’Ottocento, per la sua attività nel ramo alberghiero (possedeva l’Angelo d’oro in Contrada dei Vetturini, oggi via Favetti, e il Leon d’Oro in via dei Signori, l’odierna via Carducci, attuale sede della Fondazione Cassa di risparmio) ma il giovane Renato esplicò il suo dinamismo imprenditoriale in altre direzioni. Oltre ad organizzare viaggi, nel 1930 ottenne dal Consiglio provinciale dell’economia corporativa (così si chiamava allora la Camera di commercio) la licenza di cambiavalute, mentre nel 1933 divenne agente di assicurazioni per conto di compagnie come La Previdente di Milano e la Fenice di Venezia. Il salto di qualità, l’Ufficio viaggi lo compie nel 1939, conseguendo la rappresentanza delle società di navigazione Italia, Lloyd Triestino, Adriatica e Tirrenia. 17

I tre grandi ovali sulla facciata ai quali facevamo riferimento (e in particolare quello centrale, con la scritta “Servizi per le Americhe” e il disegno di tre piroscafi stilizzati) stavano a indicare che chi voleva intraprendere un viaggio in mare, doveva per forza di cose rivolgersi alla Appiani. Ma in mezzo ci fu la guerra e un episodio drammatico. Alle 14.30 del 3 maggio 1945, all’inizio dell’occupazione titina di Gorizia, Renato Appiani venne prelevato dai militari e trasportato in Jugoslavia. Da quel giorno, di lui non si seppe più nulla. Soltanto nel 1964 il tribunale di Gorizia emanò la dichiarazione di morte presunta. Ma intanto, dopo sette anni di sospensione, l’Ufficio viaggi che avrebbe sempre continuato a portare il nome dello scomparso, era stato rilevato, nel 1952, dall’unica figlia Claudia, allora 27enne, esercente – così si legge in un documento della Camera di Commercio - l’attività di «rappresentante di vettore e agente di emigrazione, cambiavalute e di assicurazioni». Claudia Appiani, sposata con Stefano Lutman, concentrò ben presto la sua attività nel settore del turismo, e nel 1958 divenne agente dell’Alitalia per il servizio passeggeri di Gorizia e provincia. Con l’apertura dell’aeroporto di Ronchi, dei pulmini-navetta facevano la spola fra corso Italia e lo scalo aeroportuale per il trasporto dei passeggeri. Un’attività fiorente, punto di riferimento per tanti goriziani, che proseguì negli anni, anche se in città cominciarono a spuntare come funghi molte altre agenzie di viaggio. Nel 1994, alla morte di Claudia Appiani, subentrò come amministratore unico Luigi Denti Tarzia, che già da anni lavorava nell’ufficio e che ne è stato il titolare fino all’anno della chiusura. Ora il locale è stato occupato dal gruppo Hera (luce e gas), e prima ancora vi si era installato con poca fortuna un bar. Con l’Appiani, insomma, nel 2012 se n’era andata non una semplice attività imprenditoriale, ma un piccolo pezzo di quella storia goriziana che – a giudicare dai ricordi di Facebook - sono in tanti a rimpiangere. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


Ricordo di Giovanni Gastel, nipote di Luchino Visconti con i suoi ritratti toccava l’anima dei personaggi celebri

Q

di Felice Cirulli

uando si parla di destino si tende ad alludere quasi sempre a qualcosa di ineluttabile, di definito e definitivo, qualcosa che deve succedere comunque, indipendentemente da ciò che si può o si vuole fare per modificare il corso degli eventi. Prima o poi mi sarebbe accaduto di dover scrivere di Giovanni Gastel, per raccontare di uno dei maggiori interpreti italiani e internazionali della fotografia ritrattistica e di moda, ma non avrei mai immaginato di dover anticipare i tempi a causa dell’infame destino che ha determinato la morte per Covid di questo nostro grande fotografo. Ebbene sì, è successo anche questo, la pandemia che ci sta attanagliando da più di un anno ci ha portato via anche lui, alla prematura età di sessantacinque anni, insieme alle tante altre povere vittime di questo maledetto virus.

suo modo di vedere il lavoro che ne ha attraversato l’esistenza e il suo metodo di interpretazione della fotografia. Torniamo quindi a parlare di destino.

Ecco che allora mi sono ritrovato a dover raccogliere velocemente, non senza momenti di emozione e commozione, gli elementi utili a raccontare la sua persona e la sua figura professionale. Non è semplice descrivere la parabola di un artista che, per cause inattese, è rimasta incompiuta. È come narrare una storia senza un finale, ovvero volendone

Giovanni Gastel, milanese di nascita, anno 1955, appartiene alla aristocratica famiglia dei Visconti di Modrone (nipote di Luchino), quindi facente parte di un mondo, quello della ricca nobiltà italiana, che in qualche modo sfugge alla comprensione di noi “modesti” borghesi. Un ceto che vive una sua particolare dimensione, avulsa dalla semplice quoti-

omettere il tragico finale e lasciare spazio all’immaginazione di ciò che avrebbe potuto ancora regalarci.

dianità che compete alle vite cosiddette “normali”.

Non mi addentrerò nella biografia e quindi nella tentazione di celebrare la memoria dell’uomo, ma cercherò di puntare l’attenzione sull’artista e sul

Così, facilitato dall’ambiente che lo circonda, il suo percorso nel mondo dell’arte inizia molto presto quando all’età di 12 anni viene chiamato da una delle sorelle a partecipare come attore ad una 18

pièce teatrale. Qui capisce da subito che, diversamente dalla volontà dei genitori, il suo cammino nella vita adulta dovrà essere all’interno dell’arte, non importa di quale specie. Sempre molto presto, all’età di 14 anni pubblica il suo primo libro di poesie. Non appena diplomato apre il suo primo studio fotografico. I mezzi economici non gli mancano. Il suo destino doveva essere questo e così è stato: la dedizione unilaterale ed esclusiva al mondo dell’arte, in questo caso dell’arte fotografica. L’ispirazione nell’ambito delle arti visuali scaturisce dall’aver vissuto in un ambiente nel quale l’iconografia femminile era scandita dalle opere d’arte pittorica appese ai muri “casalinghi”, in un ambiente familiare comunque popolato da molte donne. La donna e l’interpretazione della sua eleganza estetica e interiore è diventato il suo valore di riferimento. Pur ereditando una visione classica, è riuscito comunque a modellare una sua moderna rappresentazione dell’estetica riferita al ritratto fotografico, sia nel tema della moda che nella pura arte ritrattistica, anche prendendo spunto da quei grandi fotografi, tra i quali Richard Avedon, che prima di lui avevano avuto il coraggio di “ribaltare” i classici concetti di approccio a questo genere fotografico. Il suo obiettivo non è stato

quello di imitare i grandi maestri ma di comprendere intimamente il loro stile per poter essere in grado di elaborarne uno proprio, necessariamente ed assolutamente personale e identitario. A suo dire la creatività in campo artistico nasce dalla capacità di identificare


sé stessi come differenti rispetto agli altri. Cercare e trovare un elemento, una parola, una caratteristica che sia in grado di definirci e lavorare sullo

che ciascuno di noi possiede e che ci rendono unici e irripetibili. La capacità del fotografo di ritratto risiede nell’abilità di esaltare la verità del soggetto,

raccontare sé stessi, definire un canale di comunicazione reciproco. Attraverso la gestione della creatività il fotografo deve saper raccontare la verità ed il soggetto

sviluppo di questa linea identificativa. Il concetto che Giovanni ha trovato per sé stesso, come coerente con il suo sviluppo professionale ed artistico è stato quello dell’eleganza. Dove la parola eleganza non è intesa come puro riferimento estetico, ma come etica nell’approccio alla vita e nei comportamenti sociali, come sostanza e non come semplice apparenza.

senza nasconderne i difetti ma anzi facendo in modo che siano questi stessi a raccontarlo. Dotarsi dell’attitudine a saper rappresentare la bellezza che risiede nella personalità di ciascun soggetto deve costituire il punto di arrivo di ogni fotografo ritrattista.

deve mettersi in condizioni di farsi raccontare nella propria genuina essenza. Mentre la realtà è un eterno movimento, un’eterna variazione di stato, la fotografia sintetizza in un’immagine un istante che rimane eterno ed immutabile. Così facendo crea delle icone che non corrispondono più al reale ma assumono la connotazione di una suggestione immaginifica: attraverso la fotografia l’eternità viene “fissata”.

Dalle tante interviste rilasciate emerge una persona che, nonostante lo status sociale ed il livello professionale raggiunto, che lo ha visto collaborare fin da giovane con le maggiori firme della moda e con le più importanti riviste, oltre ad intrattenere rapporti con un gran numero di star dello spettacolo,

Differenziarsi dalla “massa”, questo è stato il suo percorso professionale ed artistico, che lo ha portato ad elaborare un suo stile unico attraverso la capacità di superare ed anche contraddire le regole che definiscono tecnicamente le modalità di esecuzione di una fotografia. Per questo motivo, Gastel non ha mai ancorato il suo sistema di lavoro allo strumento, adattando di volta in volta le tecniche all’evoluzione tecnologica dei mezzi e rimanendo così sempre “moderno” nel modo di elaborare e confezionare il suo prodotto.

Vi è sempre comunque un filtro interpretativo tra l’oggettività del reale e l’immagine impressa dal fotografo, questa lente è ciò che definisce la differenza tra una pura testimonianza ed un’opera d’arte. Giovanni Gastel, come tutti i grandi ritrattisti, ha saputo regalare al mondo

Lui amava definirsi un fotografo che sbaglia di continuo, però i suoi errori non sono casuali ma voluti e finiscono per rappresentare la sua cifra stilistica. La consapevolezza degli errori e la loro conseguente codificazione in metodo, diventa stile e identità. Alla fine nel campo dell’arte non contano le regole, ma i risultati che si è in grado di ottenere.

dello sport, eccetera, ha saputo coltivare e conservare un approccio misurato e umile sia nei confronti delle sue proprie capacità di artista che nel modo di approcciarsi alla vita corrente e alle persone che lo hanno circondato. Per lui la vera bellezza andrebbe ricercata nella somma dei tanti piccoli difetti

Sosteneva che, come per tutte le forme d’arte, anche per la fotografia deve valere il concetto che essa è un prodotto che l’artista crea al fine di poter consentire all’osservatore di congiungersi con il risultato finale. Attraverso questo meccanismo l’utente viene stimolato a riconoscersi in qualcosa, a vivere stati d’animo, a far emergere ricordi, sensazioni ed emozioni. Un prodotto fotografico chiuso e completamente definito non permette questa alchimia. In particolare, nella fotografia di ritratto il soggetto e il fotografo non devono giocare a fare ciò che non sono, entrambi devono invece aprire il proprio cuore e

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intero e ai soggetti dei suoi ritratti una visione reale di sé stessi, ciò che tutti gli altri vedono, cosa diversa da quello che ciascuno di noi può osservare guardandosi allo specchio. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


Quando il tifo dei “fan club” seguiva la Pro …ma non solo di Paolo Nanut

D

i Gorizia, nel passato si diceva che vivesse di pane e basket: cosa peraltro vera, ma in quel periodo c’era anche “l’altra Gorizia”, quella che riempiva le gradinate e le tribune dello stadio calcistico della Campagnuzza; anche se gran parte di questi aficionados si dividevano con le tribune del Palasport di via delle Grappate e quelle della Valletta del Corno per seguire l’hockey su pista. Dagli anni Settanta ai primi Novanta, attorno alla squadra biancazzurra (che si sta avvicinando al secolo di vita avendo appena compiuto novantotto anni), c’era molto fermento, con ben quattro fan club cittadini spesso rivali fra loro, in quanto tutti volevano primeggiare nell’essere quello con più tesserati. Il primo che prese il nome Club Pro Gorizia fu fondato nel 1971 presso il Bar ai Tre scalini, dove venne anche stabilita la sede. I soci fondatori furono Giorgio Blasco, vera memoria storica della Pro Gorizia e sicuramente il tifoso numero uno di tutti i tempi; Mauro Bigot, Angelo Delneri, Elio De Marchi, Sergio Leoni, Franco Venturini e Gianfranco Stacchi, che poi negli anni duemila divenne per un periodo anche presidente della società calcistica. Nel 1974 il club si trasferì alla trattoria Alla Delizia in piazza Cavour dalla quale poi il “manipolo” di tifosi organizzati prese il nome. Intanto, alla Trattoria Al Gnocco, sotto l’impulso di Claudio Faggiani nasce il Club Madonnina, il quale si gestisce autonomamente non allacciando nessun tipo di collaborazione con quello di piazza Cavour.

Certamente è un periodo felice sia per la Pro, che staziona stabilmente nelle zone alte nel campionato di serie D, che per la tifoseria, sempre più attaccata alla squadra. Ed è così che prima viene fondato il “Club Isontino Biancoazzurri” in via Codelli nella storica sede della Trattoria Cà di Pieri (oggi gestita da Roberto Carone, figlio del compianto giocatore biancazzurro Sergio), e poi dopo alcuni diverbi fra i soci, alcuni di loro, con in testa Vojko Voncina, sbattendo la porta, si spostano in via Maniacco per fondare un nuovo club, chiamato con lo stesso nome. Subito però entrambi cambiano la loro denominazione. Il primo diventa Sezione Dal Pont, mentre il secondo prende il nome della trattoria Al Falegname che li ospita. Solo nel 1987 i quattro club smettono di farsi la guerra fra loro e decidono di dotarsi di un centro di coordinamento comune, pur mantenendo ovviamente la loro autonomia, nominando presidente Roberto Biteznik. Erano gli anni in cui i quattro club, in totale, potevano annoverare più di settecento iscritti, quasi più dei tifosi allo stadio. Poi, pian piano, è iniziato il declino sia della squadra che dei club, e ora di loro non resta che il ricordo dell’attività e delle trasferte organizzate con le corriere al seguito dei giocatori. Poi c’erano anche quei tifosi “non allineati”, i quali dopo le partite si trovavano stabilmente nella trattoria di via del Santo gestita proprio da Giorgio Blasco, il quale a fine partita andava precipitosamente ad aprire il locale. Se la suqadra aveva vinto era gioviale con tutti, se invece era stata sconfitta, diventava irascibile ed era meglio stargli alla larga! Non tutti lo sanno, ma sempre negli anni Settanta, con la Pro Gorizia stabilmente inserita nel girone di serie D Friul-Veneto e Lombardo, quando la squadra andava a giocare nei campi del Milanese, veniva accolta da un manipolo di tifosi del posto, che non erano altro che goriziani i quali, negli anni del boom economico, erano andati proprio in Lombardia a cercar lavoro, senza però mai dimenticare le loro origini. Parallelamente ai club di tifosi, anche gli “ultras” si davano appuntamento sulla gradinata. Alla fine degli anni Settanta prima c’erano i “First-Line”, poi dal 1987 la “Gioventù Biancazzurra”, tuttora attiva dopo un lungo periodo di inattività e 20

assieme a loro anche l’ “Alcool Gorizia”, che per tutti gli anni Novanta furono gli unici a seguire le gesta dei ragazzi goriziani. Anche se, a onor del vero, non sono mai stati dei veri e propri ultras, bensì un manipolo di tifosi “pazzi della Pro”; chi scrive era uno di questi. Dicevamo anche dell’hockey su pista: ebbene, per due anni, quelli targati Menta-Più in serie A1 tra il 1987 e il 1989, sulle tribune della palestra di via Brass, il tifo folcloristico non mancava di certo e proprio per questo, sempre al sottoscritto e ad Alfonso Nazzaro, venne l’idea di mettere assieme tutti i giovani appassionati di questo sport nel “Blue & White Hockey club”, organizzando spesso anche delle trasferte al seguito dei ragazzi di capitan Gianni Brandolin. Poi con l’esclusione nel 1990 dal campionato della Goriziana per motivi economici, anche il club si sciolse senza mai più riannodare le proprie fila. Erano anni in cui lo sport a Gorizia viveva un periodo d’oro. Oltre al basket, al calcio e all’hockey su pista, non dimentichiamo che anche nella pallamano la Methodo guidata dal professor Nereo Tavagnutti, giocava in serie B, come nella serie B c’era nella pallacanestro femminile la Fari; mentre a metà degli anni Novanta si visse a Sant’Andrea il miracolo “OK Val” nella pallavolo, quando i rossoblù di coach Lorenzo Zamò arrivarono addirittura in serie B/1, sfiorando i play off. E’ stata una squadra ineguagliabile, basti pensare che proprio in quegli anni Matej Cernic e Loris Manià mossero i primi passi che poi li hanno portati a giocare a lungo in serie A1 e in Nazionale. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Top Five Libreria Ubik 1) “Madame le Commissaire” (Pierre Martin) 2) “Clima” (Bill Gates) 3) “Memorie di un dittatore” (Paolo Zardi) 4) “Facile preda” (John D. McDonald) 5) “Goro Goro” (Laura Imai Messina)


Una piccola impresa sportiva: 50 anni fa, la medaglia d’argento della nostra squadra di basket ai Giochi della Gioventù di Roma

Q’

uest’anno ricorre il 50° anniversario di una piccola impresa sportiva. Nell’estate del 1971 la nostra squadra di pallacanestro (UGG targata Splügen Bräu) vinse la medaglia d’argento alla fase nazionale dei Giochi della Gioventù, a Roma, laureandosi di fatto vice campione nazionale di categoria (“Ragazzi”, 12-13 anni).

di Bernardo Bressan Castel Sant’Angelo, Fontana di Trevi, zone archeologiche e a piedi nel centro – e il Vaticano. Fu in Piazza San Pietro che il 29 giugno assistemmo al discorso di Paolo VI dalla finestra dei suoi appartamenti, assieme con gli altri ragazzi giunti da tutta Italia. Al pomeriggio iniziammo la seconda fase eliminatoria, affrontando Reggio Calabria nella Sala Scherma del Foro Italico. Fu un avversario ostico, anche perché vi giocava colui che alla fine vinse la classifica dei marcatori, con 32 punti di media. Stringemmo i denti e

Fu un’avventura iniziata con fiducia e conclusasi clamorosamente. Nei mesi precedenti avevamo vinto praticamente tutto, arrivando primi nella fase comunale e in quella provinciale. Trovammo qualche resistenza solo in quella interzona, che terminammo battendo l’Inter 1904 di Trieste e guadagnando così il palcoscenico nazionale, sul quale avremmo cambiato casacca per indossare “Gorizia” – si rappresentava la provincia di appartenenza. La scuola era ormai terminata e Bruno Gubana, nostro leggendario allenatore, ci convocava anche al mattino, per abituarci all’orario delle gare e per affinare la difesa – “Noi dobbiamo vincere in difesa” è stato sempre il suo motto. Il 25 giugno partimmo in treno per viaggiare di notte: un gruppo di dieci giannizzeri con Gubana, suo figlio Mauro, che avrebbe tenuto le note statistiche, e il mitico Joe Palla come accompagnatore. Il mattino dopo scendemmo alla stazione Termini per alloggiare alla pensione Athena, in via Pasquali 3, dove era acquartierata tutta la delegazione goriziana – compresi, cioè, i praticanti gli altri sport presenti a quella piccola Olimpiade (ginnastica, atletica leggera, pallavolo, ciclismo, nuoto). Quello stesso giorno ebbe luogo il primo incontro del girone eliminatorio: alla palestra dell’Acqua Acetosa 1 sconfiggemmo Perugia 71-39. Col senno di poi, si trattò della squadra più debole fra quelle da noi incontrate. Il giorno dopo seconda partita, alla palestra di viale Parioli, contro Cremona, squadra più quadrata contro la quale vincemmo 54-45. Concludemmo la fase il giorno successivo imponendoci nella medesima palestra su Potenza per 52-43 e guadagnando così il primo posto. Quando non impegnati nelle partite fummo sempre a zonzo per visitare la capitale – Colosseo, Piazza di Spagna,

mente dura d’orecchi e testimone oculare dell’evento originale. Non ho mai visto una persona rotolarsi sul letto dalle risate come Carlo Fabbricatore in quell’occasione: non riusciva a stare fermo. Fu lui, il 1° luglio, data della semifinale, a contribuire notevolmente alla vittoria contro Vicenza – e contro tutte le altre squadre. Fra i veneti giocava un pivot di oltre un metro e novanta, e dovemmo cercare in tutti i modi di tenerlo lontano dal canestro. Riuscimmo a farcela anche in quella occasione, grazie al lavoro in difesa e a Carlo, che ne mise 34 nel canestro avversario. Risultato finale 46-42. Quella mattina fummo tutti ricevuti dal presidente Saragat nel cortile del Quirinale, dove ascoltammo il suo indirizzo di saluto e alcuni di noi misero a dura prova l’aplomb dei corazzieri. Dopo un giorno di riposo eccoci alla finale, sempre al Palazzetto dello Sport, contro Pesaro, accompagnati anche da Konstantinos, un giovane greco che studiava o insegnava a Roma e che divenne nostro amico. È presto detto. Avversari in gamba, e noi giocammo la nostra buona partita, in vantaggio per quasi tutto l’incontro. Alla fine avemmo i due minuti di follia e i pesaresi vinsero 52-48. Carlo disse giustamente che l’avevamo persa noi, non vinta loro.

Bruno Gubana, coach della squadra

vincemmo 56-50 – e di quei 50 l’amico ne fece 41. Quarti di finale il 30 giugno al Palazzetto dello Sport di Pier Luigi Nervi, sede, undici anni prima, delle Olimpiadi. Affrontammo Ragusa, squadra di elementi fisicamente superiori a noi e fatti quasi con lo stampo. Fu una partita difficile che facemmo nostra per 48-42, dopo aver sputato sangue. A quella età si può giocare una partita al giorno e al tempo stesso girare per la città e dedicarsi ad amenità tipiche degli anni. Lucio Gruden dovette pagare pegno ai più vecchi replicando da una finestra dell’albergo il discorso di Mussolini dal balcone di Palazzo Venezia del 10 giugno 1940. Il davanzale dava su un cortile interno e l’unica spettatrice fu un’anziana signora seduta sulla terrazza di fronte, probabil-

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Livio Valentinsig era in lacrime, altri in preda alla delusione o alla rabbia per gli errori commessi. La premiazione ebbe luogo poco dopo, per mano di Giancarlo Primo, allenatore della Nazionale. La cerimonia di chiusura dei Giochi si tenne quello stesso 3 luglio allo Stadio dei Marmi, in occasione della quale prese la parola anche Aldo Moro, allora ministro degli Esteri. Rientrati a casa assieme con il resto della delegazione goriziana, Gubana disse ad un convenuto che prima della trasferta avrebbe messo la firma per un secondo posto. Ma da come si erano messe le cose… La squadra: Bernardo Bressan, Carlo Fabbricatore, Riccardo Franzon, Marino Golob, Lucio Gruden, Claudio Makuc, Maurizio Sala, Fabio Massimo Stacchi, Marco Tintori, Livio Valentinsig. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


Andos e buon cibo: un connubio vincente di Eleonora Sartori

“È

una storia d’amore la cucina. Bisogna innamorarsi dei prodotti e poi delle persone che li cucinano”. Questa citazione di Alaine Ducasse, cuoco francese, nella sua semplicità ci ricorda che cibo è chimica, incontro di elementi che assieme producono armonia: di sapori, di colori, di odori. E cos’è questo se non amore? Amore è anche il filo rosso che lega gli argomenti trattati da “Cibo e Salute”, serie di incontri online promossi da Andos, Associazione Nazionale Donne Operate al Seno, nata per promuovere, avviare e supportare ogni iniziativa volta a favorire il completo recupero (fisico, psicologico e sociale) delle donne che hanno subito un intervento al seno. Michela Fabbro, titolare dello storico ristorante Rosenbar di Gorizia, ha condotto i numerosi partecipanti tra ricette, approfondimenti e spunti di riflessione molto interessanti e tutti ispirati dalla passione per un lavoro che svolge da quasi 40 anni, da quando negli anni’80 in Olanda cominciò ad approfondire i principi della cucina macrobiotica che successivamente portò a Gorizia. Amore per il sapere e la cucina Rispetto a questa “integrazione tra culture e saperi”, ci ha raccontato del ruolo fondamentale giocato dalla curiosità: “conoscere più tipi di cucina e approfondire diversi studi è sintomo di crescita, personale e non solo. Mangiare cibi noti è senz’altro rassicurante ma molto limitante, per questo invito tutti a sperimentare, ad ampliare i propri orizzonti anche in cucina”. Amore per sé stessi L’obiettivo di ciascuno di noi è lo stare bene, ma spesso purtroppo tendiamo a sottovalutare l’importanza del cibo nel raggiungimento dell’equilibrio psico-fi-

sico, un cibo sano, pulito e giusto, come Michela spesso ha ricordato, che, contrariamente ai luoghi comuni, si accompagna al piacere di prepararlo e di gustarlo. “Quando prepariamo da mangiare trasferiamo al cibo la nostra energia. Pensiamo a quando sminuzziamo le verdure, impastiamo… Ecco perché cucinare con gioia è di fondamentale importanza, anche se spesso la quotidianità non aiuta. Orientarsi, inoltre, su cibi salutari non significa assolutamente rinunciare al gusto, tutt’altro. L’appagamento del palato rimane una condizione necessaria della buona cucina. Per stare bene le nostre cellule hanno bisogno di nutrimento adeguato, fondamentale per ridurre lo stato infiammatorio. A svolgere un ruolo di primo piano è l’intestino, il nostro secondo cervello, e un macrobiota in equilibrio è il nostro miglior alleato per sentirci bene e in forma. Azuki, sesamo, riso integrale, frutta secca, ma anche preziosi alimenti che provengono dalla tradizione macrobiotica come Miso (nel box la ricetta della zuppa di Miso) e Umeboschi sono alimenti che dovremmo imparare a conoscere e consumare con regolarità. Amore per il territorio Buon cibo è sinonimo anche di scelte consapevoli e di valorizzazione del territorio. “Comprare i prodotti di stagione è una scelta corretta da moltissimi punti di vista: innanzitutto si tratta di preservare i principi nutritivi, ma anche di sostenere i produttori locali e dimostrare attenzione all’ambiente”. Al mercato si trovano i prodotti migliori e recarcisi ogni giorno è un piacere. Amore per gli altri “Si cucina sempre pensando a qualcuno, altrimenti stai solo preparando da mangiare”. La preparazione del cibo ha a che fare con l’attenzione, la cura, l’affetto dimostrati a componenti della famiglia,

amici, ospiti. Anche andare a mangiare al ristorante è un atto di gratificazione che ci si concede e innegabilmente a tavola si svolgono i migliori momenti di convivialità. Anche il volontariato è attenzione all’altro ed è per questo che il connubio tra Andos e buon cibo è stato vincente. Amore per il Paese Il buon cibo è una peculiarità della nostra cultura e la ragione che spinge sempre più persone a scegliere l’Italia come luogo in cui trasferirsi. Questo la dice lunga su quanto il mangiare bene rappresenti un elemento importante della vita di ciascuno di noi, vero e proprio asso nella manica e elemento di crescita e sviluppo del nostro Paese. ©RIPRODUZIONE RISERVATA Il Comitato di Gorizia dell’ANDOS collabora con gli specialisti dell’Unità Senologica dell’ospedale di Gorizia per tutte quelle iniziative atte a promuovere la prevenzione per il raggiungimento di una diagnosi precoce e partecipa attivamente alle campagne di prevenzione del tumore al seno sia nazionali che locali in sintonia con altre associazioni di volontariato. Offre supporto psicologico individuale e di gruppo, attività motorie riabilitative, sociali e ricreative: acquagym presso la piscina comunale, coro, corso di pittura e ginnastica dolce, passeggiate, nordic walking e uscite con il Dragon Boat, disciplina che si è dimostrata estremamente importante nella prevenzione del linfedema. Inoltre, grazie ai contributi della Fondazione Carigo e dell’Azienda Sanitaria, offre a tutte le donne operate la protesi provvisoria affinché il ritorno a casa dopo intervento di mastectomia sia meno traumatico e un contributo per l’acquisto del reggiseno post-operatorio o della parrucca a chi ne avesse bisogno in caso di chemioterapia. Informazioni: A.N.D.O.S. - Comitato di GORIZIA ODV, Via Scodnik,1 - Gorizia Tel./Fax. 0481530132

ZUPPA DI MISO Per 6 persone - 1 cipolla - 1 carota - 1 porro - 5 cm alga kombu - 2 cucchiai miso di riso - 4 funghi secchi shitachè - shoju o tamari - 1 pizzico di sale - il verde del cipollotto -lavare e tagliare le verdure -stufarle in una pentola -unire i funghi e l’alga -coprire d’acqua -cucinare a sufficienza mantenendo le verdure croccanti -togliere dal fuoco -unire il miso stemperato in un po’ d’acqua nel suribachi (tradizionale mortaio giapponese in ceramica) -decorare con il verde del cipollotto tagliuzzato finemente. Nella ricetta classica macrobiotica, la zuppa di miso viene preparata con tre verdure: una radice allungata (la carota), una verdura tonda (la cipolla) e delle foglie verdi (sedano, verza). Questi tre tipo di verdura, con forma e direzione di crescita diverse, conferiscono alla zuppa diverse energie. (Michela Fabbro)

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“Gli animali della nobiltà”: Covid permettendo aprirà in giugno l’annuale mostra di Villa Coronini

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uno dei poli culturali della città, entrato a far parte, nel 2020, del circuito del biglietto unico museale assieme ai Musei Provinciali, gestiti dall’Erpac, e al Castello, patrimonio del Comune. Indubbia la sua bellezza e il fascino esercitato tanto dal parco quanto dalla villa, che ha l’aura tutta particolare conferitale dal fatto di essere una dimora storica, dove è ancora possibile sentire il tintinnio dei calici delle cene di gala così come il passo autorevole del Conte Guglielmo. Eppure l’anno appena trascorso non è stato generoso con Palazzo Coronini Cronberg: come per tutte le realtà museali nazionali e internazionali, è stato fortemente penalizzato dal Covid; e quando, in estate, si sarebbe potuto trarre un sospiro di sollievo, la terribile scomparsa di Stefano Borghes proprio negli spazi del parco ha steso su di esso un’ombra grigia, opacizzando la bellezza dell’intero sito. Non per questo il lavoro

Ritratto di Gaspar de Guzman conte di Olivares a cavallo (Francisco Goya da Diego Velasquez, acquaforte, 1778)

è mancato ai dipendenti della Fondazione Coronini, tanto che – pure in tempi incerti – si sta preparando la mostra annuale: la quale, però, vedrà l’apertura posticipata dal periodo primaverile (come da tradizione) a quello estivo. Ne abbiamo parlato con il direttore Enrico Graziano e con la curatrice Cristina Bragaglia. Qual è il tema della mostra e quando pensate di inaugurare? CB: Il titolo è “Gli animali della nobiltà. Dalla caccia al salotto tra status symbol, allegoria e affetti”. Come di consueto, il materiale verrà esposto all’interno del Palazzo e nelle Scuderie: si tratta di ope-

di Eliana Mogorovich re provenienti dalle nostre collezioni, ma ci saranno anche prestiti dalla Galleria d’Arte Antica di Trieste, dai Musei Provinciali e dalla Fondazione Carigo. Nelle varie sezioni in cui si articolerà, tratteremo l’aspetto affettivo e di rappresentanza degli animali, con la predominanza del cavallo in quanto simbolo di potere e per il ruolo ricoperto nella caccia oltre che nello sport. Una parte dell’esposizione è ovviamente riservata agli animali della famiglia Coronini e, oltre ad ammirarne la rappresentazione pittorica, se ne potrà apprezzare la riproduzione su oggetti di uso quotidiano come zuccheriere e accessori da scrittura. Senza dubbio i pezzi più importanti saranno le stampe di Francisco Goya tratte da dipinti di Velazquez, che esponiamo per la prima volta. Purtroppo per l’apertura non abbiamo certezze: l’auspicio è di poter inaugurare a fine giugno. La mostra dello scorso anno, dedicata al paesaggio, è stata penalizzata dal Covid sin dall’apertura: siete riusciti a recuperare in qualche modo? EG: Abbiamo avuto un calo drammatico dei visitatori: già normalmente la visita al palazzo si svolge in gruppi accompagnati da una guida. Adesso, con le nuove norme, possono accedere solo 4 o 5 visitatori alla volta e su prenotazione. A fronte dei consueti 6000 visitatori, nel 2020 ne abbiamo avuti solo 1300, nonostante avessimo deciso di prorogare l’apertura della mostra fino alla fine di gennaio. Come procedono i lavori all’interno del Parco? EG: Siamo ormai al quarto anno di lavori, recentemente è intervenuta la forestale per un lavoro di pulizia e messa in sicurezza del terreno e della vegetazione nello spazio compreso fra il Kulturni Dom e via della Scala. Abbiamo recuperato delle piante originali e contiamo di finire entro l’inizio di aprile. A proposito di messa in sicurezza, l’area del pozzo? EG: E’ tutt’ora sotto sequestro e ormai da mesi l’accesso alla biglietteria è stato spostato in prossimità di via Coronini proprio perchè la zona è interdetta al pubblico. A livello economico, qual è la situazione della Fondazione? EG: Finanziariamente abbiamo risentito parecchio della chiusura ma teniamo botta. Stiamo portando avanti il progetto di restauro di villa Louise e di Casa Rassauer, iniziato pochi giorni fa: è stato

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Ritratto di Emma Ritter von Zahony con il suo cagnolino (August Anton Tischbein, olio su tela, 1852)

rifatto il tetto e tra poco toccherà alle facciate. Entrambi dovrebbero garantirci una certa tranquillità economica: la villa è destinata a diventare un incubatore culturale per lo sviluppo di nuove ditte mentre Casa Rassauer ospiterà quindici alloggi residenziali a cui si potrebbero affiancare delle attività economiche. Nel frattempo abbiamo sempre proseguito con le attività di studio e ricerca il cui sbocco naturale è la mostra, realizzata grazie al bando regionale triennale che ci permette di coprire le uscite ordinarie. Quali progetti per il futuro? EG: Quando l’emergenza si risolverà, avremo le “armi” per far affluire il pubblico: intanto il biglietto unico museale che ci ha permesso di legarci al flusso turistico cittadino. Poi, in collaborazione con a. Artisti Associati, riprenderemo le attività teatrali all’interno del Palazzo. Abbiamo infine ancora due stabili da recuperare: uno situato in via della Scala e Villa Frommer per la quale stiamo ancora aspettando fondi e idee. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


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