July 2020

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Gorizia News & Views Anno 4 - n. 7 Luglio/Agosto 2020

COVID, IL “GRAZIE” AGLI OPERATORI SANITARI

LA DIFFICILE RIPARTENZA DI UNA CITTA’ IN CRISI

pag. 22

pag. 3

UNDICI SERATE COL PREMIO AMIDEI pag. 12 e 13

èSTORIA TENTA LO SBARCO SUL WEB pag. 7

L’ORCHESTRA DI CHITARRE FESTEGGIA I PRIMI 30 ANNI pag. 23

STEVE MC CURRY E LA BELLEZZA NASCOSTA pag. 18 e 19


Pag. 3 “Dopo il virus”: la faticosa ripartenza di una città che ancora non ha deciso cosa farà da grande

SOMMARIO

Pag. 4 Ospedale: continuano le criticità in Ortopedia Pag. 5 Covid-19, l’emergenza sembra sia finita ma bisogna fare attenzione alle ondate di ritorno Pag. 6 Anche la sagra di San Rocco deve alzare bandiera bianca Pag. 7 L’estate on line della cultura goriziana: èStoria lancia “Controvirus”, sul web anche Il libro delle 18.03 Pag. 8-9 Nova Gorica ieri e oggi: non solo capitale del divertimento ma una città moderna, fra aree verdi e luoghi di cultura Pag. 10 Sì alla tecnologia, ma la città deve essere centro di cultura umana Pag. 11 Migranti: il coronavirus non ha fermato la rotta balcanica ma in tre mesi non ho visto neanche un caso di contagio Pag. 12-13 Il premio Amidei non tradisce mai: anche “in emergenza” 11 serate sazieranno al parco Coronini la voglia di cinema Pag. 14 Omaggio a Stanic, il don Milani dell’Ottocento che fondò a Gorizia il primo “Istituto per sordomuti” Pag. 15 E ora vi spiego perché insieme ce la faremo. O forse no Pag. 16 L’albero della canfora in una villetta di via Manzoni Pag. 17 Isonzo: dalla spiaggetta dei pali al “ghiaion”, un viaggio nei luoghi canonici di chi scendeva al fiume per pescare Pag. 18-19 Steve Mc Curry e la ragazza afghana dagli occhi verdi: come cogliere l’anima di un soggetto attraverso lo sguardo Pag. 20 Le tre stelle più brillanti nel centrocampo della Pro Gorizia Pag. 21 Quel magico 1966 per la nostra pallacanestro: gli juniores campioni d’Italia e la prima squadra in A Pag. 22 Lo straordinario sax di Luca Capizzi dai Musique Boutique ai concerti “benefici” Pag. 23 Concerto, libro e video per i 30 anni dell’Orchestra di chitarre

Gorizia News & Views è reperibile in forma cartacea nei seguenti punti di distribuzione: Generale: Biblioteca Statale Isontina di via Mameli, Kinemax e Mediateca Ugo Casiraghi di piazza Vittoria, Music Shop di via Mazzini, Kulturni Dom di via Brass, Casa delle Arti di via Oberdan, Ugg di via Rismondo, negozio Il Laboratorio di piazza Vittoria. Librerie: Leg, Voltapagina e Ubik di corso Verdi, Libri Usati di via delle Monache, Faidutti di via Oberdan e Antonini di corso Italia. Edicole: Baglieri Gerardo via Rastello 51, Duca D’Aosta via Duca D’Aosta 106, Tortora Melucci Paolo via Crispi 6, Tomasi Marco di via Santa Chiara 4, Fontana di Sant’Anna, “Al Parco” Corso Italia 127, “dal Tiz” Piazza Municipio 12, Leban Federica Via Mazzini 12, Milliava Maurizio Piazza Cavour, Bensa Roberto Stradone della Mainizza 43, Feresin Federica Via Quattro Novembre 32, “Dalle Cris” P.zza S. Giorgio Lucinico

Gorizia News & Views Reg. Trib. Gorizia n. 1/2017 dd 11/12/2017 mensile dell’APS Tutti Insieme http://tuttinsiemegorizia.it/ info@gorizianewsandviews.it DIRETTORE RESPONSABILE Vincenzo Compagnone REDAZIONE Eleonora Sartori (vice direttore) Ismail Swati, Rafique Saqib, Felice Cirulli, Renato Elia, Eliana Mogorovich, Timothy Dissegna, Anna Cecchini, Stefania Panozzo, Aulo Oliviero Re, Lucio Gruden, Martina Delpiccolo, Elio Candussi, Giorgio Mosetti, Liubina Debeni, Paolo Bosini, Luigi Casalboni, Paolo Nanut PUBBLICATO SU www.gorizianewsandviews.it 2

Food design: mostra al Kulturni Rimarrà aperta fino a lunedì 10 luglio, nella galleria del Kulturni dom di Gorizia (via Brass 20), la mostra fotografica dal titolo “(food•chef•design•photo)” del fotografo Roberto Savio di Milano. Le immagini di Roberto Savio appartengono a servizi e progetti fotografici realizzati tra il 2012 e il 2018 e sono state scelte tra quelle maggiormente inerenti il tema del food design. Si tratta di scatti effettuati principalmente presso le cucine degli Chef, di cui raccontano la visione gastronomica attraverso quattro filoni narrativi tra loro interconnessi. Completano la mostra alcuni scatti del progetto #stereoscopicfood, dove la tecnica stereoscopica consente di visualizzare immagini tridimensionali di grande effetto. Il tutto a ulteriore supporto della narrazione della filosofia gastronomica e del lavoro di Chef e designer. Roberto Savio è fotografo, Hasselblad Ambassador, direttore creativo, food designer e docente della Fowa University e di Food Genius Academy. Orari: 9-13 dal lunedì al venerdì.

Adriano Pessot in Cicchetteria Al bar Cicchetteria di via Petrarca saranno esposte fino al 30 agosto le fotografie di Adriano Pessot facenti parte di una serie intitolata “La mia India”. La mostra è organizzata dal Circolo fotografico isontino-Bfi.

E(c)co Mafia! al Kulturni Dom il 10 luglio


“Dopo il virus”: la faticosa ripartenza di una città che ancora non ha deciso cosa farà da grande di Eleonora Sartori

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Via Rastello, un tempo cuore pulsante del commercio goriziano, ora è il simbolo, cont tanti negozi chiusi, della crisi del settore

orizia pre e post Covid mi fa pensare a quei giochini della settimana enigmistica in cui bisogna aguzzare la vista e trovare le differenze tra due immagini che rappresentano scenari pressoché identici se non per qualche piccolo particolare. Dopo l’euforia iniziale dovuta ai mesi di clausura, l’atmosfera è tornata quella di prima. Le saracinesche abbassate sono aumentate ma erano tantissime anche prima e dunque si fa fatica ad accorgersene. Le attività che non hanno risposto all’appello dopo il lockdown sono morte con il Covid e non di Covid... Agonizzavano già prima e il virus è stato il colpo di grazia. Esistono colpevoli? Chi sono? Sono passati anni, decenni e nessuno lo sa. Abbiamo gridato così tanto “al lupo, al lupo” che ormai nessuno ci ascolta più. “È la chiusura della galleria Bombi per cui gli sloveni non vengono più”, “no, è la sleale concorrenza degli sloveni che pagano molte meno tasse”, “no, è la zona pedonale, si sa che i goriziani non camminano”, “no, sono la grande distribuzione e la vendita online”, “no, è semplicemente la crisi conseguente all’adozione dell’euro”... Potrei continuare la lista ma il succo non cambierebbe. Siamo stati bravi a spremerci le meningi

per scovare i problemi, meno a cercare di trovare soluzioni. Del resto, non si può pretendere di rispondere alla complessità di un mondo che cambia a ritmi vertiginosi con le stesse logiche degli anni ‘50. Tutela, protezione, noi di qua, gli altri di là, ognuno spenda a casa propria e dia da mangiare alla propria gente, qualsiasi cosa ciò significhi... Ah, sì, poi posso prendere l’aereo, in due ore essere a Londra, fare shopping come si deve e questo va benissimo perché i miei soldi vanno un po’ più lontano e non al vicino di casa, perché sarebbe uno smacco troppo grande.

non tutti felici, ma memorabili. Pensa a quanti studenti potrebbero venire a farti la corte, ad ammirare le tue ricchezze… Un confine che separava due culture, due visioni del mondo, e proprio lì accanto un luogo in cui è avvenuta una piccola, grande rivoluzione… Un uomo, Franco Basaglia, con la sua intuizione e il suo coraggio ha liberato delle anime… Pensaci, cara figlia mia, un confine che non si vede, quello tra i sani e i matti, che si innesta su un altro confine, quello fisico, tra due Stati… il tutto in qualche metro quadrato e potrei andare avanti a lungo… Ma mi ascolti?

Quando penso a Gorizia, penso a una figlia triste e insicura la cui madre in lacrime le urla: “sei così bella, hai tutto ciò che si potrebbe desiderare, cosa ti manca per essere felice?”. Cosa manca a Gorizia?

Io ci penso tanto a questa mamma, a quante lacrime deve aver versato, a quante parole deve aver speso per educare, formare una figlia piena di risorse, quanto si sarà spesa affinché queste non fossero gettate al vento. Sono le lacrime e le parole di tutti noi, di tutti quelli che a Gorizia vogliono un bene dell’anima e che non ci stanno ad assistere alla sua resa.

Le manca la gioia di sapere di poter camminare sulle proprie gambe, la sicurezza di un piano per il futuro. “Dimmi, cara, cosa vuoi diventare da grande? Una città turistica? Vuoi puntare sull’università, sulla Storia... Hai un sacco di strade davanti a te, sono tutte aperte, sta a te decidere quale vuoi imboccare”. Pensaci, chi può vantare la tua storia? Il ‘900 ti ha donato alcuni dei suoi momenti più significativi, è vero,

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Forse non è troppo tardi, forse questa figlia insicura e fragile può ancora essere salvata da chi la vorrebbe votata ad altri progetti, che nulla hanno a che fare con la sua vera natura, accasata con chi è ricco, ma solo di denaro e non di idee. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


Ospedale: continuano le criticità in Ortopedia di Vincenzo Compagnone

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i hanno provato, ma non ci sono riusciti”. Così una fonte confidenziale di Gorizia News & Views ha commentato l’esito – fortunatamente positivo per Gorizia – della telenovela riguardante l’Unità coronarica del San Giovanni di Dio. Tradotto: i timori per i ritardi e le lungaggini nel ripristino dell’Utic, chiusa e accorpata a Monfalcone dopo l’apertura di un reparto Covid nell’ospedale di via Fatebenefratelli, erano più che fondati. Le ripetute dichiarazioni del direttore generale dell’Asugi, Antonio Poggiana, circa “ragionamenti” che si stavano effettuando in merito alla sopravvivenza delle tre cardiologie ”aziendali” (Trieste, Monfalcone, Gorizia) celavano in modo neanche troppo velato l’ipotesi che l’Unità coronarica potesse essere “lasciata” al San Polo. La partita si è giocata sui tavoli politici, e sempre secondo la nostra fonte, “l’asse Ziberna-Riccardi ha prevalso alla fine su quello Cisint-Fedriga”. Fatto sta che finalmente l’Utic è tornata a casa, e, soddisfatti per lo scampato pericolo, diamo volentieri atto al sindaco di Gorizia e all’assessore regionale alla sanità di aver mantenuto le promesse: forse anche sulla spinta della mobilitazione cresciuta rapidamente in città, sostenuta dai partiti politici (Pd e Forum su tutti), dal comitato dei 970 di Adelino Adami e Giorgio Bisiani, e dal nostro giornale.

chi segue i problemi della sanità si è spostata su altri versanti. Il comitato di Adami e Bisiani ha puntato i riflettori sull’Ortopedia, che ha ripreso si l’attività ma solo parzialmente e non secondo le modalità preesistenti alla chiusura per l’emergenza Covid. Attualmente vengono attuati solo interventi programmati,quindi niente urgenze e niente traumatologia che continueranno a essere dirottate a Monfalcone almeno fino a settembre. Questo cosa comporta? Ogni anno – osservano i due capofila del comitato - vi sono circa 150 casi di frattura del femore in persone anziane fragili che prima venivano trattate a Gorizia e che adesso dovranno essere trasportate a Monfalcone, con tutto quello che ne consegue per loro stesse e per i familiari che se ne prenderanno cura. Ma non basta: uno dei punti qualificanti nel trattamento di questa patologia è riuscire a operare entro le 48 ore, e l’Ortopedia di Gorizia nel 2019 aveva centrato questo importante obiettivo nel 55.2 % dei casi,mentre l’ortopedia di Monfalcone in una percentuale inferiore, il 48.1. Perché quindi penalizzare la struttura che offre un parametro migliore? L’assessore regionale Riccardi ha replicato a stretto giro di posta: “Alla fine dell’estate anche a Gorizia è previsto il completo riavvio dell’attività chirurgica. L’attuale assetto organizzativo è causato dalla carenza di medici ortopedici, per far fronte alla quale è stato bandito un concorso le cui prove si terranno, con una quindicina di candidati, a fine luglio”. Diamo fiducia a Riccardi, senza dimenticare che nel giro di un anno e mezzo l’Ortopedia di Gorizia rischia di dover gestire una gravissima carenza di personale dovuta alla partenza di 5 medici su 8 (fra cui il primario Gherlinzoni) fra pensionamenti e trasferimenti. Sono state avviate inoltre – così ha assicurato Riccardi – le procedure concorsuali per la nomina dei nuovi direttori dei reparti di Medicina e Oncologia, attualmente retti da medici facenti funzione. Gorizia News&Views.

Chiuso questo capitolo, l’attenzione di

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da sempre attento alle problematiche sanitarie, continuerà a esercitare la sua funzione di vigilanza e di pungolo non certo per denigrare il nostro ospedale (come qualcuno ingiustamente ci ha accusati) ma proprio perché la sanità del nostro territorio ci sta a cuore e, se è vero che all’interno dell’ospedale ci sono delle riconosciute eccellenze (l’urologia, la senologia, la chirurgia bariatrica) è anche vero che, dopo le spoliazioni a catena del passato, l’ospedale non può essere ulteriormente ridimensionato. In difesa dei servizi ospedalieri e territoriali particolarmente importanti per i cittadini è intervenuta anche l’esponente del Pd Adriana Fasiolo, in consiglio comunale. Oltre all’Ortopedia, Fasiolo ha posto l’accento sulla pneumologia, “servizio oggi sottodimensionato e in affanno, visto che vi operano solo due medici e che perciò rischia di chiudere su uno di loro si ammala o va in ferie. La pneumologia di Gorizia, negli anni passati, ha svolto un capillare lavoro di formazione con i medici di base, che si è tradotto nel 2015 nell’assenza, unica realtà in regione, di ricoveri per asma”. La consigliera dem ha sollecitato inoltre il riconoscimento, quale struttura a valenza regionale, del Centro malattie sessualmente trasmesse, che dal 1991 è uno dei 12 centri clinici sentinella in campo nazionale incluso nella rete di sorveglianza nazionale per tali patologie, rete coordinata dall’Istituto superiore di Sanità e che rischia di morire con il pensionamento del suo responsabile, dottor Moise. “Giunge infine notizia – ha concluso Adriana Fasiolo – che il Csm (Centro di salute mentale) per supplire alla carenza di medici a Monfalcone, trasferisca professionisti e operatori in quest’ultima sede, depotenziando la sede di Gorizia. Un medico trasferito da anni era il referente dei progetti transfrontalieri del Gect e dei problemi sulla violenza alle donne. E ciò non può non allarmarci”. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


Covid-19, l’emergenza sembra sia finita ma bisogna fare attenzione alle ondate di ritorno

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i si chiede un commento sul Covid-19 in un momento in cui il nostro Paese sembra veramente uscire dall’emergenza che ha coinvolto – in modo non grave - anche la nostra Regione. E’ un momento essenziale per raccogliere con metodo scientifico tutte le informazioni che abbiamo avuto su questo nuovo virus, per sistematizzarle e trarne un programma che ci possa difendere. La modalità di comparsa del Covid, lo spillover – passaggio tra specie diverse, le mutazioni, le variazioni di virulenza, di trasmissibilità, sono termini scientifici importanti, che devono essere vagliati con una raccolta precisa e metodica di dati, secondo i criteri di medicina basata sulle evidenze. Informazioni solide e concrete sono le basi su cui costruire difese nel futuro.

di Roberta Chersevani* Il comportamento degli operatori sanitari è stato esemplare. Il fenomeno di violenza contro gli operatori sanitari, che non riguarda fortunatamente le nostre zone, è noto e frequente, e ha portato alla presentazione di disegni di legge, che possano inasprire le pene contro questi comportamenti assurdi. E’ da sperare che l’ammirazione che la

I casi in Italia si vanno riducendo. I pazienti in terapia intensiva sono pochi. Tuttavia le ondate di ritorno sono presenti anche in Paesi che hanno attuato una rigida politica di lockdown. Preoccupa ora particolarmente la grave diffusione in paesi poveri, con alta densità di popolazione come il Brasile e l’India: costituiscono nuovi focolai. I giornalisti e la comunicazione mediatica in genere hanno avuto comportamenti attenti ed equilibrati; ho trascorso molte ore ad ascoltare. Quella voglia di scoop, di notizie estreme per attirare l’ascolto hanno lasciato il posto a una comunicazione sorvegliata e precisa, compatibilmente alla scarsità di dati certi e informazioni legate ad un evento nuovo, imprevedibile e non catalogabile. Posizioni e dichiarazioni diverse da parte degli esperti, che persistono, sono legate probabilmente ad esperienze diverse, ed è importante che non arrivino a contrapposizioni che possono creare incertezze nella popolazione, con assunzione di comportamenti non idonei. La nostra alfabetizzazione sanitaria è piuttosto scarsa. Trovo il termine inglese health literacy più accettabile: si riferisce non solo alla cultura e alla conoscenza su temi di salute, ma anche alla comprensione che possediamo nei confronti dell’informazione e alle difese verso la pseudo informazione. Contraddizioni evidenti che abbiamo sentito su temi sanitari non aiutano, e rischiano di farci sottovalutare il problema Covid, fino a negarlo.

Roberta Chersevani, Presidente dell’Ordine dei medici di Gorizia

popolazione ha provato verso medici e infermieri in tempi del Covid possa migliorare i rapporti tra assistiti e operatori stessi. Così il Covid avrà fatto qualcosa di positivo. Abbiamo perso 169 medici e 40 infermieri. I sacerdoti non sono stati da meno. Quasi una convergenza di missione tra professioni che rivestono caratteristiche di condivisione, ascolto, vicinanza e cura. Si è detto molto sulla carenza di dispositivi di protezione individuale (DPI) – mascherine, guanti, camici – che ha stigmatizzato le prime settimane di pandemia, e probabilmente causato tante perdite tra chi assisteva i malati. Credo che il materiale non fosse veramente disponibile, prodotto altrove, bloccato alle frontiere. Nessuno ha tenuto conto nel tempo di protocolli da attuare in

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caso di emergenze pandemiche, che pur esistono. Anche a Gorizia ci sono stati reparti convertiti per Covid. Stiamo ora recuperando il rallentamento che c’è stato per prestazioni sanitarie ordinarie e non urgenti, e per i programmi di screening oncologico. E’ difficile dare consigli che non siano quelli strettamente aderenti ai comportamenti da tenere sempre: attenzione all’igiene, lavarsi spesso le mani, usare gel disinfettanti, non toccarsi mani, bocca e occhi, mantenere il distanziamento sociale, usare mascherine in luoghi chiusi. Via via che passano i giorni, si riduce la paura, si dimentica e si vede una certa tendenza a ritornare agli assembramenti, scordandoci che il virus circola ancora, anche se con minor virulenza e aggressività. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) invita a seguire le tre T di Testare, Tracciare e Trattare. Non è previsto ancora un test sistematico per tutta la popolazione. Gli esami a disposizione sembrano presentare diversa sensibilità. Le proposte di tracciamento con app sui cellulari trovano scarsa adesione, in virtù della difesa della privacy, già notevolmente compromessa grazie ai social. Le diverse terapie impiegate nei pazienti in questi mesi sono al vaglio, per capirne effetto, validità e controindicazioni. Per capire se sono state utili, inutili o dannose. Si parla di un vaccino, in fase di preparazione e di necessaria sperimentazione, e i tempi per la sua disponibilità sono incerti. Un vaccino somministrato ad una popolazione sana non può causare danni e quindi va preventivamente testato a lungo. Il Ministero della Salute ha pubblicato le raccomandazioni per la prevenzione e il controllo dell’influenza per la stagione 2020-2021. Ha chiesto alle Regioni di anticipare le campagne da inizio ottobre, ha raccomandato la vaccinazione per i bimbi di età tra 6 mesi – 6 anni, ha reso gratuita la vaccinazione a partire dai 60 anni, ha fortemente caldeggiato la vaccinazione antinfluenzale per il personale sanitario. Tutto condivisibile, per ridurre le complicanze della influenza stagionale, per non sovraccaricare le strutture sanitarie, per semplificare la diagnosi e la gestione dei casi sospetti. ©RIPRODUZIONE RISERVATA *Presidente dell’Ordine dei medici di Gorizia


Anche la sagra di San Rocco deve alzare bandiera bianca di Eliana Mogorovich

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ra, come sempre, uno degli appuntamenti più attesi dell’estate goriziana. Negli ultimi anni, complici gli adempimenti burocratici sempre più stringenti in fatto di sicurezza e igiene, le feste di paese si sono ridotte drasticamente (nel 2019 era saltata quella di Sant’Anna). Ma, quest’anno, il Covid-19 renderà più triste e silenzioso il mese di agosto costringendoci a rinunciare anche alla storica Sagra di San Rocco, (l’ultima rimasta insieme con la sua omonima ma meno famosa di Lucinico), rinomata in tutto l’Isontino per la prelibata offerta enogastronomica ma soprattutto per l’atmosfera di convivialità che vi si respira appena varcato il portone del campo sportivo. Eppure si era sperato fino a giugno, con l’occhio attento a normative e decreti. È vero che le sagre sono consentite, ma obiettivamente, sarebbe stato possibile rispettare il distanziamento sociale in attesa dell’agognato pollo alla griglia? O non avrebbe ricordato piuttosto un dipinto di Magritte vedere le coppie sulla pista da ballo con la mascherina?

soprattutto tenendo conto che, ad ogni ricambio, dovremmo procedere alla sanificazione di panche e tavoli dove, peraltro, potrebbero sistemarsi solo quattro persone per volta». Tutto annullato, dunque? «La parrocchia, in collaborazione con il Centro – prosegue la presidente – sta lavorando per la realizzazione di una serie di eventi nella settimana fra il 9 e il 16 agosto, giorno del Patrono. In particolare, il 16 si terrà il tradizionale pranzo utilizzando la sola cucina sita nel cortile della parrocchia e dislocato in vari spazi, dal cortile stesso alla sala Incontro, fino alla “centa” della Chiesa. Inoltre, a inaugurare una serie di appuntamenti ancora da definire, realizzati in collaborazione con le altre parrocchie dell’Unità Pastorale (Sant’Anna e Sant’Ilario, ndr) sarà, il 9 agosto, la gara degli Scampanotadors, intitolata alla memoria dello storico campanaro Pietro Stacul, mancato in aprile. Di più, purtroppo, non possiamo fare». Il rammarico riecheggia anche nelle parole di don Ruggero Dipiazza, comunque sempre portatrici di riflessioni. «Quando viene a mancare un appuntamento codificato nei ricordi e nell’immaginazione, il dispiacere riguarda non solo la festa in sè, ma il fatto che essa sia il risultato di una somma di energie che ci permette di sottolineare che veniamo da lontano: se ci pensiamo, si tratta di tradurre in festa una gioia che risale a 500 anni fa, tempo dell’intitolazione del Borgo a San Rocco. Forse più d’uno, in questo periodo, ha pensato che ci volesse una protezione superiore e si è chiesto come fossimo arrivati qui: ecco allora che gli scarni festeggiamenti di quest’anno potranno fornire l’occasione per meditare sul senso di onnipotenza dell’uomo e sullo sfruttamento della natura che alcuni hanno additato come una delle possibili cause della diffusione del virus». Perchè fermare la sagra nonostante sia consentito dalle disposizioni governative? C’è un insieme di regole di cui non possiamo garantire il rispetto, in primis la

«Avremmo dovuto avviare i preparativi già mesi fa, contattando le orchestre sin da gennaio e presentando le domande in Comune a maggio» dichiara Laura Madriz, presidente del Centro per la Conservazione e la Valorizzazione delle Tradizioni Popolari di Borgo San Rocco. Certo, a gennaio la pandemia non era ancora conclamata, ma è stato assunto un atteggiamento di prudenza giustificato dalla piega presa in seguito dagli eventi. Sarebbe impensabile mettere in piedi adesso tutto quanto,

limitazione dei convenuti a 1000 persone: già così, sarebbe problematico gestire con giudizio il loro convergere. Poi, il fatto di non poter garantire la sicurezza dei presenti, ma pure le difficoltà legate alla continua sanificazione. Qual è il sentimento di fronte a questa sospensione? Il dispiacere: sia per non dar luogo a una festa che appartiene alla nostra tradizione, sia perchè, più concretamente, è un modo per il Centro di autofinanziare le proprie attività e, per la parrocchia, di rimpinguare il fondo di solidarietà grazie al mercatino che, di solito, raccoglie 12-13 mila euro. In questo periodo, in cui sono aumentate le persone che non ce la fanno, sarebbe stato ancor più importante. Avrete però degli altri appuntamenti… Terremo viva l’attenzione sulla figura del Santo con veglie di preghiera e incontri: San Rocco è una figura emblematica perchè nel Trecento ha sostituito San Sebastiano come protettore dalla peste affermando, con la sua condotta, idee estremamente attuali come la cura del proprio corpo e il riguardo verso le risorse disponibili senza darle in pasto alla voracità. Si chiedeva ordine nella propria vita esattamente come ora in tanti escono dalla pandemia con l’idea di cambiare la propria esistenza. Personalmente, cosa le mancherà della sagra? Il fatto che rappresenti la convergenza del lavoro fra persone di varie età e interessi: è la massima espressione del volontariato, con circa 120 persone che si mettono ogni giorno a disposizione. E più sono impegnati, più sono contenti, come dimostra il fatto che l’entusiasmo è messo a dura prova quando il tempo è incerto e la serata potrebbe saltare. La sagra mancherà proprio per questo: perchè in essa si vive la gioia di un coinvolgimento di tante persone, ed è il maggiore traguardo che si possa raggiungere attraverso una festa. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

La tradizionale sagra di San Rocco

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L’estate on line della cultura goriziana: èStoria lancia “Controvirus”, sul web anche Il libro delle 18.03

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di Martina Delpiccolo

on c’è ambito, aspetto, una selezione di “incontri in sala” delle settore che non sia precedenti annate. In diretta streaming stato toccato dall’efsarà invece, martedì 14 luglio, Ilaria fetto coronavirus. Tuti con il suo ultimo libro “Fiore di Ogni vita o attività roccia”, storia di coraggio e resilienza ha subìto mutaziodedicata – attraverso il personaggio di ne, adattamento: Agata Primus - alle portatrici carniche, una metamorfosi obbligata per una le donne friulane che trasportarono sorta di nuova o forse antichissima e lungo i sentieri impervi della Carnia ancestrale legge di sopravvivenza. Il viveri e munizioni per gli uomini in lavoro è diventato smart working, la trincea durante la Grande guerra A scuola ha tentato di essere “didattica a dialogare con la Tuti sarà Paolo Polli, distanza”, non senza traumi e criticità. appassionato ideatore e curatore della Fare da lontano, senza la vicinanza. rassegna, nata nel 2008, che nell’allestiE, come sempre, la riuscita è dipesa re e presentare questa versione on line dalla sinergia di mezzi, intenti, passioha rivolto il suo pensiero alle vittime ne, dedizione, professionalità. Anche del Covid, al senso di dovere e responla cultura si è trovata faccia a faccia sabilità di tutti, al desiderio di rendere con il killer-virus. Musicisti, attori e piacevole e interessante questa formula operatori dello spettacolo, pur avendo acceso i riflettori on line, permangono in quarantena lavorativa, immobilizzati senza essere contagiati o impegnati in una sofferta e incerta ripresa, tanto attesa da un pubblico di umanità affamata di parole, emozioni e incontri. Anche gli eventi si sono adeguati, mutando forma, strumenti, canali. E se insostituibile è la bellezza del rapporto diretto tra chi racconta e chi ascolta, è L’ideatore e curatore di eStoria, Adriano Ossola doveroso ammettere che un evento dal vivo non sempre conquista, ammalia, piace, scuote, nutre. Dunque il segreto sta nel alternativa di intrattenimento cultusenso, nel messaggio, nel coinvolgirale con la speranza di riprendere gli mento e nella cura, a prescindere dalla appuntamenti dal vivo per l’edizione modalità dell’incontro. Parole profondell’autunno 2020 nella sala dell’Apt di de e originali arrivano allora anche via Gorizia. web. On line va, in questo anomalo 2020, l’estate della cultura goriziana “Controvirus” è invece la risposta di che ha saputo riproporsi e reinventar“èStoria” al Coronavirus. Dopo 15 si in una veste nuova, dalla trama di anni, il Festival Internazionale della pregio e ben ordita. Storia, costretto a rinviare alla primavera del 2021 l’edizione incentrata sul Viaggia su Facebook e su YouTube tema della “Follia”, si trasferisce dai attraverso il sito www.illibrodelle1803. giardini pubblici di Gorizia a quelli it l’ultima edizione dell’associazione da labirintici del web per un percorso sempre in movimento nella cultura. sorprendente che andrà a comporre “Il libro delle 18.03”, già dalla seconda una sorta di nuova enciclopedia dei metà di giugno, ha inaugurato una contagi, raccontata in una carrellata serie di appuntamenti che scandiranno importante di videopuntate. Un’opera tutto il mese di luglio. Diverse le seziomonumentale per valore, impegno e ni pensate. Letture all’insegna dell’irooriginalità. Eccezionale il numero di nia triestina, tratte dalle “Maldobrie” incontri realizzati: una cinquantina di Carpinteri e Faraguna, interpretate di videoconferenze che, attraverso la da Livia Zucalli, amica e voce degli straordinaria partecipazione di studioitinerari in bus delle passate edizioni. si ed esperti di storia della medicina a Parallelamente si è scelto di riproporre livello internazionale, in collegamen7

to da New York, Parigi, Gorizia e da ogni parte del mondo, racconteranno “Le epidemie nel corso della storia”, dall’antichità fino ai giorni nostri. Come spiega Adriano Ossola, curatore e anima del festival, il progetto «costituisce un unicum bibliografico delle epidemie e fonde insieme continuità e innovazione», scegliendo, in questo presente così imprevedibile e incerto, di dare la parola alla storia, amica certa e affidabile, capace di offrire approfondimento critico e confronto, in una prospettiva distante quanto basta dall’attualità proprio per meglio comprenderla e illuminarla. È stato un onore e un piacere poter personalmente dare il mio piccolo contributo a questa edizione on line per un’intera puntata, introdotta e presentata da Paolo Medeossi, dedicata alla peste di Gorizia, in particolare attraverso le pagine dettagliate e ironiche del diario seicentesco di Giovanni Maria Marusig, al centro di una mia ricerca, nata proprio per un servizio destinato al numero “in quarantena” di aprile di “Gorizia News & Views”. Gli incontri – tre al giorno - si snoderanno on line dal 24 luglio al 7 agosto sul canale YouTube raggiungibile dal sito www. estoria.it. Grazie a una nuova collaborazione con il Premio Amidei, le videopuntate di “èStoria” saranno lanciate in brevi anteprime che precederanno le proiezioni dei film (dal 16 luglio al Parco Coronini); saranno poi visibili su maxischermi disseminati in città per riscoprire la vicinanza, la fisicità, il legame mai allentato con le proprie radici. Così “èStoria” presenta e porta la storia on line e sullo schermo, in rete e in città, e nel farlo finirà essa stessa nella storia, diverrà storia per un domani, quando, per qualche motivo di attualità, si andrà a recuperare o curiosare nella realtà di oggi, in questo strano nostro momento, per vedere come noi umani, scossi da un’esperienza che ci ha capovolto e immobilizzato, abbiamo reagito alla più grande pandemia di ogni tempo, e per capire quali riflessioni, emozioni e tentativi di sopravvivenza abbiamo elaborato. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


Nova Gorica ieri e oggi: non solo capitale del divertimento ma una città moderna, fra aree verdi e luoghi di cultura

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i andava “di là” con la propusnica. Si andava di là a prendere la carne, che era buonissima, e certe sigarette puzzolenti che appestavano l’abitacolo della Cinquecento verde pisello durante le code infinite a Casa Rossa. Andavamo di là solo per quei pochi metri necessari ad arrivare in macelleria o al supermercato.I supermercati erano grigi e spogli, presidiati da certe commesse imponenti con le scarpe da lavoro bianche e alte alle caviglie che lasciavano scoperte le punte e i talloni. Eravamo intimiditi. Io non capivo nulla, ma sentivo tutto. Sentivo l’odore del carbone che usciva dai camini e quello della benzina con pochi ottani che sfuggiva dai tubi di scappamento delle Zastava. Sentivo che “noi” eravamo arroganti, ma che ce la facevamo sotto solo alla dogana, e che a “loro” noi non piacevamo. Avevo sette o otto anni, ma questo lo capivo bene. Non eravamo di Gorizia, sapevamo poco di quel “di là”. Lo sloveno era uno sbiadito ricordo della mia bisnonna, che lo parlava ormai solo tra sé e sé. Troppe mescolanze, in famiglia, perché potesse sopravvivere. Si spense da solo. Non si andava mai oltre Nova Gorica, oltre quei grattacieli e quel grigio di cui non sapevamo nulla. Non sapevamo nulla della costruzione di quella città e di quello che c’era prima, delle ville di campagna, dei vivai, dei frutteti. Non sapevamo nulla di nulla”. ·

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La questione del confine del Litorale sloveno si apre drammaticamente al termine della seconda guerra mondiale. Quella fascia che parte da Tarvisio e termina a Trieste, abitata da sempre da popolazioni di lingua italiana e slovena, diventa protagonista di opposte rivendicazioni. Al termine della Conferenza di Parigi, dopo negoziati serrati, manifestazioni e incidenti, la stipula del Trattato di pace assegna all’Italia la val Canale, la val Resia, la “Slavia veneta” e Gorizia, mentre alla neonata Repubblica Federativa Popolare Jugoslava vengono destinate la valle dell’Isonzo e del Vipacco, Fiume, l’Istria e la Dalmazia. In città il simbolo della spartizione diventa l’ottocentesca stazione ferroviaria della Transalpina, assegnata alla Jugoslavia, mentre la piazza antistante viene divisa a metà da un filo spinato.

di Anna Cecchini Se Gorizia si trova privata di parte del suo entroterra e attraversata dal confine all’interno del tessuto urbano, agli abitanti di là del confine è stato sottratto il proprio centro amministrativo e commerciale. Entrambe le comunità sono stremate dalla guerra, esacerbate dai due anni di tensioni precedenti il Trattato e svuotate della propria storia millenaria.

Le Corbusier della “croce stradale” per definire le quattro principali funzioni cittadine: centro, ricreazione, residenza e industrie. Ma il “centro” concepito da Ravnikar non è collocato in posizione baricentrica, bensì su uno dei lati verticali della croce, lungo uno degli assi principali del progetto, la Magistrala, l’odierna Kidričeva ulica. L’arteria viene concepita con quattro filari di platani

I blocchi russi: costruzioni a 5 piani e 24 appartamenti

La nuova Jugoslavia è costretta a colmare il vuoto. Dopo aver scartato l’ipotesi Ajdovščina, stabilisce di costruire il nuovo capoluogo a ridosso del confine italiano, a est della Transalpina, un contrappeso politico e simbolico, una nuova città “…le cui luci brilleranno oltre confine”, parole di Ivan Matija Maček, Ministro della costruzione jugoslava dell’epoca. Del progetto viene incaricato l’architetto Edvard Ravnikar, classe 1907, laureatosi con il grande Jože Plečnik, con il quale ha collaborato per sei anni prima di una parentesi parigina nello studio di Le Corbusier. Ha 42 anni quando progetta Nova Gorica. Si è formato con le nuove e razionali teorie urbanistiche e viene contagiato dall’entusiasmo febbrile e dall’orgoglio nazionale di creare una città-modello. “…L’urbanistica moderna divenne così un’arma della lotta nazionale e politica…doveva esprimere la bellezza senza il vacuo gigantismo delle masse costruttive e soprattutto prevedere una più estesa superficie riservata alla vegetazione…”. Queste le parole di Ravnikar per sintetizzare la sua idea progettuale, che mutua il principio di

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e, ai lati, le principali attività cittadine, uffici, negozi e edifici pubblici. Vi s’intravede un richiamo al Corso goriziano, a sua volta ispirato alle promenades di molte città della Francia. Purtroppo questa cattedrale verde non sarà mai realizzata come Ravnikar l’aveva concepita a causa delle grandi difficoltà economiche che penalizzeranno il progetto. Chi giunge oggi a Nova Gorica dal valico di via San Gabriele prosegue su Erjavčeva ulica, ampia arteria che sfocia nella rotonda che immette ortogonalmente in Kidričeva ulica (la Magistrala). Si tratta della vecchia Via del Camposanto, che portava al cimitero di Gorizia, qui trasferito nel 1880 dall’originaria sede dell’attuale Parco della Rimembranza, incongrua dopo la costruzione del Corso, e dove è rimasto fino alla fine della prima guerra mondiale. La grande piazza su cui si affacciano i principali edifici di Nova Gorica, tra cui il municipio, primo edificio pubblico eretto a Nova Gorica, è un vasto prato verde. Ancora un richiamo a Gorizia, alla sua Piazza Grande, il Travnik, originariamente essa stessa un prato? Su quello spiazzo, che ospita oggi


eventi culturali e sportivi, guardano lo Slovensko narodno gledališče, il teatro nazionale sloveno, con l’arena circolare e il doppio loggiato in mattoni rossi, e la vicina, modernissima Goriška knjižnica Franceta Bevka, la nuova biblioteca pubblica, spalancata come un libro aperto sul verde circostante. Se torniamo agli anni ’50 e all’avvio della costruzione della città, troviamo una giovane Repubblica jugoslava uscita dalla guerra con le ossa rotte, occupata a gestire la propria rinascita, a tenere unito di uno stato composto di realtà differenti e conflittuali e la faticosa ricerca di un ruolo internazionale. Lo sforzo economico, organizzativo e gli investimenti necessari sono enormi. La nascita di Nova Gorica si affiderà in gran parte al lavoro volontario delle Brigate popolari

iniziative locali a dispetto di una pianificazione generale. Inizia negli anni ’90 la trasformazione di Nova Gorica, dopo lo strappo che ha portato alla dichiarazione l’indipendenza dalla Jugoslavia, all’ottenimento del riconoscimento di sovranità alla Repubblica di Slovenia, e poi al suo ingresso nell’Unione Europea nel maggio del 2004. Sono stati anni cruciali per il giovane Paese, che è riuscito in brevissimo tempo e con uno sforzo considerevole a trasformarsi in uno stato allineato agli standard europei. Nova Gorica oggi è una città di oltre 31 mila abitanti, vivace, moderna, piacevolissima. Gli spazi verdi, una fitta rete di piste ciclabili, i luoghi ricreativi e di

anni ‘70 c’era infatti un gigantesco orologio solare in cemento, un esempio di arte d’avanguardia jugoslava realizzato dal gruppo OHO e purtroppo distrutto in occasione della costruzione del complesso del Perla. Ardito e discusso è l’Eda center, il grattacielo di 72 metri in vetro e cemento inaugurato nel 2011 e dedicato ai fratelli Rusjan, i pionieri del volo già ricordati in un articolo apparso su Gorizia News&Views, con la scultura denominata Icaro posta nella piazzetta ai piedi della scalinata d’ingresso al grattacielo. Il plastico che riproduce il progetto di Ravnikar lo trovate all’inizio di Kidričeva ulica, là dove inizia la zona pedonale che di sera è piena di giovani che passeggiano e sorseggiano una birra. E’ un buon modo per iniziare una visita alla città. Per approfondirne la conoscenza visitate il sito https://www. novagorica-turizem.com/, attraversatela con calma e una mappa in mano perché merita molta più attenzione di quanta siamo abituati a riservarle. *** Questo articolo è stato scritto volutamente il 15 giugno scorso, data di riapertura del confine tra Italia e Slovenia dopo la chiusura conseguente all’emergenza coronavirus. La candidatura a città europea della cultura 2025 di Nova Gorica e Gorizia quali espressione di un unico territorio, che sarà decisa il prossimo mese di dicembre, è inoltre l’occasione giusta per approfondire la conoscenza reciproca.

Un’immagine che rimanda agli anni della costruzione

dei lavoratori e della gioventù comunista provenienti da tutto il Paese, che costruiranno per primi i cosiddetti “blocchi russi”. Si tratta di costruzioni a cinque piani e 24 appartamenti disposti in file parallele e immersi nel verde per costituire un perfetto esempio di armonica distribuzione tra pieni e vuoti, superfici edificate e spazi liberi. I futuri abitanti dei blocchi, tuttavia, storcono il naso: ancorati a una tradizione rurale di abitazioni unifamiliari, non sono entusiasti all’idea di vivere in condominio. Nel 1950, quando Ravnikar consegna il progetto definitivo, il Comitato Popolare stabilisce di sostituire parte dei “blocchi” con edifici di nove appartamenti e di concedere ai privati la facoltà di erigere abitazioni uni e bifamiliari. Se la decisione è stata indubbiamente rispettosa dei desideri dei cittadini, ha tuttavia generato una confusione che si riflette ancora oggi sull’aspetto di Nova Gorica, dove convivono a poca distanza strutture imponenti da grande città e abitazioni unifamiliari da periferia urbana.L’ambizioso progetto originario risente della scarsità di risorse e, inoltre, il processo di decentramento amministrativo ha fatto sì che prevalessero le

cultura hanno messo in secondo piano le disarmonie del passato. I suoi casinò, fra i più frequentati d’Europa, croce e delizia della comunità, la rendono simile a una piccola Las Vegas che richiama visitatori da tutto il circondario. La società che li gestisce ha regalato alla città per molti anni numerose opere d’arte che arricchiscono il centro, forse per farsi perdonare: là dove era sorto il complesso alberghiero Argonavti negli

Ringrazio l’architetto goriziano Diego Kuzmin per le notizie divulgate sull’argomento e lo storico dell’arte professor David Kožuh, curatore presso il Museo provinciale Goriški muzej Kromberk-Nova Gorica che ha gentilmente concesso l’uso delle fotografie a corredo dell’articolo, con il quale ho avuto un piacevolissimo quanto surreale incontro al cippo di Piazza Transalpina, separati da una rete ma vicini negli intenti. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Le rutilanti luci del Perla, il principale casinò della città

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Sì alla tecnologia, ma la città deve essere centro di cultura umana di Renato Elia

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urante la prima fase della pandemia da Coronavirus abbiamo dovuto prendere atto che non tutto il mondo, soprattutto commerciale, si era fermato. Chi ha sofferto maggiormente sono state le attività dei centri urbani, piccoli e grandi. Le mega strutture del commercio on line hanno continuato invece a raccogliere e ad evadere ordini a livello internazionale. Anche le strutture finanziarie, attraverso la rete hanno continuato a svolgere il loro lavoro. Non solo: l’uso massiccio delle nuove programmazioni, ad intelligenza artificiale, ha dato prova di una straordinaria capacità nella gestione del territorio a livello economico, produttivo e anche politico. Mettiamo subito in chiaro che, in questo, non c’è nulla di male. Il progresso fa

parte della nostra cultura operativa. Ora, tuttavia, sembra che il divario tra noi “esseri biologici” e le nuove realtà produttive a gestione robotica stia imboccando una strada ad alta conflittualità che le nuove classi dirigenti dovranno saper gestire. Cosa significa questo? Molto semplicemente, che i vecchi lavori andranno a scomparire, e non sarà facile recuperare le diverse maestranze con cicli di formazione. Il famoso “nuovo che avanza” necessità di acquisire “Sapere” nella prima fase di scolarizzazione e la velocità di rinnovamento delle tecnologie costringerà a un aggiornamento costante di non poco conto. Inoltre, non bisogna mai dimenticare che il coronavirus ci ha costretti a sperimentare la distanza fisica (preferiamo usare questa espressione al posto di quella, decisamente orrenda, di “distanziamento sociale”). Noi, animali sociali, siamo stati privati del contatto, di una semplice stretta di mano, delle carezze e dell’abbraccio. E’ stata questa, e lo è tuttora anche se non mancano certo coloro che trasgrediscono le regole, una situazione tra le più difficili da gestire a livello psicologico. C’è chi dice che questa separazione sociale forse nel prossimo futuro potrebbe diventare una norma. D’altro canto, il mondo del lavoro, all’insegna dello smartworking, ha già da tempo separato fisicamente i lavoratori. Con il lavoro da casa attraverso la rete internet è possibile mantenere attive le produzioni aziendali ed anche industriali. Una situazione che, durante il lockdown, ha riguardato per esempio anche i giornalisti, costretti con non pochi disagi a non frequentare la redazione ma ad “arrangiarsi” a casa, usando il proprio telefono e il personal computer. I consumatori, sempre da casa potranno gestire i loro acquisti, auto, treni e aerei saranno gestiti dall’automazione. In questo contesto sembra evidente la difficoltà che avremo a gestire le nostre comunità. Quale risposta, dunque, potrà dare la nostra, le nostre città a questo complesso cambiamento? Secondo alcuni le città più che diventare intelligenti dal punto di vista tecnologico, dovrebbero essere dei punti di aggregazione sociale, essere

I richiedenti asilo a lezione in un’aula del Nazareno

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centri di cultura umana, delle grandi scuole di “Vita”, capaci di garantire la continuità storica dei sentimenti che ci permettono di essere in grado di relazionarci per il piacere di camminare insieme nella “Natura” e nel rispetto di questo nostro pianeta. Senza l’Umanità c’è il nulla storico e la tecnologia da sola non ha alcun significato. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Richiedenti asilo: riprese le lezioni Sono riprese, grazie alla nostra associazione di promozione sociale “Tutti Insieme”, le ore di scuola riservate ai richiedenti asilo del Nazareno, attualmente poco più di cento, con le necessarie precauzioni dovute alle problematiche del coronavirus. Le materie, oltre alla lingua italiana, sono l’educazione civica e la gestione delle relazioni umane. In altra sede ci saranno degli incontri formativi riservati ai “volontari” che sostengono il percorso educativo dei ragazzi del Cara di Gradisca.

Mascherine prodotte al Nazareno Al Nazareno, centro di accoglienza per richiedenti asilo di Straccis, da tempo è operativo, grazie all’associazione La Buona Via, un reparto scuola dedicato alla sartoria. Molti ragazzi si sono formati grazie alle precise indicazioni delle maestre di sartoria. E così è stato anche durante il lockdown, in quei mesi di attesa e pausa dalla vita, facendo ciò di cui c’era più bisogno nel rigoroso rispetto delle normative: cucire mascherine di stoffa riutilizzabili. Il progetto è nato da una collaborazione di più cooperative: Nemesi, Thiel e Aesontius. Il mondo della cooperazione ha dato ancora una volta prova di rispondere con prontezza ed efficacia alle esigenze del territorio, raccogliendo dati e capitalizzando la rete di contatti. La cooperativa Thiel, grazie alla sua sartoria sociale, ha fatto da apripista aumentando la produzione e siglando accordi con sarte locali allo scopo di fornire gratuitamente la casa di riposo di Aiello, come molti in difficoltà nel reperimento dei presidi in quel momento così tragico. La cooperativa Nemesi non ha però perso tempo, reperendo materiali e facendoli testare dall’Arpa in tempi record, mettendo in rete anche la capacità produttiva della sartoria del Nazareno, con i suoi ragazzi preparati a dovere. Così è stata lanciata la linea di mascherine lavabili socialmente sostenibile Regina (Senza Corona) distribuita in molti punti vendita della Bassa friulana, del Monfalconese e del Goriziano.


Migranti: il coronavirus non ha fermato la rotta balcanica ma in tre mesi non ho visto neanche un caso di contagio di Ismail Swati

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a natura, diventata nuovamente aggressiva questa volta sotto forma di coronavirus, non solo ha disturbato le grandi economie del mondo, ma ci ha anche mostrato il nostro atteggiamento verso gli altri esseri umani e l’ambiente generale. Il virus ci ha insegnato che in un’epoca di transizione scientifica e tecnologica, la natura umana è sempre la stessa di prima, con i poveri che hanno sofferto più degli altri. Durante la pandemia e il lockdown, cercavamo cibo e un luogo sicuro. Io ho avuto l’opportunità di interagire e lavorare con un gruppo di emarginati durante l’intera emergenza sanitaria nazionale a Trieste. Nella fase iniziale dell’emergenza, stavo lavorando con le i senza tetto. Inizialmente dormivano in tre diverse strutture a Trieste, organizzate dalle Onlus ICS e Caritas in collaborazione con il comune di Trieste con il programma “Emergenza Freddo”. In due strutture c’era la possibilità di rimanere di giorno, ma nella terza era permesso solo dormire di notte. Durante il mio turno di lavoro notturno chiacchieravo con loro, e ascoltavo le loro storie tristi. Mi dissero che quelli che non avevano un posto dove stare durante il giorno, si nascondevano dalla polizia per non ricevere multe e avevano difficoltà a trovare cibo a causa della chiusura delle attività commerciali. Anche entrare nelle strutture non era facile, dovevano passare al “Centro assistenza”, che era un piccolo ufficio nella stazione in cui gli operatori dovevano registrarli concedendo loro 3 o 4 notti. Dopo aver passato l’ultima notte nella struttura, ripetevano la procedura iniziale, e coloro che rimanevano non registrati dovevano dormire sotto le stelle. Gradualmente, durante l’emergenza sanitaria, l’aumento di immigrati lungo

la rotta balcanica ha reso difficile la gestione. A Trieste, più persone sono state trovate a dormire in strada. Nel frattempo, il governo aveva approvato il decreto che imponeva la quarantena, per cui ogni straniero doveva restare in isolamento una volta entrato nel territorio nazionale. L’amministrazione comunale triestina ha aperto a tale scopo diverse strutture tra cui Villa Nazareth, il campo scout di Prosecco, Casa Malala a Monrupino e Hotel Transilvania a Fernetti. Le persone hanno trascorso in questi luoghi il periodo di quarantena, chiamato isolamento fiduciario e gestito dall’ICS e dalla Caritas.

L’accoglienza è stata diversa. Le persone rintracciate dalla polizia di frontiera venivano identificate, rilevate le impronte digitali e quindi trasportate nelle strutture. Chi si presentava in Questura per l’asilo, veniva portato dalla polizia o attraverso l’associazione. Durante questa fase, ho interagito con persone di diverse nazionalità. Gran parte di loro pensavano di finire la quarantena e trasferirsi poi in altri stati del nord Europa per tentare la fortuna. Ma alcuni erano anche interessati a rimanere in Italia. Mi hanno raccontato le loro drammatiche storie di viaggio. Molti erano stati brutalmente torturati o avevano dovuto subire violenze e respingimenti da parte della polizia croata. Mi hanno mostrato ferite e lesioni riportate. Ho anche incontrato alcune persone che erano state respinte dalla polizia italiana in Bosnia, Croazia e Slovenia e a fatica

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avevano raggiunto l’Italia per la seconda volta. In Italia ci si chiedeva: c’è la possibilità di contagi COVID-19 dalla rotta balcanica? Beh, lavorando negli ultimi tre mesi, non ho visto nemmeno un singolo caso di paziente infetto. Il dipartimento di prevenzione insieme agli altri enti preposti gestivano con seria responsabilità gli isolamenti fiduciari. Se una persona aveva la febbre o presentava sintomi sospetti, gli operatori dell’accoglienza lo tenevano in una stanza separata, quindi venivano fatti i tamponi e, fino al risultato finale, la persona restava isolata. Come ho detto, molti di loro avevano attraversato i Paesi balcanici, dove vi erano pochi casi di Covid-19, e quindi probabilmente avevano avuto meno possibilità di contrarre il virus. Durante la quarantena gli operatori offrivano i pasti all’interno. Due volte alla settimana, venivano i medici dell’associazione Donkisciotte a visitare coloro che avevano problemi di salute. Un avvocato forniva assistenza legale spiegando ai migranti i nuovi emendamenti alle leggi europee in materia di asilo. Dopo 14 giorni, la prefettura li trasferiva nelle altre città d’Italia con gli autobus, e li faceva entrare nel sistema dell’accoglienza. Ho notato che con l’ingresso di massa durante l’emergenza sanitaria, l’amministrazione di Trieste ha preso seriamente e prontamente la responsabilità di gestirla con attenzione, cosa che non era avvenuta tre anni prima in una situazione normale a Gorizia, quando gli immigrati dormivano in Galleria Bombi e la situazione era drammatica . Il senso di responsabilità e le buone azioni politiche potrebbero portarci ad avere un mondo migliore. Se non agiamo per i gruppi emarginati, le pagine della storia mostreranno i nostri errori come la schiavitù e le violenza passate.

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Il premio Amidei non tradisce mai: anche “in emergenza” 11 serate sazieranno al parco Coronini la voglia di cinema di Vincenzo Compagnone

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ell’incerta estate post-emergenza Covid, contrassegnata da tante cancellazioni di eventi (o spostamenti on line in forma sperimentale, come nel caso di èStoria o del “Libro delle 18.03”) a sopravvivere, a Gorizia, allo tsunami causato dal virus sarà il premio Sergio Amidei. La 39ma edizione della rassegna cinematografica dedicata ai migliori sceneggiatori si terrà regolarmente nella cornice del Parco Coronini, sia pure con le regole imposte dal distanziamento interpersonale che comporteranno il taglio di oltre un centinaio di spettatori (da 480 a 350 circa). Il patron del Premio, Giuseppe Longo, per saziare la “voglia di cinema” maturata negli appassionati del grande schermo durante i mesi del lockdown, ha deciso inoltre di allungare di quattro giorni la kermesse, già prevista da giovedì 16 a mercoledì 22 luglio. Le serate al Parco di viale XX settembre diventeranno così undici, dal 16 a domenica 26. Ai 7 film in concorso, selezionati dalla giuria romana in maggio, rigorosamente in videoconferenza, si aggiungeranno tre pellicole scelte dagli organizzatori fra quelle di maggior successo al box-office nella passata stagione più una che simboleggerà la sezione “Amidei Kids”, il 17 luglio: “La famosa invasione degli orsi in Sicilia”, omaggio anche ad Andrea Camilleri, a un anno dalla morte, voce narrante del film d’animazione. Si tratterà, ovviamente, di un’edizione dell’Amidei non così fitta come quelle alle quali ci eravamo abituati negli ultimi anni, con un’infinità di retrospettive e rassegne a tema ospitate nel chiuso del Kinemax. In pratica, alle sale cinematografiche di piazza Vittoria, pur riaperte dal 9 luglio, si ricorrerà soltanto nel caso in cui qualche film in programma al Parco Coronini dovesse saltare a causa del maltempo. D’altra parte, i protocolli governativi prevedono una capienza massima di 200 persone, per cui è possibile, in questa eventualità, che qualcuno sia costretto a rimaner fuori dalla sala 1, la più grande, interessata in giugno da lavori di ammodernamento dell’impianto luci. Un’altra novità che forse farà storcere il naso a qualcuno è che quest’anno l’ingresso alle proiezioni al Parco sarà a

pagamento, come avveniva ai tempi in cui il premio Amidei si teneva al teatro Tenda del Castello. Il costo del biglietto sarà comunque talmente contenuto (tre euro: un piccolo segnale di sostegno al mondo del cinema) che non dovrebbe rappresentare un deterrente per l’afflusso, coordinato dagli addetti alla biglietteria e all’accoglienza a partire dalle 20.15 di ogni serata, alla sempre suggestiva oasi verde di viale XX settembre. Il nome del vincitore del premio Amidei sarà, come sempre, tenuto nascosto fino alla serata di chiusura della manifestazione. Si conoscono già, invece, i nomi di coloro che si sono aggiudicati il premio all’Opera d’autore e il premio alla Cultura cinematografica. Il primo è stato assegnato ai fratelli belgi Jean Pierre e Luc Dardenne, registi e sceneggiatori vincitori per due volte della Palma d’oro al festival di Cannes con “Rosetta” (1999) e “L’enfant-Una storia d’amore” (2005). Il loro lavoro più recente è “L’età giovane”, uscito lo scorso anno. I fratelli Dardenne non verranno per ora a Gorizia: riceveranno il premio in un incontro speciale che verrà organizzato nel prossimo inverno, con una tavola rotonda e una retrospettiva delle loro opere più significative. Lo stesso vale per il destinatario del premio alla Cultura cinematografica: si tratta di Walter Veltroni, politico, giornalista, scrittore e regista avendo realizzato ben 6 documentari e un film. Anche a Veltroni sarà dedicato un evento nei mesi autunnali. Ci sarà inoltre qualche iniziativa collaterale al festival, come un incontro, che si terrà sempre al Parco Coronini alle 18 del 17 luglio, con Nicola Manupelli, scrittore che ha firmato di recente il

libro “A Roma con Alberto Sordi. Da Trastevere a Kansas City”. Si tratta di una simpatica guida di Roma attraverso l’Albertone nazionale, di cui ricorrono quest’anno i cent’anni dalla nascita, i suoi personaggi, la sua vita e le sue pellicole. Verrà, inoltre, presentato un saggio, a cura di Andrea Mariani e Simone Dotto, incentrato su un epistolario che intercorse tra i critici cinematografici Ugo Casiraghi (che visse a Gorizia dal 1979 al 2006, anno della morte, e al quale è intitolata la Mediateca) e Glauco Viazzi. Saranno anche proiettati dei brevi filmati appartenenti al ricchissimo archivio della Mediateca “Ugo Casiraghi”. “In definitiva – spiega Giuseppe Longo – questa 39ma edizione del Premio Amidei sarà frammentata in tanti singoli eventi che partiranno con le 11 serate del concorso per poi proseguire con altre iniziative – minirassegne, incontri, presentazione di libri con proiezioni tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021, in una sorta di progressivo avvicinamento all’importante traguardo della 40ma edizione in programma nel 2021, anno in cui ricorreranno anche i 40 anni dalla scomparsa di Sergio Amidei (14 aprile 1981) e nella quale è previsto tra l’altro un grande omaggio a Darko Bratina e Nereo Battello, che guidarono l’associazione Sergio Amidei prima dell’attuale presidente, Francesco Donolato”. Aggiunge lo stesso Donolato: “Perderemo la manifestazione festivaliera concentrata in una settimana, ma penso che sarà interessante dilatare la diffusione della cultura cinematografica con tanti eventi spalmati da settembre all’edizione del quarantennale”.

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Giuseppe Longo con Carlo Verdone davanti al pulmino di Zoran in una foto di archivio

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I FILM IN PROGRAMMA In concorso:

1) Hammamet (Italia, 2020). Sceneggiatura: Gianni Amelio, Alberto Taraglio. Regia di Gianni Amelio. 2) I miserabili (Francia, 2019). Sceneggiatura: Lady Li, Giordano Gederlini, Alexis Manenti. Regia di Lady Li. 3) Lontano lontano (Italia/Francia, 2019). Sceneggiatura: Marco Pettenello, Gianni Di Gregorio. Regia di Gianni Di Gregorio. 4) L’ufficiale e la spia (J’accuse, Francia/Italia, 2019). Sceneggiatura: Robert Harris, Roman Polanski. Regia di Roman Polanski. 5) Martin Eden (Italia/Francia, 2019). Sceneggiatura: Pietro Marcello, Maurizio Braucci. Regia di Pietro Marcello 6) Ritratto della giovane in fiamme (Potrait de la jeune fille en feu, Francia, 2019). Sceneggiatura: Cèline Sciamma. Regia di Cèline Sciamma. 7) Sorry we missed you (Gran Bretagna/Francia/Belgio, 2019). Sceneggiatura: Paul Laverty. Regia di Ken Loach. Fuori concorso: - La famosa invasione degli orsi in Sicilia (La fameuse invasion des ours en Sicile, Francia/Italia 2019) film d’animazione di Lorenzo Mattotti – Omaggio ad Andrea Camilleri - Parasite (Corea del Sud, 2019, Palma d’oro al festival di Cannes) di Bong-Hoon-Ho - Jojo Rabbit (Nuova Zelanda, Stati Uniti, Germania, 2019. Premio Oscar per la miglior sceneggiatura non originale) di Taika Waititi. - Richard Jewell (Stati Uniti, 2019) di Clint Eastwood (omaggio ai 90 anni dell’attore e regista). MODALITA’ D’INGRESSO Come abbiamo scritto nella pagina a fianco, per assistere quest’anno alle proiezioni del Premio Amidei bisognerà pagare un biglietto d’ingresso del costo di tre euro, con posto assegnato. L’ingresso serale al Parco Coronini prevederà quindi una tappa obbligatoria alla biglietteria ubicata all’interno dell’area verde, presso le ex Scuderie. La mappa dei posti verrà definita giornalmente nel rispetto delle regole di sicurezza vigenti. L’ingresso al Parco dovrà avvenire preferibilmente dall’accesso principale di viale XX settembre, e sarà coordinato dagli addetti alla biglietteria e all’accoglienza a partire dalle 20.15 di ogni serata, vale a dire un’ora prima dell’inizio delle proiezioni. Ogni film sarà preceduto da un “promo” di Controvirus, la prima edizione on line di èStoria in programma dal 24 luglio al 7 agosto.

I Fratelli Dardenne

Walter Veltroni

Il Premio all’Opera d’autore 2020 – una delle tre sezioni portanti della manifestazione – è stato assegnato ai fratelli belgi, registi e sceneggiatiori, Jean-Pierre e Luc Dardenne. A loro attivo figurano, oltre a numerosi documentari, alcuni film, tra i quali due premiati con la Palma d’oro per il miglior film al Festival di Cannes: “Rosetta”, del 1999, e “L’Enfant – Una storia d’amore” del 2005. Tra i loro ultimi lavori, “Il ragazzo con la bicicletta”, che si è aggiudicato il Grand Prix speciale della giuria al Festival di Cannes del 2011, nonché otto candidature ai premi Magritte 2012, vincendo il premio per la miglior promessa maschile. Sono gli unici ad aver vinto per quattro volte il premio Andrè Cavens. Caratteri distintivi del cinema dei fratelli Dardenne sono il basso costo della produzione, il crudo realismo della narrazione, gli attori spesso e volentieri non professionisti. Collaborano spesso con gli attori Jeremie Renier, Olivier Gourmet e Fabrizio Rongione.

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Il premio alla Cultura cinematografica è stato attribuito a Walter Veltroni, politico – è stato il primo segretario del Partito democratico -, giornalista, scrittore e regista avendo realizzato ben 6 documentari (“Quando c’era Berlinguer” nel 2014, “I bambini sanno” nel 2015, “Milano 2015”, con altri registi, nello stesso anno, “Gli occhi cambiano” nel 2016, “Indizi di felicità” nel 2017, “Tutto davanti a questi occhi”, intervista a Sami Modiano, sopravvissuto ad Auschwitz, nel 2018) e il film “C’è tempo”, nel 2019. Sono numerosi i fili che legano Veltroni a Sergio Amidei. Nel periodo in cui fu sindaco di Roma, l’uomo politico intitolò infatti allo sceneggiatore una via di Roma e una delle sale della Casa del cinema a Villa Borghese, sempre nella capitale. Inoltre Veltroni era direttore dell’Unità quando Ugo Casiraghi vi scriveva (anche da Gorizia, dove si era trasferito) le sue recensioni cinematografiche.


Omaggio a Stanic, il don Milani dell’Ottocento che fondò a Gorizia il primo “Istituto per sordomuti” di Andrea Bellavite

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i è svolto alla fine dello scorso giugno un semplice ma molto intenso raduno, grazie all’iniziativa del Kulturni dom di Gorizia che ha invitato la cittadinanza a ricordare Valentin Stanič (1774-1847), autentico poliedrico genio. Pochi saprebbero riconoscere il cortile dove si è svolta la cerimonia, se non gli studenti che frequentano ogni giorno l’Istituto scolastico di via Italico Brass. E anche la maggior parte di questi non saprebbe rispondere alla domanda su cosa ci faccia una chiesa nel cortile di una scuola. Eppure il luogo è storico e parla di una delle personalità più geniali della storia di Gorizia, ricordata con parole ricche di emozioni e contenuti dal direttore del Kulturni Igor Komel, dal giornalista-alpinista Vlado Klemše e da me. Nato a Bodrež, Stanic è stato un autentico “costruttore di ponti”, non solo in senso metaforico, ma anche pratico, essendosi adoperato e avendo collaborato al disegno del primo bel ponte che ha collegato le due sponde del fiume nel vicino paese di Kanal ob Soči. Ha lasciato il segno del suo passaggio a Salzburg, dove ha studiato e in diversi altri luoghi dell’Impero asburgico. Si è avvicinato alla Natura, con una speciale passione per la montagna. Tra i primi alpinisti sulla vetta del Gros-

sGlockner, ha conquistato diverse vette, tra le quali il Watzman e molte altre, nelle Giulie e nelle Carniche. Per lui l’arrampicata non era un semplice gesto sportivo, ma un’espressione di amore per i paesaggi naturali. Ha fondato una delle prime associazioni ambientaliste d’Europa, in particolare finalizzata alla tutela degli animali, dimostrando una straordinaria sensibilità verso il mondo degli esseri viventi nel loro insieme. Diventato sacerdote, ha potuto esercitare il suo ministero in ambienti molto poveri, sull’altopiano della Bajnšice e a Ročinj, piccolo borgo a nord di Kanal. La sua grande preparazione gli ha consentito di essere un grande educatore e maestro, donando la dimestichezza con la parola ed elevando il tenore culturale di quei piccoli paesi. Nominato canonico, Valentin giunge a Gorizia nel 1819 e vi resta fino alla morte, non certo per trascorrere una tranquilla pensione. Colpito dall’emarginazione sopportata dalle persone con difficoltà uditive, fonda nel 1840, da ispettore scolastico, un istituto, il primo in regione (gestito poi direttamente dall’amministrazione provinciale e chiuso nel 1989 dopo aver ospitato sino a 120 persone, ndr) per coloro che fino a non molto tempo fa venivano ancora definiti “sordomuti” - il termine oggi è obsoleto, essendo stato cancellato già da una legge del 2006 e sostituito da quello di “sordi”, in segno di maggior rispetto e comprensione. Per loro crea uno spazio di apprendimento, ma anche di

introduzione al lavoro, di socializzazione e di ricreazione. Tra le altre attività, il sacerdote di Bodrež realizza anche una rudimentale tipografia, per tradurre in linguaggio scritto la nobiltà della parola orale. Insomma, per la sua attività di prete maestro, si potrebbe definire un “don Milani” dell’800. Purtroppo Gorizia non ha ricordato a dovere questo suo importante personaggio, come prete appartenente alla tradizione religiosa del popolo sloveno, a metà strada tra il predicatore protestante Primož Trubar e il dolce poeta Simon Gregorčič. Mentre in Germania è dedicato al suo nome il più importante premio alpinistico nazionale e in Slovenia sono stati realizzati lapidi e busti in suo onore, oltre che un sentiero che porta il suo nome e che collega Solkan con Kanal attraverso le creste del Sabotin e del Korada, a Gorizia invece c’è solo un piccolo parcheggio a lui dedicato in via Brass. un semplice gesto di riconoscenza dovuto al benemerito sforzo di Aldo Rupel e della commissione toponomastica della giunta Brancati. “Il Comune di Gorizia, ma anche l’Arcidiocesi isontina, la Consulta comunale per la comunità slovena e le associazioni slovene l’Unione culturale economica slovena (Skgz) e il Consiglio delle organizzazioni slovene (Sso)”, come è stato ribadito, in conclusione della cerimonia, ribadito dal direttore del Kulturni dom, Igor Komel “dovrebbero certamente pensare a qualche segno finalizzato a una memoria più ampia e più degna al genio Valentin Stanič”. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

TOP FIVE Libreria Ubik 1) “A Roma con Alberto Sordi” (Nicola Manuppelli) 2) “Nero ferrarese” (Renzo Mazzoni) 3) “Figli della primavera” (Wallace Thurman) 4) “L’enigma della camera 622” (Joel Dicker) 5) “La strada di casa” (Kent Haruf)

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Un momento della commemorazione di Valentin Stanic

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1) “Gigaton” (Pearl Jam) 2) “Ordinary man” (Ozzy Osbourne) 3) “Viceversa” (Francesco Gabbani) 4) “Il concerto ritrovato” (Fabrizio De Andrè) 5) “Che vita meravigliosa” (Diodato)


E ora vi spiego perché insieme ce la faremo. O forse no di Giorgio Mosetti

d’uomo. Settimane nelle quali, costrette a riflettere su sé stesse e sulla vita in generale, le persone hanno reagito rivelando il loro lato migliore, quello dell’altruismo, e riesumando dai meandri più profondi della propria natura quell’Umanità che, nella frenesia della vita moderna, era per i più andata smarrita. “Uniti ce la faremo”, “Ne usciremo migliori”, “Nessuno resterà indietro”, “Tutti faremo la nostra parte per un bene comune”, “Viva le Frecce Tricolori”. E via così. Puah, tutta immondizia, mi dicevo. Tipico degli esseri umani. Leggevo e vomitavo. Ascoltavo e vomitavo. Guardavo. E ancora vomitavo. Perché dentro di me – con non poca goduria, lo ammetto - ero assolutamente certo del dissolvimento di sì tanta ipocrisia non appena si fosse tornati a una vita normale. Lascia che il tran tran quotidiano riprenda, mi dicevo, e vedrai che bella fine farà tutto questo sviolinare. Ecco, il mio errore è tutto qua. Nell’aver snobbato, per non dire schernito, tale atteggiamento. Nell’averci visto la solita manfrina da social, la rivoltante “propaganda” di facciata e la disgustosa simulazione opportunistica che ho sempre scorto nelle persone che mi hanno circondato nei miei settant’anni di vita, persone nelle quali il divario tra le parole e le azioni può raggiungere livelli di ampiezza e profondità da ridicolizzare persino la Valles Marineris.

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o so, non sono mai stato granché attendibile nelle mie previsioni, e a quanto pare anche questa volta non c’ho azzeccato. Però, e credo che di questo mi si debba dare atto, non ho mai avuto alcun problema ad ammettere i miei errori. E in questo frangente riconosco di averne commesso uno bello grosso. Il fatto è che durante la quarantena ho assistito con non poco scetticismo e un bel po’ di disgusto alle manifestazioni, per lo più digitali, di solidarietà reciproca. Un’ondata di altruismo, senso di appartenenza e spirito di corpo collettivo ci ha travolto, unendoci - sebbene in quelle prime settimane di quarantena solo a parole - nella lotta contro un tipo di nemico che noi occidentali, pasciuti e viziati quali siamo, non ci trovavamo ad affrontare su così larga scala a memoria

Poi la vita è ripresa. La gente ha ricominciato ad uscire. Prima per una passeggiata o una corsetta, poi per portare i bimbi al parco. Poi il lavoro. I primi negozi hanno tirato su le serrande e le fabbriche e i cantieri sono ripartiti. Hanno aperto le spiagge e i bar, l’aperitivo è tornato a essere un appuntamento inderogabile, ed è ricominciato persino il campionato di calcio. Insomma, il mondo ha ripreso a girare, seppur zoppicando, seppure malconcio. E forse proprio per contrasto, a molti sono apparsi ancor più evidenti i danni economici causati dalla chiusura. Certe persone hanno perso il lavoro, altre rischiano di perderlo nei prossimi mesi. Altre ancora hanno rinunciato a ripartire con la propria attività. Ebbene, in tutto questo io, con il cinismo che mi contraddistingue, li ho aspettati al varco, pronto a ridermela sotto i baffi al primo accenno di ripensamento, e a sghignazzare di gusto al primo sentore di “guerra totale”, di “tutti contro tutti”. Perché la razza umana, al di là di tutti i titoli altisonanti che autoreferenzialmente si attribuisce, è

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fatta così, pronta a sbranare anche i suoi simili pur di difendere il proprio orticello, tanto più nei momenti di carestia. E invece che succede? Succede che il mondo mi sorprende. Succede che proprio quelle persone che io attendevo alla prova del nove, improvvisamente rivelano un’inaspettata generosità. Contro ogni logica umana, ho visto il protrarsi dello spirito di riconoscenza nei confronti di medici e operatori sanitari. Perché, come tutti avevano detto, solo insieme ce la faremo. Ho visto persone, tanto di destra quanto di sinistra, diventare più tolleranti verso i governanti avversi, riconoscendo le difficoltà di operare in una situazione così ignota. Perché insieme ce la faremo. Ho visto lavoratori a stipendio garantito tagliarsi volontariamente parte del proprio compenso pur di aiutare chi ne era rimasto sprovvisto. Perché insieme ce la faremo. Ho visto persone rinunciare di buon grado alle sigarette e alla benzina in Slovenia pur di aiutare tabaccai e benzinai. Perché insieme ce la faremo. Ho visto cittadini e professionisti accettare l’inaccessibilità a molti uffici pubblici, e fare diligentemente la fila senza protestare in quelli aperti a mezzo servizio. Perché insieme ce la faremo. Ho visto cittadini indulgenti verso le lentezze dell’Inps o delle regioni. Perché insieme ce la faremo. E mamme altrettanto indulgenti nei confronti delle scuole chiuse. Perché insieme ce la faremo. Ho visto persone disposte a pagare di più alcuni prodotti, pur di garantire il recupero di quanto perso da altre. Perché insieme ce la faremo. E accettare con pazienza prestazioni e servizi, per ovvi motivi a rilento. Perché insieme ce la faremo. Ho visto lavoratori non lamentarsi delle ferie forzate, accettando con senso di responsabilità un’estate priva di vacanze, pur di dare una mano al proprio datore di lavoro. Perché insieme ce la faremo. E sindacati abbracciare la solidarietà, rinunciando a scioperare in un momento così drammatico per il Paese. Perché insieme ce la faremo. Ho visto infine consiglieri comunali tagliarsi i gettoni di presenza, pur di aiutare chi non ce la fa. Perché noi amiamo la nostra città. Ma soprattutto, ho visto persone che odiavano il calcio non odiarlo più. Perché, si sa, la palla è rotonda. Insomma, per farla breve, ho commesso un errore madornale. Vi ho sottostimato. E di ciò mi scuso profondamente. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


L’albero della canfora in una villetta di via Manzoni di Liubina Debeni

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al verde pubblico al verde privato. Anche pochi metri di giardino attorno a una casetta possono ospitare fiori e piante. Ci vuole amore per la natura e a volte curiosità di scoprire e sperimentare, coltivando piante meno usuali ed originarie di Paesi lontani. Passeggiando per città e osservando attraverso le recinzioni dei giardini potremo fare delle scoperte interessanti. Utile è portare con se la macchina fotografica o il cellulare per poi, a casa, cercare di identificare la pianta con l’aiuto di buoni libri o internet. Non sempre è così immediato ed allora bisogna ritornare sul posto in varie stagioni dell’anno per poterla identificare grazie ai suoi fiori, frutti, foglie, corteccia del tronco. Io lo faccio e funziona.

padronali di fine ‘800 o inizio ‘900 che hanno ancora su un rialzo di terreno, un semplice fabbricato o un terrazzamento posto in un luogo dal quale si gode una bella vista sul panorama circostante. Ora si presentano più o meno conservati nella loro struttura originaria. La posizione rialzata dava la possibilità alle donne di famiglia, nei momenti di riposo domenicale, di godere della vista del pubblico passeggio cittadino e del fresco nel periodo estivo. Da qui le ragazze di allora, mentre leggevano o ricamavano, potevano dare uno sguardo al mondo circostante e, chissà, forse riuscivano a scambiare sguardi con aitanti giovanotti che passavano. Riguardo a questa villetta, per rendere ombroso il luogo, in un rialzo di grosse pietre erano stati piantati tre alberi: un pino da pinoli, una pianta di alloro e l’albero della canfora che è una pianta originaria della Cina e Giappone. Non si sa come mai il proprietario d’allora - un ingegnere - avesse scelto un albero così particolare. Ricordo di un viaggio? Questo albero sempreverde, che ha una crescita molto lenta, può raggiungere i 20 metri d’altezza e potrebbe vivere, in condizioni ideali, centinaia di anni. Questo esemplare si presenta con più tronchi molto grossi ed è divenuto un maestoso albero la cui chioma trasborda dalla recinzione. Interessante è osservarlo nel periodo della fioritura, in aprile, con i suoi piccoli fiori giallo biancastri e in agosto, quando maturano i frutti, non eduli, prima verdi e poi neri con all’interno il seme. Si può sentire il suo forte odore di canfora anche stropicciando le foglie o i suoi piccoli frutti. La canfora estratta dal legno e dalle foglie con distillazione era molto usata nell’antica medicina cinese per le sue virtù purificatorie, antalgiche, antisettiche. Venivano fatte fumigazioni, unzioni, impacchi, polverizzato e inalato. In dosi minime, perché è tossico a dosaggio

Un albero da scoprire: albero della canfora - Cinnamomum camphora. Ubicazione: Gorizia, via Manzoni 7, giardino privato Tra storia, botanica e curiosità - Questa villetta venne edificata negli anni venti del ‘900 e, come si usava allora, sul confine del giardino che guardava la strada principale venne costruito un “belvedere” in muratura cinto da un parapetto di colonnine Se fate una camminata per Gorizia vedrete altri giardini di case

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elevato. Ancora adesso il suo olio viene utilizzato per fare massaggi contro i dolori reumatici. Il legno bruciato durante le cerimonie religiose emanava un fumo molto profumato. Veniva bruciato anche durante le epidemie di tifo o di colera per ridurre il pericolo di contagio. (problema purtroppo attuale). La canfora era uno dei tanti prodotti vegetali rinomati per la loro fragranza e anticamente veniva trasportata tramite carovane dalla Cina in Europa attraverso le numerose vie commerciali che univano le province dell’estremo nord della Cina ai porti mercantili del Mediterraneo che dopo il VII secolo a. C. erano sotto l’egida di Roma. Attraverso la storica Via della Seta arrivavano con i carovanieri cinesi spezie, pietre preziose, oro, tessuti, inchiostro di china, gemme ma anche la loro cultura, credenze religiose e conoscenze. Una curiosità: il primo europeo che vide l’albero della canfora fu Marco Polo, che viaggiò in Cina nel tredicesimo secolo. Le donne di casa avranno sicuramente utilizzato la canfora in cubetti o polvere riposta negli armadi come potente antitarmico, ma purtroppo anche molto odoroso. Se avete fortuna di possedere una cassapanca fatta con legno di canfora avete risolto il problema delle tarme nei capi di lana. Chi desiderasse comprare un albero della canfora deve rivolgersi a vivaisti del centro-sud Italia dove questo albero è più conosciuto e utilizzato nei giardini e quindi più pubblicizzato. Ah, esiste ancora un albero della canfora a Gorizia... a voi scoprirlo! (2- continua) ©RIPRODUZIONE RISERVATA


Isonzo: dalla spiaggetta dei pali al “ghiaion”, un viaggio nei luoghi canonici di chi scendeva al fiume per pescare di Lucio Gruden

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Isonzo è parte della nostra cultura sotto tanti punti di vista. La storia è passata da queste parti più volte, mettendo a ferro e fuoco il territorio e le acque che lo bagnano. Per i goriziani è sempre stato un luogo della mente, dell’amore e della poesia. Ha ispirato Giuseppe Ungaretti e la sua poesia “I fiumi”, e altrettanto accadde a Simon Gregorcic, che dedicò al fiume la sua poesia più famosa, “All’Isonzo”. Ma è stato anche luogo di pesca per generazioni di goriziani che hanno attribuito alle sue vie di accesso dei nomignoli dialettali, strettamente codificati. Ripercorrerli oggi forse costituirà un tuffo al cuore per qualcuno, oppure un viaggio rivelatore per chi li sentiva citare spesso senza sapere però dove collocarli esattamente. Il tratto di fiume considerato goriziano tra i pescatori della città parte dal confine di Salcano e si snoda fino alla confluenza con il Vipacco, nel comune di Savogna. Pescare “in alta” significava interessarsi al tratto al quale si accedeva da via degli Scogli, scendendo nella proprietà della famiglia Cavallari, nota anche per la trattoria agli Scogli, dove si ballava all’aperto e si beveva birra nel verde, in un angolo di pace. Dal piazzale si risaliva la sponda nel bosco fino al confine, intervallando luoghi di pesca storici come “la spiaggetta dei pali”, lo spiazzo “di fronte alla frana” e la celebre “curva”. Questo tratto era tutto connotato come Regime particolare di pesca e prevedeva il solo uso di esche artificiali (mosca o spinning) e poi l’obbligo del no kill, con necessario rilascio del pescato. Qui la facevano da padroni il temolo, un principe purtroppo decaduto, e la grande regina, la trota marmorata che è specie autoctona, anch’essa in via di estinzione. L’alba, qui, donava attimi indimenticabili, con fragori boschivi, tintinnio di acque e caprioli, volpi e altra fauna selvatica che veniva ad abbeverarsi. La sponda opposta invece era raggiungibile da “sotto San Mauro”, attraversando la proprietà dei Barnaba, nella parte più a monte, mentre a valle si arrivava da Piuma, infilandosi in un paio di viottoli scoscesi all’altezza dell’attuale Remuda. Per non dire poi dei tramonti, in cui il pescatore a mosca praticava la disciplina più nobile, immerso nel fiume fino

alla vita per volteggiare con la coda di topo, ma soprattutto calato nella magia del coup du soir, il culmine del giorno connotato dal volo e ammaraggio di sciami di insetti acquatici che facevano impazzire temoli e trote, artefici di fragorose bollate, cioè di brecce aperte a filo d’acqua per nutrirsi di questi insetti posati sul velo del fiume. Che entusiasmo, quanta trepidazione e che simbiosi profonda tra l’uomo e madre natura. Scendendo la via degli Scogli si arrivava al “cancel de ferro”, un vecchio cancello arrugginito e sempre aperto da cui si passava nella proprietà della famiglia Bensa per scendere “alla tetta”, uno scoglio a forma di seno di donna da dove si pescava a fondo. Passato il ponte di Piuma, sempre da sponda sinistra, si scendeva “sotto via Cordaioli” dove oggi vi sono i giardinetti e all’epoca c’era una macchia di bosco. Proseguendo si arrivava alla “rosta” e al “canal della central” dove si poteva pescare stando comodamente seduti in automobile. Sotto la passerella tra le due sponde c’era il mitico “quadrato”, luogo vietato alla pesca in

cui però alcuni bracconieri sfidavano la sorte soprattutto all’alba: si narrano di alcune storiche catture e anche delle fughe dai guardapesca, con attraversamento del fiume a nuoto in pieno inverno e classico gesto finale dell’ombrello. Sempre sulla sponda sinistra si attraversava poi il Corno, una cloaca a cielo aperto, per entrare nella proprietà ex Safog e raggiungere il fiume “sotto la Safog” dove c’erano dei giri d’acqua per provare la cattura di qualche grossa trota, con l’esca viva e al mattino presto. Si scendeva invece alla spiaggetta di fronte da “drio el monumento” di Piedimonte, oppure, più a valle, da “drio del cotonificio”, mentre tornando alla sponda sinistra a valle si accedeva a uno dei posti più belli, chiamato “là della Lisa”, di fronte all’allora trattoria dalla Lisa che oggi non c’è più. Quindi il ponte della ferrovia e il ponte VIII agosto, interdetto alla pesca per un

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tratto. Da sinistra si accedeva al fiume “drio l’Espomego”, mentre dalla sponda destra si arrivava “là dell’agro”, oppure, più a valle, andando “alle casematte”. La sponda sinistra risaliva e dove il fiume fa la curva di Campagnuzza si accedeva da “drio de la cesa” e più a valle da “sotto el scovazzon”, nell’abitato di Sant’Andrea. Il luogo era così chiamato perché negli anni sessanta c’era uno scivolo per lo smaltimento del pietrisco edile, anche se in realtà c’era chi buttava giù di tutto, comprese lavatrici e divani: un scovazzon, appunto. Più a valle c’era un altro accesso chiamato “sotto el ponte de Vriz” e si passava dall’omonima ex cava di ghiaia. Di fronte invece c’era “el ghiaion”, una splendida spiaggia alla quale si accedeva da alcuni viottoli di campagna sulla Mainizza. Scendendo sempre dalla sponda destra si arrivava all’accesso “drio la Ford” sempre dalla Mainizza, percorrendo una stradina dietro al museo dell’automobile voluto dal compianto Paolo Gratton.

Sulla sponda sinistra, infine, c’era l’inserzione del Vipacco nell’Isonzo, in comune di Savogna, e si passava “sotto el ponte dell’autostrada” per arrivare al luogo di pesca chiamato “la punta dell’Isonzo”. Fino a qua i pescatori di città consideravano il fiume come goriziano, poi iniziava la zona di Gradisca e di Sagrado. Oggi tutto è cambiato perché, dopo la costruzione della diga di Salcano, vi sono rilasci d’acqua insufficienti nella stagione calda. Poca vita anche a valle, a causa della centralina elettrica sul canale dell’agro cormonese-gradiscano, che pretende sempre acqua nel canale, anche quando all’agricoltura non servirebbe. Si è rovinato l’habitat naturale ed è stata deturpata anche la fauna alieutica autoctona, che era un vero vanto del luogo. Restano i ricordi. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


Steve Mc Curry e la ragazza afghana dagli occhi verdi: come cogliere l’anima di un soggetto attraverso lo sguardo di Felice Cirulli

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uesta volta voglio provare a parlare della bellezza nella fotografia. Non della bellezza intesa esteticamente, quella glamour o quella iconografica, ma di quella che coincide con ciò che sta all’interno delle persone e che emerge dalle loro espressioni e dai loro gesti, che scaturisce dagli sguardi e dai sorrisi, oppure dai visi malinconici o tristi. Parliamo della bellezza che troppo spesso rimane celata e ed è troppo poco ricercata e resa pubblica da chi avrebbe il potere di renderla esplicita ed evidente, di enfatizzarla e celebrarla. Parliamo della bellezza spesso offuscata dalla cattiveria e dalla crudele ed avida impazienza di emergere a tutti i costi sugli altri, anche a costo di fare del male.

rivista National Geographic, utilizzata sulle brochure di Amnesty International oltre che su poster e calendari. La foto, scattata nel 1984 in un campo profughi di Peshawar (Pakistan) ritrae l’orfana dodicenne Sharbat Gula (che – piccolo aneddoto – venne ritrovata grazie a una spedizione organizzata nel 2002 da Mc Curry (che così potè fotografarla nuovamente a distanza di 17 anni) e da National Geographic. Non si tratta di un ritratto fine a sé stesso, della semplice rappresentazione di un viso di ragazza, ma di un atto che ricerca l’anima di quella ragazza usando il suo sguardo intenso ed i suoi occhi colore del mare come porta d’accesso, adoperando la sua espressione indecifrabile come chiave di lettura di qualcosa che c’è ma che si può scoprire attraverso l’attenta osservazione e l’empatica unione visiva con il soggetto.

Sharbat Gula, ovvero “La ragazza afghana”: il ritratto più celebre della storia della fotografia

obiettivo. Chi non ha mai visto la fotografia di Steve McCurry che ritrae la “ragazza afghana” alzi la mano. Credo sia il ritratto più conosciuto e più celebrato nella storia della fotografia, ricordato come la foto di copertina di giugno 1985 della

Vorrei provare a rivelare quanto sia possibile descriverla e raccontarla attraverso un semplice ritratto. Quanto il viso di una persona, uomo o donna, vecchio o bambino siano in grado di comunicare la loro interiorità attraverso un’immagine che li ritrae in modo semplice e autentico, purché il fotografo sia in grado di cogliere l’anima dei soggetti che si pongono di fronte al suo

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Come per gran parte delle sue fotografie, non siamo di fronte ad un semplice ritratto ma bensì al cospetto di un racconto che cerca di coinvolgerci emotivamente ed immergerci in un ambiente che non conosciamo se non per sentito dire o per le cronache che abbiamo ascoltato o letto distrattamente durante lo scorrere della nostra routine quotidiana. Gran parte delle immagini di Steve McCurry rappresentano porzioni di una storia e di un viaggio. Ogni suo scatto è un gesto d’amicizia verso il suo pubblico ed i suoi estimatori nel tentativo di prenderli per mano e condurli nei luoghi da lui stesso percorsi e vissuti con l’intensità di chi vuole comprendere, con la forza di chi vuole comunicare la verità, con l’amore di chi sente il bisogno di


sottolineare e portare alla luce situazioni sconosciute ai più.

no, per mezzo del volto di un essere umano.

McCurry è forse il fotografo più conosciuto dei nostri tempi. Nato negli Stati Uniti, a Philadelphia nel 1950, ha fatto della sua ricerca antropologica il suo stile di vita e la sua caratterizzazione professionale. Ha poco più di venti anni quando, dopo essersi laureato in cinematografia e teatro, parte per l’India, armato di rullini fotografici e di tanta voglia di viaggiare e conoscere un mondo diametralmente opposto a quello dove è cresciuto.

Quelli di Steve McCurry a volte possono apparire come dei ritratti che puntano molto sull’impatto cromatico ed estetico, ma se non ci si ferma a questo primo approccio si capisce che dietro ogni volto c’è una ricerca finalizzata a raccontare il soggetto ed a disegnarne l’umanità ed il suo vissuto. In poche parole, il suo è un modo di descrivere la condizione umana cogliendone i tratti emblematici e caratterizzanti. Qui il concetto di bellezza non deve più essere inteso come purezza e perfezione estetica ma bensì come presupposto di “comunione” con il soggetto e di comprensione del suo stato d’animo, della sua cultura, della sua storia e della sua ricerca di attenzione.

Nel 1979 viene invitato da un gruppo di profughi afghani in Pakistan ad effettuare un reportage che documenti la loro vita e la lotta contro l’invasione russa. Da questi scatti parte la sua carriera di reporter che lo condurrà in vetta all’Olimpo dei grandi fotografi della storia ed in giro per il mondo a documentare guerre, rivoluzioni, distruzioni e miserie, ma anche meraviglie naturali e luoghi dove l’esistenza scorre pacifica ma distante dai “vezzi” della modernità. In una delle sue frasi (“Se sai aspettare le persone si dimenticano della tua macchina fotografica e la loro anima esce allo scoperto”) è racchiusa tutta la sua attenzione per il mondo che vuole interpretare e comunicare per mezzo delle sue immagini. Il suo talento consiste nel cercare l’immersione nella realtà che intende raccontare, vivendola da dentro prima di provare a comunicarla all’esterno. Spesso gli ambienti dei suoi reportage sono teatri di guerra e di devastazione,

Le immagini, quasi sempre, sono più potenti di mille parole, perché le immagini contengono le parole ma al tempo stesso includono gesti ed espressioni, descrivono contesti, e per questo riescono, spesso, a informare più della parola scritta o parlata, arrivando direttamente alla nostra anima.

ma il suo metodo è quello di cercare in questi luoghi la grazia che ancora si cela sotto le macerie o dietro la rovina. Il suo obiettivo è quello di viaggiare nelle storie dei singoli uomini e donne che popolano questi paesi, di interpretare quanto meglio possibile la normalità e l’essenza vera e genuina, ma sempre con l’occhio attento di colui che vuole ricercare la bellezza anche tra ciò che di bello non ha nulla, almeno alla prima impressione. La fotografia è un linguaggio, ed il linguaggio è uno strumento di comunicazione. Una delle cose più complesse nell’arte della comunicazione è la sintesi. Un bravo fotografo deve possedere il dono della sintesi che si esplicita grazie alla capacità di raccontare una storia attraverso un’unica immagine e, perché

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Qualcuno ha sicuramente presente il concetto di fotografia espresso a suo tempo da Henri Cartier Bresson, con il quale dichiara che un bravo fotografo deve saper cogliere l’attimo e attraverso questo descrivere l’eternità. Il metodo di McCurry è diametralmente opposto. Il suo approccio è fatto di studio e di ricerca preventiva, di conoscenza dei soggetti e dei luoghi, di verifica e di sperimentazione. Entrambi sono metodi che comunque portano a risultati eccellenti, entrambi sono meccanismi che fanno parte del substrato culturale e dell’esperienza del singolo fotografo, entrambi non possono prescindere da una profonda capacità di riconoscere e di perseguire i propri traguardi e dalla tenace volontà di raccontare il mondo e l’umanità che lo popola. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


Le tre stelle più brillanti nel centrocampo della Pro Gorizia di Paolo Nanut

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lberto Urban, Luigi Delneri, Rajko Janjanin. Tre nomi per tre giocatori, tutti centrocampisti, che, pur avendo incantato il pubblico goriziano per una sola stagione, resteranno per sempre nella storia della società e nei ricordi dei tifosi.

gnabili. Erano i tempi in cui la serie D contava veramente, e la C2 diventava un palcoscenico privilegiato per i giovani della “primavera” dell’Udinese. In serie C2 indossarono la maglia della Pro due giocatori che hanno fatto la storia del calcio in Italia. Il primo, in ordine cronologico, è stato Alberto Urban in forza ai biancoazzurri nel primo campionato di serie C2, stagione 1982-1983. Il piccolo, funambolico centrocampista carnico si era fatto conoscere al pubblico goriziano nella stagione precedente, quella della promozione arrivata al fotofinish, grazie al pareggio interno per 1-1 contro l’Opitergina di Zigoni e Faloppa. Un pareggio arrivato grazie al gol di un altro carnico, Elia Lazzara, uno che non mollava mai, alla Rino Gattuso o alla Gianni Fierro per intenderci. Ebbene Urban, che militava nella Pro Tolmezzo, alla sesta giornata di andata, con la Pro a punteggio pieno, realizzò il gol del vantaggio con una beffarda punizione dal vertice sinistro dell’area. Poi però finì 3-1 per noi. L’anno dopo, ventunenne, arrivò appunto a Gorizia assieme a un folto gruppetto di ex Pro Tolmezzo quali Codarin, Comisso, Grazzolo, il compianto Claudio Hlede. In questa stagione di C2, con Burlando allenatore, Alberto Urban, in 32 gettoni di presenza realizzò 6 reti. L’anno dopo, con il passaggio all’Udinese iniziò per lui una carriera da professionista di prim’ordine, giocando fra l’altro in serie A con il Genoa di Franco Scoglio e realizzando una doppietta in un match contro l’Atalanta (rimasero i suoi unici gol nella massima serie). Oggi allena il Comprensorio Vairano, in Molise, campionato dilettantistico d’Eccellenza.

Con il trasloco dal “Baiamonti” nel nuovo stadio comunale di via Capodistria a metà degli anni Settanta, il club biancoazzurro visse, sia pur con alcune cadute, un vero e proprio periodo d’oro. Tribune quasi sempre al completo, un tifo caldo e appassionato, stagioni in cui le mura amiche erano pressochè inespu-

L’anno successivo fu la volta di Gigi Delneri, giocatore di classe sopraffina che, alla soglia dei 33 anni, nella seconda stagione di serie C2, agli ordini di mister Edi Reja, prese per mano gli imberbi goriziani come una vera e propria chioccia. Trentadue presenze e otto gol per il Gigi da Aquileia con una perla passata alla storia. Era una domenica in cui si sentiva nell’aria l’atmosfera del Natale, quel 18 dicembre del 1983. Avversari di turno erano i rossoneri del Sant’Angelo Lodigiano: alla mezz’ora della prima frazione, su un terreno al limite della

Rajko Janjanin

Gigi Delneri

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praticabilità, Delneri prese la palla sulla fascia destra, puntò l’area avversaria e dal vertice alto calciò un rasoterra a incrociare che fece gonfiare la rete. Gol da cineteca, ma erano anni in cui allo stadio della Campagnuzza si vivevano 90 minuti dalle parti del Paradiso (per la cronaca, Delneri dopo aver chiuso col calcio giocato iniziò proprio da Gorizia la sua avventura in panchina nell’annata 1986-87). Il terzo “Messia” in ordine di apparizione, proprio mentre qualcuno vedeva la Madonna su un prato della Mainizza, aveva la “camiseta albiceleste con il numero dieci” e si chiamava Rajko Janjanin. Croato di Karlovac, classe 1957, approdò in riva all’Isonzo con un pedigree di tutto rispetto: 2 titoli di campione e due coppe di Jugoslavia con la Crvena Zvezda, un’altra coppa nazionale “Marsal Tito” con la Dinamo Zagreb, due presenze in Nazionale e nella Coppa dei Campioni e un’oro ai Giochi del Mediterraneo di Spalato del 1979. Dopo aver passato un paio di stagioni in Grecia all’Aek di Atene, arrivò dopo una lunga trattativa a stagione 1989-90 inoltrata (Pro Gorizia seconda nell’Interregionale dietro la Pievigina) e vestì i colori biancoazzurri fino a ottobre nel campionato successivo, allorchè, con la squadra che non girava, venne sacrificato insieme ad altri – così dicono le cronache – per scarso attaccamento alla maglia. Eppure era un giocatore di valore assoluto, che a volte pareva davvero sprecato per questi modesti palcoscenici. La corsa non era il suo forte, ma quanto in classe e fosforo, beh, ne aveva in abbondanza. Dopo l’esperienza goriziana intraprese una carriera di allenatore negli Emirati Arabi, in Arabia Saudita e in Grecia. In una recente intervista si è paragonato allo spagnolo Xavi, anche se il suo idolo all’epoca era Safet Susic. In definitiva i tifosi di vecchia data come me, parafrasando un libro di Massimo Mauro dal titolo “Ho giocato con tre campioni” riferendosi a Platini, Maradona e Zico possono dire di averne visto giocarne altrettanti: Urban, Delneri, Janjanin. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Alberto Urban


Quel magico 1966 per la nostra pallacanestro: gli juniores campioni d’Italia e la prima squadra in A di Paolo Bosini

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l 1° marzo di quest’anno ci ha lasciati Renato Bensa: un grande sportivo, un ottimo allenatore di basket ma soprattutto un galantuomo. Su questa rivista ne è stata già ricordata la figura: gli esordi come calciatore, poi l’amore per la pallacanestro, prima da giocatore (nel 1952 contribuì alla conquista della serie A da parte dell’Ugg) e poi come allenatore, dedicando il suo lavoro prevalentemente ai giovani, in anni in cui Gorizia veniva considerata una delle capitali italiane del basket giovanile.

carichi di entusiasmo. Al termine di un estenuante viaggio in treno arrivammo a destinazione il giorno seguente, dopo aver sostato per la notte a Roma. La sera stessa, nel campo del Circolo Canottieri Napoli, affrontammo l’ Esperia Cagliari, vincendo 52-47. La prima era fatta! Due giorni dopo l’incontro-chiave con la Libertas Biella che con la Libertas Brindisi godeva dei favori del pronostico. La spuntammo al termine di un’autentica battaglia 56-55 dopo un tempo supplementare, giocando con testa e cuore. Nella squadra piemontese militava l’udinese Polzot, ottimo giocatore e vero leader. Contro Cagliari aveva segnato 43 punti, e sembrava immarcabile. Ma con una difesa asfissiante lo cancellammo dal campo, lasciandogli segnare la miseria di tre punti. Dimostrammo una volta di più

di serie B nonché la promozione nella massima serie. Un risultato straordinario che, abbinato a quello degli juniores, portò l’Ugg ai vertici della pallacanestro nazionale. Ho ancora ben presente il momento in cui Luciano Palla ci comunicò la bella notizia. Eravamo a Napoli nell’Hotel La Gare in attesa del rientro e la vittoria dei “grandi” ci rese ancor più euforici. In quel fine settimana venti ragazzi, tutti goriziani, avevano scritto una delle più belle pagine della nostra pallacanestro.

Il rientro fu lunghissimo anche perché non riuscimmo a chiudere occhio Per due anni Renato è stato il mio coper tutta la notte, ma a Mestre accadde ach nella squadra juniores con la quale un fatto imprevedibile. Infatti vennero nel 1966 ottenne a Napoli il risultato più attaccate al nostro treno diretto a Trieste importante della sua carriera: il titolo di alcune carrozze provecampione d’Italia della nienti da Milano. Un paio categoria juniores d’ecceldei miei compagni che lenza. Il massimo trofeo sostavano sul marciagiovanile della pallacanepiede si accorsero che su stro italiana. Con quella quelle carrozze c’era la squadra fece un notevole prima squadra che rienlavoro sia tecnico che trava da Torino! Furono psicologico. Nel periodo momenti molto belli fatti precampionato avevamo di complimenti reciproavuto qualche battuta ci, battute e sfottò che d’arresto ma Renato, con proseguirono fino alla la sua calma, ci tranquilstazione di Gorizia dove lizzò dicendo che al mole comitive, stanche ma mento opportuno saremfelici, si sciolsero dopo mo stati pronti. Con noi giorni esaltanti. Il mernon era tenero, ci faceva La squadra juniores campione d’Italia era allenata da Renato Bensa coledì successivo in una lavorare intensamente e palestra della Ginnastica nonostante l’apparenza di stracolma le due formazioni ricevettero uomo mite quando gli facevamo girare di che pasta eravamo fatti! il meritato riconoscimento da parte le “scatole”, perché svogliati o poco condelle istituzioni. centrati, ci spediva a casa senza pensarci La domenica mattina dell’8 maggio due volte. Il giorno dopo, però, sbollita ecco la finale con la Libertas Brindisi. Sono trascorsi tantissimi anni e ritenl’arrabbiatura, ci accoglieva con un sorNonostante la grande fatica della sera go sia giusto rinfrescare la memoria riso e una buona parola. La squadra non precedente vincemmo facilmente, con ricordando, al termine di questo pezzo, i era di facile gestione. Ben cinque ragazzi un punteggio basso (47 a 39) ma senza protagonisti di quei successi eccezionali. erano orfani del papà e pertanto bisomai soffrire. Eravamo campioni d’ Italia! gnosi, alle volte, di qualche attenzione in Fu una felicità immensa. Alla base del Squadra Campione d’italia di serie B più che Renato, con grande intelligenza successo fu soprattutto il lavoro che il promossa in A: Bisesi Sarino, Comelli e sensibilità, non fece mai mancare. Per nostro allenatore fece con noi durante Antonio, Del Ben Fabio, Krainer Rodolnoi fu più di un allenatore: gli eravamo tutto l’anno, amalgamando un gruppo di fo, Kristancic Silvano, Michelini Mario, bravi ragazzi, validi tecnicamente, e traaffezionati e disposti a buttarci nel Nanut Luigi, Ponton Giovanbattista, fuoco per lui. Diventammo una squadra sformandoli in una squadra imbattibile. Pozzecco Franco, Rossi Sante, Tomamolto unita, formata prevalentemente da Il ricordo di quei momenti “napoletani” si Gianni ,Turra Claudio. All. Tonino giocatori piccoli di statura, però molto resterà scolpito nella nostra mente e nei Zorzi. forti fisicamente, determinati e “cattivi” nostri cuori insieme al principale artefice di quel capolavoro: il nostro coach al punto giusto. Squadra Juniores Campione d’Italia: Renato Bensa. Arteni Luciano, Bosini Paolo, Ceccotti Sbaragliata la concorrenza nella fase Livio, Gazzillo Antonio, Graziani Gianregionale ed eliminata, nell’interzona Negli stessi giorni, la prima squadra si carlo, Poloniatto Alfredo, Rosi Levin, di Padova, la favorita Reyer Venezia giocava la serie A, a Torino, con la LiSilvani Fulvio, Stabile Massimiliano, bertas Livorno e la Fides Bologna. Supein un drammatico incontro terminato Ursic Beniamino. All. Renato Bensa. 60-58, il 4 maggio 1966, condotti dal rando le antagoniste con un secco 2 a 0 , “mitico” accompagnatore Luciano “Joe” (68-44 con Bologna e 53-49 con Livor©RIPRODUZIONE RISERVATA Palla, partimmo alla volta di Napoli no) vinse il titolo di Campioni d’Italia

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Lo straordinario sax di Luca Capizzi dai Musique Boutique ai concerti “benefici” di Stefania Panozzo

C interesse.

ome ormai avrete capito, mi piace curiosare nel panorama musicale della nostra città e raccontarvi tante storie che spero possano suscitare il vostro

Quella che emergerà da questa intervista parla di un sassofonista che ha sempre amato ascoltare musica e si é avvicinato al mondo degli strumenti a fiato ascoltando i dischi dei suoi fratelli. Anche se ha sempre suonato, fino al 2008 Luca Capizzi faceva di professione il grafico pubblicitario, ma in quell’anno la crisi del settore gli ha aperto gli occhi e ha capito che la musica sarebbe diventata la sua strada. Anche se a Gorizia é noto più che altro negli ambienti dei musicofili più accaniti e attenti, è il caso di sottolineare che ha prestato il suo sax tenore a canzoni di musicisti di primissimo piano come Jovanotti e Zucchero e ha all’attivo collaborazioni con emittenti radio come radio Dee-jay. Molti goriziani hanno “scoperto” Luca il 29 maggio, quando, su iniziativa del commerciante Alessio Destro ha tenuto un mini-concerto all’esterno dall’ospedale per ringraziare i medici e gli infermieri che si sono prodigati per curare gli ammalati durante il periodo caldo dell’emergenza-Covid 19. Un’esibizione commovente, con un’accurata scelta dei brani, in seguito alla quale l’amministrazione comunale – e in particolare l’assessore Silvana Romano – lo ha ricontattato per prendere parte ad altri piccoli eventi legati alla fine della fase emergenziale della pandemia, al Parco della Rimembranza e nel piazzale della Casa di riposo Angelo Culot di Lucinico. Capizzi mi ha rivelato che durante la fase critica del lockdown ha avuto la tentazione di non suonare più, ma ha resistito e ora si augura di ricominciare a esibirsi presto con la sua band. Luca, com’é nata la tua passione per la musica? Da piccolo suonavo la chitarra classica e ascoltavo i dischi di jazz dei miei fratelli. Grazie ad essi, mi sono appassionato agli strumenti a fiato e ho cominciato a suonare per hobby il sax tenore. Quando hai capito che la musica sarebbe diventata la tua strada? Fino al 2008 lavoravo come grafico pubblicitario, pur affiancando a questo

mestiere la passione per il sax. Un brutto giorno, però, mi hanno detto che non c’era più lavoro, e da quel momento ho deciso di non suonare più soltanto per hobby e ho cominciato a percorrere la mia strada di musicista professionista. Hai mai collaborato con qualche artista famoso? Si. Ho suonato in alcune canzoni di Jovanotti, ho avuto una collaborazione con una cantante americana di nome Crystal Waters, ho contribuito ad un

è stato “Smooth Operator” di Sade. Poi lavoro tanto live con i dj e improvviso sui dischi che mettono sul piatto. E’ una cosa che la gente apprezza molto. Da dov’é partita l’iniziativa del concerto che hai tenuto il 29 maggio davanti all’ospedale? Ho risposto con piacere a un’idea del commerciante Alessio Destro, che mi ha chiesto se volevo suonare gratuitamente per ringraziare i medici e gli infermieri per quello che hanno fatto durante la fase più difficile del lockdown. Che progetti hai per il futuro? Spero di riprendere a lavorare a tempo pieno entro la fine dell’anno, visto che si sta ricominciando a muovere qualcosa. Con il lockdown sono saltate ovviamente tutte le date che avevo in programma, per un momento ho messo da parte lo strumento e ho pensato seriamente di smettere di suonare. Per fortuna il periodo critico sembra passato e ora spero di continuare a lavorare come ho sempre fatto. Cosa fai nel tuo tempo libero? Cerco di tenermi in forma praticando un po’ di sport e ascolto molta musica, senza alcuna preferenza di genere.

Luca Capizzi nel mini-concerto tenuto davanti all’ospedale San Giovanni di Dio

remix di Zucchero e poi ho collaborato con alcune radio come Radio Dee-jay e Radio Montecarlo. Come mai qui a Gorizia non sei molto famoso? È vero: qui non c’é molto lavoro. Svolgo prevalentemente la mia attività musicale con una band che si chiama Musique boutique, nata nel 2008 da un’idea del tastierista e produttore Franz Contadini e della cantante Ariella Perentin. Se andate sul sito potete trovare tutte le notizie su questo gruppo. Hai pubblicato qualche album? Si, ma sempre con la band, mai come solista. Il nostro album più recente è uscito nell’aprile del 2019 con il titolo di “Radio Fantastique”, registrato interamente in inglese al Supersonic Studio di Franz, a Cervignano. Contiene undici brani fra cover e inediti, tra swing e bossanova, latin jazz e funk. Il primo singolo estratto

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Che rapporto hai con le altre forme d’arte? Come ti dicevo sono un ex grafico, ma sono anche pittore. Quindi il mio rapporto é sempre complementare. Ti piace leggere? Abbastanza, ma sono un po’ monotematico: mi concentro per lo più su cose inerenti alla musica. Sei anche insegnante di musica? No, anche se mi piacerebbe. Ci sono musicisti a cui ti ispiri? Si, diversi. A me piace molto il funky, e quindi mi sono ispirato a Maceo Parker, ma anche a John Coltrane e a Sonny Rollins. Hai mai pensato di suonare in un’orchestra? Suonare in un’orchestra sarebbe sicuramente uno stimolo in più, anche se la band di cui faccio parte ha, in fondo, un organico simile a quello di un’orchestrina. Grazie Luca e a risentirti presto!

©RIPRODUZIONE RISERVATA


Concerto, libro e video per i 30 anni dell’Orchestra di chitarre di Vincenzo Compagnone

di Gorizia”, le uniche superstiti, oltre al fondatore, sono Annalisa Petri ed Elisa Del Forno. Gli altri, attuali componenti della formazione sono il solista Pierluigi Corona (docente al conservatorio Tartini di Trieste), Gabriele Del Forno, Riccardo Bertossa, Maria Francesca Arcidiacono, Laurentiu Stoica, Patrizia Zerbo, Rosa Tarantino, Giulia Liberalato, Marco Facchinetti, Mario Milosa, Andrea Pizzo, Jacopo Gurtner, Luca Chemello (basso) e Matteo Martellani (basso). E saranno proprio loro a dar vita al concerto del trentennale che il maestro Liviero ha in mente di allestire a metà dicembre (già il 18 ottobre il calendario prevede peraltro un’esibizione al Castello di Udine) a palazzo De Grazia. In quell’occasione sarà presentato anche un video con spezzoni di concerti, prove e interviste, e un fotolibro che ripercorrerà i trent’anni di vita dell’orchestra.

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n concerto, un libro e un video. La Gorizia Guitar Orchestra si appresta a festeggiare così, Sars-CoV-2 permettendo, i trent’anni dalla sua fondazione. Nato nel 1990 da un’idea del maestro Claudio Liviero, all’epoca insegnante dell’Istituto di musica, poi direttore artistico dello stesso e attuale presidente della Casa delle Arti di Palazzo De Grazia, in via Oberdan, l’originale ensemble debuttò il 15 dicembre di quell’anno, con due esibizioni. La prima, nel pomeriggio, ai Musei provinciali di Borgo Castello nell’ambito della stagione concertistica dell’Agimus. La seconda, in serata a Sevegliano per iniziativa del Circolo culturale 82. Diamo un’occhiata alla locandina degli eventi per scoprire quali erano i primi componenti del gruppo: diretti da Liviero, suonarono Mauro Bregant (solista), Franca Giarritiello, Annalisa Petri, Raffaella Butti, Diego Falzari, Valentina Sestan, Elisa Del Forno, Erica Loru, Emma Gani, Massimo Gatta, Daria e Daniela Ussai, Ornella Tusini, Gianluca Pinto, Ilaria Petri e Alessandro Cecutta. Dell’orchestra originaria, che inizialmente si chiamava “Città

Torniamo per un attimo al 1990 per ricordare come è nata e in che modo si è evoluta l’orchestra che, in tanti anni, ha portato il nome di Gorizia in vari Paesi stranieri, proprio alla stregua di veri e propri ambasciatori dell’arte e della cultura. “All’Istituto di musica – riavvolge il filo dei ricordi il maestro Liviero - c’erano due classi di chitarra molto numerose, dirette da me e da Giorgio Tortora. Così decidemmo di formare un ensemble, che fu il primo in assoluto in regione, composto da alcuni fra i migliori allievi. In seguito il gruppo si è irrobustito – gli elementi oscillano fra i 16 e i 20 – caratterizzandosi in un riuscito mix chitarristi più esperti, giovani concertisti già avviati alla carriera musicale e promettenti allievi provenienti dai conservatori di tutta la regione. Costanti sono state poi le collaborazioni fornite da noti musicisti, sia cantanti che arpisti e flautisti, oltre a virtuosi della chitarra come il maestro Corona”.

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Molti compositori, inoltre, attratti dalla delicata sonorità, dai timbri della chitarra e spinti dal desiderio di innovazione e ricerca, hanno dedicato a questa insolita formazione pagine musicali raffinate e suggestive. Gli ultimi a farlo sono stati Giorgio Tortora (che, pur non facendone parte, ha sempre collaborato con l’orchestra), e un giovane monfalconese, Umberto Tristi. I loro brani, rispettivamente “Danza” e “Tarantella” sono stati suonati in anteprima in una diretta streaming il 21 giugno, Giornata europea della musica. Va rimarcato che la Gorizia Guitar Orchestra, oltre a essere una formazione musicale di prim’ordine, è sempre stata fondamentalmente un gruppo d’amici, accomunati dall’entusiasmo e dalla passione per la chitarra (e anche per il basket: negli anni 90 avevano fondato una squadra amatoriale che si cimentava in diverse sfide). Intensa è stata l’attività concertistica in Italia e all’estero (Austria, Slovenia, Repubblica Ceca, Croazia e Montenegro) con i successi in numerosi festival e l’incisione di quattro cd: “Cavatina”, “Vida breve”, “Aranjuez” e “Italian concerts”, i primi due registrati in studio e gli altri nella chiesetta rinascimentale di Sant’Apollonia a Cormons. Buon compleanno, dunque, all’orchestra con i dovuti complimenti all’infaticabile maestro Liviero che è stato il primo a riaprire, dopo il lockdown, la scuola di via Oberdan e ora annuncia lo spostamento ad ottobre del 17mo premio Enrico Mercatali (da sempre in calendario in maggio), a novembre del concorso per giovani talenti (già programmato in aprile) mentre nei mesi estivi si svolgerà, nel giardino di palazzo De Grazia, la rassegna “Note in città” con le ovvie restrizioni legate al Covid 19. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


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