June 2020

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Gorizia News & Views Anno 4 - n. 6 Giugno 2020

OSPEDALE, NUBI SU DUE REPARTI pag. 3

IL RACCONTO: “ERO IN COMA PER IL COVID” pag. 7

BARRIERE AL CONFINE ANCORA PER QUANTO? pag. 4 e 5

I MISTERI E I PIACERI DI VILLA CECONI pag. 10 e 11

QUANDO ARDESSI SEGNO’ 57 PUNTI pag. 17


Premio Amidei: 11 giorni al Parco

SOMMARIO Pag. 3 Ospedale, tutto come prima? No, ancora nubi sul futuro di Unità coronarica e di Ortopedia Pag. 4-5 L’istituzione delle barriere e dei controlli sul confine sottolinea il fallimento della collaborazione tra due Stati

La 39ma edizione del Premio Amidei si farà. E avrà come cornice, ancora una volta, il Parco Coronini. Non solo: il “patron” della manifestazione cinematografica, Giuseppe Longo, ha annunciato che, rispetto alle date originariamente previste (dal 16 al 22 luglio) ci sarà un prolungamento di 4 giorni, vale a dire da giovedì 16 a domenica 26. Oltre ai 7 film in concorso, selezionati alla fine di maggio dalla giuria riunitasi a Roma in videoconferenza, verrà data così la possibilità di assistere ad altre 4 pellicole, scelte fra quelle di maggior successo della scorsa stagione. I giorni-extra potrebbero anche servire per proiettare, in prima o seconda serata, film in concorso eventualmente saltati a causa di condizioni atmosferiche avverse. Improponibile viene giudicato, per ora, il ricorso al Kinemax (che in teoria dovrebbe riaprire il 15 giugno) anche per le abituali retrospettive, a causa delle norme di sicurezza troppo restrittive e complicate. Per le modalità delle proiezioni al Parco Coronini si attende l’uscita del protocollo relativo agli spettacoli all’aperto. Con il distanziamento di un metro, è possibile che la capienza scenda da 500 a 400 spettatori, ma maggiori dettagli verranno resi noti soltanto dopo la metà del mese.

Gli ottant’anni di Gigi Lo Re Il 21 giugno uno dei protagonisti più amati dell’era beat goriziana, Gigi Lo Re, festeggerà gli 80 anni. Gigi, dopo un lungo periodo di assenza dal palcoscenico, era riapparso nei mesi scorsi al Kulturni Dom con un applauditissimo assolo alla batteria. Un bar cittadino gli aveva dedicato una bella mostra di foto e “memorabilia”. Per il 21 giugno ha promesso una “rullata” in piazza Vittoria. Se il mini-evento non sarà possibile i nostalgici potranno sempre gustarsi il Dvd realizzato dalla sorella Nuccia per i 60 anni con la batteria o sfogliare le pagine delle sua autobiografia “Il ruggito della tigre” (edizioni della Laguna). Da parte nostra, i più affettuosi auguri di buon compleanno!

Pag. 6 Cultura e spettacolo in crisi: gli operatori si mobilitano Pag. 7 Io, contagiato dal Covid e in coma per una settimana: “Accettavo la morte, ma non da solo e attaccato a una macchina” Pag. 8 Fede e lockdown: così video e post dei parroci hanno spopolato sul web Pag. 9 Nonno Frank scopre come la gente affronta la fase 2 mentre il compito di scienze di Leon lo riempie d’orgoglio Pag. 10-11 I piaceri e i segreti di villa Ceconi: lusso, balli e feste ma anche suicidi e l’arresto dell’ultimo proprietario Pag. 12 La città e i suoi alberi: la magnolia “tricolore” dei Giardini pubblici Pag. 13 I misteri della strage di Peteano tra realtà, storia e finzione in “Di sangue e di ferro”, nuovo romanzo del friulano Quarin Pag. 14 Quando due mesi prima della strage di Capaci don Ciotti e Giovanni Falcone s’incontrarono a Gorizia Pag. 15 Un mostro divora i nostri vecchi: è la cultura dello scarto Pag. 16 Quei sabati sera alla Valletta con i funamboli dell’hockey Pag. 17 L’incredibile record balistico di capitan Ardessi (57 punti) nello storico duello di Reggio Calabria con Joe Bryant (59) Pag. 18 “La mia musica in un film”: il sogno di Manuel Dominko Pag. 19 Fotografare la libertà: il bacio più famoso della storia nello scatto di Eisenstaedt alla fine della seconda guerra

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Ospedale: tutto come prima? No, ancora nubi sul futuro di Unità coronarica e di Ortopedia

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i sarebbe piaciuto intitolare questo pezzo “Ospedale, tutto come prima” e basta. Ma, a oltre un mese dalla chiusura dell’Area-Covid, il San Giovanni di Dio stenta a ripresentarsi agli utenti col volto abituale. Certo, i pazienti le cui visite o interventi erano stati “congelati” (l’attività dell’ospedale è stata semiparalizzata per un mese e mezzo) vengono pian piano richiamati, l’Urologia è ripartita così come, sia pure a scartamento ridotto, la chirurgia generale, ma parecchie nubi avvolgono ancora il futuro della Cardiologia e dell’Ortopedia. Partiamo dalla prima. A lungo si sono susseguite le voci incentrate, in particolare, sul fatto che l’Unità coronarica (4 posti letto) non sarebbe stata riattivata. Si parlava soltanto del ripristino della sala di elettrofisiologia (impianto di pacemaker e altro) e del ritorno dei 4 posti letto di terapia semi-intensiva, oltre al mantenimento dei 4 posti letto al terzo piano per cure a bassa intensità. E’ riesploso, insomma, l’irrisolto dilemma che già angustiava nel 2015 l’allora direttore generale Giovanni Pilati: “L’unità coronarica a Gorizia e a Monfalcone è un inutile doppione, una delle due va eliminata”. L’attuale manager dell’Asugi, Antonio Poggiana, cinque anni dopo, con una duplice dichiarazione riportata dalla stampa (la prima al segretario regionale della Cisl Massimo Bevilacqua, la seconda rispondendo al consigliere Furio Honsell in commissione regionale sanità) ha confuso le acque affermando: “Stiamo facendo un ragionamento con i cardiologi di Gorizia e Monfalcone e con il professor Sinagra (primario cardiologo di Trieste, ndr) e troveremo risposta migliore ai bisogni del territorio. Abbiamo una grandissima Cardiologia a Trieste. Nell’Isontino abbiamo un reparto a Monfalcone e uno a Gorizia. Adesso rivedremo questa questione”.

di Vincenzo Compagnone Sulla pagina Facebook di Gorizia News & Views, già il 20 maggio titolavamo: “Continua la nostra battaglia per la riattivazione di Cardiologia e Ortopedia a Gorizia”. Nel post, rimarcavamo come non vi fossero più validi motivi per ritardare ulteriormente il ritorno dei due reparti da Monfalcone. E, a proposito di Cardiologia e Unità coronarica, ponevamo l’accento su quanto dichiarato dalla Società italiana di Cardiologia, che ha riscontrato durante l’emergenza-Covid 19 una riduzione dei ricoveri del 60 per cento, con una mortalità per infarto triplicata, concludendo che “non ricostruire la rete dell’emergenza cardiologica potrebbe essere un serio pericolo”. Il sindaco Ziberna ci metteva del suo in quanto a (scarsa) chiarezza annunciando, nei serali messaggi alla nazione sul social network, la riapertura della Cardiologia prima per l’autunno, poi entro giugno. L’assessore Romano parlava invece del 25 maggio (giornata indicatale dal direttore sanitario Pittioni). Ed ecco che arriviamo a quest’ultima data, in cui non succede niente. Ma il giorno dopo, martedì 26, in un summit a Gorizia, viene finalmente fissata una road map per la ripartenza che sarebbe dovuta avvenire giovedì 28. Mercoledì 27, mentre il personale preparava i posti letto, arriva invece alle 11.30 il contrordine telefonico da parte del dg Poggiana: stiamo ancora fermi. A questo punto il Comitato di Adami e Bisiani si scatena con un “mailbombing” indirizzato al sindaco Ziberna: una sola frase, “Ridateci la Cardiologia com’era prima”. I partiti del centrosinistra lanciano l’idea di una manifestazione da tenersi sabato 6 giugno. Viene ventilato questo disegno: l’Unità coronarica sarà anche riaperta, ma in giugno, in concomitanza con i lavori per ristrutturare e ampliare a Monfalcone la

Di fronte a tanta vaghezza sono insorti: il nostro giornale, il Comitato dei 970 guidato da Adelino Adami (chirurgo in pensione) e Giorgio Bisiani (già tecnico di Emodialisi) e i partiti dell’opposizione, Pd e Forum in testa, che hanno reso incandescente la seduta del consiglio comunale in videoconferenza del 25 maggio.

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cosiddetta Dea (Rianimazione + Unità coronarica). A lavori ultimati, l’Utic goriziana verrebbe definitivamente chiusa. Sarà così? Bisognerebbe scoprire cosa c’è scritto nell’atto aziendale 2020, non ancora presentato e chiuso a Trieste in un cassetto della direttrice sanitaria dell’Asugi, Adele Maggiore. Apprenderete qualcosa di più, nei prossimi giorni, voi, cari lettori. Il tempo stringe e noi dobbiamo andare in stampa. Quel che è certo è che… di certo non c’è nulla. Anche se nel frattempo l’Unità coronarica sarà stata ripristinata, rimane a forte rischio per il futuro. Così come avvolta nel mistero è la sorte dell’Ortopedia. Ricominciata il primo giugno la chirurgia d’elezione (protesica) con tre sedute settimanali, la situazione è destinata a rimanere tale fino al 15 giugno, con le urgenze (chirurgia traumatologica) praticate solo a Monfalcone. Dopodichè si vedrà: o agirà un’equipe unica che continuerà a fare il “trauma” al San Polo e la protesica a Gorizia, oppure si tornerà allo status quo ante-Covid con due equipes distinte nei due ospedali. Ma quel che preoccupa è che, da qui al 2021, ben cinque medici su otto lasceranno il reparto: il primario Franco Gherlinzoni (pensione), il giovane e brillante specialista in chirurgia vertebrale Immanouil Theodorakis (dal 1 agosto a Milano), Fabio Tagliapetra (dall’autunno a Oderzo), e due colonne come Marco Terenzio e Silvia Glavina (in pensione nel 2021). Con la difficoltà di reperire qualificati professionisti, si riuscirà a ricomporre un valido staff da tempo privo da superspecialisti quali Marino Lutman e Walter Scorianz? Lo scopriremo solo vivendo. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


L’istituzione delle barriere e dei controlli sul confine sottolinea il fallimento della collaborazione tra due Stati

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di Andrea Bellavite*

rendendo in prestito il si è ripetuta la bellissima scena – incaautorità e nobilitato da uno straordidettato di uno dei più stonata negli annali storici delle città nario concerto di Goran Bregovič, la importanti dogmi del – di giovani pieni di vita che giocano a grande Storia che tanto sangue aveva cristianesimo antico, pallavolo gettandosi la palla di qua e di visto versare in queste terre, tornava si può dire che le due là della rete della Transalpina. finalmente protagonista con un meraGorizia siano collegaviglioso evento di pace. Il 21 dicembre te tra loro in unione Per quanto tempo sarà necessario conti2007 tutti i goriziani, della “Nova” e ipostatica, del tutto nuare a vivere sullo stesso territorio con della “Stara” Gorizia, correvano felici faunite e totalmente distinte. Sospese tra in mezzo un’invalicabile barriera? Per cendo una specie di slalom tra i valichi nuovo e vecchio mondo, non possono quanto i Comuni del Carso, delle Prealormai privi di sbarre, subito dopo l’inessere considerate città “gemelle” – una pi e Alpi Giulie, delle valli dell’Isonzo e gresso della stessa Slovenia tra i Paesi è nata mille anni fa e forse molto più del Vipacco saranno costretti a ridurre i del Trattato di Schengen. Era un sogno in là, l’altra non raggiunge gli 80 anni. rapporti con parenti e amici oltre la barfinalmente realizzato, dopo decenni di Non sono neppure “sorelle”, insistendo riere? Come si comporteranno le centiattese e speranze, rese sempre più consul medesimo territorio e respirando la naia di persone che hanno contratti di crete non soltanto ma anche dall’intenstessa aria. Sono invece un unicum, una lavoro transfrontalieri e che guardano so lavoro di tante persone, soprattutto in due, due in una, “le” appartenenti ai mondi appunto Gorizia. Pur goriziani del cattolicesimo collocate in un relativasociale e della sinistra mente angusto territoculturale. rio, la loro esperienza – come già più volte Insieme alla delusione accaduto in passato – le derivata dal vedere nuorende paradigmatiche, vamente innalzate fronun punto di riferimentiere che si ritenevano per to al quale guardano sempre abbattute, sorgono in questo particolare molti interrogativi: il momento, l’Europa e coronavirus giustifica il il Mondo sconquasripristino delle barriesati dalla pandemia. re? Se sì, quanto tempo Come le confluenze durerà questa situazione? dei fiumi congiungono E’ giusto che realtà come le acque fondendole la Primorska slovena e in un lento abbraccio, il Friuli-Venezia Giulia così le zone di confine siano così fortemente sono speciali in quanpenalizzate, tenendo to, fondendo senza conto del relativamente confondere gli elementi contenuto numero di distinti di differenti contagi da Covid-19 che I due sindaci al lavoro con una scrivania a cavallo del confine culture, sperimentano hanno caratterizzato questo una permanente e mai territorio? del tutto realizzata tensione all’obiettivo con preoccupazione il blocco totale, ma dell’unione nella valorizzazione della anche le troppo timide prospettive di Alla prima domanda, da un punto di ricchezza delle diversità. riapertura? I legami affettivi sono stati vista politico, si può rispondere senper ora resi possibili solo da romantiche za dubbio di no. No, perché la logica In questo periodo, contrassegnato dalla fughe sulle cime del Sabotino, unico dell’Unione Europea avrebbe dovuto pandemia di Sars –CoV2, il confine tra luogo dei Comuni transfrontalieri non trovare piena manifestazione proprio Slovenia e Italia è stato di nuovo chiuso, attraversato da minacciose transenne. in questo difficile e delicato periodo. si spera per non molto tempo. La diviInteri settori produttivi sono in ginocQuella contro il virus non è una guerra, sione fisica tra le persone che vivono chio e guardano con apprensione a ciò non ci sono eserciti che si fronteggiano, da una parte e dall’altra non è mai stata che li attende, fase dopo fase scandita ma un’intera umanità che dovrebbe così evidente da 70 anni, dai tempi cioè affrontare insieme un nanomicroscodalle normative. E’ solo un aspetto di della Domenica delle Scope, il 13 agosto una crisi molto più vasta che investe il pico “nemico” che si stenta perfino ad 1950, data simbolica che aveva segnato vecchio continente e il pianeta intero, annoverare tra gli esseri “viventi”. Chi lo l’inizio del riavvicinamento con l’allora ma ciò che sta accadendo a Gorizia e combatte in prima linea rischia la vita Jugoslavia. Sono stati chiusi quasi tutti Nova Gorica porta con se un valore non per uccidere, ma per salvare e le i valichi, tranne quello di Sant’Andrea, armi utilizzate dovrebbero essere il frutsimbolico di non poco conto. mentre quello di via San Gabriele è to della convergenza delle più illuminastato aperto ma con molte restrizioni. E’ La Piazza della Transalpina/Trg Evrote intelligenze e volontà. Per questo la stata realizzata in brevissimo tempo una pe è stata, nella notte tra il 30 aprile “nazionalizzazione” del problema, con rete per impedire il passaggio a chiune il 1 maggio del 2004 il teatro di un un’anacronistica retorica patriottica che que, le norme dei due Stati hanno reso avvenimento di enorme rilevanza: con ha portato ogni Paese, soprattutto l’Itamolto complesso il transito, compreso l’ingresso della Slovenia nell’Unione lia, a sentire gli “altri” come antagonisti, quello ciclo pedonale. Dopo tanti anni Europea, celebrato dalle massime non è stata e non è soltanto grottesca,

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ma anche dannosa. Non si combatte un virus rinchiudendosi nei recinti dei propri Stati, ma costituendo – con gli strumenti a disposizione - comunità planetarie di scienziati, creando continui legami politici, economici, sociali tra le Nazioni, favorendo la conoscenza reciproca di lingue e culture. L’istituzione delle barriere e dei controlli sul confine sottolinea impietosamente il fallimento della collaborazione tra due Stati appartenenti alla medesima Unione, incapaci di condividere protocolli di controllo, di contenimento e di cura della malattia. La seconda questione è quanto tempo durerà questa situazione. Purtroppo non è lecito farsi troppe illusioni, il confine ripristinato non sarà smantellato in breve tempo e il passaggio da una parte all’altra implicherà molti nuovi controlli. Mentre occorre insistere perché si creino quanto prima le condizioni non per “tornare alla normalità”, ma per portare molto più avanti un cammino già da tempo avviato, è lecito chiedere un trattamento speciale per un territorio che in tutto il corso dell’ultimo millennio – con drammatici momenti di verifica - si è pensato unito nelle sue diversità? La proposta che qualcuno ha abbozzato di ripristinare la mitica “propustnica” ha ovviamente un valore del tutto ed esclusivamente emblematico. In tempi di contrasto politico ben più accesi di quello attuale, il “lasciapassare” fu una risposta intelligente ed efficace alle esigenze di incontro e relazione reciproca tra le genti che vivevano a ridosso del confine italo-jugoslavo. E’ chiaro che non si propone di riesumare un documento che fa parte dell’archeologia sociale, ma solo evocarlo significa invitare a una riflessione costruttiva i responsabili di tutti i settori della vita sociale dei Comuni prossimi al confine. Due sono allora le proposte da portare avanti con decisione, in una terra relativamente risparmiata dalla forza del coronavirus. La prima è che tra i Comuni appartenenti al GECT/EZTS (Gruppo Europeo di Collaborazione Transfrontaliera), Gorizia, Nova Gorica e Šempeter/Vrtojba siano immediatamente aperti almeno i varchi, ciclo pedonali e automobilistici, per ripristinare da subito quei continui legami umani, sociali e culturali la cui intensificazione potrebbe e dovrebbe sostenere la candidatura di Nova Gorica e zona limitrofa a “Capitale Europea della Cultura 2025”. Non si tratta ovviamente soltanto di consentire la libera circolazione, ma di

riprendere in mano, con ancor maggior convinzione, le prospettive aperte dalla collaborazione avviata. Quella del prestigioso riconoscimento è infatti un’occasione assolutamente unica e irripetibile per il futuro del territorio, ma implica alcuni passaggi irrinunciabili. Solo per esemplificare citandone alcuni, è indispensabile favorire in ogni modo la conoscenza delle lingue, per raggiungere almeno il minimo obiettivo del bilinguismo passivo, come da anni proposto da Igor Komel e Pavla Jarc, responsabili dei Kulturni dom delle Gorizia, in modo che ciascuno possa parlare la propria lingua e comprendere quella dell’altro. Occorre poi intensificare momenti di incontro e conoscenza “di base”, condividendo l’organizzazione e la celebrazione di momenti comuni, importanti come i festival della Storia, del Cinema e della Musica. L’obiettivo da raggiungere potrebbe inoltre far rinascere una proposta elaborata ormai diversi anni fa, in particolare dalla redazione della rivista Isonzo Soča e rilan-

realizzazione delle finalità per le quali si auspica intensamente il riconoscimento di “capitale della Cultura”? La seconda è che sia consentita da subito la “ripartenza” dell’intera area di confine, allargando l’idea del territorio goriziano a ciò che esso effettivamente è, ben più ampio cioè degli stessi Comuni capoluogo. Anche da questo punto di vista molte sono le suggestioni elaborate in passato, tra esse anche un disegno di legge depositato qualche anno fa in Senato dalla senatrice Laura Fasiolo. L’idea è qualle della creazione non di una vetusta e anacronistica “zona franca”, di stampo assitenzialista, ma di un “punto franco internazionale” in grado di favorire l’integrazione politica, economica e socio-culturale tra il Friuli-Venezia Giulia e la Primorska (Litorale sloveno, da Bovec a Koper e da Nova Gorica a Postojna), senza dimenticare l’Istria croata e la Carinzia austriaca. Qualcosa di simile era contenuto nell’avveniristica proposta del Presidente del FVG Riccardo Illy, che – in accordo con le autorità slovene – proponeva l’istituzione dell’Euroregione Alpe Adria, come centro di incrocio e connessione tra la linea europea ovest-est (Lisbona – Mosca) e quella sud-nord (Atene – Capo Nord). Ripartendo da tali interessanti suggestioni, in tutta questa zona centro (o mittel)europea, gli abitanti dovrebbero come minimo circolare liberamente, se necessario – ma speriamo di no! – anche con un permesso speciale al quale si potrà dare qualsiasi nome, in attesa che l’incubo del Volley improvvisato fra giovani alla Transalpina coronavirus svanisca definitivamente dal ciata in termini politici dal Forum per cuore e dalla mente dei popoli di tutto Gorizia, in accordo con i centri culturali il mondo. Un Pianeta che sarebbe bello sloveni e non senza una manifestazione vedere del tutto “nuovo”, non più diviso d’interesse da parte dell’allora sindaco tra pochi straricchi e moltitudini di Romoli. Si trattava di un vero e proprio strapoveri, non più preoccupato di percorso, da iniziare attraverso la presalvaguardare gli interessi del capitale sentazione di un’analisi socio-culturale gettando letteralmente a mare o rindel territorio curata dagli Istituti scienchiudendo nei campi di concentramentifici e accademici della vecchia e della to coloro che cercano di fuggire da fame nuova Gorizia. Si prevedeva poi un e miseria, ma divenuto ciò che avrebbe congruo tempo – uno o due anni – di sempre dovuto essere, la “casa comune” elaborazione da parte di tutte le categodi tutti gli umani, rispettosi di tutti gli rie operanti in zona, con la creazione di esseri viventi e preoccupati di amare tavoli internazionali a livello culturale, e onorare la terra madre di tutti noi. economico produttivo, sociale, filosoE anche su questo tema, le Gorizia e il fico e spirituale, ambientale, scolastico Goriziano/Goriška potrebbero essere e universitario, ecc. La raccolta delle un faro di luce e di speranza, capitale indicazioni emerse da questo ampio laeuropea della Cultura e città planetaria voro di comune ricerca avrebbe potuto dell’accoglienza e della pace. (e ora più che mai potrebbe) identificare il volto dell’intero territorio goriziano ©RIPRODUZIONE RISERVATA nella prima metà del XXI secolo. Potrebbe questo essere un contributo alla *Sindaco di Aiello del Friuli

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Cultura e spettacolo in crisi: gli operatori si mobilitano di Eleonora Sartori

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a fase due è ormai entrata nel vivo, le strade ricominciano ad essere popolate di persone (pur tra mille polemiche), ma i dubbi da sciogliere riguardo al comportamento da tenere restano ancora molti. Timidamente stiamo riprendendoci la nostra vita e stiamo imparando a convivere con un ospite invisibile e sgradito. Non è così per tutti, purtroppo: ai primi di giugno c’è ancora chi sta letteralmente tribolando dal punto di vista professionale.

ambienti che farebbe aumentare pesantemente il costo di un film o una fiction. Chi dovrebbe coprirlo? La produzione? Il Ministero ha previsto dei fondi? Dovrebbero rimetterci i lavoratori? Se uno di essi risultasse positivo le riprese dovrebbero cessare, con un danno economico ingente… Quale assicurazione si assumerebbe un rischio così elevato? E a quali costi? Il cinema deve ripartire ma lo sforzo deve essere ripartito e non ricadere solo su alcuni soggetti e soprattutto bisogna avere garanzie che tutto rientri nella normalità a fine emergenza. Ci sono 200 mila persone occupate in televisione e nel cinema in Italia e di queste, tolti circa 500 registi e 600 attori che possono permettersi di stare fermi, ne rimangono tantissime che percepiscono stipendi assolutamente normali che si trovano in estrema difficoltà”. Noi a Gorizia ce ne siamo resi conto di quante persone gravitino attorno alle riprese di una fiction: “Volevo fare la rockstar” ha generato quattro milioni di euro di euro di indotto, portando in città operatori e le loro famiglie che vi hanno vissuto per mesi. Tutti noi teniamo le dita incrociate per la seconda serie, anche se Matteo sull’argomento ha la bocca cucita. “Per quanto concerne la mia professione, posso solo dire che sono fiducioso e che ho firmato dei contratti per dei lavori che sono in stand by… Bisogna farsi trovare pronti quando l’emergenza sarà finita”. Anche Francesco Rodaro della Music Team Service mette in luce il caos che regna nel suo settore: “Ora per noi inizia la vera preoccupazione, non abbiamo idea di nulla, gli organizzatori

Mi riferisco alla categoria dei lavoratori dello spettacolo, della cultura e dello show business, intimamente connessi, che proprio in queste ore stanno organizzando una protesta: sabato 30 maggio a Trieste le maestranze hanno in programma di riunirsi in piazza Verdi per aderire alla manifestazione indetta in tutta Italia. Abbiamo parlato della nebbia che avvolge questi comparti con il regista goriziano Matteo Oleotto e con Francesco Rodaro della Music Team Service, azienda che opera nel campo dei concerti e dei grandi eventi. “Di come e quando si ricomincerà a lavorare ancora si sa poco o nulla - ci racconta il regista -. Si sta pensando a protocolli che garantiscano la sicurezza degli addetti e a ipotesi per la ripresa del nostro lavoro, ma non è semplice. Una di queste potrebbe essere la quarantena degli attori e di tutti gli operatori impegnati nelle riprese, anche se poco praticabile. A ciò si dovrebbe aggiungere il lavoro di sanificazione degli

sono impauriti perché sulle loro spalle pesano enormi responsabilità… Insomma, lo stesso discorso del cinema, anche se quest’ultimo ha costi più elevati e l’eventuale prolungamento delle giornate di ripresa è un salasso”. Concretamente come ti/vi state muovendo? Durante il periodo di clausura, dopo un primo momento di riflessione e rammarico su come si stava sgretolando una stagione lavorativa importante e molta preoccupazione, mi sono detto che

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Il regista goriziano Matteo Oleotto

qualcosa si doveva fare, che qualcosa si poteva costruire, quindi sono ritornato sul solito pensiero: dopo 36 anni di professione, ancora non esiste un comparto, o filiera termine che va più di moda, spettacolo-cultura. Ho deciso, allora, di impegnarmi in una raccolta dati confluiti poi in un foglio Excel. Nonostante tante piccole aziende non abbiano risposto, i dati per ora sono i seguenti: 42 aziende, 550 tra titolari e dipendenti fissi, altri 4/500 collaboratori, per un giro di 45/50 milioni di euro. Si tratta, in pratica, del comparto della musica live e spettacolo, nel quale non rientra il mondo della notte e il teatro (i maggiori esponenti non hanno voluto esporsi, chissà perché); abbiamo successivamente iniziato a interloquire con la maggioranza e l’opposizione regionali, ma mentre la maggioranza ad oggi non si è mai palesata, con la minoranza abbiamo avuto un incontro molto importante. Questa si è fatta promotrice di due iniziative, lo sblocco dei fondi per i grandi eventi, senza i quali non si può fare nulla, e tante persone rischiano nella migliore delle ipotesi di non lavorare, nella peggiore di chiudere, e l’allestimento di arene (6/8 in regione) Covid-free, a spese della regione, perché i promoter patiscono già una riduzione di posti, a cui si aggiunge l’assenza di bar, di conseguenza per loro diventa oneroso anche il semplice costo dell’allestimento (palco, sedute, bagni a norma...). La nostra Regione per rispettare le regole rischia di perdere festival importantissimi di rilevanza nazionale, uno su tutti il SextoUnplugged, ma anche altri piccoli festival e ciò costituirebbe un danno notevole. Cosa pensi che accadrà? Voglio essere fiducioso... Ma se per il 15 giugno dovessero mantenere le attuali linee guida la situazione per gli organizzatori si farà molto pesante. Purtroppo le Istituzioni non hanno ancora chiara la ricaduta turistica che ha il comparto musica dal vivo. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


Io, contagiato dal Covid e in coma per una settimana: “Accettavo la morte, ma non da solo e attaccato a una macchina”

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a voce di Gianni F. è ferma e chiara come quella di un ragazzo. E’ un pensionato goriziano che non va in giro per la città a controllare i cantieri. Fa il volontario a “La Salute” di Lucinico e passa le sue giornate accompagnando malati e disabili negli ospedali per visite e terapie. La sua odissea di contagiato CoVid ha inizio dopo un viaggio in ambulanza con un paziente all’ospedale di Udine. Accusa i primi sintomi il 12 marzo, con una tosse insistente e un preoccupante aumento della temperatura. Il giorno dopo i sintomi si aggravano e lui comincia a pensare al peggio. Telefona ai vari numeri di emergenza, ma i sanitari minimizzano e lo invitano a rimanere a casa. Le cose peggiorano e Gianni, che comincia a non respirare più bene, corre al Pronto soccorso. Viene sottoposto al tampone e così pure i suoi familiari. Ha un focolaio di polmonite, ma i sanitari gli prescrivono un antibiotico e lo rimandano a casa. La famiglia affronta l’isolamento, la quarantena, una crescente preoccupazione. Gianni risulta positivo al virus, ma la moglie e il foglio fortunatamente sono negativi. Per qualche giorno la situazione rimane stazionaria ma, al termine della terapia antibiotica, i sintomi ricompaiono con maggior violenza. Il 22 marzo viene prelevato in ambulanza e trasferito d’urgenza all’ospedale Maggiore di Trieste, al reparto COVID. Qui si rende conto di essere davvero in pericolo. La sensazione di soffocamento e le tenute dei sanitari, bardati come astronauti di cui si distinguono a malapena gli occhi, lo fanno vacillare per la prima volta. I contatti con la famiglia si interrompono. Rimane in reparto per cinque giorni, in uno stato di profonda prostrazione. La situazione precipita il 27 marzo, quando viene trasferito in terapia intensiva a Cattinara e intubato. Gianni entra in coma farmacologico e vi rimarrà per sette lunghi giorni. Per lui questa è una parentesi sospesa, senza tempo, mentre per la sua famiglia si tratterà di un’esperienza angosciosa di attesa senza notizie, di lunghissime chiamate senza esito, di giornate interminabili in cui lo squillo del telefono è insieme atteso e temuto, in una spirale di timori in cui bisogna prepararsi al peggio e insieme sperare. Sempre confinati in casa e senza poter né vedere né sentire al telefono il proprio congiunto, trascorreranno giornate difficilissime.

di Anna Cecchini Gianni esce dal coma farmacologico il 4 aprile. Il risveglio è un vortice di sensazioni tremende. E’ convinto di aver dormito solo qualche ora, mentre è passata una settimana. Nonostante sia ancora intubato, la mancanza di ossigeno è insopportabile. Descrive questa fase come la peggiore di tutte. Il personale si aggira attorno al suo letto in un fruscio di plastiche e con le fisionomie alterate dalle protezioni. Lui si prepara al peggio. Pensa ai suoi e l’idea di non rivederli lo fa precipitare. Senza poter parlare, gli rimane solo la possibilità di mettersi una mano sul petto e tentare di far capire la sua fame d’aria. I sanitari gli raccomandano di stare calmo. “Come faccio a stare calmo?” si dice Gianni. Trascorrono così i due giorni più terribili. Col passar delle ore Il quadro clinico pare migliorare. I medici decidono di provare a estubarlo. Quello che potrebbe rappresentare un buon segnale, si trasforma in un incubo senza precedenti. La fame d’aria è ancora più insopportabile. I suoi polmoni funzionano al 10%. Senza riuscire ancora a parlare, Gianni si fa una croce sul petto. L’infermiera che lo assiste gli si fa più vicina. “Vuole morire? Ma lo sa che i suoi la aspettano? Faccia piccoli respiri, resti calmo, che deve imparare di nuovo a vivere, invece”. Gianni chiama a raccolta tutta la sua forza di volontà. Passano altri tre giorni tremendi, ma il suo fisico reagisce. Nonostante la gravità della compromissione polmonare, il virus pare recedere. Viene trasferito in pneumologia e poi affronta la riabilitazione. Gianni può di nuovo parlare al telefono con la sua famiglia e riprendere il filo che continua a legarlo alla vita. Torna finalmente a casa. Ha perso tredici chili e anche solo passare da una stanza all’altra lo spossa. Torna a sentire odori e sapori. Riprende a mangiare. Prova a fare qualche passo, esce di casa nell’aria tiepida di aprile. La sua tempra e il suo ottimismo fanno il resto. Nel suo racconto la voce gli si incrina solo una volta. Aveva accettato di morire, dice, ma non così, da solo e attaccato a quella macchina. Come guarda al futuro, adesso? Gianni è sereno e spera che quest’incubo possa finire per tutti. Ma non si arrabbia più, non spreca neanche un secondo della sua “nuova” vita. Prova solo una gratitudine immensa verso i medici e gli infermieri che, dentro le loro tute bianche, respirano a fatica come i loro pazienti, e lottano per portarli fuori dal tunnel. Ed è grato per tutta la solidarietà e vicinanza di chi ha

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abbracciato la sua famiglia per aiutarla la resistere a questi momenti bui. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Virus e plastiche: chi è il vero nemico? In questi giorni di lutti, di ricoveri e speranze la nostra attenzione è orientata alla paura che il Coronavirus sta instillando in gran parte della popolazione. Abbiamo molto da perdere in questa nostra grande società del consumo. Perdere i nostri giocattoli che l’apparato industriale ci sforna quotidianamente. Infatti, dopo i primi giorni di panico generale, la parola è tornata all’economia; non possiamo stare fermi, le fabbriche devono riprendere a correre, le altre nazioni potrebbero superarci e via dicendo. I grandi della terra, indifferenti alla realtà, giocano sempre alla guerra. Ma oggi il vero problema del prossimo futuro, cioè delle prossime generazioni si chiama plastica, una sostanza organica, come il legno, la carta e la lana. Piano piano si è infiltrata nel quotidiano occupando sempre più spazi vitali: un virus subdolo, bello da maneggiare, leggero, che può essere modellato a nostro piacimento. Un amico dell’industria che genera facilmente oggetti come bicchieri, bottiglie, piatti, componenti per automobili, vestiti, pellicole fotografiche e via via fino ai guanti utili a gestire la pandemia. Un virus che oggi manifesta la sua potenza, si è incuneato in tutte le parti del pianeta facendo strage di animali e territori utili alla vita. È persino entrato nei nostri piatti, e quindi dentro di noi. È onnipresente come una divinità oggettiva, che intende farsi rispettare. Il sistema Terra è in affanno da tempo, i suoi parametri vitali sono allo stremo e noi, esseri senzienti, ci preoccupiamo solo di colmare il nostro piccolo giardino personale di tante cianfrusaglie inutili. I magazzini sono stati svuotati e le case si sono riempite, comprese le nostre teste che, invece di essere usate per sprigionare energie per il futuro generazionale, comprese le spedizioni su Marte, le sperperiamo in conflitti sia armati che politici. In Brasile la foresta brucia, in Africa deprediamo tutto ciò che possibile, il cemento riempie i nostri territori. Non c’è rispetto per gli animali e le piante, stiamo affogando dentro il nostro appetito insaziabile. Altro che virus… (renato elia)


Fede e lockdown: così video e post dei parroci hanno spopolato sul web di Eliana Mogorovich

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ra le varie modalità che si potevano attivare per superare la fase acuta della pandemia c’era anche la meditazione individuale, la riscoperta della spiritualità, resa ancor più marcata dall’impossibilità di frequentare i luoghi di culto. E questo è accaduto, per i cristiani, proprio in uno dei momenti più significativi per la collettività dato che il lockdown è iniziato pressochè in concomitanza con la Quaresima. E sebbene il dialogo con Dio sia qualcosa di intimo e personale, è vero anche che si nutre di momenti comuni, in cui riscoprire il significato di quanto contenuto nelle Scritture significa pure riuscire ad applicarlo ai tempi che corrono per cercare di decifrarli. Sin dal primo stop alle celebrazioni, da Papa

fedeli in modo diverso, ricorrendo agli strumenti messi a disposizione dalla tecnologia. Anche nella nostra provincia, i social network hanno così iniziato a ospitare le messe in streaming, le letture del Vangelo, la recita del Rosario: modi per testimoniare la persistenza di una comunità oltre la distanza. La pagina facebook Don Bosco Gorizia si è riempita dei foglietti parrocchiali e di comunicazioni sulle linee guida da seguire in questo periodo, visibili pure sulla pagina dell’Unità pastorale SS. Ilario e Taziano-S. Ignazio-S. Rocco dove uno spazio prezioso è stato la recitazione dei Vespri da parte di Don Nicola Ban. Profondi e in grado di attingere alle emozioni quotidiane sono stati i post di don Carlo Bolcina, parroco di Sant’Andrea, capace di velare la preoccupazione sotto l’ottimismo e la forza della semplicità. Grazie alla collaborazione del Centro Tradizioni Borgo San Rocco, è stato molto attivo anche Don Ruggero Dipiazza che, dal 13 marzo al 17 maggio, ha commentato il Vangelo proponendo riflessioni sulle possibilità di raccoglimento offerte dal periodo di chiusura. Nell’ultimo filmato, realizzato all’interno della propria abitazione, il parroco ha auspicato il farsi carico della nostra vita e di quella altrui trascurando le polemiche e vedendo oltre le storture come le truffe per le mascherine o l’aumento dell’usura, piaghe emerse in un momento già difficile. «Da lunedì 18 riprenderemo le messe serali: vorrei vedervi sorridenti – ha affermato al termine – perchè siamo stati capaci di stare comunque insieme». E il sorriso lo hanno strappato i popolari filmati di don Moris Tonso, parroco dell’unità pastorale Madonnina, Lucinico e Mossa. Complice il suo passato coinvolgimento nelle attività

Don Moris Tonso showman sul web

Francesco fino ai parroci delle realtà più piccole si è cercato di stare accanto ai

del ricreatorio e delle attività giovanili della parrocchia di Cervignano, dove ha esercitato per 18 anni, al momento 8

dell’annuncio del lockdown don Moris è stato contattato dalla mamma di un bambino impegnato nel catechismo che gli ha chiesto un messaggio di vicinanza per il figlio e i suoi amici. Immediata l’intuizione: non un semplice messaggio vocale, ma un video: un successone. Realizzato con il cellulare da Livio Piovesana, sacrestano di Mossa, e montato dall’amico Alberto Amatruda, nel filmato il parroco parla (o meglio: mostra) i possibili impieghi del tempo della quarantena. Aiutare la mamma in cucina realizzando improbabili manicaretti, spolverare rimanendo avvolti dagli effluvi dello spray antipolvere o fare attività motoria restando colpiti dal mal di schiena: don Moris si muove e parla seguendo un improvvisato canovaccio che ammanta di simpatia la realtà della clausura. Subito condiviso su facebook, al video è seguito un messaggio di auguri per la Pasqua con idee per un pic nic casalingo e il tiro all’uovo culminante nel frantumarsi di una vetrata. E, una settimana dopo, ecco il filmato dedicato alla lettura della cena di Emmaus in cui l’interpretazione di San Tommaso è accompagnata dal motivetto della Pantera Rosa. E forse, quando ormai il giornale sarà in distribuzione, sarà stato diffuso un quarto filmato legato alle indicazioni sulle precauzioni da adottare nella Fase 2. A don Moris abbiamo posto alcune domande. Quali sono state le reazioni a questa iniziativa? «Sono state positive e anche dei “colleghi” sacerdoti mi hanno scritto o telefonato per complimentarsi. Per me, in realtà, è stato un gioco e un modo per regalare un sorriso in una situazione difficile, sempre nel rispetto della gravità di quanto stava accadendo». Cosa le è mancato di più in questo periodo? «Il contatto con le persone, in particolare durante le celebrazioni. Parlare davanti a una chiesa vuota non è normale, soprattutto per un tempo così prolungato. Ho comunque intensificato messaggi, telefonate e incontri on line.» Una situazione particolare è stata quella di dover salutare delle persone senza poterlo fare veramente. «Infatti: al dolore della perdita di un familiare o amico si è aggiunto il dispiacere per le modalità in cui è avvenuto. Emotivamente è stato molto coinvolgente anche per me sentire dei fedeli raccontarmi di aver visto ricoverare i propri cari senza poterli più vedere una volta entrati in ospedale.» Come si immagina il futuro? «È difficile in generale dare delle risposte sicure e il mio augurio è che questi mesi ci abbiano aiutato a cogliere ciò che veramente è essenziale perchè quanto davamo per scontato è stato messo in discussione: dalle amicizie all’andare in chiesa fino alla stessa salute».

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Nonno Frank scopre come la gente affronta la fase 2 mentre il compito di scienze di Leon lo riempie d’orgoglio

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opo oltre due mesi di quarantena, finalmente oggi esco per andare al bar con Leon. La cosa mi emoziona, lo ammetto. Non tanto per la libertà riconquistata (in fondo per me non è cambiato poi molto) quanto per scoprire come le persone abbiano reagito. Sono stati mesi difficili per loro, e un po’ li capisco, o almeno mi sforzo di farlo, e francamente non so cosa aspettarmi. Anche perché in questi due mesi siamo passati dall’esaltante spirito di gruppo delle prime settimane alla più becera violenza verbale delle ultime. Passando, com’era prevedibile, per l’inevitabile serie di complotti orditi dai soliti poteri forti che, tra parentesi, mi par di capire non siano poi così forti, visto che li sgamano ogni cazzo di volta che cercano di dominare il mondo. Boh, staremo a vedere. Entriamo nel bar, ammicco al mio amico barista e mi guardo attorno. In fondo alla sala vedo Mario e Tea. Indossano la mascherina sotto il mento e parlano fitto. La cosa non mi stupisce. Nonostante la differenza d’età tra quei due c’è sempre stato un feeling particolare. Così mi avvicino. “Ciao ragazzi”. “Ehi, Frank” butta lì Mario senza troppo entusiasmo. “Ciao vecchio” gli fa eco Tea. “Com’è andata la quarantena?” “Mah”, fa lei con una smorfia. “Che succede?” “Niente. È solo che… boh”. “Boh, cosa?” “Ma sì, dai, tutta sta faccenda del virus. Mi girano le palle, ecco che c’è”. “I morti, intendi?” “Macché morti! Anzi, fosse per me dovrebbe morire tutti”. “Tutti chi?” “Tutti quegli ottusi che non si rendono conto di cosa stia accadendo”. “Tipo?” “Eccone un altro” sghignazza Mario dandole di gomito. “Già”, fa lei. “Non ti preoccupare Frank, sei in buona compagnia”. “Con chi?” Sbuffa, fa uno svolazzo con la mano, poi prende una nocciolina e la stritola tra i denti. “Cacchio Frank, neanche tu ti rendi conto, vero?” “Francamente no”. Altro sbuffo, altro svolazzo, altra nocciolina.

di Giorgio Mosetti “Insomma, lo volete capire sì o no che questa pandemia è la risposta della natura al nostro delirio di onnipotenza?” “Al che?” “Al nostro delirio di onnipotenza. Alla nostra smania di voler dominare il mondo e di soffocarlo con il biossido di carbonio”. “Beh, l’inquinamento è un problema, su questo non ci piove, ma che c’entra con il virus?” “Te l’ho detto, il virus è la vendetta della natura”. “Stai dicendo che la natura ci vuole annientare?” “Chiaro. E mi stupisce che gli altri non se ne rendano conto”. “Ma dai, Tea, l’inquinamento è colpa nostra, ok, ma da qua a dire che la natura ha deciso di distruggerci mi pare un tantino azzardato, non credi?” Sbuffo. Svolazzo. Una, due, tre noccioline stritolate. “No che non credo. La natura ci ha dato tutto. L’ossigeno, l’aria, l’acqua, e noi stiamo distruggendo ogni cosa”. “Mi scusi signora Tea”, fa improvvisamente Leon. La donna si volta di scatto e lo fulmina. “Che c’è?” Leon pare intimorito. “Volevo solo fare presente che non siamo gli unici che hanno inquinato questo pianeta”. Lei digrigna i denti. Poi si volta verso di me. “Complimenti Frank, lo stai tirando su proprio bene questo ragazzo”. Mario annuisce mettendo su un grugno da rimprovero. Leon mi guarda, e si vede che vorrebbe dire qualcosa. “No, ragazzo, tranquillo”, gli dico mettendogli una mano sulla spalla. “Non serve”. Poi mi volto verso Mario e Tea. “Alla prossima, ragazzi. Oddio, sempre se la natura vi risparmia”. E ce ne andiamo. Arrivato a casa mi stendo sul divano e accendo la tv, mentre Leon se ne va al tavolo, apre il suo libro di biologia molecolare, prende il quaderno e si mette a scrivere fitto. Mi appisolo. Dopo un po’ mi sveglio, mi guardo attorno e lo vedo impegnato a rileggere. “Cos’è Leon?” “Il compito di scienze, nonno”. “Oh. E ti va di leggermelo?” “Certo”. “Bene. Sono tutto orecchi”. “Allora, comincia così. Ormai è finita.

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Abbiamo oltrepassato il punto di non ritorno. C’è stato un tempo in cui questo pianeta era un paradiso terreste. La vita si moltiplicava e le sue varie forme convivevano in equilibrio e armonia e l’aria era deliziosa. Ma poi è arrivato lui. Partendo dagli abissi si è moltiplicato a dismisura ed è dilagato, occupando ogni angolo di questo meraviglioso mondo. E come il peggiore dei conquistatori, ha ignorato ogni equilibrio, fregandosene di tutte le altre forme di vita. Con le sue emissioni tossiche ha lentamente ma inesorabilmente inquinato tutto ciò che era possibile inquinare, fino al punto da rendere l’aria irrespirabile. La nostra bella atmosfera, il suo meraviglioso mix di gas benevoli e profumati, è stata contaminata irreversibilmente. Il delizioso metano, l’anidride solforosa, l’ammoniaca e l’anidride carbonica di cui ci nutrivamo e che rendevano il nostro pianeta un vero e proprio miracolo di purezza, sono stati spazzati via dai miliardi e miliardi e miliardi di tonnellate di quell’orribile gas tossico che l’essere immondo a prodotto e disperso. L’ossigeno. Ossigeno. Solo pronunciarne il nome mi fa un male da morire. Ma come detto, ormai è troppo tardi. L’ossigeno ha preso il sopravvento, e non si può più tornare indietro. Quel meraviglioso mondo che la natura ci aveva donato è stato spazzato via da un solo essere criminale. Io non lo so cosa ci sarà in futuro. Forse si svilupperanno nuove forme di vita orribili che si nutriranno di ossigeno (e che magari chiameranno con qualche nome idiota tipo Tea, o roba simile), o forse ne verrà qualcuna che sarà capace di fare giustizia, ripristinando l’antico equilibrio, inondando nuovamente l’atmosfera di idrocarburi e anidride carbonica, e il mondo tornerà ad essere il paradiso che per miliardi di anni è stato. Lo so, la mia è solo un’infantile fantasia priva di alcun fondamento. Ma in fondo è l’unico modo che ho trovato per rendere sopportabile l’odio smisurato che provo per quell’odioso essere immondo: il Cianobatterio. Brutto bastardo. Lettera da un anaerobio”. “…” “Che ti pare, nonno Frank?” “Ottimo lavoro, Leon”. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


I piaceri e i segreti di villa Ceconi: lusso, balli e feste ma anche suicidi e l’arresto dell’ultimo proprietario di Anna Cecchini

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l cancello si apre con un gemito. I cardini hanno bisogno d’olio e per un attimo il cigolio copre il rumore del traffico di via Montesanto. Ma basta che i battenti si richiudano lentamente per entrare nel silenzio. Platani, noci, cedri, palme, sequoie centenarie, e perfino un’imponente Quercus sughera frusciano nella brezza del tramonto e custodiscono solo il cinguettio dei merli. Tutti sanno che dietro il muro che costeggia via Montesanto e via Palladio c’erano fino a poco tempo fa un educandato e una scuola condotti dalle Madri Orsoline. Quello che tutti non sanno è che l’edificio principale del compendio ha nome “Villa Ceconi”. Entrarvi è il solito, affascinante salto nella Gorizia di un tempo, che non smette mai di sorprendere. Giacomo Ceconi, classe 1833, nasce in una frazione di Pielungo, borgo che oggi supera di poco le settecento anime, nascosto dentro la Val d’Arzino, solitaria, incontaminata, magnifica. La famiglia di Giacomo è poverissima. La figura-chiave della sua formazione è la madre, Madda-

lena Guerra, con la quale Ceconi manterrà sempre un legame affettuoso ed esclusivo. La vita in quella valle isolata è dura e con scarse prospettive, ma Giacomo non ci sta e a diciotto anni decide di andarsene. Sceglie Trieste, il porto asburgico, città capace di offrire un futuro. E’ analfabeta, ma ha mani forti, una tempra da montanaro e soprattutto un cervello che lavora a velocità doppia. Comincia come manovale, mentre la sera frequenta i corsi professionali dove impara il disegno geometrico e i segreti delle costruzioni. Viene presto promosso muratore e la sua abilità è notata dai capomastri, che gli affidano incarichi di sempre maggior responsabilità. La sua carriera è fulminante. Nel 1857 è già titolare di una piccola ditta di costruzioni ferroviarie con appena cinque dipendenti, ma in un settore in enorme espansione. Esordisce nel “mar grande” aggiudicandosi un’importante commessa sulla linea che unisce Maribor a Klagenfurt, realizzando un viadotto costruito a regola d’arte che lo afferma come impresario capace e affidabile. Negli anni successivi ottiene appalti sostanziosi in Croazia, Carinzia e Ungheria. L’impresa cresce e

Ceconi si circonda delle migliori manovalanze e dei tecnici più competenti, che portano a termine in tempi record ponti, stazioni e gallerie in tutto l’Impero austro-ungarico. Partecipa all’ampliamento del porto di Trieste e il suo prestigio di costruttore cresce in maniera esponenziale, mentre la sua vita privata non conosce altrettanta fortuna. Rimane vedovo per due volte di seguito. Si risposa per la terza volta nel 1877, ma il matrimonio va verso l’annullamento, preludendo a uno successivo, il quarto. All’interno del suo ambiente lavorativo non mancano malumori. Gli imprenditori asburgici masticano amaro: in fondo Ceconi è un “italiano”, e il suo successo è mal digerito. Ciò non gli impedirà di costruire la galleria ferroviaria dell’Arlberg e di consegnarla in largo anticipo sui tempi contrattuali. Francesco Giuseppe in persona, per mettere definitivamente a tacere i detrattori, gli concederà la cittadinanza austriaca e, il 12 maggio 1885, anche il titolo nobiliare di conte di Montececon. Ceconi continua a spostarsi per l’Impero, dove lo portano i suoi innumerevoli cantieri, ma poi la sua strada incrocia quella di Gorizia, quando concorre alla costruzione della ferrovia Transalpina realizzando la galleria di

La maestosa Villa Ceconi è l’edificio principale dell’ex complesso della Orsoline in via Montesanto

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Piedicolle (Bohinj, in sloveno), il traforo di 6.339 metri che valica lo spartiacque delle Alpi Giulie. Nella seconda metà dell’800 Gorizia è una città in grande ascesa. Vi si parlano almeno quattro lingue, maestranze arrivano da tutto l’Impero attratti dalle opportunità lavorative, le attività imprenditoriali e lo sviluppo edilizio sono impressionanti e si vive una stagione di prosperità senza precedenti. La “Nizza d’Austria”, già collegata con Vienna tramite la ferrovia Meridionale dei Rothschild, che ne ha premesso lo sviluppo urbanistico in direzione sud, ora è proiettata verso nord dalla nuova linea ferrata della Transalpina. Nobili e borghesi costruiscono ovunque ville prestigiose e accoglienti case di campagna.

Giuseppe, forse in occasione della sua visita a Gorizia per assistere alle celebrazioni del quattrocentesimo anniversario dell’acquisizione della contea di Gorizia e Gradisca da parte degli Asburgo. E secondo alcuni - ma anche in questo caso il gossip non trova conferme certe fu ospite della villa anche la principessa Sissi in una delle sue famose “fughe” da Vienna. A un passo dal nuovo secolo si consuma tuttavia tra quelle mura una terribile

Ospita prima il Comando Tedesco, poi un ospedale militare e si narra che, nella torretta dell’ultimo piano, si ascoltasse in gran segreto Radio Londra, mentre nel parco retrostante vengono costruiti due bunker, ancora visibili. Gli interni vengono stravolti, molti alberi secolari abbattuti e forse alcune opere d’arte trafugate.

Ceconi si guarda attorno e finalmente trova quel che cerca in Borgo Carinthia, al numero 3 di via Salcano (ora Montesanto). Si tratta di una villa circondata da un ampio terreno di proprietà della famiglia Seiller, titolare dei famosi omonimi vivai, con un parco ricco di pregiate essenze esotiche e mediterranee. Ma i Seiller falliscono e Ceconi acquista all’asta la proprietà concludendo un ottimo affare. La sua prima idea è quella di ristrutturare l’edificio esistente, ma poi decide di lasciare in città un segno più profondo. Nel gennaio del 1885 il Municipio gli rilascia il permesso di ricostruire la villa. Si tratta di un grandioso edificio con due piani fuori terra, cantina e soffitta, un ingresso con loggiato a quattro colonne doriche, ripreso al primo piano, e due torrette laterali a dare slancio alla facciata, che suggerisce un’idea di sobrietà e rigore. Controverso il nome del progettista: alcune fonti lo individuano in Giovanni Andrea Berlam, l’architetto che ha lasciato la sua impronta nella Trieste imperiale, ma il dato non è certo. Altre fonti più accreditate ci indicano come tecnico il de Kupfenstein, ma possiamo immaginare che lo stesso proprietario abbia attivamente partecipato alla sua ideazione. Se l’esterno della villa rifugge da eccessi e ridondanze, sappiamo che Ceconi richiama da tutta la regione artigiani, ebanisti, stuccatori e decoratori per abbellire gli interni. Marmi, legni pregiati e affreschi arricchivano gli ambienti di rappresentanza e vi trovava posto anche una piccola cappella privata. Stiamo usando il passato, perché purtroppo della magnificenza di allora è rimasto ben poco. Ceconi trasferisce qui la sua residenza assieme ai figli della seconda moglie, Giovanna Wuch, anche se le sue trasferte lavorative continuano a portarlo in giro per l’Impero. La villa diventa ben presto punto di riferimento della buona società cittadina. Nel vasto parco si pratica ogni genere di sport, nei saloni si danno balli, rappresentazioni teatrali e cene raffinate. Pare inoltre che vi abbia soggiornato perfino Francesco

ranno ciò che rimane della villa alle Madri Orsoline, costrette ad abbandonare lo storico monastero di via Monache, ridotto in rovina dalla Grande guerra e che occupavano dal lontano 1672. Le Madri si orientano prima su villa Ritter, ma poi scelgono villa Ceconi. La prima pietra della ristrutturazione, guidata dall’architetto Max Fabiani, viene posta nel 1923. Il nuovo istituto, che prenderà il nome di Collegio di Sant’Angela Merici, viene inaugurato nel 1926 e diventerà la nuova sede del monastero, dell’educandato femminile e dell’istituzione scolastica, che copre gli anni di formazione dall’asilo fino alle Magistrali. La seconda guerra mondiale sconvolge ancora una volta la vita del compendio.

Un suggestivo interno della villa

tragedia: il figlio di Ceconi, Umberto, ufficiale dell’esercito travolto dai debiti di gioco, si toglie la vita con un colpo di pistola. Nel 1906 Ceconi, ormai settantatreenne, decide di ritirarsi definitivamente a Pielungo, in quella valle che l’aveva visto partire ragazzo per cercare il suo posto nel mondo. Vende ai fratelli Loser la villa di Gorizia e costruisce nel paese natale la sua ultima opera, un grandioso castello neogotico dove dimorerà fino alla morte, nel 1910. Gli viene risparmiato di assistere allo scoppio della prima guerra mondiale, alla distruzione di tante delle sue opere, divenute obiettivi militari, e del palazzo goriziano, colpito dalle granate e di cui resteranno in piedi solo i muri perimetrali e le colonne dei porticati. Al termine del conflitto i Loser vende11

L’attività dell’Istituto riparte faticosamente al termine del conflitto e si ridimensiona drasticamente nel 1990, quando la storica villa deve essere affittata all’Ersa per risanare le dissestate finanze delle Madri. Nel 2017, dopo più di tre secoli, la presenza in città delle Orsoline giunge al termine: la scuola viene ceduta alla cooperativa ABIMIS, costituita da alcune coraggiose docenti che hanno voluto proseguire il progetto educativo e il lascito storico e culturale di quella che è stata una vera e propria istituzione. Nel marzo del 2019 la villa, il parco e alcuni edifici annessi vengono invece venduti a un privato. Fallimenti, suicidi, due guerre mondiali, e infine, proprio in questi giorni, la notizia che vede il nuovo proprietario della villa arrestato perchè coinvolto in una vicenda giudiziaria dai contorni inquietanti: tranne la lunga parentesi in cui è stato sede delle attività delle Madri Orsoline, pare proprio che questo immobile non abbia pace, nonostante tutto quello che ha da raccontare sulla storia ricca e complessa di questa città. Seduta in cima al belvedere che ospitava la “gloriette viennese”, ora distrutta e colonizzata dalla vegetazione, guardo il sole tramontare dietro al Calvario. *** Per la stesura di questo articolo ringrazio sentitamente Liubina Debeni Soravito, appassionata studiosa di botanica e di storia, nonché membro del Direttivo della sezione goriziana di Italia Nostra, e la sua documentatissima ricostruzione storica e architettonica di Villa Ceconi, pubblicata su Nuova Iniziativa Isontina n. 11, maggio 1995, e n. 12, novembre 1995, da cui sono tratte le principali notizie di questo articolo. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


La città e i suoi alberi: la magnolia “tricolore” dei Giardini pubblici di Liubina Debeni

giorno. Riducono, poi, l’inquinamento acustico: infatti alberi e siepi vengono piantati lungo i perimetri dei giardini confinanti con strade. Svolgono una funzione protettiva e di tutela se sono presenti nei contesti urbani in aree degradate o sensibili come le scarpate, le zone marginali, gli argini di fiumi. E, non ultimo, permettono la conservazione e l’incremento della biodiversità di flora e fauna... anche in città. *** Un albero da scoprire: Magnolia Magnolia grandiflora - Ubicazione: Gorizia, Giardino pubblico

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ogliamo conoscere meglio Gorizia e i suoi dintorni ? Apprezzare il nostro territorio sotto il suo aspetto naturalistico con parchi, giardini pubblici e privati, viali e aiuole? Andiamo alla scoperta dei suoi alberi. Possono essere alberi particolari, a volte poco noti, a volte difficilmente identificabili, oppure alberi che hanno fatto parte della storia e delle tradizioni di quel luogo. Guardiamoli, questi essere viventi che nascono, crescono, a volte si ammalano e poi muoiono. A volte questo avviene per la poca attenzione dell’uomo che scava tra le sue radici, capitozza in modo drastico, indecoroso, causando stress e malattie alla pianta. Questi alberi sono importanti nel contesto urbano e non solo per il loro lato estetico-paesaggistico, subito percepito nell’arredo di piazze, viali, abbellimento di edifici. Ma anche per un effetto benefico psichico, in quanto gli spazi verdi diventano un luogo di aggregazione e socializzazione. Si sa, gli stessi interessi accomunano persone, anche sconosciute. Quando si ha una stessa passione con argomenti di cui parlare ci si trova affiatati. Gli alberi sono Importanti anche per la loro funzione ecologica-sanitaria in quanto purificano l’aria emettendo ossigeno durante il

La Magnolia grandiflora è una pianta originaria del sud-est degli Stati Uniti e fu introdotta in Europa (dapprima in Francia ed Inghilterra) già nella prima metà del Settecento diffondendosi in seguito soprattutto in quelli che saranno i giardini paesaggistici e romantici dell’Ottocento. Questa magnolia goriziana ha una storia con risvolti misteriosi, politici e con particolarità botaniche. Venne donata da un possidente goriziano e trasportata nell’aprile 1867 nel giardino pubblico, che era stato realizzato e inaugurato nel 1863. Divenne il simbolo dei sentimenti italiani di certi cittadini in un’epoca in cui Gorizia faceva parte dell’Impero austro-ungarico. Le sue foglie verdi sulla pagina superiore e rossastre sul retro, i fiori bianchi, i semi rossi, richiamavano i colori della bandiera italiana. Un’eccezionale particolarità botanica deriva dal fatto che, dal tronco principale della pianta, qualcuno - probabilmente un giardiniere di sua iniziativa o indirizzato da qualche personalità - ebbe la costanza di piegare i giovani rami sino a terra per ottenere, tramite propaggine, delle nuove piante. Possiamo contare ben 12 tronchi di magnolie collegati con la pianta madre. Si volle così vedere nella magnolia che si propagava anche il sentimento di italianità che si stava diffondendo. L’albero, che è un sempreverde, ora è molto alto e molto allargato. E’ stato censito nel 2006 come albero

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monumentale ed è considerato di particolare interesse storico. Da febbraio la preziosa essenza arborea è attorniata da una recinzione in ferro battuto che impedisce di sostare sotto la sua ombra e in mezzo ai rami contorti. Questo intervento è stato deciso dal Comune in seguito a un atto vandalico del 2017: alcuni ragazzi avevano acceso un falò sotto l’albero. Al fine di prevenire ulteriori gesti del genere e per valorizzare la “magnolia tricolore”, l’amministrazione comunale, grazie a un contributo regionale di 8 mila euro, ha realizzato appunto una delimitazione dell’aiuola, evitando così anche danni dovuti alle arrampicate selvagge sulla pianta. Pensate che già nell’800 l’albero era stato oggetto di tagli, sciabolate e prelievi per ottenere legna da ardere, tant’è che verso la fine del secolo venne affidata a un guardiano, incaricato di effettuare la ronda. A completare il tutto manca solo una tabella didascalica che illustrerà la storia della magnolia e gli aspetti legati alla sua monumentalità. Il giardino pubblico ha nelle sue aiuole altri alberi e arbusti di vecchia data, come certi platani ottocenteschi, una vecchia Gleditschia triacanthos, albero spinosissimo anche sul tronco, una Catalpa bignonioides, che mostra tutti i suoi anni ma che ancora fiorisce con i suoi bei fiori viola. Sarebbe auspicabile che le aiuole, purtroppo ridotte in numero in questi anni, venissero delimitate con dei bassi recinti, in modo da salvaguardare il terreno tenuto a prato come lo era anticamente . Passeggiando per Gorizia osservate bene le strade, i giardini privati e vedrete che ci sono tante altre belle magnolie della stessa specie di quella “tricolore” che abbelliscono la città. Almeno un centinaio, poi, di specie diverse, arricchiscono il giardino Viatori: furono l’ultimo grande amore del professor Lucio, grande appassionato di botanica e creatore di questo affascinante parco urbano. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


I misteri della strage di Peteano tra realtà, storia e finzione in “Di sangue e di ferro”, nuovo romanzo del friulano Quarin di Lucio Gruden

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l 31 maggio 1972 una Fiat 500 esplode a Peteano.

E’ l’atto terroristico in cui perdono la vita il brigadiere dei carabinieri Antonio Ferraro e i colleghi Donato Poveromo e Franco Dongiovanni. Rimangono feriti il brigadiere Angelo Tagliari e il carabiniere Giuseppe Zazzaro. Luca Quarin, talentuoso romanziere friulano, parte da questa triste pagina di storia patria per far decollare il suo secondo romanzo, Di sangue e di ferro (ed. Miraggi, Torino), mescolando abilmente finzione e realtà storiche documentate.

dal protagonista Andrea Ferro, udinese: “un uomo di quasi 50 anni ma che vive come un ventenne. Fa l’assistente in università a Torino, canta canzoni country in un locale di periferia, aiuta un amico a mandare avanti una casa editrice”. Ma è proprio questo amico a sottoporgli, un giorno, uno “strano romanzo”, che si insinua sempre più nella sua vita. Da qui, la discesa di Andrea in un tempo che si è sempre sforzato di dimenticare attraverso alcune vicende essenziali, dove lo stesso autore diventa personaggio: gli anni 70, appunto, e le vicende dell’eversione nera, la strage di Peteano e i depistaggi che per 15 anni hanno impedito di conoscere la verità. Realtà,

mamente lineare e semplice. E’ senza dubbio scrittore di razza che ha già avuto dei riconoscimenti per il suo precedente romanzo, Il battito oscuro del mondo. Egli ritiene che Peteano sia “il momento in cui i membri più radicali della destra eversiva si rendono conto di essere manovrati dallo Stato e si ribellano contro di esso” come ha dichiarato in un’intervista al Corriere della Sera, e considera fondamentali in tale contesto le dichiarazioni di Vincenzo Vinciguerra, esecutore materiale reo confesso della strage che sta scontando l’ergastolo (si costituì spontaneamente nel 1979, non perché pentito ma per scelta politica e ideologica: voleva rendere pubblici i rapporti tra estrema destra e apparati dello Stato che si erano attivati per coprire la matrice fascista dell’attentato) perpetrata assieme a Carlo Cicuttini e Ivano Boccaccio, aderenti come lui a Ordine Nuovo.

Una volta chiuso il libro però, certamente gradevole, il lettore passa in rassegna le tante trame eversive sopportate da questo Paese, ma si sofferma anche sul fatto Va ricordato che due setche oggi è assai più facile timane prima della strage orientare il sentire comudi Peteano, a Milano era ne. Così il libro, da mostato ucciso il commismento di semplice svago, sario Calabresi, ritenuto si trasforma ad approresponsabile della morte fondimento sulla nostra di Giuseppe Pinelli, un società interconnessa, in 31 maggio 1972: la strage di Peteano costò la vita a tre carabinieri anarchico ingiustamencui tutti possiamo incidere te accusato della strage anche solo commentando di Piazza Fontana, morto volando da su un social network una produzione storia e finzione entrano ed escono dalle una finestra della questura di Milano. letteraria, televisiva o cinematografica righe romanzate, quando il protagonista Suicidio, omicidio, incidente? Per Lotta che si occupa di fatti storici, narrata da si vede costretto a tornare in Friuli per Continua si trattava di omicidio e perciò un cantastorie, da un regista, da chiunassistere la nonna morente, Antonia, che Calabresi andava giustiziato. Ma grazie a que. con il nonno Vittorio lo aveva allevato ciò il cinismo dei servizi segreti deviadopo che, quando aveva soltanto 3 anni, ti, neofascisti, aveva approfittato della Peteano, per Quarin, è anche la fine i genitori, militanti in Lotta Continua, situazione per rubricare anche Peteano del sogno di ricostituzione del regime si erano misteriosamente inabissati con come strage di estrema sinistra, al fine di fascista in Italia, propugnato attraverso l’auto nel lago di Levico cercando di indurre nell’opinione pubblica l’idea che l’eversione dei servizi segreti deviati, sfuggire all’arresto proprio nelle prime fosse giunto il momento della restaurache usavano la deriva farneticante della fasi dell’indagine sulla strage condotzione, con più ordine e più uomini forti. destra borgatara. ta dai carabinieri. Alcuni mesi dopo verranno arrestati sei goriziani che non Lungi da svelare realmente i misteri della Per noi invece non è esattamente così, c’entravano nulla con l’attentato ma che politica italiana, il lavoro di Quarin ci perché nonostante il golpe Borghese solo molti anni dopo saranno pienamenfa comprendere però indirettamente, fosse fallito l’anno prima, riteniamo che te riabilitati. con i suoi giochi di trama, che se nulla è sia da considerare l’intera malapianta storicamente definito - perché nemmeno delle stragi successive - dall’Italicus alla Il romanzo è intercalato dalla riprodui processi nei tribunali sono rappresenstazione di Bologna - distanziate nel zione fedele di documenti storici grazie tativi delle verità storiche - è comunque tempo e figlie di un filo nero macchiato ai quali l’autore accresce la tensione tra indispensabile rimanere sempre vigili, di sangue: noi consideriamo il pericolo fatto accertato e invenzione, preconizperché il rischio di una deriva autoritaria della dittatura sempre ricorrente, sopratzando comunque che le due categorie esiste costantemente. tutto per le democrazie deboli qual è la possano dialogare tra loro e generare nostra attualmente. così un potenziale “relativismo cosmico” A partire proprio dalla leggerezza di chi nella storia politica di quegli anni. dice che tale rischio non esisterebbe più. Comunque sia, il libro ci offre un’ambientazione accurata e rigorosa, con Quarin scrive bene e il suo lavoro scorre ©RIPRODUZIONE RISERVATA personaggi di pura invenzione. A partire in modo a tratti ricercato, a tratti estre-

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Quando due mesi prima della strage di Capaci don Ciotti e Giovanni Falcone s’incontrarono a Gorizia di Vincenzo Compagnone

C’

è tanta Gorizia in “L’amore non basta”, il nuovo libro che don Luigi Ciotti, il sacerdote di Pieve di Cadore noto per aver fondato nel 1965 il Gruppo Abele per la lotta alle tossicodipendenze e la promozione della giustizia sociale, cui si è aggiunta, trent’anni dopo, la realizzazione di Libera, per la denuncia e il contrasto al potere mafioso e alla corruzione. Partiamo proprio da qui, ricordando che il 23 maggio scorso è stato celebrato il ventottesimo anniversario della strage di Capaci, nella quale morirono, vittime di Cosa Nostra (ma è ancora aperta l’inchiesta su un possibile coinvolgimento nell’attentato di pezzi “deviati” delle istituzioni) il giudice Giovanni Falcone con la moglie Francesca Morvillo e i tre uomini della scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicilio e Vito Schifani.

un caffè, da prendere insieme a Roma o a Palermo”. Un auspicio che non potè essere esaudito. Ironia della sorte, il 23 maggio di quel 1992 don Ciotti si trovava proprio a Palermo, per un corso di formazione. Così come si trovava nel capoluogo siciliano il 19 luglio dello stesso anno, quando venne ucciso, nella strage di via D’Amelio, Paolo Borsellino, che aveva raccolto per meno di due mesi l’eredità di Falcone, di cui era stato grande amico e collaboratore. Il sacerdote vide questi tre episodi (l’incontro di Gorizia e la sua presenza, occasionale, a Palermo nei giorni delle due stragi) come un

Ebbene, due mesi prima della strage del 1992 Falcone e don Ciotti si ritrovarono fianco a fianco proprio a Gorizia, ospiti di un congresso del sindacato di Polizia Siulp sulla dipendenza dalle droghe.

fecero presa e attirarono altre persone desiderose di mettersi in gioco”. Ma la svolta avvenne nel 1968. “Ad aprire una breccia in quegli stessi anni – rimarca in “L’amore non basta” il sacerdote – fu un gigante della psichiatria, Franco Basaglia. La sua gestione rivoluzionaria del manicomio di Gorizia, primo passo di quella che sarà la riforma degli ospedali psichiatrici in Italia e della legge 180, divenne nota al grande pubblico grazie a un reportage televisivo di Sergio Zavoli, intitolato “I giardini di Abele”. Noi di Gioventù Impegnata, ne fummo suggestionati. Il riferimento biblico ad Abele, scelto da Zavoli per identificare l’approccio basagliano di ragionare in termini di “persone” e non di “malattia” o “devianza”, di “inclusione” e non di “dentro e fuori”, ci conquistò. Fu così che in quel 1968 di sommovimento culturale e sociale, anche noi trovammo un nuovo impulso e un nuovo nome: Gruppo Abele”.

“Gorizia – afferma don Ciotti – ha graffiato le nostre coscienze e stimolato i nostri impegni”. La prima iniziativa di appoggio al Gruppo Abele nacque a Cormons. E molto frequenti Ci sono molti riferimenti “goriziani” nel nuovo libro di don Luigi Ciotti, furono le sue visite, in quel intitolato “L’amore non basta” periodo, alla nostra città, Il magistrato palermitadove ebbe modo di conosceno, due anni prima, aveva re e apprezzare l’operato di lasciato la Procura della sua un arcivescovo molto amato, monsignor città dove il clima, nei suoi confronti, era segno, e da lì nacque in lui “l’idea di non Pietro Cocolin, e di altri preti che lavoradiventato irrespirabile, per accettare la lasciare sole le persone in quella terra di vano in mezzo alla gente, frequentando proposta di Claudio Martelli, allora miSicilia”. Don Ciotti fondò così Libera, che “l’università della strada”. nistro della giustizia, di dirigere l’Ufficio oggi mette in rete 1600 organizzazioni ministeriale affari penali, a Roma (e Totò nazionali e 80 internazionali. Decisivo fu Concludiamo questo pezzo riportando Riina ben presto ammise: “Falcone sta anche l’incontro con Carmela, la mamuna delle considerazioni finali di don facendo più guai a Roma che a Palerma di Antonio Montinaro, caposcorta di Ciotti nel suo libro: “Il Gruppo Abele e mo”). Falcone. “All’improvviso mi fu chiaro – Libera sono realtà che non hanno mai scrive il sacerdote - che, come nella lotta gestito poteri, se non in forma di seralle droghe o all’emarginazione, anche Racconta don Ciotti: “Falcone era stato vizio. Realtà imperfette, come qualsiasi invitato a parlare del narcotraffico, io nel contrasto alle mafie si trattava di realtà umana, ma che hanno l’etica come della mia esperienza legata all’accoglienripartire dall’Abc delle relazioni umane. bussola. A riprova di questo, nessuno di za. Rimasi colpito dallo spessore umano Dall’ascolto delle persone e dal ricononoi si è arricchito, né ha mai accumulae professionale del magistrato. Non scimento dei loro diritti”. to qualcosa di diverso dai debiti e dalle dimenticherò mai quel che disse: la lotta fatiche”. alla mafia è una lotta di legalità e civiltà. Ma anche la nascita del Gruppo Abele, Rischiamo di dimenticarla, la civiltà. trent’anni prima, ha un preciso risvolto L’ultima visita del sacerdote a Gorizia Sono 160 anni che parliamo di mafia goriziano. “Partimmo in sei o sette amici risale al 21 marzo 2019, allorchè parlò in e nulla è cambiato. Dobbiamo essere – racconta don Ciotti – studenti e operai. un Kulturni Dom stracolmo. Ci augurialucidi, perché le organizzazioni mafiose Ci battezzammo, da principio, “Gioventù mo di rivederlo presto, Covid 19 persono sempre più intelligenti, con nuove Impegnata”. Il nostro era un rapporto mettendo, magari proprio per presentare strategie di penetrazione”. quotidiano coi barboni e i giovani diso“L’amore non basta”. rientati, che finivano al Ferrante Aporti, Il sacerdote e il magistrato si lasciarono a Torino, per piccoli reati di strada. con la promessa di ritrovarsi presto “per Modi franchi e semplicità d’approccio ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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Un mostro divora i nostri vecchi: è la cultura dello scarto di Franco Perazza

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sempre “la solita storia”: quando non servi più e “non sei più utile al Sistema” allora bisogna trovare “un posto”, un “non-luogo” dove metterti. E’ sempre “la solita storia”, rappresentata dal quadro di Hieronymus Bosch “la nave dei folli” : paradigma del non prendersi cura di determinate persone, dell’ escludere il diverso. Era toccato ai folli con i manicomi, ora è il turno dei vecchi con le case di riposo. La scandalosa strage di anziani avvenuta nelle Rsa e negli Istituti per anziani in Lombardia, ha reso attuale una questione che interroga le nostre coscienze: il destino dei vecchi. La “cultura dello scarto”, favorisce la nascita fuor di misura di “non-luoghi” e sostiene il business del “privato mercantile” attratto da larghi margini di guadagno. Sappiamo quanta fatica fanno le famiglie ad accudire i loro cari se non aiutate. Conosciamo la condizione di solitudine o di povertà in cui sempre più spesso le persone si trovano ad invecchiare. Ci è ben noto quanto può essere crudele invecchiare quando si è braccati da malattie irriducibili e devastanti. Ma sappiamo anche che l’istituzionalizzazione si impone in modo prepotente se e quando la politica e gli amministratori non si fanno carico di queste condizioni. Così succede che se entri in quelle istituzioni sedicenti “gentili, serene, felici”

non incontri più Antonio, non vedi più Giulio, non trovi più Anna, no c’è spazio per Carla. In quelle “istituzioni totali”, non c’è posto per “persone” e per le loro storie ormai difficili da ricordare e forse anche da dire. Non viene concesso tempo agli operatori volenterosi per accompagnare amorevolmente, come loro vorrebbero, i vecchi nella affannosa ricerca di tenere assieme pezzi di memorie, di continuare a vivere prima di perdersi nella nebbia della dimenticanza: ogni attività assistenziale è calcolata su una tempistica impietosa e disumana. A mala pena il tempo per una parola e per un sorriso frettoloso. Ogni forma di “soggettività” viene smarrita in spazi anonimi, offuscata nella ripetizione di giornate sempre uguali, nelle ore infinite dentro letti tutti uguali dove a volte può accadere di trovarsi legati. Sembra ci si dimentichi che la salute è un diritto di tutti, tanto più quando si è vecchi e malandati. Sembra non si sappia che salute vuol dire relazione, socialità, inclusione, massima autonomia possibile, rispetto della storia della persona, valorizzazione della singolarità e soggettività, diritto di stare nella comunità.

poveri vanno in casa di riposo. Esistono nel nostro territorio forme di “Abitare possibile” e di “condomini solidali”. Anziani soli nei loro grandi appartamenti offrono ospitalità a studenti universitari. In regione abbiamo eccellenti esempi di forme di collaborazione tra medici di medicina generale, infermiere di comunità, servizi territoriali, fisioterapista, assistente sociale di quartiere, badante della cooperativa sociale, volontari, persone. Sono le “microaree”: servizi forti, proattivi, di prossimità, capaci di piegarsi alle specifiche esigenze individuali e permettere agli anziani anche fragili di continuare a vivere a casa loro, rimanere con gli altri, sentire i rumori del proprio quartiere, stare più a lungo possibile nei luoghi dove hanno vissuto, vedere attorno a loro persone che conoscono e con cui stare ancora in relazione.

Franco Basaglia ha detto: “A me interessa più la persona che la malattia”: quanto bisogno abbiamo di ricordare quelle parole, di ritrovare quell’impegno civile e politico che lo spinse a lottare conContrastare tro le istitula istituziozioni totali e nalizzazione totalizzanti come destie contro Il celebre dipinto di Hieronymus Bosch “La nave dei folli” l’annientano ineludibile dei mento che vecchi si può, esse sanno e sappiamo esercitare. come si fa. Ci sono tutti “gli attrezzi” Sappiamo che è facile e soprattutto per sottrarre i vecchi dai luoghi anonipiù lucroso realizzare Istituti, Case di mi dell’esclusione, e farli stare nei luoghi riposo, Rsa. Ma ormai è urgente avviare veri della vita. Disponiamo di una legge a Gorizia un serio ed onesto dibattito regionale per l’“Invecchiamento attivo”, pubblico su questo tema. Il Coronavirus c’è lo strumento del Budget di Salute per ha avuto il pregio di aprire la strada. contrastare la politica dell’esclusione e Non fermiamoci. per combattere quelle insopportabili disuguaglianze per cui solo chi può ©RIPRODUZIONE RISERVATA si organizza e sta a casa sua, mentre i

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Quei sabati sera alla Valletta con i funamboli dell’hockey di Paolo Nanut

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uanti ricordi, quante epiche sfide sulla pista di “italgranito”, probabilmente il miglior materiale possibile per giocare a hockey su pista o a rotelle che dir si voglia. La storia “goriziana” di questa disciplina sportiva inizia nel 1957, con le prime partite giocate sulla pista all’aperto della Campagnuzza, dove adesso si trovano i campi di tennis. Poi il trasferimento nella palestra dell’Ugg in via Brass. Anni di sfide infuocate fra serie A (il debutto nella massima serie avvenne nel 1973, con dieci anni di permanenza e due quarti posti, nel 1974 e 1976) e A2, quando questa categoria contava davvero. L’Ugg hockey, al pari della sezione basket, era una sezione autonoma con l’anima prettamente goriziana: una sorta di Athletic Bilbao delle rotelle. Ne sono stati protagonisti il presidentissimo Corrado Bonetti, il “capitano” Gianni Brandolin, i fratelli Manlio e Marco Antonini, Giardini, Grassi, Figar, Vidoz, il funambolo Tonino Lepore globetrotter della stecca, avendo giocato anche a Forte dei Marmi e a Vercelli, che arrivava spesso in riva all’Isonzo come avversario da accogliere con le pacche sulle spalle. E poi l’attuale consigliere leghista Franco Zotti, celebre per i tiri-cannonate (una volta mandò la pallina a spaccare una vetrata), diventato poi anche presidente,

Alessandro Fedon, fratello di Aristide (il quale nel 2005, all’apice della carriera come arbitro internazionale, perse la vita a 38 anni in un incidente stradale), e ancora Nassiz, Barbangelo, Marzillo, Poletti, Ladini e via discorrendo. Non me ne voglia chi non ho nominato, ma la lista sarebbe lunghissima, come quella dei “foresti”, a partire da Bob Fraley, il gigante buono del Kentucky (spentosi anche lui prematuramente a 53 anni, nel 2009, per un male incurabile), un mito per tutti noi ragazzini di allora, il portierone di Bassano Checco Fontana, i triestini Perok e Parasuco (quest’ultimo balzato poi alle cronache a Novara per essere il vigile urbano più temuto d’Italia, avendo multato anche il figlio del sindaco) il gaucho Quiroga o il cileno Pizzarro, una pasta di ragazzo.

(il quale sta all’hockey come Tacchini alla Pro Gorizia) e alla squadra sponsorizzata Atro, che dopo essersi laureata campione d’inverno in serie A, nel girone di ritorno crollò, lasciando via libera al Giovinazzo di Pino Marzella e chiudendo al quinto posto. Il secondo ricordo va agli allievi che nel 1979 conquistarono a Bologna il titolo di campioni d’Italia, e non fu l’unico, ma il primo e per questo il più bello. I ragazzi allenati dal triestino Claudio Fonda (anche coach della prima squadra) sbaragliarono la concorrenza delle squadre più blasonate.

Il punto più basso, a parte le retrocessioni o le periodiche chiusure dell’attività? A mio parere fu raggiunto ai primi di febbraio del 2017. Due anni prima, Il tradizionale apla società – che aveva puntamento del chiuso i battenti nel sabato sera ci manca 2008 – era stata rilantantissimo. La storia ciata proprio da Totribolata delle stecche nino Lepore, Davide biancazzurre ha avuto Poletti e dal professor più di uno stop and Nereo Tavagnutti. Ma go. La prima volta in quella sera d’indurante la stagione verno fu scritta una 1989-90, quando l’Ash delle pagini più tristi Gorizia raccolse l’eredello sport goriziano. dità dell’Ugg targata La squadra non potè Menta-Più appena giocare la propria retrocessa in A2, con partita casalinga di l’onta di aver dovuto serie B in quanto chiudere la stagione pioveva dal tetto della a porte chiuse per la palestra della Valletpalestra non a norma. ta del Corno. Non Un’eredità che portò semplici infiltrazioni, in pochi mesi alla ma una pioggia che chiusura. A inizio trasformò la pista in stagione, nominato una piscina. Un’onaddetto stampa, lasciai ta che fu il colpo di dopo un solo mese, grazia decisivo per la capendo in anticipo la fine, probabilmente situazione. Puntualdefinitiva, dell’hockey mente arrivò a metà su pista a Gorizia. Tonino Lepore, bandiera cammino la rinuncia Svanirono gli sforzi dell’hockey biancoazzurro al campionato. L’Ugg, per rimettere in piedi che nel frattempo una squadra grazie continuava a seguire le giovanili, riprese all’auto-finanziamento dei giocatori in mano la prima squadra e sotto la stessi. Il tutto finì con una multa, il rimdirezione di coach Alessandro De Biasi borso spese agli avversari e al direttore e del sottoscritto ripartì dalla serie C di gara, un salasso per dei ragazzotti che con una formazione totalmente fatta in anche il panino e la birra a fine partita casa. Ci prendemmo anche delle belle si dovevano pagare da soli. soddisfazioni. Poi tutti gli anni novanta fra alti e bassi: l’attività proseguì fino ©RIPRODUZIONE RISERVATA al ritorno di patròn Corrado Bonetti e TOP FIVE del main sponsor Grigolin. Anni molto belli: prima la promozione in serie A1 al Libreria Ubik termine della stagione 2001-2002, l’anno dopo un entusiasmante quarto posto 1) “L’ultima corriera per la saggezza” finale, e l’altro ancora la storica parte(Ivan Doig) cipazione alla Coppa Cers, una sorta di Europa League delle rotelle. Poi l’enne2) “Una lettera per Sara” (Maurizio De sima crisi, la retrocessione, l’addio dello Giovanni) sponsor Grigolin, e la fine dei sogni di gloria. Ma se dobbiamo scegliere altri 3) “Biloxi” (Mary Miller) due momenti magici della storia della sezione hockey dell’Ugg, mi vengono 4) “Angolo di riposo” (Wallace Stegner) i mente questi: la stagione 1979-1980, e qui ritorniamo al presidente Bonetti 5) “Di sangue e di ferro” (Luca Quarin)

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L’incredibile record balistico di capitan Ardessi (57 punti) nello storico duello di Reggio Calabria con Joe Bryant (59) di Paolo Bosini

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oe Bryant, padre di Kobe, icona dei Los Angeles Lakers deceduto nel gennaio scorso in un tragico incidente in elicottero, alla fine degli anni Ottanta giocò in Italia nelle squadre di Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia. E’ stato un eccellente giocatore anche lui, con un trascorso importante nella Nba. Era un’ala piccola di 2.08, molto dotata tecnicamente, capace di giocare efficacemente in tutte le zone del campo. Essendo molto alto, appena prendeva un minimo vantaggio diventava immarcabile. Per tentare di limitarlo bisognava difendere con grande intensità sia individualmente che di squadra e sperare, comunque, in una sua giornata storta. Proprio nei giorni scorsi un sito web specializzato lo indicava come uno tra i più grandi attaccanti che hanno solcato i campi italiani. Infatti, come si rileva dalle statistiche ufficiali della Lega Basket, fu capace di segnare in tre occasioni più di sessanta punti e più di cinquanta in altre dieci. E una delle sue più importanti performance (59 punti) la fece il 14 dicembre 1986 contro la Segafredo Gorizia.

21 (76%) dalla linea dei tre punti, confermò di essere uno tra i migliori tiratori italiani di quell’epoca. Soprattutto a livello d’esperienza la formazione calabrese era decisamente superiore alla Segafredo che, quell’anno, aveva ringiovanito notevolmente l’organico inserendo i diciannovenni Gilardi, Sala, Lorenzi, Borsi e Stramaglia tutti ottimi giocatori ma, ancora molto acerbi per la serie A.

Infatti la Standa si trovò avanti di tre punti a una manciata di secondi dal termine del secondo tempo regolamentare e del primo tempo supplementare. Ma il vantaggio che, se gestito bene, poteva essere risolutivo, fu vanificato da due bombe da tre punti scagliate da Alberto che riportarono il risultato in parità.

In quella circostanza ero in panchina come vice allenatore di Waldi Medeot e quella partita mi è rimasta ben presente nella mente. Fu una gara tecnicamente pregevole, molto spettacolare grazie all’atteggiamento delle due squadre che si affrontarono a viso aperto giocando su livelli agonistici elevatissimi dove, per il piacere degli spettatori, gli attacchi ebbero la meglio sulle difese, in verità, tutt’altro che ermetiche. L’esito, purtroppo per noi, fu favorevole alla Standa Reggio Calabria che si impose dopo due tempi supplementari per 138 a 128. A tener testa in quell’occasione a Joe Bryant, fu il nostro capitano Alberto Ardessi che, con una prestazione straordinaria, realizzò ben 57 punti. Alberto era un grande tiratore, un vero specialista nelle conclusioni dalla lunga distanza. Sotto l’aspetto tecnico il suo tiro, peraltro stilisticamente molto bello, si avvaleva di una meccanica perfetta grazie alla quale riusciva a concludere molto rapidamente eludendo le difese che abitualmente lo braccavano. Inoltre era un giocatore affidabile e completo, in quanto non si limitava a considerare l’aspetto offensivo, a lui più congeniale ma, dava anche un buon contributo in difesa e nell’impostazione del gioco. In quell’occasione, però, riuscì a dare il meglio di se stesso. Infatti con un 15 su

tutti, ma fondamentale fu il contributo di un Ardessi in stato di grazia, che, nel primo tempo, mise a referto, ben sei tiri da tre su sette tentativi. Per Alberto, quel giorno, il canestro era “larghissimo” e praticamente ogni qualvolta alzava la mano il pallone finiva dentro. Con il trascorrere della gara, per il pubblico, divenne un autentico incubo tanto che accadde un fatto inusuale e simpatico. Nel secondo tempo e nei due supplementari ogniqualvolta che entrava in possesso della palla tutto il pubblico (4500 presenti) si alzava in piedi terrorizzato e se segnava, e in quell’occasione lo fece spesso, stramazzava frustrato sui sedili della tribuna. Il nostro capitano fece davvero soffrire tanto i tifosi quella sera! Soprattutto nei due momenti cruciali della partita quando erano quasi certi di avercela fatta.

L’inconfondibile stile del capitano al tiro

Avevamo necessità di vincere, la classifica piangeva e pertanto andammo a Reggio Calabria alla ricerca dei due punti. La squadra affrontò la Standa con determinazione e diede l’ impressione di poter giocare alla pari contro la più titolata avversaria. I padroni di casa tentarono più volte di prendere il largo ma noi riuscimmo sempre con grande lucidità a ricucire gli strappi. I momenti difficili furono superati con il lavoro di

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Nonostante avessimo disputato una grande partita la vittoria purtroppo non arrivò. La delusione fu cocente in quanto il risultato finale fu in parte condizionato da un grave errore arbitrale. Gli “uomini in grigio” di quella partita erano Vitolo e Duranti, fischietti internazionali, forse i più bravi a quel tempo in Italia. Chiamarono, a pochi secondi dalla fine del primo supplementare, con le squadre in parità, un fallo più che dubbio a favore di Joe Bryant. L’errore non fu tanto il fallo in se stesso quanto il fatto che non si accorsero che il giocatore americano aveva tirato con un piede abbondantemente dentro la linea dei tre punti. Il tiro doveva essere quindi considerato da due punti, con l’assegnazione di soli due tiri liberi anziché i tre che, per un errore marchiano, furono concessi e, probabilmente, fecero la differenza. Fu un vero peccato: una vittoria avrebbe potuto mutare il corso della stagione (anche se poi vincemmo lo spareggio-salvezza a Bologna contro la Stefanel Trieste) e dare più lustro alla fantastica partita di Alberto Ardessi e al suo prestigioso bottino di 57 punti passato alla storia della pallacanestro italiana. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


“La mia musica in un film”: il sogno di Manuel Dominko di Stefania Panozzo

quando ancora la presenza costante del supporto fisico per la memorizzazione del materiale audio consentiva un profondo rapporto artistico-affettivo tra l’ascoltatore e la musica registrata. Ciò mi ha portato alla scelta di incidere la mia stessa musica proprio su supporto fisico., cioè su cd audio. Che percorso di studi hai fatto? Per quel che riguarda la scuola, ho conseguito il diploma nel 2013 presso il liceo classico Dante Alighieri di Gorizia. Dal punto di vista musicale, invece, mi sono diplomato in pianoforte moderno presso l’Accademia Rockschool di Londra e in informatica musicale presso il conservatorio Giuseppe Tartini di Trieste. Da dove deriva il tuo cognome? È una domanda interessante che mi viene spesso posta. Pare di lontane origini spagnole, ma in realtà é un cognome tipicamente sloveno. Oltre ad essere un cantante sei anche un cantautore? Si, sono cantautore e produttore dei miei pezzi.

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a musica fa parte di noi e nei momenti difficili ci può aiutare a vivere bene.

Tante volte mi sono occupata, per Gorizia News & Views, di giovani talenti musicali nostrani, e recentemente mi sono imbattuta in un cantautore, compositore e insegnante di musica di Gorizia che molto gentilmente ha accettato di concedermi un po’ del suo tempo libero per raccontarmi il suo lavoro e come riesce a tenere vivo il rapporto con i suoi allievi in questo momento così particolare. Si chiama Manuel Dominko, e ha sempre avuto una grande passione per la musica che occupa la maggior parte del suo tempo. Secondo lui – così esordisce durante la nostra chiacchierata – tutte le forma d’arte devono dialogare tra loro, e nessuna di esse può prescindere dall’altra, perché alla fin fine sono assolutamente complementari. Nel suo tempo libero, Manuel ama fare passeggiate all’aria aperta e camminare in montagna, ma anche incontrare gli amici per confrontarsi con loro su diversi temi. Per il futuro vuole continuare a produrre la sua musica e a farsi conoscere anche componendo colonne sonore per qualche film. Com’é nata la tua passione per la musica? È nata ancora in epoca analogica, ascoltando la radio e le musicassette,

Da dove trai ispirazione per i brani che scrivi? Da sensazioni personali e varie forme artistiche. Sai, un brano musicale può nascere in molti modi differenti: da un giro di accordi al piano su cui comporre una linea melodica, come da una frase con un significato a sé stante che, arricchita, diventa poi melodia, ritornello e infine canzone completa, arrangiata e prodotta. Hai già inciso qualche album? Ho pubblicato due album da 8 brani ciascuno. Il primo s’intitola “Ciò che resta di noi”, ed é del 2016. Tratta l’interiorità in rapporto poetico con le sensazioni, il sapere e le vicende della vita. Il secondo, del 2018, s’intitola “Vivere ancora emozioni sole”, e descrive il rapporto dell’individuo pensante in contatto diretto con la realtà e società circostanti, tra scenari diversi, sentimenti della gente e cambiamento costante. Oltre a scrivere canzoni compongo brani strumentali per pianoforte solo o in ensemble per diverse manifestazioni artistico- culturale. Oltre a scrivere musica e cantare insegni alla scuola Go Music, come mante-

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nete vivo il rapporto con gli alunni in questo periodo? Pur non potendo insegnare fisicamente, siamo stati sempre disponibili per chiarimenti, consigli, valutazioni qualora l’allievo ne avesse avuto bisogno in questo periodo di studio indipendente, per consentire loro di continuare ad imparare nonostante le circostanze straordinarie. Il 25 maggio, ad ogni modo, abbiamo ripreso le lezioni individuali. Quale rapporto hai con le altre forme d’arte? Le forme d’arte, come dicevo all’inizio, sono pur comunque strettamente correlate. Infatti nessuna di esse prescinde dall’altra, in quanto tutte sono espressioni di un io condiviso in relazione con l’esterno, e ognuna può, direttamente o indirettamente, influenzare l’altra. Per esempio, non é inusuale utilizzare delle immagini per contestualizzare una registrazione, e al di là del video musicale, può assumere notevole validità artistica la combinazione tra fotografia e pittura. Se un giorno ti chiedessero di utilizzare le tue musiche come colonna sonora di un film come reagiresti? Beh, sarebbe una grande soddisfazione e un bel modo per far conoscere ulteriormente la mia musica. Cosa fai nel tuo tempo libero? Sono appassionato di montagna e di lunghe passeggiate all’aria aperta, e fa sempre piacere incontrare un amico o un conoscente per scambiare qualche parola e potersi confrontare con passioni differenti. Ti piace leggere? Assolutamente, i generi più vari. Ti é mai capitato di collaborare con un grande musicista? Ho frequentato master con ottimi artisti, come Rossana Casale e Bungaro e ho condiviso il palco con Ron, Roberto Vecchioni, Mariella Nava e Iskra Menarini, la vocalist di Dalla. Purtroppo non sono riuscito a conoscere il grande Ezio Bosso, anche se l’ho sempre apprezzato sia come compositore che come persona. Che progetti hai per il futuro? Produrre arte nuova e continuare a dedicarmi a composizione ed insegnamento. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


Fotografare la libertà: il bacio più famoso della storia nello scatto di Eisenstaedt alla fine della seconda guerra di Felice Cirulli

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n bacio: uno dei gesti più liberatori e maggiormente rappresentativi della manifestazione di libertà tra due individui e verso il mondo. Il bacio descrive la libertà di potersi amare reciprocamente, la libertà di condividere le proprie emozioni, la libertà di darsi l’un l’altro, la libertà di poter essere sé stessi. La libertà è uno degli elementi di maggiore importanza nella vita del genere umano ma, purtroppo, la parola libertà è una di quelle spese peggio e maggiormente inflazionate, oltre che abusate ed in questo ultimo periodo ne abbiamo avuto una prova inconfutabile.

creti, dimostrare visibilmente il valore della libertà? Proviamo a farlo passando ad argomentare anziché attraverso ragionamenti politici, utilizzando lo strumento che più di altri ci permette di raccontare visivamente le cose. Si può fotografare la libertà? Molti fotografi lo hanno fatto, alcuni sono riusciti nell’intento di sublimarne l’essenza attraverso il fermo immagine di momenti irripetibili ed unici.

È probabile che pochi conoscano profondamente il significato e sappiano cosa sia veramente la libertà. Ma, spesso inconsapevolmente tutti noi la esercitiamo, avendone la possibilità, in ogni istante della nostra vita ed è molto facile pensare che spesso ne facciamo abuso.

Molti hanno urlato alla coercizione ed alla volontà di realizzazione di un sistema dispotico e illiberale in nome di vaghi pensieri complottistici e di una diffusa dietrologia che si fa forte della incapacità di valutare le situazioni con oggettività e con intelligente analisi.

In molti casi hanno prevalso, come spesso accade, l’egoismo e l’opportunismo individuale, in spregio al significato più alto della parola libertà come limite da non oltrepassare per evitare di ledere la libertà degli altri. Come si può, con gesti semplici e con-

I grandi fotografi, attraverso il reportage, oppure semplicemente raccontando la realtà quotidiana, hanno cercato spesso di esprimere la libertà, sia interpretando le ombre generate dalla brutale rappresentazione della condizione umana nello stato di prigionia, di guerra, di fame o di sopruso, sia enfatizzando la luce presente nella bellezza dei gesti, delle espressioni, delle intenzioni, dell’amore… la luce che è parte intrinseca, ma spesso meno appariscente, dell’umanità. Ciascuno di noi, oltre che di carne e di ossa, è fatto di luce e di ombra. Ciascuno di noi appare esternamente ma può decidere di rimanere nascosto internamente. Il soldato rientrato vivo dal conflitto incarna sia la gioia di essere sopravvissuto ma anche il dolore per aver visto morte e distruzione. L’infermiera che si abbandona passivamente alla passione del militare è testimone di tutto questo e al tempo stesso ne è protagonista grazie alla sua arrendevolezza verso il giovane che è simbolo stesso della rinascita dalle ceneri di una guerra.

Sono trascorsi tre mesi dall’inizio dell’emergenza dettata dalla pandemia. In questa fase abbiamo assistito a un fiorire insistente di definizioni e di teorie sulla libertà. La quarantena, la distanza relazionale, i mezzi di protezione, ed altro ancora; tutto ciò è stato oggetto di valutazione, più o meno parziale, più o meno condizionata da posizioni politiche, in relazione ad un immaginario concetto di abuso di potere. Gli attuali governanti sono stati accusati di puntare verso la sottrazione della libertà ai cittadini in ragione di un presuntivamente astratto concetto di sicurezza per la salute pubblica.

Queste grida però hanno asfissiato in parte il vero significato di quanto attiene allo stare insieme in una società, hanno oppresso il senso del più elementare concetto di relazione tra esseri umani, hanno mortificato l’idea del sacrificio individuale in nome di un bene comune, hanno tentato di invalidare il modello della partecipazione di ciascuno all’interno di un contesto sociale.

sostituibili ma fanno parte dell’essenza stessa del mondo, lo descrivono, insieme ai colori.

Quelli che sicuramente hanno ben presente cosa sia la libertà sono coloro che ne subiscono o ne hanno subito la privazione sia fisicamente che psicologicamente.

Il bacio di un soldato americano ad una infermiera al centro della Fifth Avenue, al ritorno in patria dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, immortalato dal fotografo Alfred Eisenstaedt, simbolizza il concetto stesso di liberazione, incarna il significato di libertà dall’oppressione di una guerra, dalla fine di atrocità inenarrabili. Racconta la speranza in una nuova vita, fatta di aperte prospettive verso un futuro diverso e senza violenza. Se è vero che la fotografia è costituita da una miscela di luce e di ombra, cosa c’è di più libero della luce e dell’ombra. La luce e l’ombra non sono contenibili e

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Allora certo, è possibile fotografare la libertà, basta scattare e decidere di descrivere qualcosa in base al proprio sentire ed alle proprie emozioni. Basta saper raccontare ed interpretare ciò che della libertà è simbolo. Basta pensare a se stessi come parte attiva e condivisa di un organismo complesso come quello costituito dalla società. Se proprio vogliamo sintetizzare: ogni scatto fotografico è un gesto libero e può essere anche espressione della propria libertà e narrazione della libertà vera o presunta, inesistente o soppressa, dell’umanità che ci circonda. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


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