November 2019

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Gorizia News & Views Anno 3- n. 10 Novembre 2019

SOMMARIO

Pag. 2 Per i migranti lo smartphone è più importante anche del cibo Pag. 3 Amarcord radio libere: ecco a voi RG1, la più longeva con i suoi mitici programmi e le “voci” rimaste celebri Pag. 4 E Frank scopre che in treno è vietato fumare Pag. 5 Fridays for Future: dall’impegno di una ragazzina alla rivoluzione globale sul fronte dell’emergenza-clima Pag. 6-7 Sorpresa nei progetti transfrontalieri del Gect: la Casa del parto si farà, ma nell’ospedale di San Pietro Pag. 8 L’odissea di Alì lasciato al gelo e morto di cancrena in Bosnia Pag. 9 La seconda edizione di “Ciao come stai” riporta al centro la lingua come mezzo di integrazione Pag. 10-11 Ricordo dei fratelli Rusjan, pionieri del volo a 110 anni dal primo balzo sui prati della Campagnuzza Pag. 12 Gulalai, coraggiosa attivista per i diritti umani: ecco chi è e quali sono le lotte che porta avanti Pag. 13 Miela Reina ”battezza” il restyling della Spazzapan Pag. 14 Gradisca, sarà dedicata all’hate speech la sesta edizione del progetto #iorispetto Pag. 15 Bruna Sibille-Sizia e Tafil, “Il Kosovaro”: storia di un profugo e di un’autrice dimenticata Pag. 16 Capitale della cultura per il 2025: quanto realmente ci interessa? Pag. 17 Storie curiose di un confine che non c’è più nel Museo del contrabbando al valico del Rafut Pag. 18-19 Formidabili quegli anni, quando l’Ardita dei miracoli centrò il bersaglio di tre promozioni fra il 1994 e il 1999

“La tristezza è causata dall’intelligenza. Più comprendi certe cose e più vorresti non comprenderle.” (Charles Bukowski)

Pag. 20 Lyduska e Frank: dal giornale approdano in libreria i personaggi cari ad Anna Cecchini e Giorgio Mosetti


Per i migranti lo smartphone è più importante anche del cibo di Luigi Casalboni

dimostrato da un recente studio di Open University2 sui rifugiati che scappano da paesi distrutti dalla guerra, come Siria, Iraq, Libia, ma anche Pakistan e Afghanistan. Essenziale quanto un giubbotto salvagente o trovare cibo e riparo lungo la rotta balcanica. Il cellulare è indispensabile per comunicare con la famiglia lontana e con amici di viaggio occasionali lungo le varie rotte, scambiarsi informazioni legate al viaggio o al luogo che si attraversa, o a quello di arrivo e sapere quali sono i pericoli che si possono incontrare. Per queste ragioni il telefono mobile è il primo e più importante bene che possiedono.

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ome i falsi miti percorrono oggi le nostre strade, passano da chiacchiera a chiacchiera e aleggiano indisturbati tra le discussioni da bar.

Spesso sentiamo dire : I migranti sono sempre al telefonino , li vediamo con gli ultimi modelli di smartphone, come fanno se non hanno i soldi per vivere ? E’ uno degli stereotipi più diffusi, in particolare sui richiedenti asilo. In molti si stupiscono e li mettono alla berlina se li vedono sbarcare con un telefono in mano dopo una traversata sui gommoni o in attesa sulle navi delle Ong,quasi fosse un vezzo e non un possibile salvavita in caso di pericolo. Pochi si fermano a pensare che questi dispositivi sono necessari per avere informazioni affidabili, ed essere geolocalizzati. Tutto ciò per loro è vitale ,come peraltro

In Italia ,di solito i richiedenti asilo al loro ingresso nella struttura di accoglienza ricevono una ricarica telefonica oppure approfittano di un wifi che gli permette di informare i familiari che il viaggio è andato bene e non sono morti nel percorso come spesso succede. Le applicazioni di geolocalizzazione e i social media, sono strumenti fondamentali che permettono di tenersi in contatto con le persone e orientarsi durante il viaggio. Eppure anche se queste sono evidenze inconfutabili, una delle domande più frequente che sentiamo è…. come sia possibile che persone che provengono da paesi poveri,dove spesso non riescono a mangiare,abbiano comunque un telefonino? È evidente che il cellulare sia ormai un bene primario e non più di lusso, accessibile quindi a tante persone anche con redditi bassi. Grazie al costante ricambio e all’iperproduzione e consumo (che tende a far diminuire i costi di modelli nuovi ma già obsoleti) è possibile acquistarlo senza troppi sacrifici. Ad oggi, anche per avere solo un conto corrente bancario, che per una persona può essere un importante traguardo nel percorso di una possibile inclusione, spesso bisogna possedere uno di questi mezzi. E’ più importante ,quindi,il cibo o il telefono cellulare? La maggioranza dei richiedenti asilo in viaggio vi dirà il secondo, perché sanno bene che la comunicazione per persone in movimento è vitale, è sopravvivenza. Chiarito questo,viene da pensare che gli utilizzatori finali (consci o non consci) della post-verità o del luogo comune,

non hanno bisogno di tenersi molto informati e non sospettano che la realtà può essere il peggior nemico del qualunquista o dell’indifferente. Per sentirsi veramente liberi di capire davvero, è necessario accertare la realtà, cosa è vero e cosa è falso, e accertare non vuole dire accettare. Come è possibile che la vista si annebbii in questo modo, che il buon senso non entri in gioco prima di credere a luoghi comuni così banali? Che fatti così ben documentati, e realtà così esposte non portino a considerazioni anche solo normali? Il principio forse più seducente è di Nietzsche: ‘Non ci sono fatti, solo interpretazioni’’ ©RIPRODUZIONE RISERVATA

I politici e la televisione Provate a domandare a chi lavora, in catena di montaggio o ad uno sportello pubblico, se può, spesso e volentieri, assentarsi per frequentare i salotti televisivi dove mettere in mostra la propria persona e il suo saper fare. Vi dirà che è impossibile, a meno che non si voglia essere licenziati in tronco. Eppure, noi vediamo parecchi parlamentari che, invece di essere sul posto di lavoro, ovvero in Parlamento e nelle diverse sedi istituzionali, se la tirano nei talk show, che dalla mattina alla sera, compresa la domenica, intasano le trasmissioni video. Una serie continua di personaggi che vogliono apparire e incidere sui telespettatori, discutendo di fantastici programmi e, tra battibecchi vari, giungere spesso e volentieri ai limiti dell’insulto. Un imbarazzante susseguirsi di inutili dichiarazioni, tutte orientate a mantenere sveglia l’attenzione del non più cittadino ma “consumatore” e/o “votante“ per rifilargli una serie infinita di spot propagandistici, appositamente preparati. Ora questi signori, profumatamente pagati, dovrebbero impegnarsi a risolvere i problemi del quotidiano vivere delle persone. Basta aver bisogno di cure per capire che il sistema democratico fa acqua da tutte le parti, per non parlare della scuola e delle case di riposo. Ci sono, sicuramente, anche parlamentari seri e preparati, ma questi compongono, attualmente, una ristretta minoranza. Maschere con trentasei denti, bianchi e perfetti, preferiremmo, noi cittadini, vederle solo a carnevale (r.e.)

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Amarcord radio libere: ecco a voi RG1, la più longeva con i suoi mitici programmi e le “voci” rimaste celebri

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l nostro “amarcord” sulle radio libere non poteva fare a meno di dedicare una puntata a Radio Gorizia 1, la più longeva di tutte visto che la sua voce si è spenta l’8 giugno 2010, dopo ben 34 anni di presenza nell’etere isontino. RG1 fu la prima radio locale ad andare in onda e l’ultima a chiudere: il suo esordio porta la data del 6 marzo 1976, qualche settimana prima di quello di Radio Onda Est. Gianlauro Iuretich fu tra i fondatori della radio, grazie alle sue precedenti esperienze che lo videro collaborare dal 1971 con la Rai regionale in alcuni programmi musicali e d’intrattenimento condotti con Vincenzo Compagnone e Andrea Centazzo, noto jazzista udinese, percussionista e celebre compositore, che suonò con artisti di fama mondiale e si trasferì infine a Los Angeles, naturalizzandosi cittadino statunitense. Ma chi c’era in RG1 oltre a Iuretich? Il gruppo iniziale, quello che fece spiccare il volo alla radio, era composto da alcuni ventenni o poco più, senza mezzi economici ma con tanta passione. Tra essi soprattutto Massimo Cargnel e i fratelli Cian, Antonello detto Toto (purtroppo recentemente scomparso), suo fratello Gianvico, detto Chicco, ai quali si aggiunse il più piccolo, Marrico, Riky per tutti noi, un diciassettenne come me, che divenne presto una piccola celebrità grazie al suo programma di dediche musicali, in cui si cimentava peraltro anche Claudio Carrieri, oggi noto medico di famiglia. Al gruppo iniziale si aggiunsero altri, soprattutto il compianto Enrico Zampi che in quegli anni era un noto DJ a Mereto di Capitolo e al quale si dovrà in seguito il cambio di passo della radio, in termini di imprenditorialità e organizzazione, così come si deve alla sua famiglia, e in particolare alla figlia Patrizia, la lunga vita della radio. Si trasmetteva dall’ex Contavalle di Borgo Castello, pochi locali in affitto dalla Curia, dove la radio rimase circa un anno e mezzo. Poi il trasloco a San Floriano, nella proprietà dei conti Formentini dove ora sorge l’hotel Golf Club, e infine all’ultimo piano del grattacielo di via della Bona, dove RG1 rimase fino alla chiusura. Come ROE, anche RG1 venne stoppata il 13 aprile del 1976, su ordine del Pretore, in quanto priva come tutte le altre radio libere italiane dell’autorizzazione delle Poste (che non la concedeva). Il segreto quindi era non farsi trovare, perché il provvedimento di piombatura del trasmettitore ti raggiungeva dopo la

di Lucio Gruden notifica, cioè solo se sapevano dov’eri. E così si iniziò in tutta Italia un gioco a nascondino e di mimetismo, come quello di ROE che, vistosi sigillato il trasmettitore nella sede di via Silvio Pellico, ne acquistò uno nuovo e andò a rinchiudersi dentro una corriera dismessa in quel di San Floriano, da dove si dominava la città con pochi watt e si poteva continuare a trasmettere. Erano anni in cui la vitalità, il coraggio, la voglia di fare si toccavano con mano e in cui la speranza dei giovani era quasi sinonimo di certezza di farcela. In radio si andava come si va in qualunque circolo o club, anche a fare niente. Ma così il giro di conduttori si allargava. Merita una menzione speciale Angelo Candeloro, The Voice di RG1. Angelo era uno stakanovista dell’etere, sempre alla consolle con ottimi programmi musicali, ma anche speaker dei notiziari, di stacchetti pubblicitari e altre rubriche: un grande. Gianlauro è stato il primo radiocronista di basket goriziano, perché RG1 effettuò le sue prime dirette proprio alla fine del campionato 1975-76, quello in cui Gorizia veniva promossa in A1. Abbiamo riso su quanto fossero rocambolesche quelle prime radiocronache, delle quali vi abbiamo parlato nei due servizi già apparsi su Gorizia News&Views. Il ricordo più bello del radiocronista fu la vittoria a Siena contro la Mens Sana, l’11 aprile del 1976, con la conquista della serie A1. La storia di ogni radio passa attraverso le sue più celebri trasmissioni e quella di RG1 è stata segnata da “A letto con...” un programma in tarda serata in cui coppie di DJ conducevano la trasmissione a due voci. Era molto seguita soprattutto perché all’epoca - ricordiamoci che praticamente esisteva solo la RAI - le trasmissioni terminavano alle 23 e da quel momento in poi in molte case goriziane ci si sintonizzava sulle radio libere locali. Radio Gorizia 1 rimase in testa alle classifiche Auditel degli anni ottanta e seppe pure allargare il proprio giro d’affari con l’apertura, da parte dei coniugi Zampi, di RG1 Disco Club, un negozio di dischi in via Santa Chiara, attivo dal 1981 al 1990. Inoltre, nel 1986, venne acquistata Radio Stereo Monfalcone. Infine vanno ricordati alcuni celebri personaggi che hanno operato sia per ROE (poi divenuta Radio Estereo International) che per RG1, come l’indimenticabile Luigi Festa, un ragazzo bresciano venuto a Gorizia a lavorare a Villa San Giusto, che quando non faceva l’infermiere era una colonna portante delle radio, oppure Giuliano Almerigogna, un mito vivente di conoscenza e amore infinito per la

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musica, amante soprattutto del blues e del rock, e diventato poi critico musicale del Messaggero Veneto. Che anni, ragazzi. Gorizia era un fiore colmo di vigore, i cui petali intrecciati erano il basket, la zona franca, il commercio di confine e le sue radio libere. In pratica, nulla di tutto ciò è rimasto. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Un libro di memorie di Italico Chiarion Italico Chiarion, storico esponente del Pci goriziano (e poi di Pds, Ds e Pd) ha raccolto le sue memorie in un ponderoso volume intitolato “Comunista a Gorizia Mezzo secolo nelle file del Pci”. Il libro sarà presentato in un incontro al Trgovski Dom di corso Verdi 52 venerdì 8 novembre, alle 17.30. L’incontro, coordinato da Vincenzo Compagnone, vedrà come relatori gli storici Anna Di Gianantonio e Luciano Patat.

Top Five Libreria Ubik 1) “Julie” (Don Robertson) 2) “Il manoscritto” (Franck Thilliez) 3) “L’oro e l’oscurità” (Alberto Sancedo Ramos) 4) “Il commissario Topalbano” (Walt Disney fumetti) 5) “Per cause innaturali” (Richard Sheperd)

Emanuelli presenta il suo best seller E’ nella Top ten delle classifiche di vendita di tutte le riviste e gli inserti specializzati in libri. Roberto Emanuelli, 41enne scrittore romano, dopo “E allora baciami” (caso editoriale del 2017) ha fatto centro ancora una volta col suo nuovo romanzo “Tu, ma per sempre” (Dea Planeta). L’aurore sarà ospite della libreria Ubik di corso Verdi giovedì 21 novembre alle 18..


E Frank scopre che in treno è vietato fumare di Giorgio Mosetti

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uesto weekend: gita. Si va a Torino. Tea - già, proprio quella con la paura di volare – ha chiesto a mia figlia di accompagnarla a un corso di astrologia. Alice non ha saputo dire di no, così mi ha chiesto se potevo andarci anch’io. Ovviamente si è limitata a dire che era per badare a Leon, ma si capiva lontano un miglio che la ragione era un’altra. Supporto, direbbero quelli per bene. Così mi vesto, riempio le ciotole di Nick, metto una stecca di sigarette nello zainetto di Star Wars e raggiungo Alice, che mi sta aspettando in macchina assieme a Tea e Leon.

Alle sette saliamo sul treno. La carrozza è stipata di gente. Perlopiù pendolari, si direbbe. Già mi girano le palle. Prendiamo posto. Alice e Tea da un lato, io e Leon dall’altro, di fronte a due ragazzotti in giacca e cravatta impegnati a smanettare su quei cosi elettronici a forma di tavoletta. Non ricordo mai come diavolo si chiamino. Ogni tanto sorridono e si scambiano qualche parola che non capisco. Leon, al mio fianco, sembra a suo agio. Sicuramente più di me. Armeggia con il lettore MP3 e si infila gli auricolari nelle orecchie. Poi appoggia la testa allo schienale e si appresta a dormire. Provo anch’io a chiudere gli occhi. Nella luce rosata delle palpebre, però, vedo scorrere immagini che non mi piacciono. Troppe. Come al solito. Così decido di alzarmi per sgranchirmi le gambe e, visto che ci sono, andare a cercare la zona fumatori. Fino a Venezia, la prima sosta decente, c’è più di un’ora di treno, e… beh, non serve aggiungere altro. I fumatori incalliti mi capiranno. Attraverso una carrozza dopo l’altra. Metri e metri di persone assonnate. Alcune leggono, alcune ascoltano musica, altre guardano fuori dal finestrino. Altre ancora, come Leon, cercano di rubare al giorno qualche altro scampolo di sonno. Sento la nausea crescere. Troppa umanità per me. Così mi concentro solo sulla ricerca del posto dove fumare. In tutto il treno sono esposte in bella visti decine di cartelli di divieto. Persino nei bagni e negli slarghi tra una carrozza e l’altra. Dopo qualche minuto, con terrore dilagante, raggiungo la fine dell’ultimo vagone. Non è possibile, mi dico. Torno indietro frastornato, fino a quando incrocio un controllore sbarbatello. “Capo, mi scusi, dove si può fumare?” chiedo. Lui si volta e mi guarda come se gli avessi mangiato il cane. “È vietato” mi dice. La bocca piegata all’ingiù in un’espressione di disprezzo. “Come vietato?” “Vietato. Lo sa cosa vuol dire?” Il suo tono arrogante mi sta facendo incazzare. “Ehi, bambino, datti una calmata. Ho fatto solo una domanda”. “È vietato” taglia corto. “Ok, questo l’avevo capito. Ma io volevo sapere dov’è la zona fumatori”. Per poco la mascella non gli cade a terra. “Zona fumatori?” Lo dice come se avessi chiesto della Zona Pedofili. “Esatto, hai presente? Finestrini apribili, aspiratori, teschi con tibie alle pareti, facce grigie che si rianimano…” “Non faccia tanto lo spiritoso. Non esiste nessuna zona fumatori”. Avverto una vampata di calore alla radice dei capelli. “Che cavolo stai dicendo?” “Quello che ho detto”.

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“Mi stai dicendo che non c’è più la zona fumatori?” Annuisce sporgendo in fuori il mento. “Da de-cen-ni”, scandisce. “E chi deve fumare come fa?” Tira fuori un sorriso di disprezzo. “Chi deve fumare farebbe bene a smettere”. “Beh, è una delle due possibilità”. “L’unica”. “Punti di vista”. Lo sto facendo incazzare. “Se vuole la verità, fumare è da idioti”, sbotta. Gli punto un dito in faccia. “Ehi, ragazzo, attenzione”. Lui non si scompone. “Non sono io che devo fare attenzione. Forse dovrebbe farlo lei con quel vizio disgustoso”. “Non ti preoccupare di questo. A me ci penso io”. Alza le spalle. “La vita è sua”. “È la prima cosa sensata che dici oggi”. “Faccia come crede. Fosse per me lo renderei illegale. Come le droghe”. “Perché non l’esilio, visto che ci siamo?” “Guardi…” e si ferma. “Tolleranza zero, insomma”. “Può dirlo forte”. Lo osservo. Il suo volto è squadrato e rigido. Pare un monolite appena estratto dalla cava. “Tu vai in chiesa?” gli butto lì. Aggrotta la fronte spiazzato. “Certo che ci vado, perché?” “Ogni domenica?”. “Ogni domenica” fa lui con fierezza. “E ti senti un buon cristiano?” “Ci provo con tutto me stesso”, la nobiltà negli occhi. “…” “…” “Tutto te stesso non credo sia abbastanza”, dico. E mi avvio lungo il corridoio in direzione di Leon. Lo trovo ancora addormentato. Mi siedo, mentre i due giovinastri davanti a noi continuano a far scorrere il dito su quelle trappole come se ci spazzassero la polvere. L’astinenza da fumo comincia a farsi sentire, così cerco di distrarmi guardando fuori dal finestrino. La campagna grigia e piatta della bassa friulana, però, mi demoralizza ancora di più. Non è brutta, penso, è semplicemente una campagna priva di fantasia. Campi arati con lo squadro, distese sconfinate di pioppi spogli, ben allineati e coperti come tristi soldati che han scordato persino per cosa stessero combattendo. E poi la nebbia, sottile, pallida, a sfocare il tutto, quasi fosse stata colta da un senso di compassione. Tuttavia, al tempo stesso, in quella campagna senza inventiva è come se si scorgessero i tratti del carattere. Una determinazione a resistere, direi, a sopravvivere oltre la soglia della sconfitta. Il dignitoso orgoglio di essere ciò che si è. Per quanto privi di bellezza. Un po’ come un fumatore. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


Fridays for Future: dall’impegno di una ragazzina alla rivoluzione globale sul fronte dell’emergenza-clima

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che ambientali.

di Giuseppina Matozza a giovane svedese Greta Thunberg ha dato inizio ad una vera e propria rivoluzione globale a favore di un radicale cambiamento di rotta nell’ambito delle politi-

Dopo aver saltato ogni venerdí le lezioni di scuola per manifestare di fronte al parlamento svedese ha deciso di lanciare un appello affinché i singoli cittadini del mondo diventassero il vero motore del cambiamento. E le risposte non si sono fatte attendere. Dagli Stati Uniti alla Nuova Zelanda, dal continente europeo a quello africano, migliaia di persone sono scese in piazza per manifestare al grido di “Fridays for Future” e accendere i riflettori su una tematica ormai diventata fondamentale. Anche le città italiane hanno deciso di partecipare a questa grande mobilitazione, e Gorizia, con Nova Gorica, non è mancata all’appello. Ma vediamo con ordine ciò che è stato fatto e quello che speriamo si potrà fare in futuro. Il primo sciopero mondiale per il clima è stato indetto il 15 marzo 2019. A Gorizia la protesta giovanile era stata affiancata da alcuni gruppi, tra i quali Legambiente Gorizia, Legambiente Monfalcone e Ass. Agorè Gorizia, e da numerosi comitati cittadini quali comitato #noBiomasseGo, Comitato NoTir Gorizia e Comitato cittadini Sant’Andrea. Non erano mancate inoltre alcune scolaresche delle medie e superiori di Gorizia, Monfalcone e

Gradisca, nonostante pochi giorni prima della manifestazione l’allora ministro dell’istruzione Marco Bussetti avesse dichiarato che si sarebbe andati “a scuola regolarmente”, senza prevedere quindi alcuna giustificazione per gli studenti che avrebbero deciso di scioperare. E’ stato il primo segnale forte da parte dei cittadini goriziani, con l’obiettivo di lanciare un doppio messaggio: da una parte è necessaria un’azione immediata e concreta da parte dei governanti sia locali che internazionali per porre fine a questa emergenza; dall’altra è necessario che ogni singolo individuo si impegni quotidianamente nel gestire in maniera corretta le proprie risorse, nell’informarsi e nel migliorare le proprie abitudini. Le iniziative di mobilitazione sono poi continuate con il secondo e il terzo sciopero sul clima (24 maggio e il 27 settembre 2019). A maggio gli attivisti sono scesi in piazza per denunciare le insufficienti azioni concrete intraprese a tre anni dall’accordo di Parigi, mentre a settembre, nonostante Legambiente avesse comunicato che a Gorizia non si sarebbe tenuto nessuno sciopero, ai cittadini è stata offerta la possibilità di unirsi alla manifestazione organizzata a Nova Gorica. Intanto è già stato fissato un quarto sciopero mondiale per il clima in programma il 29 novembre. Ma non finisce qui. Mentre le foto delle piazze piene di gente facevano il giro del mondo, Greta si è mossa sul piano istituzionale, scegliendo di agire in prima

persona nelle occasioni di incontro tra i leader mondiali. Già nel dicembre 2018 aveva partecipato al vertice Coop delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico tenutosi a Katowice, in Polonia, mentre nel gennaio di quest’anno ha portato la sua campagna sul clima al World Economic Forum tenutosi a Davos. Ad aprile è intervenuta alla commissione Ambiente del Parlamento europeo sollecitando i leader europei ad una svolta radicale nell’ambito delle politiche ambientali, mentre il 20 settembre ha guidato a New York lo sciopero mondiale per il clima. Ciò che però più di ogni altro suo intervento ha destato scalpore a livello internazionale è stato il suo discorso all’apertura del Climate Action Summit a margine dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. In quell’occasione la giovane svedese ha accusato capi di Stato e di Governo di averle rubato i sogni e l’infanzia. “How dare you?” ha dichiarato, “Come osate?”, riferendosi al fatto che fino ad ora non si è stati in grado di discutere se non di soldi e di favole su un’eterna crescita economica. Vedremo nei prossimi mesi se si potrà parlare di soluzioni, per ora sembra ancora troppo presto. Tuttavia l’impatto della mobilitazione giovanile sull’urgenza della questione ambientale sta già mostrando i suoi frutti. Quello che veramente hanno permesso gli scioperi per il clima è stato di alzare la voce, portare a galla problemi sui quali si discuteva già da tempo ma sui quali non si era ancora riusciti a prendere decisioni abbastanza incisive a livello istituzionale. Questo grido, attraverso la voce di milioni di giovani e adulti da tutto il mondo ha avuto e avrà l’obiettivo di risvegliare le coscienze, di suscitare dentro di noi quel po’ di ansia che serve per sentirsi in dovere di agire subito, qui e ora, in maniera radicale, sia a livello di singolo cittadino e di singola realtà locale che a livello istituzionale. Proprio perché si parla di cambiamento climatico, si deve prima di tutto essere consapevoli di quanto questo argomento sia ampio e variegato e quanto le singole scelte quotidiane possano incidere su di esso (dagli acquisti al supermercato alla raccolta differenziata). Dal punto di vista politico servirebbe poi un progetto di lungo respiro, che rispecchi una prospettiva lungimirante rivolta al benessere delle generazioni future.

Il prossimo sciopero mondiale per il clima è previsto per il 29 novembre

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Sorpresa nei progetti transfrontalieri del Gect: la Casa del parto si farà, ma nell’ospedale di San Pietro

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di Vincenzo Compagnone

asa del parto? Si, ma in dello scorso anno è stato firmato l’accorquello di dotare Gorizia di un centro Slovenia. E si tratterà, per do transfrontaliero per l’adozione di tale all’avanguardia, ma soprattutto quello di l’esattezza, di un locale modello, che si basa sulle eccellenze dei riportare il nome di Gorizia sulle carte messo a disposizione, per due territori, ma tiene soprattutto conto d’identità. Come tutti sanno, la soppresla gravidanza fisiologica, delle esperienze esistenti in Olanda, sione del Punto nascita del San Giovanni all’interno del reparto Danimarca e Inghilterra, che il gruppo di Dio, avvenuta nel 2014 a beneficio maternità dell’ospedale di di lavoro ha visitato tra maggio e giugno di quello dell’ospedale di Monfalcone San Pietro. Il report sui progetti tran2018. (attuata dalla giunta Serracchiani ma già sfrontalieri nell’area di Gorizia, Nova decisa, prima delle elezioni, dall’esecutiGorica e San Pietro facenti capo al COSA SI FARA’ – Il progetto – attinvo guidato da Renzo Tondo), ha decretaGect (Gruppo europeo di cooperazione giamo queste informazioni sempre dal to di fatto la “morte anagrafica” del capoterritoriale) contenuto nella pubblicafascicolo “La città transfrontaliera” – luogo. Proprio cinque anni fa, nella testa zione, appena uscita, “La città transfronprevede la realizzazione di nuove infradell’allora direttore generale dell’Azienda taliera” – patrocinata da Intersanitaria Marco Bertoli si era reg Italia-Slovenia e dalle tre accesa una lampadina: perché amministrazioni comunali – fa non realizzare, a mo’ di parziale finalmente chiarezza sulla realizcompensazione, a Gorizia una zazione di una struttura che per Casa del parto, che potesse cinque anni era stata “venduta” essere attrattiva addirittura per all’opinione pubblica come una gestanti di tutta la regione? futura conquista per Gorizia. Ma, come purtroppo sempre più L’IDEA DI BERTOLI – In tutta spesso accade, la realtà dei fatti Italia non sono particolarmente dimostra ora che non era mai numerose le Case del parto, per stato definito nulla di preciso e l’esattezza sei: tre in Lombardia, che vengono fatte passare come due in Emilia-Romagna e una decisioni acquisite quelli che nel Lazio. Ecco quindi che la sono soltanto progetti sulla carta proposta lanciata dall’ex mana(o nei sogni e nelle speranze di L’edificio del Parco Basaglia che sarà ristrutturato per far posto ger aziendale aveva suscitato un qualcuno). comprensibile interesse. Bertoli, alle attività pre-parto inizialmente, aveva immaginato L’articolo, estremamente dettala creazione di una palazzina gliato, pubblicato su “La città transfronstrutture dove verranno svolte le attività ex novo nell’area retrostante il San taliera” spiega per filo e per segno come dell’equipe mista multidisciplinare tranGiovanni di Dio. Questa ipotesi aveva si snoderà il percorso nascita fisiologico sfrontaliera. Mentre al Parco Basaglia di destato però qualche perplessità. Anche nel territorio del Gect Go, per il quaGorizia saranno ristrutturati degli spazi un parto naturale, che avviene cioè in le sono già stanziati circa due milioni (nel corpo di fabbrica che congiunge la un ambiente il più possibile “domestidi euro. Un servizio che verrà erogato palazzina della Direzione dell’Azienda co”, simile all’abitazione della gestante, congiuntamente da parte di un’equipe sanitaria e degli uffici amministrativi con non è esente da rischi. E una struttura italo-slovena composta da ostetriche quella della Neuropsichiatria infantile) del genere, dove l’assistenza è garantita con il coinvolgimento e la consulenza per ospitare il centro “Percorso nascita” soltanto da ostetriche e non da medici, di medici e altri specialisti. Si tratta destinato alle attività pre-parto, con una non offre le indispensabili garanzie di indubbiamente di un metodo innovatipiscina e una piccola palestra, all’ospesicurezza se non si “appoggia” a un ospevo nell’odierna pratica ostetrica basato dale di San Pietro è stato individuato un dale dotato di reparto maternità, in caso sulle migliori metodologie europee. Ma, locale all’interno del reparto maternità di problemi imprevedibili. E quello più ripetiamo, la possibilità di realizzare che verrà adibito a spazio per il parto vicino, operante all’ospedale di San Piela Casa del parto a Gorizia non è stata fisiologico. tro, sembrava comunque un po’ troppo contemplata. lontano per potervi portare una partoNON SI NASCERA’ PIU’ A GORIZIA – riente nell’eventualità di un’emergenza. COSA E’ STATO FATTO – La prima Questa, dunque, la soluzione che è stata Era scattato allora il piano B, vale a dire attività progettuale ha riguardato – come definita dopo un quinquennio di parole ristrutturare allo scopo un edificio già si legge nel rapporto – l’analisi delle al vento. Da notare che non più tardi esistente nel Parco Basaglia, in via Vittomodalità della presa in carico e del due anni fa il sindaco Ziberna, dopo rio Veneto, situato a un tiro di schioppo trattamento delle donne in gravidanza la riunione congiunta dei tre consigli dal nosocomio sloveno. Su questa ipotesi in Italia e in Slovenia, per comprendere comunali di Gorizia, Nova Gorica a San ci si è cullati fino a quest’anno: come si le differenze e trovare delle sinergie. Pietro in cui erano stati discussi appunto è visto, senza risultato. L’ex Opp ospiterà E’ stato costituito un gruppo di lavoro i progetti transfrontalieri del Gect, aveva soltanto il Percorso nascita pre-parto. composto da ostetriche e ginecologi itaribadito che Gorizia avrebbe avuto la liani e sloveni che, sulla base dell’analisi Casa del parto, e con essa nuovamente e prendendo in considerazione le norme la possibilità di far nascere in maniera L’OPINIONE DEL PRIMARIO BOin vigore nei due Stati, hanno elaborato fisiologica dei bimbi a Gorizia. Lo scopo SCHIAN – Tre anni fa, peraltro, inun modello di trattamento congiunto della realizzazione della struttura nella tervistammo sul progetto-Casa del della gravidanza fisiologica. Alla fine nostra città era infatti duplice: da un lato parto il dottor Pierino Boschian, appena

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nominato primario dell’Ostetricia e Ginecologia dell’ospedale di Monfalcone in sostituzione del dottor Attilio D’Atri, andato in pensione. Boschian, sia pure soppesando attentamente le parole, aveva fatto capire di essere contrario all’idea. Siamo andati a rileggere l’intervista: “La struttura per la gravidanza fisiologica per ora è un’ipotesi di lavoro – aveva detto il medico – nella quale non sono stato ancora coinvolto. E che comunque, per concretizzarsi, deve tener conto nel modo più assoluto delle condizioni di sicurezza che vanno garantite alle mamme. Vede, le emergenze ostetriche sono difficili da valutare. A volte capitano anche all’interno dell’ospedale, per cui occorre essere pronti a fronteggiarle. A Gorizia andrebbe, piuttosto, potenziato l’ambulatorio ginecologico del San Giovanni di Dio, con la presenza quotidiana di due medici al posto di uno e l’implementazione di alcune prestazioni”. Non facciamo fatica a supporre che Boschian abbia ribadito queste sue perplessità nelle riunioni che si sono, poi, succedute sul progetto, inserito nel ventaglio di quelli del Gect. Va aggiunto, inoltre, che da parte slovena l’idea di una Casa del parto a Gorizia, della quale potessero usufruire evidentemente anche gestanti d’oltreconfine, è sempre stata giudicata in modo molto tiepido. Problemi di sicurezza a parte, non c’era alcuna convenienza per l’ospedale di San Pietro a favorire un progetto che rischiava di sottrarre delle utenti. CONCLUSIONI – In definitiva, tutto quello che si può dire a questo punto è che la famosa “morte anagrafica” di Gorizia, contro la quale aveva tuonato invano l’allora sindaco Ettore Romoli, è diventata ufficiale e irreversibile, a meno di parti in casa o in strada come è avvenuto un paio d’anni fa. Delle volonterose mamme del comitato “Voglio nascere a Gorizia”, capeggiate da Genj Furlan, si è persa ogni traccia. Né, da parte dell’amministrazione comunale, si è levata alcuna voce nei confronti della Regione “amica” (ci riferiamo al colore politico) per una possibile riattivazione del Punto nascita goriziano: miracoli che, evidentemente, sono una prerogativa esclusiva di Latisana, che è riuscita a far chiudere l’efficientissimo reparto maternità di Palmanova e a resuscitare il proprio. Mettiamo dunque una pietra tombale su tutta la telenovela. Il depauperamento generale del nostro ospedale continua, anche se ogni tanto ci viene propinato qualche zuccherino per indorare una pillola alquanto amara che i goriziani sono costretti a ingurgitare quotidianamente, prima e dopo i pasti, ormai dagli anni Novanta, quando il trasferimento dei reparti di Oculistica e Otorinolaringoiatria (guidati da fior di primari quali, rispettivamente, il professor Michele Belmonte e il professor Salvatore Di Fede) a Monfalcone, diede via a una progressiva e inarrestabile spoliazione. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Ortopedia, un avviso denuncia le carenze

La scomparsa di Cossar chirurgo-gentiluomo

L’avviso-choc è apparso, scritto in stampatello e rigorosamente anonimo, il mese scorso nel reparto di Ortopedia del San Giovanni di Dio: Recitava così: “Si avvisa l’utenza che, a causa della continua mancanza di personale, la segreteria degli ambulatori di Ortopedia rimarrà chiusa sine die. Gli utenti verranno chiamati dal personale all’interno degli ambulatori in base all’orario dell’appuntamento. Ci scusiamo per il disagio non dipendente dalla nostra volontà”.

La scomparsa, a 85 anni, del dottor Giovanni Cossar, goriziano doc, ha fatto inevitabilmente riandare con la memoria agli anni d’oro dell’ospedale di Gorizia, quello che troneggiava nella “cittadella sanitaria” di via Vittorio Veneto e che annoverava reparti , primari e medici di prim’ordine. Cossar guidava con mano sicura il reparto di chirurgia, dove ha forgiato non pochi allievi. Fra questi c’era il suo “aiuto” Bruno Thomann che amava sottolineare proprio il fatto che il dottor Cossar “era uno che insegnava”, a differenza di molti che, gelosi del loro sapere, ti costringono a rubare con gli occhi. E poi c’erano Adelino Adami, che di lui ha sempre avuto un bellissimo ricordo come giovane assistente, e Alfredo Miseri, suo cugino di secondo grado. Cossar ha lavorato all’ospedale di Gorizia in un’epoca in cui il nosocomio era attrattivo non soltanto per i pazienti residenti a Gorizia e provincia, ma anche in altre parti della regione. Non come adesso, in un momento in cui, nella commissione comunale welfare coordinata da Franco Hassek, una dirigente aziendale ha ammesso candidamente che al San Giovanni di Dio i medici e gli infermieri non ci vogliono proprio venire (da qui le carenze che si riscontrano). Evidentemente perché, al di là di alcune “eccellenze” di cui abbiamo parlato in un precedente numero, sanno che avranno poco da imparare e molto (troppo?) da sgobbare. In questa sede ci piace anche ricordare la generosità di Giovanni Cossar, che custodiva in casa qualcosa come 140 diari in cui è racchiusa praticamente tutta la sua vita, e che alcuni anni fa, in occasione del 150mo anniversario dell’istituzione dei Musei provinciali, donò – da collezionista l’arte qual era ma soprattutto da nipote di Giovanni e Ranieri Mario Cossar, storici direttori dell’istituzione museale – un centinaia di preziose porcellane del Sette e Ottocento, un trumeau settecentesco in noce e radica appartenuto a Sigismondo Attems e addirittura un elegante salotto ottocentesco, oltre allo sterminato archivio del nonno. (vi.co.)

Una comunicazione importante, senza dubbio, ma anche una denuncia. La cosa che più colpisce, di primo acchito, è che la dirigenza dell’ospedale non abbia provveduto a fornire l’informazione agli utenti con un’opportuno comunicato. Poiché il personale non può divulgare notizie che, in qualche modo, possano mettere in cattiva luce l’azienda, c’è voluta una “manina” anonima che decidesse di far sapere al pubblico quanto stava succedendo. E che, in sostanza, ha scritto: “In reparto c’è una grave carenza di personale, scusate tanto, ma non dipende da noi”. La foto ha fatto il giro dei social e i commenti non sono stati, com’è logico, proprio benevoli. Il giorno dopo l’avviso è stato fatto togliere. Ma nel frattempo si è saputo che: in Ortopedia ci sono delle mattine in cui sono al lavoro soltanto due infermieri e nessuno all’accettazione, con il risultato di sovraccarichi di lavoro e rallentamenti nell’accettazione e nel lavoro ambulatoriale stesso. Se una sola persona si ammala, poi, son dolori. Adesso l’addetta l’accettazione è assente per malattia da più di due settimane e ci sono delle ferie arretrate da smaltire. Gli infermieri sono stanchi. La coordinatrice infermieristica fa quello che può e pare che a novembre, finalmente, si sia riusciti a sbloccare una mobilità facendo venire un infermiere da Palmanova. Se sono rose fioriranno, ma certi fiori all’occhiello dell’ospedale sembrano sempre più appassiti. (vi.co.)

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L’odissea di Alì lasciato al gelo e morto di cancrena in Bosnia di Aulo Oliviero Re

A

lì lavora in un panificio. Si sveglia ogni mattina alle tre e va a lavorare. Parla italiano, il suo accento è forte ma ha imparato la lingua bene. E’ qua da sei anni, e un paio di anni fa ha conosciuto una ragazza italiana. Le vuole molto bene, la ama. Stanno mettendo via i soldi per sposarsi con doppia cerimonia, cristiana in Italia e mussulmana in Tunisia, il suo paese di origine e dove ancora vive la sua mamma e le sue sorelle più piccole. Così dovrebbe cominciare questa storia, se non fosse falsa. La verità è ben diversa. Alì non si chiama così. Il suo vero nome è Kobheib. O forse sarebbe meglio dire “era” Kobheib, perché in realtà Ali-Kobheib è morto il 21 settembre in Bosnia. Di lui si è scritto molto, sui giornali. A me ne aveva già parlato Greta Mangiagalli, programme manager per la Bosnia di Ipsia quando mi ero recato a Bihac, crocevia della rotta balcanica, per testimoniare la situazione locale sulle pagine di Gorizia News&Views. Era arrivato in gennaio, ed era stato registrato al Bira Camp gestito da Iom (International Organization for Migration). Di lui inizialmente si sapeva pochissimo. Era stato intercettato dalla polizia croata, che prima di ricacciarlo in Bosnia, gli aveva sequestrato le scarpe. Così si era avviato verso Bihac, scalzo tra la neve. Era arrivato già in stato confusionale, con i geloni ai piedi e le dita in cancrena. Non ha voluto farsi amputare le dita e non ha voluto farsi ricoverare. Ancor prima del corpo, la sua mente si era lacerata. Ha passato i suoi primi quattro mesi in un container all’interno del Bira Camp, tra l’urina e le feci, senza alcuna

assistenza medica, sia per negligenza della direzione che per l’assenza di uno stato sociale nel paese. In quei quattro mesi la cancrena aveva invaso le caviglie ed i polpacci, portandolo a perdere letteralmente pezzi di carne all’interno del container che gli era stato assegnato. La procedura legale sarebbe stata ancor più complicata che in Italia in quanto i rappresentanti di tutti e sette i cantoni bosniaci avrebbero dovuto essere stati d’accordo nell’assegnargli un tutore legale che avrebbe solo allora potuto disporre l’operazione che gli avrebbe salvato la vita. Nel frattempo la situazione è precipitata, soprattutto dal punto di vista della dignità umana. E qualcuno potrebbe avere delle responsabilità. “Non sopportavamo più di vedere tutti i giorni Kobheib – ci ha raccontato Greta - che pur di stare in mezzo alla gente, si trascinava fuori dal container. Gli hanno tolto la sedia a rotelle perché andava in giro da solo, e questo era ritenuto un problema dalla direzione, o perlomeno un problema più grande del vederlo strisciare per terra sui gomiti. Quando ho presentato il problema alla manager Iom del Bira, mi ha risposto che non gli chiedono loro di andare in giro strisciando. Quando ho chiesto che gli venisse affidata una Oss che lo venisse a lavare almeno una volta alla settimana per farlo morire con dignità, mi hanno liquidata dicendomi che non era compito loro.” In Europa c’è un problema. Nella comunità internazionale c’è un problema. Com’è possibile che il direttore di un campo profughi gestito da un istituzione internazionale come lo Iom (le stesse Nazioni Unite della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani) abbia questa levatura morale? Nonostante l’urgenza, i rappresentanti non si sono pronunciati in relazione al tutore legale e la negligenza della direzione del campo ha permesso che la situazione precipitasse al punto da vedere Kobheib punito dagli operatori del campo per aver usato la carrozzella, e gettato come un sacco di immondizia dentro una carriola.

Fino a quando qualcosa si è smosso, grazie soprattutto alle pressioni e al meraviglioso lavoro di volontari come Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi di Melting Pot Europa, che Kobheib lo avevano imparato a conoscere bene, per quanto permettessero le sue condizioni cliniche e mentali. “Kobheib -ci racconta Lorena, psicoterapeuta, che ne ha narrato con toni commossi la storia al recente Festival del Coraggio di Cervignano- verso il quale avevamo cominciato a provare un vero affetto, avendo oramai i piedi in uno stato tale da non permettergli più di andare dove voleva andare, era entrato in uno stato di totale negazione del suo stato di salute, e questo rendeva la sua situazione complicatissima.” Lorena, senza giustificare i risultati, ci tiene però a denunciare le condizioni da “burnout” in cui lavorano gli operatori Iom. Alla fine Kobheib era stato ricoverato in un ospedale psichiatrico. Sarebbe meglio dire abbandonato e legato a un letto perché non si togliesse le bende o rifiutasse i medicamenti, che per onor di cronaca erano fatti correttamente. Lorena, che per avere il permesso di visitarlo veniva rimpallata ogni volta in più uffici Iom e Drc, ci racconta che la situazione era migliorata perlomeno dal punto di vista igienico, poiché dal punto di vista psichiatrico ricordava la situazione italiana pre-Basaglia. Il viaggio negli inferi non era però finito per Kobheib. Lo scaricarono infatti in mezzo alla strada dall’istituto psichiatrico perché Drc venisse a prenderlo a portarlo in ospedale a Sarajevo. Dopo pochi giorni scappa nuovamente e ritorna a Bihac in stampelle, dove va a morire nei boschi. Viene trovato in condizioni di incoscienza e portato all’ospedale di Bihac dove muore. Adesso Koheib riposa nei cieli, dove perlomeno questa volta si spera non venga abbandonato in qualche corsia del paradiso. Almeno lì, speriamo che non sia tutto sbagliato. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Lorena Fornasir e Gianandrea Franchi hanno raccontato la storia di Ali in un affollato incontro al Festival del coraggio di Cervignano.

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La seconda edizione di “Ciao come stai” riporta al centro la lingua come mezzo di integrazione

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onoscere un’altra lingua significa avere una seconda anima”. Il significato di questa frase, attribuita a Carlo Magno, lo si evince perfettamente dalle parole di Alexandrina Scoferta che in occasione di “Ciao come stai”, svoltosi lo scorso 5 ottobre nella Sala Incontro a San Rocco, hanno toccato profondamente il pubblico presente. Le parole oggi sono per Alexandrina come birilli in mano a un giocoliere professionista: riesce a farci ciò che vuole perché le conosce intimamente, perché le ha fatte proprie. Ma non è sempre stato così. Appena arrivata in Italia dalla Moldavia, quando ancora cervello e bocca non erano coordinati, il senso di

di Eleonora Sartori inadeguatezza e di impotenza la immobilizzavano. Dunque, la performance di Alexandrina non è solo un saggio della sua indiscussa bravura a comporre versi, ma è una testimonianza, un grido: per lo straniero la lingua è l’unico modo per smettere, ad un certo punto, di sentirsi tale, per ricostruire la propria vita all’interno di una cultura che non è quella originaria. Ma l’assenza di un codice condiviso dalle nostre parti non riguarda solo gli stranieri: anche noi non conosciamo la lingua dei nostri vicini di casa e ciò rappresenta indubbiamente un enorme ostacolo alla costruzione di una città unica. In occasione della serata vi sono state altre testimonianze di ragazzi ospiti al Nazareno, che, tra le altre cose, proprio

Io e te non parliamo la stessa lingua. Me ne sono accorta tanti anni fa, quando sono arrivata in Italia. I miei genitori conoscevano delle parole italiane, ma non parlavano italiano. Quando parlavano erano goffi ed io mi vergognavo tantissimo. Non parlare – pensavo – piuttosto taci, tanto non stai dicendo quello che stai dicendo. Era ridicola mia madre. Non diceva quello che voleva far dire alle parole, le persone l’ascoltavano fino alla fine per educazione e la guardavano come si guarda un handicappato che si morde la lingua, con la fretta e l’impazienza che finisse quella cazzo di frase, che tanto della frase non gliene fregava niente a nessuno. Io la guardavo e mi vergognavo. La stessa donna che nella sua terra era affascinante e intelligente, qui era penosa. Anche mio padre, che in casa aveva le spalle grosse e batteva i pugni sul tavolo, fuori era un insetto schiacciato dalla lingua. La lingua è una rana che mangia le mosche, lo straniero è un insetto che fa bzzzz intorno alla lingua. Allora decisi di farmi muta. Non ho mai voluto imparare la lingua, la lingua aveva tolto dignità ai pensieri dei miei genitori, li aveva resi ridicoli e stolti, non volevo che lo facesse anche con i miei, piuttosto sarei stata zitta per sempre. Per più di dieci anni, non ho detto nulla a nessuno, nulla che non fosse strettamente necessario. Per più di dieci anni ho solo coltivato odio e rabbia cattiva verso la lingua. L’undicesimo anno sentivo la lingua dentro di me, era entrata con la forza e mi si annodava nello stomaco come la merda nella pancia di uno stitico. La lingua voleva essere defecata, doveva essere detta, era una questione di sopravvivenza. L’uomo, se non comincia ad esistere, muore. Gli italiani sono un popolo straordinario, avete una lingua succosa e densa come il paté di olive nere. Io mi ci struscio, è una vera e propria perversione. Mi consumo letteralmente in lei, assorbe la mia Moldavia, il mio viaggio, la vergogna, i bambini che giocano con le mutande rotte a Casunca, il corpo scheletrico che aveva mia madre, lo sguardo gelido di mio padre incazzato con la sorte, il grembo caldo della nonna. La vostra lingua ha assorbito la mia vita, la Moldavia intera e io non faccio altro che darmi e darla alla lingua. La scrittura o la vita, aveva detto qualcuno. La lingua o la morte, dico io. L’italiano o la morte. Non mi è rimasto più nulla che possa essere detto in una lingua che non sia la vostra. Vi sto dicendo che siete straordinari e che vi corro dietro con tutte le forze che ho, con tutta la vita sulle spalle e non vi incontro mai.

Alexandrina Scoferta legge un suo testo in occasione di “Ciao come stai”

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questo stanno facendo: stanno imparando la lingua italiana per poter lavorare e più in generale per poter instaurare delle relazioni nella società che oggi li ospita ma che potrebbe diventare la loro futura nuova casa. Purtroppo, oggi i problemi legati ai corsi di italiano sono tantissimi, a causa dei tagli decisi a livello nazionale, e spesso l’aiuto a questi ragazzi arriva dalla generosità e dall’altruismo di volontari che sopperiscono alle mancanze istituzionali. “Ciao come stai”, organizzato da Giovanni Fierro e presentato da Matteo Femia, è arrivato alla sua seconda edizione: l’evento anche quest’anno ha coniugato musica (Aldo Becca), poesia (Roberto Marino Masini, Alexandrina Scoferta), riflessioni sull’immigrazione con ospiti (Hamed Darek, Navid) e ospitanti (Orietta Feletto) incontrando l’apprezzamento del pubblico. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Presentazione del libro “Contro l’ideologia del merito”

Leg in collaborazione con il polo Liceale di Gorizia presentano il saggio di Mauro Boarelli “Contro l’ideologia del merito”. L’iniziativa vuole parlare di società e di scuola in maniera svincolata dal “main stream”, offrire a quanti lo desiderano (cittadini, docenti, studenti) un punto di vista divergente rispetto alle “parole d’ordine” che sentiamo risuonare ogni giorno: proprio perché ripetute continuamente rischiano di diventare vuote e consumate. Tucidide, grande storico dell’Atene di V sec, presentando gli inizi della guerra del Peloponneso, la “guerra mondiale” dei Greci, osserva che è il caso di preoccuparsi quando si inizia a cambiare il significato delle parole. Gli fa eco quattro secoli dopo Sallustio: “Vera vocabula rerum amisimus” (abbiamo perduto il vero senso delle cose). La manipolazione delle parole è stato lo strumento spesso decisivo di ogni potere. Ai nostri tempi le rivoluzioni si fanno con le parole più che con le armi; oggi più che mai, ce l’ ha insegnato Rosa Luxemburg, “Il primo atto rivoluzionario è chiamare le cose con il loro nome”. Boarelli analizza con sagacia parole molto in voga nella comunicazione quotidiana, che tendiamo a recepire come neutre e rassicuranti: meritocrazia, trasparenza, valutazione, efficienza. E ci fa capire che a volte possono essere un tranello. 27 novembre, 18.30 Libreria Leg (corso Verdi, 67 Gorizia)


Ricordo dei fratelli Rusjan, pionieri del volo a 110 anni dal primo balzo sui prati della Campagnuzza

L

e sponde dell’Isonzo sono gremite, in attesa dell’evento. La gente si assiepa sotto il ponte di Salcano in questo pomeriggio di fine estate, sotto un cielo grigio che preannuncia la pioggia, mentre il fiume, quaranta metri più in basso, è il solito incanto turchese. I fotografi sistemano gli obiettivi, l’attesa è palpabile, ma, mentre aspettiamo, vale la pena raccontare qualcosa delle origini di questo ponte e degli avvenimenti dell’epoca. Nei primi anni del Novecento, Gorizia è una cittadina dell’Impero austroungarico in piena espansione. Popolosa, colta e vivace, rappresenta una notevole attrattiva per gli abitanti delle contrade asburgiche. E’ già stata collegata alla Ferrovia Meridionale, che parte da Vienna e arriva a Trieste, ma una nuova linea ferrata tra l’Adriatico e il cuore dell’Impero passerà proprio dalla città per raggiungere Jesenice, l’Austria e la Boemia. Per i progettisti della Ferrovia Transalpina la prima sfida ingegneristica è proprio quella di attraversare l’Isonzo a Salcano, per poi compiere una svolta a destra in leggera salita e costeggiare il fiume. La soluzione viene individuata in un ponte ad arcata unica lungo 85 metri. Costruito a tempo di record, il ponte viene inaugurato nel luglio del 1906 alla presenza dell’erede al trono, l’Arciduca Francesco Ferdinando. Anche se nel resto del mondo si scommette sul ferro, come testimoniano le grandi opere dei primi del Novecento e, fra tutte, la torre Eiffel, nel vasto e apparentemente incrollabile Impero di Cecco Beppe si preferiscono ancora le granitiche certezze di enormi blocchi di pietra d’Aurisina sapientemente squadrati. Gorizia è ancora saldamente in mano asburgica, in quegli anni, ma stanno crescendo le istanze irredentiste e l’intera Europa è percorsa da fremiti che porteranno appena otto anni dopo allo scoppio della prima guerra mondiale e alla sovversione di ordini secolari. Proprio durante gli anni di costruzione del ponte, un giovane goriziano di lingua slovena, Edvard (Edi) Rusjan, si appassiona all’aeronautica. Il 17 dicembre 1903 i fratelli Wright sono riusciti a far alzare dal suolo il loro Flyer per quattro volte e a condurlo in modo duraturo e controllato, e il mondo intero osserva con eccitata curiosità queste imprese pionieristiche. La stagione dei voli aerei è al suo inizio e cambierà in poche decine d’anni il modo di spostarsi, ma in

di Anna Cecchini quegli anni si tratta di un’affascinante e controversa novità. Edi è nato a Trieste il 6 luglio 1886. I genitori, Franc e Grazia Cabas (friulana di Medea), vi si sono trasferiti per ragioni lavorative, ma torneranno a Gorizia qualche anno dopo per avviare un laboratorio di botti di legno. Il giovane s’innamora prima del ciclismo, ma poi viene catturato dalla passione per il volo. Legge tutto ciò che si pubblica sull’argomento, studia e progetta velivoli nella sua stanza della casa di famiglia, in via della Cappella. Nel 1908, approfittando del laboratorio di falegnameria del padre, costruisce assieme al fratello Josip (Pepi) un aliante con stecche di bambù e cartone, chiamandolo ironicamente “trapola de carta”, l’espressione usata dalla madre per definire con una punta di scetticismo il progetto dei figli. Si tratta del primo modello di una lunga serie, ancora privo di motore, e sulla parete del rudimentale hangar casalingo Edi scrive: “Fabrique technique d’aéroplans Rusjan”. Il 1909 è un anno cruciale nella storia dell’aviazione. Il volo acquisisce maggior durata e sicurezza, e ovunque si svolgo-

no gare ed esibizioni che ne promuovono la sperimentazione. Dopo l’impresa dei fratelli Wright, che per primi hanno risolto il problema dell’equilibrio laterale e longitudinale dei velivoli, comincia la corsa al record di altezza e di durata. In questo clima febbrile si colloca la sperimentazione dei fratelli Rusjan. Nel settembre del 1909 Edi partecipa a una riunione di pionieri del volo a Montichiari, vicino a Brescia. Lì acquista un motore da 25 HP di fabbricazione francese e progettato dall’italiano Anzani, lo stesso modello con cui Louis Blériot ha sorvolato la Manica solo quattro mesi prima, compiendo un’impresa storica. Sarà il motore che verrà montato su tutti e sette i velivoli che il giovane costruirà nei mesi successivi assieme al fratello Pepi. Il loro EDA I, è un biplano di 12 metri e con 8 metri di apertura alare, che vola per la prima volta il 25 novembre 1909, quando compie un balzo di 60 metri a un’altezza costante di 2 metri sopra i prati della “Campagna piccola”, l’attuale Campagnuzza. Questi voli potrebbero sembrare poca cosa, se confrontati con i risultati già raggiunti negli Usa

La riproduzione del biplano Eda 7 appesa al soffitto dell’atrio dell’Eda Center a Nova Gorica

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e in Francia, ma i fratelli Rusjan, che sono contemporaneamente progettisti, costruttori e piloti, non hanno accesso ai brevetti dei Wright, né dispongono delle risorse finanziarie di Blériot. Edvard e il fratello sono animati solo da una passione travolgente e da notevoli capacità progettuali e costruttive e, poco tempo dopo, il velivolo riesce a compiere un volo di 600 metri a 12 metri dal suolo. Alla fine del 1909 avviano la costruzione del secondo aereo e l’evento viene immortalato in una foto con la famiglia Rusjan al completo attorno allo scheletro dell’apparecchio. Edi, nel frattempo, ha affittato un capannone nella zona di Merna per essere vicino a una zona favorevole ai voli e alle esibizioni pubbliche, dove sorgerà qualche anno più tardi l’attuale campo di aviazione. Il secondo velivolo è EDA II. si tratta di un triplano con motore posteriore per tentare di migliorarne la stabilità, ma il suo volo inaugurale si conclude con una rovinosa caduta e la distruzione dell’aereo. Edi rimane fortunatamente illeso. I due fratelli fanno tesoro dell’esperienza e i successivi EDA III e EDA IV sono biplani sviluppati sulle caratteristiche del progetto originario. La sorella Lojzka, che tutti chiamano Gigia, li segue sempre durante le prove ed è incaricata di cucire la tela sulle ali dei velivoli, ma nessuno dei familiari salirà mai in volo, nemmeno il fratello Pepi. I Rusjan costruiranno in tutto sette prototipi. L’EDA V e l’EDA VII saranno quelli più riusciti e supereranno tutte le prove di volo. Edi si cimenta il 28 marzo 1910 nella sua prima manifestazione aerea. Il 29 giugno 1910 partecipa con l’EDA VI a una seconda manifestazione, alla quale prendono parte anche due piloti di Klagenfurt, lo sloveno Zablatnik e il tedesco Heim con due aerei Wright di serie. L’EDA VI si leva a ben 40 metri di altezza e compie un ampio giro sopra il campo di Merna. Si tratterà del volo più riuscito di Edi Rusjan a Gorizia. L’EDA VII è di nuovo un biplano, con l’ala inferiore più corta. Con la sua costruzione i fratelli Rusjan esauriscono le risorse finanziarie. Tutti i loro risparmi e quelli del padre Franc, che crede fermamente nel progetto, vengono destinati alla costruzione del velivolo. Chiedono aiuti anche alla Francia, all’Austria e all’Ungheria, ma con scarso successo. Nell’agosto del 1910, la svolta. Durante una gara ciclistica i Rusjan conoscono Mihajlo Merćep, un industriale croato che propone loro di mettersi in società. I due fratelli si trasferiscono a Zagabria con il loro bagaglio di competenze, di entusiasmo e di coraggio. Il sogno di creare una fabbrica di velivoli è finalmente realizzato. Nel mese di settembre inizia la costruzione dell’Eda VI, il primo aereo societario. Grazie all’afflusso di denaro proveniente da Merćep, viene deciso di potenziare l’apparato motore con un costoso motore Gnome Omega da 50 cv a 7 cilindri della ditta francese “Société des Moteurs Gnome et Rhône”. Si studiano anche un’ala e una carlinga diverse a supporto della potenza del nuovo

Monumento e targa all’aeroporto Duca d’Aosta

motore. Il prototipo “Sokol” (falco in lingua ceca) è pronto a metà novembre. Decolla in appena 28 metri ed è già un record. Si pensa in grande e l’entusiasmo è alle stelle. Viene organizzato un giro propagandistico nella penisola balcanica con un volo inaugurale a Zagabria e poi, l’8 gennaio del 1911, a Belgrado. Quel giorno spira un forte vento di tramontana e l’esibizione viene sospesa. Il giorno dopo le condizioni climatiche sono identiche, ma Rusjan non vuole deludere il folto pubblico in attesa. Si alza in volo, si esibisce in numerosi passaggi sulla folla entusiasta, finchè un colpo di vento spezza un’ala del velivolo, che precipita da un’altezza di venti metri ai piedi della fortezza di Kalemegdan, alla confluenza della Sava con il Danubio, e si schianta nei pressi della ferrovia. Edi è gravemente ferito e morirà – a soli 25 anni - durante il trasposto all’ospedale. L’evento viene accolto da emozione e sgomento e al funerale partecipa una grande folla che accompagna il feretro nel cimitero di Belgrado per la tumulazione. Dopo la tragedia Pepi Rusjan, che non aveva mai voluto volare, costruirà altri due aerei nell’officina di Zagabria, ma due anni dopo chiuderà i ponti con il mondo del volo ed emigrerà in Argentina. L’impresa dei fratelli Rusjan è stata celebrata nel 1999 nel corso del 90^ anniversario e poi il 24 ottobre 2009, in occasione del centenario, con uno spettacolare volo sotto il ponte di Salcano dell’aereo pilotato da Benjamin Ličen. Lo scorso 22 settembre 2019, l’aereo, pilotato sempre dall’ormai veterano

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Benjamin Ličen, giunge finalmente da nord a una velocità di 262 km/h per infilarsi sotto il ponte con una manovra spettacolare e risale poi a una velocità di 25 metri al secondo per evitare il ponte stradale successivo a poca distanza. La folla applaude all’impresa, i clic dei fotografi si moltiplicano per immortalare lo spettacolare passaggio aereo, che, per chi se lo fosse perso, è facilmente rintracciabile sul web. Affascinata da questa vicenda, mi do da fare per rintracciare notizie e scopro che la città di Nova Gorica ha eretto l’11 settembre 1960 un monumento che ricorda l’impresa di Edvard Rusjan. Si trova in Rusjanov trg, nello spiazzo antistante al grattacielo in vetro nel centro della città. Progettato dallo scultore Janez Lenassi e realizzato in marmo candido, rappresenta Icaro e il suo volo verso il cielo che si conclude poi tragicamente. Nell’atrio del grattacielo, chiamato non a caso Eda Center, è appesa al soffitto una copia perfettamente riuscita dell’Eda V. A Edvard Rusjan è stato anche intitolato l’aeroporto di Maribor e perfino un asteroide. Nel 2009 la Slovenia gli ha dedicato una moneta da 3 euro per commemorare i cento anni dal volo. Scopro anche che in città vive una nipote diretta dei due fratelli, Grazia Rusjan, che accetta di incontrarmi. E’ la figlia di Carlo, uno dei fratelli Rusjan, nato appena due mesi prima della tragica scomparsa di Edi. Dopo una lunga carriera come funzionario all’Unione Europea a Bruxelles, Grazia ha deciso di tornare a Gorizia per dedicarsi con passione a preservare la memoria dei suoi zii, che è molto viva e presente negli ambienti sloveni cittadini e della vicina Repubblica, mentre a Gorizia ha incontrato spesso un’incomprensibile ritrosia sull’argomento. Se vorrete rendere omaggio ai giovani pionieri del volo nella loro casa di via Cappella 8, dove tutto ebbe inizio, troverete la targa commemorativa che lei stessa ha commissionato e poi fatto apporre sulla facciata. Dopo una lunga battaglia, finalmente nel 2009 l’allora Amministrazione provinciale ha eretto davanti al palazzo di Corso Italia una scultura ideata dall’artista Vittorio Balcone, che contiene purtroppo un’errata traduzione in lingua tedesca e che forse non brilla per potenza evocativa, ma quantomeno ricorda, in un punto centrale della città, le imprese aeronautiche dei fratelli Rusjan. Un altro, inaugurato sempre nel 2009, si trova all’aeroporto Duca d’Aosta. E se volete saperne di più, consiglio vivamente di visitare la pagina web www.edvard-rusjan.it/rusita.html, curata dalla stessa Grazia Rusjan, e di leggere il piacevolissimo libro “I fratelli Edvard e Josip Rusjan di Gorizia” scritto da Srečko Gombač ed edito a Isola nel 2006, che potrete trovare alla libreria Cattolica di Piazza Vittoria. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


Gulalai, coraggiosa attivista per i diritti umani: ecco chi è e quali sono le lotte che porta avanti

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n generale, la gente dell’Occidente pensa che le persone del terzo mondo siano povere, ignoranti e per lo più analfabete, con un’assoluta mancanza di consapevolezza politica e priva di movimenti sociali. Non è così. Ci sono molti attivisti che dedicano la loro vita per le cause politiche e sociali, ma il loro lavoro è rischioso, perché viene svolto all’ombra di quei regimi semi-dittatoriali. La maggior parte di questi attivisti è di età relativamente giovane e nonostante molte persone fuggano per motivi personali, economici, religiosi, politici o sessuali, alcuni sono così coraggiosi da combattere per i diritti della parte emarginata della loro società. E in quella lotta devono affrontare l’ira dello stato in cui vivono. Oggi vi racconterò la storia di uno di questi eroi, la mia compagna femminista, Gulalai Ismail. Come me e tanti altri giovani pakistani, Gulalai, che oggi ha 33 anni, è nata e cresciuta durante un’epoca di conflitto legato all’alleanza stipulata dal Pakistan con la Nato dopo l’attacco dell’11 settembre a New York, per sconfiggere i talebani in Afghanistan e nella parte settentrionale del Pakistan. La guerra al terrorismo è proseguita per decenni e ha causato più di duecentomila vittime fino ad ora. Gulalai ha iniziato a lavorare come assistente sociale al 16 anni con la sorella maggiore, Saba. Si occupavano dei diritti delle ragazze, diffondendo consapevolezza contro i matrimoni in età infantile e contro i delitti d’onore, e sviluppavano programmi per l’istruzione femminile. Ha poi fondato l’organizzazione Aware Girls (Ragazze consapevoli) e formato molte giovani alla partecipazione civica e democratica nel paese, istruendole sui loro diritti umani fondamentali. Tutto ciò ha fatto di lei una leader indiscussa nell’educazione delle comunità locali. La guerra contro il terrorismo nella zona settentrionale del Pakistan ha reso la sua attività difficile, in quanto tutto il suo lavoro sociale era legato proprio a quella parte del paese. Dal 2009 al 2016 ha dato un contributo eccezionale preparando i giovani costruttori di pace, la “ Youth Peace Network (Rete della Pace Giovanile)”.

di Ismail Swati gramma di prevenzione dell’Hiv tra le donne in Pakistan, che mira a educare le donne sulla salute sessuale, la trasmissione e il trattamento dell’Hiv, oltre a ridurre lo stigma di vivere con questa diagnosi. Sotto l’egida di questa organizzazione, si stava attivando per l’assistenza contro la violenza domestica di genere. Per il suo lavoro sui diritti umani, ha ricevuto a livello internazionale molti riconoscimenti tra cui “Democracy Award from the National Endowment for Democracy”, ed è stata riconosciuta come uno dei 100 pensatori globali leader del 2013 da Foreign Policy Magazine. La lotta che ha iniziato sin da adolescente si è scontrata col pensiero conservatore e il fondamentalismo nella società. La società pakistana è stata rigettata nell’oscurità negli anni ‘70 dai dittatori dell’esercito attraverso l’islamizzazione forzata delle scuole e la creazione di estremisti (talebani) durante la guerra dell’Unione Sovietica in Afghanistan. Contrapponendosi a questa ideologia, Gulalai come risultato ha ricevuto continue minacce di morte dai fondamentalisti, e, nel 2017, false accuse di blasfemia (la legge sulla blasfemia prevede la pena di morte in Pakistan). L’istituzione del Pakistan ha chiuso deliberatamente la sua organizzazione e messo delle barriere al suo percorso. Nel 2018, un giovane movimento politico ribelle e non violento chiamato “Pashtoon Tahafuz Movement” è partito dal confine pak-afghan, guidato da un giovane di 24 anni, Manzoor Pashteen, che ha chiesto un intervento legale per la sofferenza della popolazione locale distrutta dalla guerra civile in corso. Questo movimento ha evidenziato per la prima volta il problema di circa 35000 persone scomparse e ha parlato contro le atrocità militari. Il movimento è stato

Io stesso ho partecipato a questa formazione, dove per la prima volta mi sono reso conto di quanto sia importante appoggiare le istanze femministe. Con il sostegno dei donatori internazionali, la sua organizzazione ha gestito un pro-

sostenuto dalla sinistra (che non ha voce in parlamento), dai media internazionali e dagli attivisti globali. Anche Gulalai ne è entrata a far parte, parlando apertamente delle crudeltà commesse dai militari dell’esercito pakistano contro i cittadini locali, le molestie sessuali dell’esercito nei confronti delle ragazze, l’estrazione di minerali ad uso militare presenti nel territorio e altre questioni legate ai diritti umani. L’istituzione del Pakistan non lo ha tollerato. Per sfuggire all’arresto, Gulalai si è nascosta e ha lasciato il Pakistan a piedi, raggiungendo lo Sri Lanka. Al momento della partenza aveva un visto valido per gli Stati Uniti e per questo è venuta a New York e ha chiesto asilo politico, pur rimanendo attivamente coinvolta nella sua lotta contro l’establishment patriarcale e militare del Pakistan. Partecipa regolarmente a talk show in TV, scrive e alza la voce a difesa delle ragazze del Pakistan. Le istituzioni del Pakistan, costringendo Gulalai a uscire dal paese, hanno zittito la sua coraggiosa voce femminista. Purtroppo hanno due proiettili con cui colpire il cittadino, il primo è accusarlo di essere un traditore e l’altro di essere anti-Islam. Sono convinto che con questa strategia vogliono bloccare il pensiero critico nel paese. I dittatori non amano le critiche e vorrebbero sopprimere tutte le voci illuminate e ragionevoli, in quanto non sono adatte a mantenere lo status quo, che i loro padroni in Occidente utilizzano per mantenere il terzo mondo sotto il regime neocolonialista da cui i giovani e i cervelli più creativi fuggono ogni giorno. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Gulalai Ismail, attivista pashtun di 33 anni

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Miela Reina ”battezza” il restyling della Spazzapan di Eliana Mogorovich

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he bellezza! Che finura! Avere adito alla cultura! Essere addetto a questi lavori! Mentre gli altri tutti fuori».

Così scrive Miela Reina in un’opera che se, graficamente, ricorda le parole in libertà di Marinetti, tradisce d’altro canto la consapevolezza del privilegio che le derivava dal potersi esprimere attraverso l’arte. E proprio la prima parte di questo pensiero è stata scelta come titolo della mostra a lei dedicata dalla Galleria Spazzapan di Gradisca d’Isonzo che, dopo un periodo di chiusura per restauro, cerca ora di scrollarsi di dosso la polvere che l’ha avvolta negli ultimi anni sia attraverso un calendario di esposizioni che mettano a confronto Spazzapan con altri autori regionali, sia grazie a un restyling degli ambienti e delle strutture che la proietta

nel mondo digitale. Il percorso comincia infatti dalla sala conferenze del pianoterra con un touch screen in cui è possibile ripercorrere la storia della galleria attraverso una serie di immagini con le quali il visitatore è invitato a interagire. Sempre al pianoterra, un piccolo spazio è assegnato alla “Linea Analitica”, percorso che riunisce gli autori che, dagli anni Settanta, hanno segnato un’evoluzione e una rottura rispetto al precedente trand. Saffaro, Schiozzi, Alviani, Padovan, Paolini, Ciussi e Bottecchia conducono al contemporaneo Palli prima di salire al piano superiore dedicato interamente a Spazzapan, con un filmato d’apertura cui segue una sala in cui trovano spazio anche documenti e fotografie mentre nelle stanze seguenti è una grande installazione espositiva a dominare la scena, una sorta di porticato disposto al centro della sala per creare un movimento che ben si accorda con lo stile guizzante dell’artista gradiscano espresso nelle opere delle collezioni Giletti e Citelli di proprietà della Fondazione Carigo. Il secondo piano sarà invece sempre dedicato al confronto fra Spazzapan e un altro artista del territorio e, per questa riapertura della Galleria, è stata appunto scelta Miela Reina con il suo stile esuberante e ironico, che riecheggia Chagall nel “Paesaggio con animali volanti” e ricorda Mocchiutti in certe sue figure gigantesche. Lettere e messaggi cifrati si alternano alla pittura anticipando la street art o, se si vuole, ponendosi sulla scia di certa propaganda dell’Avanguardia Sovietica proponendo soluzioni divertenti come il “Pieghevole” in legno che ricorda moderni murales. La mostra può essere visitata fino al 2 febbraio dal mercoledì alla domenica dalle 10 alle 13 e dalle 15 alle 19. Per informazioni: www.galleriaspazzapan.it ©RIPRODUZIONE RISERVATA

La mostra della pittrice triestina Miela Reina (1935-1972) potrà essere visitata nella rinnovata galleria Spazzapan di Gradisca fino al 2 febbraio

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L’arte al cinema: ecco Frida Kahlo Per la serie “La grande arte al cinema”, l’appuntamento di novembre (nei giorni 25,26 e 27) al Kinemax di Gorizia è dedicato a Frida Kahlo. Si intitola “Viva la vida” il film-documentario che mette in luce le due anime della pittrice messicana, morta nel 1954 a 47 anni dopo una vita di grandi sofferenze: da una parte l’icona, pioniera del femminismo contemporaneo, tormentata dal dolore fisico. e dall’altra l’artista libera dalle costrizioni di in copo martoriato. Tra lettere, diari e confessioni private, il docufilm diretto da Giovanni Troilo propone un viaggio nel cuore del Messico suddiviso in sei capitoli, alternando interviste esclusive, documenti d’epoca, ricostruzioni suggestive e l’immersione nelle opere della Kahlo.

I dipinti di Polvari in mostra al Bar Torino Ultimo appuntamento dell’anno per IncontrArti, ciclo di esposizioni curato dalla nostra Eliana Mogorovich e avente come cornice la saletta interna del Bar Torino. Dal 17 ottobre è possibile ammirarvi le opere di Luca Polvari, giovane artista triestino protagonista di “33mq. Il mio luogo creativo” titolo originale che racchiude in sè il dibattersi fra il bisogno di libertà e le proibizioni imposte. I dipinti, quasi tutti a olio, rappresentano infatti i luoghi in cui Polvari ha dipinto e sta dipingendo, con significative differenze cromatiche e stilistiche che intendono sottolineare l’acquisita indipendenza legata all’esperienza della vita da single, in un monolocale di - appunto – 33 metri quadri: sono queste le opere dai colori più caldi e brillanti, gioiosi, così come lo stile che tende ad accostarsi a illustri Maestri come Van Gogh e Mondrian. Ma a questa libertà l’artista è giunto dopo essersi affrancato dai divieti di genitori, nonni e zii che – ancora negli anni di scuola – lo redarguivano perchè non sporcasse gli ambienti domestici: da qui, stanze ordinate e delineate con precisione cui si sovrappone il dripping, simbolo di libertà stilistica, con cui sono tracciate le sbarre grige, nere e blu di un’ideale prigione. Accanto a questo ciclo, iniziato nel 2015, troviamo alcuni ritratti, genere di partenza di Polvari che lo interpreta strizzando l’occhio alla grafica, alla Pop Art e al fumetto, cercando spesso di interpretare la personalità del modello attraverso il colore. La mostra potrà essere visitata fino al 10 dicembre negli orari di apertura del locale.


Gradisca, sarà dedicata all’hate speech la sesta edizione del progetto #iorispetto

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arrivato alla sesta edizione #iorispetto il ricco programma di attività in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, a cura del Comune di Gradisca d’Isonzo, Assessorato alle Pari Opportunità. Quest’anno si allarga, coinvolgendo anche il Comune di Romans d’Isonzo, Assessorato alle Politiche Sociali, per realizzare un programma ancora più diffuso, incentrato sull’educazione al rispetto di genere, a partire dai ragazzi e dal coinvolgimento delle scuole e della comunità, reso possibile soprattutto grazie alla proficua collaborazione con SOS Rosa e alla determinante presenza dello sportello dedicato a Gradisca d’Isonzo. Questa sesta edizione, che si svolgerà dal 17 al 30 novembre, pone l’accento sull’hate speech e su ciò che si può e si deve fare per prevenirlo e combatterlo. “#iorispetto è anche e soprattutto lavorare su questa tematica ogni giorno con un approccio educativo, formativo e culturale perché di genere si muore se in genere non si educa – ha dichiarato l’Assessora al Comune di Gradisca d’Isonzo Francesca Colombi. Ecco alcune iniziative del ricchissimo programma: #iorispetto comunica Con la guida della dott.ssa Renata Kodilja, docente del corso di Relazioni Pubbliche e Laurea magistrale in Comunicazione integrata per le imprese, gli studenti vengono accompagnati nel mettere in atto i loro talenti e le loro capacità, creando un prodotto di comunicazione che possa essere una pratica positiva del rispetto. Il percorso mira a promuovere la cultura del no hate speech, condannando fermamente ogni forma di comunicazione aggressiva e volgare. Il risultato prodotto verrà diffuso grazie ai canali media universitari e a quelli istituzionali del Comune di Gradisca d’Isonzo. #iorispetto dalla parte dei bambini Inaugurazione della mostra VIOLENZA ASSISTITA di Anarkikka e Diritti d’Autore. Il progetto illustrato di Stefania Spanò, in arte Anarkikka, affronta il tema della violenza assistita intrafamiliare. 15 tavole che raccontano di una violenza sottovalutata, di cui si parla poco, che provoca nei minori disturbi gravissimi, a livello emotivo, cognitivo, fisico e relazionale, e che solo in Italia coinvolge 400.000 bambini.

di Eleonora Sartori GRADISCA D’ISONZO – Atrio di Palazzo Torriani 18.11 dalle 18.00 #iorispetto parole o_stili Parole o_Stili è un progetto sociale di sensibilizzazione contro la violenza delle parole. Parole o_Stili ha l’ambizione di ridefinire lo stile con cui le persone stanno in Rete, vuole diffondere l’attitudine positiva a scegliere le parole con cura e la consapevolezza che le parole sono importanti. Il web seminar è promosso da FVGAcademy– INSIEL SpA nell’ambito della convezione per la gestione del Centro Didattico Digitale Duffuso. GRADISCA D’ISONZO – Sala Conferenze del CDDD di Casa Maccari 20.11 dalle 15.00 alle 18.30

#iorispetto IL CORPO DANZA IN UNA MENTE LIBERA Io rispetto incontra la HUMAN DANCE TECHNIQUE del maestro di danza Giorgio Rivari. Imparare ad amarsi attraverso la danza e le arti marziali tradizionali, scoprendo il rispetto dell’altro, del diverso e della condivisione dinamica degli spazi. Imparare a conoscere se stessi come recupero del sè profondo ed avere il coraggio di manifestarlo, senza ripercussioni delle dinamiche di conflitto. Il progetto prevede la partecipazione degli studenti dell’ISIS BEM BRIGNOLI di Gradisca d’Isonzo. GRADISCA D’ISONZO – vie del centro e NUOVO TEATRO COMUNALE 23.11 dalle 9.30 – Corte interna Palazzo Maccari – Segue alle 10.00 Nuovo Teatro Comunale #iorispetto il web può essere un #postopulito #postopulito è un invito a utilizzare il web in modo corretto e un obiettivo a cui tendere, ovvero un web più pulito. Ciò che si vuole trasmettere è che il web è uno strumento nelle mani di ragazzi, donne e uomini e, come tale, se usato senza la necessaria consapevolezza può arrecare danni a sé e agli altri. SCUOLE SECONDARIE DI PRIMO GRADO di Gradisca d’Isonzo e di Romans d’Isonzo e SALA CONFERENZE del Polo Culturale di Casa Maccari

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25.11 nella mattina per le scuole, 27.11 alle 20.30 per la cittadinanza #iorispetto cammina asssieme CAMMINATA DI RISPETTO a cura del Gruppo di Cammino ASI AUSER, in collaborazione con il Circolo Arci Skianto di Gradisca d’Isonzo, l’Associazione Royoung e il Comune di Romans d’Isonzo. Nel corso della camminata verrà proposto un intervento artistico dell’associazione FIERASCENA che permetterà ai presenti di riflettere sulla violenza di genere. ROMANS d’ISONZO 25.11 ritrovo alle 20.00 partenza alle 20.30 #iorispetto è FIERA Serata incontro con Mattia Campo dall’Orto, giovani e artisti, studenti dell’Università di Udine Corso di Relazioni Pubbliche e Laurea magistrale in Comunicazione integrata per le imprese e le volontarie che si occupano di violenza di genere sul territorio. Nel corso della serata verrà presentato il progetto per intervento di Creatività Urbana a Gradisca d’Isonzo per #IORISPETTO di Mattia Campo Dall’Orto, 2019 COMUNE DI GRADISCA D’ISONZO – Sala Consigliare 25.11 alle 18.00 #iorispetto legge ai più piccoli Grazie a “Le Fantastorie” letture Nati per Leggere a tema di rispetto per i più piccoli. BIBLIOTECA DEL COMUNE DI GRADISCA D’ISONZO 28.11 alle 16.15

#iorispetto è anche filmografia con la proiezione di film sia Gradisca, a Romans e alla Fondazione Brovedani in presenza dei volontari di SOS Rosa e di professionisti con i quali sarà possibile confrontarsi sul tema della violenza di genere, e bibliografia perchè, se è vero che il web odia particolarmente le donne è altrettanto vero che ogni persona, ogni lettore, può diventare testimone di contrasto all’odio, usando parole corrette. Verranno realizzati appositi segnalibri e materiale informativo per veicolare il messaggio di #iorispetto e diffondere il numero nazionale 1422, in collaborazione con le associazioni che si occupano di prevenzione di violenza sul territorio. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


Bruna Sibille-Sizia e Tafil, “Il Kosovaro”: storia di un profugo e di un’autrice dimenticata

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di Martina Delpiccolo dramma di gente minacciosa ma anche disperata, per la quale il Friuli o anche il ritorno alla propria patria non potranno che essere, in entrambi i casi, La terra impossibile (Doretti, 1956). Con la stessa profondità si addentra in altri conflitti, nelle invasioni turchesche in Friuli, alla fine del XV secolo, oppure nella guerra del Kosovo di fine Novecento.

er dimenticare una guerra «basta cominciarne un’altra», dice una scrittrice, anche lei dimenticata, in un libro intitolato Il Kosovaro (Kappa Vu, 2004, presentato da Angelo Floramo), storia vera di un profugo ospitato a Tarcento dall’autrice durante la guerra del Kosovo di fine millennio. Tafil fece ritorno al suo paese o meglio a ciò che di esso restava. Altri rimasero in Italia, andando così a nutrire la nostra interculturalità. La dimenticanza colpisce anche questo nutrimento, che spesso viene rimosso o distorto. Torna utile allora il raccontare. Raccontare la storia di Tafil può interrompere, almeno per un po’, il circuito della dimenticanza; ricordare una guerra può scongiurarne altre; ricordare un profugo può farci capire il dramma di ogni profuganza e farci guardare in modo diverso le nostre città. Gorizia, ad esempio, può apparire coloratissima, se solo ci ricordassimo delle sfumature che racchiude in sé: residenti provenienti da 33 paesi europei, 18 paesi asiatici, 22 africani, 12 americani, 1 oceaniano d’Australia. La comunità straniera più numerosa della città è quella proveniente dal Kosovo: quasi 500 Tafil, kosovari come lui. Per capire la sua storia partiamo da chi l’ha raccontata, Bruna Sibille-Sizia (19272009), partigiana, scrittrice, giornalista, artista. Scandalosa è la dimenticanza di lei se solo si accenna ad alcuni suoi meriti letterari. Per Pasolini fu «una delle poche voci valide in Friuli», per Tito Maniacco la «miglior narratrice», «nonché in assoluto la più rimossa» di un Friuli che si lasciò scivolare come «sulla pelle di ippopotamo» il suo capolavoro. Pioniera della narrativa femminile del dopoguerra friulano attraverso un tema “poco femminile” come la guerra e una scrittura definita “virile”; iniziatrice del filone letterario sull’occupazione cosacca in Friuli, su cui si cimenteranno scrittori come Carlo Sgorlon e Claudio Magris che a lei guarderanno come fonte ispiratrice, seppur con modalità e rigore diversissimi. Suo anche il primo romanzo sul terremoto in Friuli, nato dall’esperienza di cronista del sisma, visto come una sorta di terza guerra mondiale. Quindici i libri pubblicati accanto a numerosi racconti e versi apparsi su quotidiani e riviste, a partire dal racconto d’esordio del 1946 di tema resistenziale, premiato poi, nella sua versione teatrale, da una giuria di cui faceva parte anche Pasolini. Autrice di libri ironici a “quattro zampe” o di versi di un amore osteggiato, tragico, infinito, ma

Un’immagine della scrittrice Bruna Sibille-Sizia

soprattutto scrittrice di terra, di guerra, di libertà. Interrate sono le sue radici in un Friuli di confine che si intreccia con la Slavia friulana, percorso con gli scarponi da partigiana e poi con la macchina da scrivere. Nella trama storico-familiare del romanzo Il fronte di fango (Doretti, 1988) narra la ritirata del 1917 che vede tra i profughi la madre friulana e tra gli alpini il padre piemontese, catturato dai nemici; prigioniero poi anche nel secondo conflitto mondiale, per essersi rifiutato di combattere e far combattere i propri uomini accanto ai tedeschi nella notte dell’armistizio a Santa Lucia di Tolmino, data in cui ha inizio il Diario di una ragazza nella Resistenza, tenuto dalla figlia partigiana (Kappa Vu 1998). I cosacchi, mercenari dei nazisti, incaricati di liberare dai partigiani il “Bandengebiet” (“territorio delle bande” che si estendeva dal suo borgo tarcentino), finiscono nel primo romanzo capolavoro. Stupisce, scuote, commuove la capacità della giovane scrittrice di raccontare la guerra dalla prospettiva nemica, di dare voce al

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Tafil non è che una nuova vittima, l’ennesima, del copione “guerra” che si ripete. Non capisce come mai, tutto d’un tratto, lo costringano a combattere contro i suoi fratelli jugoslavi, e perché la diversità delle etnie, religioni, origini, sia motivo di guerra. Fugge Tafil per non impugnare un’arma. Parla di volta in volta lingue diverse pur di sottrarsi all’arruolamento forzato mentre attraversa la Jugoslavia fino a Gorizia e a Tarcento. Il poemetto è il suo canto disperato: la fuga, la notizia della morte del figlio e della fine della guerra, il ritorno a casa attraverso paesi distrutti e avvelenati. Solo i suoi valori sono stati risparmiati insieme ai ricordi, ai precetti di un professore e al desiderio di riprendere gli studi, perché forse la salvezza viene dalla cultura, dall’arte, dalla parola. Anche dal racconto della storia di Tafil, nato dal gesto di accoglienza di Bruna Sibille-Sizia. Del resto un pensiero biblico, che travalica ogni religione, avverte: «Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo».

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Al Kulturni un omaggio a Fabrizio De Andrè Anche in novembre si terranno una serie di eventi da non perdere al Kulturni Dom e al teatro Verdi nell’ambito del 29mo festival teatrale Castello di Gorizia. Segnaliamo in particolare: “Macete” - cabaret triestino con Flavio Furian & Maxino (venerdì 8, al Verdi), “20 anni senza Fabrizio: omaggio a De Andrè” – concerto tributo con Giulio Casale e Paolo Dal Bon (venerdì 22, al Kulturni) e “Van Gogh, il suicidato della società” – di Massimo Somaglino con Fabiano Fantini (in collaborazione con AlienAzioni, venerdì 29, al Kulturni). Inizio alle 20.30.


Capitale della cultura per il 2025: quanto realmente ci interessa? di Elio Candussi

book”, ben più dettagliato del primo, e la visita dei commissari d’esame europei nelle città candidate rimaste. La decisione finale arriverà a dicembre 2020. Nova Gorica ha pensato di caratterizzare la propria candidatura sulle specificità derivanti dall’essere sul confine di Stato, dal recente crollo delle barriere con l’Italia, dalla coscienza dei drammi vissuti nel nostro territorio durante il secolo scorso e dalla speranza di un futuro condiviso di sviluppo e benessere. Di conseguenza all’inizio del 2019 è stato siglato un accordo con Gorizia in modo da presentare una proposta comune. In primavera il Comune di Gorizia, avvalendosi della collaborazione dell’Isig (Istituto di sociologia internazionale), ha lanciato un sondaggio presso la popolazione affinché chiunque potesse presentare proposte a sostegno della candidatura, suddivise in 4 assi tematici, e cioè: comunicazione e lingue, storia e memoria, ambiente e natura, dimensione europea. Potevano rispondere Associazioni, Società, privati cittadini. Hanno risposto alcune decine tra associazioni e imprese e alcuni privati cittadini (tra cui il sottoscritto). I soggetti proponenti alla fine sono risultati 45. Questi hanno presentato in tutto 49 progetti e 23 idee, dato che qualcuno ha proposto più iniziative; altri 29 soggetti hanno semplicemente chiesto di essere informati. Non molto se pensiamo alle centinaia di associazioni presenti in Provincia di Gorizia.

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si è tenuto nei giorni scorsi in Prefettura a Gorizia uno workshop sullo stato di avanzamento della candidatura di Gorizia e Nova Gorica a Capitale Europea per la Cultura per il 2025, in sigla ”GO!2025”. Sembra una data lontanissima, ma gli adempimenti hanno una tempistica molto ravvicinata: entro metà dicembre 2019 va presentato il ”bid book”, cioè un libro di 60 pagine dove va spiegato perché ci si vuol candidare, quali sono le ricadute sul territorio, quali sono gli impegni che si intende prendere, e così via. Va ricordato che l’iniziativa è formalmente in capo alla Slovenia e che le candidature sono sei: oltre a Nova Gorica, ci sono Pirano, Ptuj, Lubiana, Kranj e Lendava. La prima fase di selezione si chiuderà verso marzo 2020, quando ne rimarranno 2 o 3. La seconda comporterà la realizzazione di un secondo ”bid

La mia impressione è che la città sia indifferente o scettica o poco informata, mentre è fondamentale per il successo della candidatura il fattivo coinvolgimento di ognuno di noi: essa non deve apparire una cosa imposta dall’alto! Comunque l’impegno delle Istituzioni continua. A Nova Gorica, presso la stazione della Transalpina, è stato creato un ufficio aperto al pubblico, italiano e sloveno, per proposte e quesiti. E’ stato creato anche un sito web apposito: https://www. go2025.eu/ ovviamente bilingue, per restare aggiornati e informati. A settembre i proponenti di progetti e idee sono 16

stati invitati ad approfondire le proprie proposte. E così siamo arrivati al workshop di fine ottobre. Erano presenti circa 70 persone ben attente, ma ho notato ”a colpo d’occhio” che gli sloveni avranno avuto mediamente 35-40 anni, mentre gli italiani apparivano sui 55-60... questo suggerisce un elemento di riflessione che lascio al lettore. Un’iniziativa di alto livello, con ottimo servizio di traduzione simultanea per ognuno, che ha ”costretto” i due Sindaci a rimanere diligentemente presenti per tutta la mattina. Oltre al Prefetto, come ospitante, c’era pure l’ambasciatore italiano a Lubiana. Tra i relatori mi hanno colpito Cristina Loglio, consulente del Ministero dei Beni Culturali, ed Emmanuele Curti, manager della candidatura di Matera (capitale della cultura europea 2019), che hanno insistito sul concetto di piazza come luogo di incontro e sul coinvolgimento della popolazione delle due città. Ho notato con disappunto l’assenza dell’assessore regionale alla cultura Gibelli, che si è limitata a un messaggio augurale. Come appendice del convegno non posso non citare il TGR delle 19.30 dello stesso giorno che, nel servizio sull’evento, ha sottolineato il fatto che nell’iniziativa si insinua la ”sindrome GECT che in 7 anni ha prodotto scarsissimi risultati”. Nota casuale del giornalista o qualcos’altro? ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Kinemax, primo festival dell’orrore Si terrà al Kinemax dal 15 al 17 novembre, per iniziativa di Federico Scargiali, il “Be Afraid Horror Fest – Un weekend di puro terrore”. Saranno presentati film in anteprima nazionale, cortometraggi, cult movie. L’abbonamento valido, per tutte le proiezioni, è di 20 euro mentre il costo dei biglietti singoli è di 5 euro. Per info e prenotazione accrediti rivolgersi alla cassa del Kinemax o scrivere una mail all’indirizzo beafraidhorrorfest@gmail. com


Storie curiose di un confine che non c’è più nel Museo del contrabbando al valico del Rafut

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olti di noi oggi vanno a far benzina, a comprare le sigarette o a mangiare la pizza in Slovenia, perché é facile raggiungere in un attimo Nova Gorica, Salcano o San Pietro. Ma fino a poco tempo fa c’era un confine che non é sempre stato facile da attraversare, né in un senso né nell’altro. Nel 1947 la linea di demarcazione tra Italia e Jugoslavia fu tracciata in maniera del tutto arbitraria, finendo per dividere le case dagli orti o dalle fattorie. La gente era costretta a tentare spesso la fortuna ricorrendo al contrabbando. Una sorta di necessità nata soprattutto in Jugoslavia, perché dopo la costruzione di Nova Gorica le persone hanno cominciato a contrabbandare quello che lì non si trovava e si poteva comprare in Italia, o quello che lì si trovava in gran quantità per cui lo andavano a vendere in Italia. Ogni nascondiglio era lecito. Dal semplice doppio fondo del bagagliaio della macchina alle canne della fisarmonica o alla stanga della bicicletta, dai reggiseni con tasche segrete ai tacchi delle scarpe femminili modificati per nascondere qualche soldo in più. Gli abitanti di Nova Gorica non potevano neanche permettersi capi d’abbigliamento come i jeans, ritenuti troppo occidentali in Jugoslavia. I giovani allora avevano inventato un modo per non destare sospetto: venivano a Gorizia, e chiedevano al più mingherlino della compagnia di andare a comprare gli indumenti desiderati. Il prescelto andava in un negozio e indossava i jeans - una S, una M, una L e una XL – uno sopra l’altro. Al confine le guardie non si insospettivano e lo lasciavano passare. Mantenere viva la memoria del passato attraverso le testimonianze di gente che ha vissuto o lavorato lungo il confine é l’obbiettivo che ha stimolato David Kozuh ad aprire un piccolo e curioso museo situato sul lato sloveno del valico del Rafut, laddove sorgeva una delle tante casermette di confine: il museo del contrabbando. Nelle due stanze che lo compongono si possono vedere nelle vetrinette gli oggetti modificati che servivano a nascondere le cose (sono quelli che vi abbiamo descritto e che risalgono a tempi mica tanto lontani, gli anni 80) e ascoltare le testimonianze-video sia della gente che abitava lungo il confine, sia dei finanzieri e delle guardie che lavoravano

di Stefania Panozzo lì. Una signora che abitava nella parte italiana del valico del Rafut e aveva l’orto appena al di là del confine racconta che i primi tempi per andare in orto doveva necessariamente oltrepassare il confine alla Casa Rossa, perché i valichi secondari non erano ancora aperti e, attraverso Gorizia, raggiungere il suo orto in Jugoslavia. Un uomo racconta: “Si poteva portare un solo chilo di caffè da una parte all’altra, ma io dovevo portarne 30 perché servivano per pagare un matrimonio: già, perché allora il ristoratore si faceva pagare in caffè. Provai a passare il confine con un chilo e mezzo di caffè nel sedile posteriore e il resto nascosto nel portabagagli. Ma il doganiere appena vide il chilo e mezzo si mise a urlare, mi mandò via dicendo che lo dovevo sapere, che più di un chilo non si poteva portare. E per fortuna non aprì il bagagliaio. Allora andai alla dogana vicina, c’era una persona che conoscevo, più tollerante. Esclamai: il tuo collega è matto, non mi fa passare per mezzo chilo di caffè in più, ma chi si crede di essere? Lo devo portare a mia nonna! Così la guardia chiuse un occhio e mi lasciò passare senza fare domande né controllare il portabagagli”. Uno spezzone di un video riporta la storia di una giovane che un giorno non vide tornare a casa il padre, perché era stato fermato dalla polizia confinaria. Aveva avuto la cattiva idea di portare ad amici italiani la grappa, che di là si trovava più facilmente. Purtroppo ne aveva presa un po’ troppa ed era stato fermato

dal doganiere e trattenuto in caserma. Qualche giorno dopo anche lei aveva voluto tentare la fortuna e aveva comprato una macchina da scrivere nascondendola in una cassa di arance. Era stata più fortunata di suo padre, perché era riuscita a tornare a casa senza intoppi. Per farla franca si escogitavano diversi piani. “Mia nonna, per esempio – stavolta è David Kozuh a raccontare - contrabbandava conigli. Per andare a venderli in Italia e guadagnare qualche soldino in più, li legava già spellati e puliti e li metteva intorno alla vita. Per coprirli ci metteva un mantello sopra, e un familiare andava in avanscoperta al posto di frontiera per sincerarsi che non vi fossero guardie femmine, perché solo loro potevano controllare le donne. Quindi lei attraversava il valico, vendeva i conigli e portava soldi oppure cose che mancavano come caffè e cioccolato”. Sono passati più di settant’anni, e il resto delle storie raccontate in questo museo e nell’altro, il Goriski Musej, che si trova all’interno della stazione ferroviaria Transalpina, lo lasciamo scoprire a voi, se non li avete ancora visti (per quello del Rafut bisogna prenotare con 3 giorni d’anticipo telefonando allo (05) 3359811 oppure inviando una mail a goriski. escape@gmail.com) . Aspettando l’esito positivo della candidatura di Gorizia e Nova Gorica a capitali europee della cultura per il 2025, una visita è vivamente consigliata, per chi vuole ricordare come si viveva quando c’era quel confine che incredibilmente oggi qualcuno ancora rimpiange. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Il Museo del contrabbando sul lato sloveno del valico del Rafut

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Formidabili quegli anni, quando l’Ardita dei miracoli centrò il bersaglio di tre promozioni fra il 1994 e il 1999

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ra il 31 gennaio 1994 quando mi contattò il professor Silvio Fabrissin, presidente dell’Ardita Gorizia, società cestistica fondata nel 1962. Quell’anno stavano disputando il campionato di promozione maschile, torneo che si svolgeva in ambito regionale. L’allenatore se n’era andato e Fabrissin era alla ricerca di un tecnico che lo potesse aiutare a portare a termine la stagione, nonché avere delle indicazioni su come impostare il futuro della società. Chiese la mia disponibilità per dar vita a una collaborazione che avrebbe dovuto riguardare la mia gestione diretta della prima squadra e la supervisione del settore giovanile. In verità, dopo il primo colloquio, non fui particolarmente convinto della sua proposta, tanto che ero propenso a rinunciare. Quando ci incontrammo nuovamente però, il suo entusiasmo, la sua determinazione a far crescere la società con progetti importanti, mi indussero ad accettare anche se solo per un periodo di prova, limitato alla stagione in corso. Volevo accertarmi che ci fossero i presupposti per impostare una nuova esperienza lavorativa, prima di avventurarmi in un progetto con una società della quale sapevo molto poco. Stabilimmo che non sarei andato in panchina ma che avrei collaborato sotto l’aspetto tecnico con il nuovo allenatore, che la collaborazione si sarebbe conclusa al termine del campionato e soltanto dopo si sarebbero prese le decisioni definitive.

di Paolo Bosini In realtà le cose andarono come il Presidente aveva auspicato, tanto che al termine della stagione, verificata la serietà della società, rinnovai l’accordo e il mio impegno si terminò nel 2001, dopo ben sette anni di eccellente lavoro. Mai avrei pensato di allenare per così lungo tempo la stessa squadra: normalmente i cicli lavorativi degli allenatori sono molto più contenuti. I risultati furono straordinari, tanto che questa piccola società, con limitate risorse economiche, riuscì nell’impresa di conquistare nell’arco di cinque anni (1994-1999) ben tre promozioni, passando dai campionati regionali a quelli nazionali. Ritengo, senza timore di essere smentito, che quel periodo sia stato uno dei più significativi per la pallacanestro goriziana. Infatti con la promozione in B2, l’Ardita divenne una formazione tra le più importanti della regione e del Triveneto e Gorizia, che aveva una squadra in A1, purtroppo ancora per poco, acquisì una notevole visibilità. Inoltre anche il settore giovanile, sull’impulso della prima squadra, migliorò sensibilmente, diventando uno tra i più importanti della Regione. Tutto ciò non accadde per caso, ma fu frutto di passione, di tantissimo lavoro, di spirito di sacrificio e soprattutto di notevole professionalità. Tutti coloro che operarono in quegli anni, dirigenti, tecnici e atleti fecero un lavoro eccezionale. Per prima cosa fu costituito il consiglio direttivo, formato da Silvio Fabris-

sin come Presidente, Livio Stecchina, Gianpaolo Veronese, Mauro Beacco, Flavio Tuzzi e il sottoscritto nel ruolo di consiglieri. Queste persone svolsero il loro lavoro con grandissimo impegno, la collaborazione fu encomiabile e tutti furono rispettosi dei ruoli e delle competenze altrui. La parte tecnica era di esclusiva spettanza mia e di Flavio Tuzzi, mentre la parte amministrativa e gestionale era di pertinenza degli altri quattro consiglieri. Le risorse erano poche ma, grazie al lavoro del Presidente e di Gianpaolo Veronese, arrivarono dei finanziamenti a dare ossigeno alle asfittiche casse sociali. Prima fu la Minerva di Gorizia e poi, con la promozione in C1, la SBS Leasing di Brescia. Con questi due autorevoli e generosi sponsor la situazione migliorò in modo significativo, tanto da permetterci di fare qualche investimento sui giocatori. Eravamo molto oculati nello spendere, cosicchè, per fare il “mercato” dei giocatori, prima aspettavamo che le società abbienti, con le quali non potevamo competere, ultimassero le trattative e solamente dopo arrivavamo noi. Adottando questa strategia riuscivamo a contenere i costi ma allo stesso tempo eravamo molto capaci a prendere giocatori bravi e a costruire squadre sempre più forti. Sotto l’aspetto tecnico si lavorò molto bene con allenatori bravi che, collaborando ottimamente con me, diedero un grande contributo al raggiungimento degli eccellenti risultati ottenuti. Flavio Tuzzi, Marco Damiani e Maurizio Pais fecero davvero un grande lavoro unitamente al mio storico e preferito preparatore atletico Ezio Romano. Inoltre grazie al lavoro di scouting fatto con rara dedizione da Emanuele Fabrissin, la società si diede una struttura più professionale. Con la ristrutturazione dei campionati avvenuta nel 1994 l’Ardita partì dalla serie D e con una progressione inarrestabile seguirono tre promozioni intervallate da due annate di assestamento.

L’esultanza dopo la vittoria nel match contro la Verdeta Gallo che, nel 1999, valse all’Ardita la promozione in serie B2

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Nell’anno sportivo ‘94-’95 la serie C2 fu conquistata vincendo alla grande il campionato di serie D. La squadra, che nell’organico aveva già Igor Marini, Riccardo Bassi, Alberto Gratton, Giancarlo Bulfoni e Tiziano Ceschia, tutti ottimi elementi, fu ulteriormente rinforzata con l’innesto del talentuoso Davide Turel, e non ebbe difficoltà a superare la concor-


renza. Il secondo salto di categoria avvenne al termine della stagione ‘96-’97, quando conquistammo la C1. Quella vittoria non può essere definita come un normale successo sportivo ma, per come si realizzò, le valse il titolo di un’autentica impresa. Quell’anno, a differenza di quanto era accaduto nei tornei precedenti, non era sufficiente vincere il proprio campionato per essere promossi, ma bisognava spareggiare con la squadra vincente del girone delle Marche. E così la promozione avvenne al termine di un drammatico spareggio giocato sul campo neutro di Cento, in provincia d Ferrara, contro la quotata squadra di Porto San Giorgio. Il risultato di 61 a 60 in nostro favore fa comprendere perfettamente su quali livelli di tensione agonistica ed emotiva fu giocata quella partita. La squadra marchigiana era molto forte, disponendo di alcuni elementi con dei trascorsi in serie A. Loro erano decisamente i favoriti ma noi, giocando con il cuore e con la testa, siamo stati capaci di tenere la partita sui ritmi a noi più erano favorevoli.

Proprio il terzo posto ci permise di disputare “gara tre” dei quarti di finale play off contro l’Alloys in casa a Gorizia, un vantaggio non da poco. Quella partita, un’autentica battaglia che si risolse in nostro favore dopo un tempo supplementare, ci diede una botta di autostima non indifferente, dandoci la convinzione di poter giocare alla pari con tutti. Dopo aver superato quella difficilissima serie con i cugini monfalconesi, i ragazzi non videro più ostacoli insuperabili davanti a loro. Infatti in semifinale incontrammo la Gifiex Roncade, una delle favorite, e, con due vittorie davvero formidabili (89 a 79 in casa loro e 83 a 61 alla Stella Matutina), risolvemmo quasi con facilità un problema che solo pochi giorni prima sembrava un sogno.

La terza promozione, quella in B2, arrivò al termine del campionato di C1 ‘98-’99. Ero consapevole di avere a disposizione un’ottima formazione e speravo di disputare una bella stagione. Non pensavo però minimamente alla promozione perché sapevo che almeno tre squadre erano state costruite per ottenere quel risultato. Il nostro obiettivo, comunque ambizioso, era quello di arrivare tra le prime otto, in modo da disputare i play off. Durante la stagione regolare giocammo molto bene, tanto che la stampa specializzata riconobbe che stavamo esprimendo il miglior basket del campionato. Alla fine della prima fase conquistammo un lusinghiero terzo posto, dietro la Verdeta Gallo Ferrara e la Gifiex Roncade, che ci consentì di affrontare il primo turno dei play off partendo da una posizione di classifica abbastanza favorevole.

Disputammo “gara due” giovedì 27 maggio, ben consapevoli che dovevamo chiudere la pratica a Gorizia. Dovevamo batterli ad ogni costo, sfruttando il fattore campo, perché una sconfitta ci avrebbe costretto a ritornare a Ferrara per giocare “gara tre”, eventualità da evitare assolutamente. Davanti a spalti stracolmi, affrontammo questa partita con la consapevolezza di essere forti e motivati come non mai. La vittoria avrebbe coronato tutti i sacrifici compiuti dalla società in cinque anni. Gare due, a parte un vantaggio iniziale di sei punti degli avversari, durò solo venti minuti. Il resto fu appannaggio esclusivo dell’Ardita. Nella ripresa, aumentando l’intensità difensiva e i ritmi della gara, Gorizia dilagò sugli avversari, avanti anche di venti punti, con un risolutivo 67 a 47 a sei minuti dalla fine. Era fatta, ormai, eravamo in B2! Gli ultimi minuti furono giocati tra il tripudio generale, fuori e dentro il campo. Il risultato finale di 89 a 62 fotografò quanto avevamo fatto in campo: li avevamo letteralmente distrutti.

Il finale fu drammatico perché il punto della vittoria fu siglato da Ramon Merljak su tiro libero assegnatoci, su una palla contesa, a tempo quasi scaduto. Gli avversari non la presero bene e gli arbitri ebbero il bel daffare a sfuggire dalle “grinfie” dei giocatori e tifosi avversari. La scena finale fu la seguente: noi a festeggiare come matti in mezzo al campo e gli avversari che invece, sentendosi defraudati, tentavano di abbattere la porta degli spogliatoi degli arbitri. Anche in quella stagione la squadra era molto forte. Gli inserimenti di Costantino Tosoratti, Luciano Borsi e Ramon Merljak la resero migliore e molto più equilibrata. Va detto però che la struttura della squadra era già competitiva con la presenza di Davide Turel, Lorenzo Furlan, Riccardo Bassi, Tullio Cabrini, Massimiliano Mompiani e Alberto Gratton.

dal “sogno” della B2.

Avevamo inoltre fatto vedere che nello sport non sempre i successi sono prerogativa dei più forti ma molto spesso le vittorie vanno a coloro che ci mettono il cuore e sicuramente in quell’occasione noi ne avevamo messo di più.

Un’altra festosa immagine di quel 27 maggio

A questo punto le prospettive cambiarono totalmente. La squadra prese coscienza del fatto che, se eravamo stati capaci di eliminare la seconda forza del campionato, avremmo potuto battere anche la prima, la Verdeta Gallo. Durante la regular season questa squadra, forse l’unica del campionato a essere strutturata in modo quasi professionistico, l’avevamo già battuta una volta e avevamo capito che sotto l’aspetto tecnico potevamo darle molto fastidio. Ci preparammo alla sfida con molta calma, senza apportare alcuna variazione sotto l’aspetto tecnico e aggiungendo però qualcosa nella parte tattica per limitare il gioco degli avversari. Domenica 23 maggio, a Ferrara, disputammo “gara uno” della finale play off. Con una prestazione molto solida fatta di tranquillità, concentrazione ed equilibrio tattico, riuscimmo a compiere l’ennesima impresa. Battemmo i padroni di casa con il punteggio di 90 a 83, tra l’incredulità generale. A quel punto eravamo a quaranta minuti 19

Quella squadra era formata da Igor Marini, Costantino Tosoratti, Luciano Borsi, Matteo Miseri, Andrea Maggi, Riccardo Bassi e i tre triestini Dario Tomasini, Lucio Tomasini e Fabrizio Fortunati. Un gruppo eccezionale che gli appassionati non dimenticheranno perché hanno fatto la storia del nostro bellissimo sport. Assieme a questi fantastici ragazzi (per me resteranno sempre tali) voglio ricordare anche quei giocatori che hanno fatto parte dell’Ardita in quei cinque anni. Tutti indistintamente, con i loro pregi e i loro difetti, hanno dato il meglio di se stessi per portare in alto l’Ardita scrivendo cosi una delle più belle pagine dello sport goriziano. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Sergio Tavcar ci parla di basket Mercoledì 20 novembre alle 18, al Kulturni Dom, il “mitico” telecronista di TvKoper Sergio Tavcar presente il suo libro “Il basket e in confini del mondo” (Mattioli editore, 1885). L’incontro sarà condotto da Albert Voncina, giornalista del Novi Glas.


Lyduska e Frank: dal giornale approdano in libreria i personaggi cari ad Anna Cecchini e Giorgio Mosetti di Vincenzo Compagnone

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iceva il giovane Holden nell’omonimo “cult-book” di J.D. Salinger: “Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che, quando li hai finiti di leggere, vorresti che l’autore fosse un tuo amico per la pelle, e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira”.

vita straordinaria fra Gorizia e il Kenya (quante analogie con la scrittrice Karen Blixen!) resta legata all’episodio più famoso: quando la donna, nel 1947, riuscì a far modificare la linea di confine fra Italia e Jugoslavia (sfruttando le sue amicizie altolocate e in particolare Sarah Churchill, figlia dello statista inglese) per far sì che la grande villa rimanesse in territorio italiano.

Beh, pensate la fortuna che mi ritrovo: Anna Cecchini e Giorgio Mosetti non sono solo due redattori di Gorizia News&Views, ma anche dei cari amici. E così, se ho bisogno di qualcosa, non mi faccio pregare per digitare i loro numeri sulla tastiera del cellulare. A maggior ragione dopo che hanno dato alle stampe i loro nuovi lavori, in uscita fra pochi giorni (Anna) e ai primi di dicembre (Giorgio).

E Giorgio? Beh, la sua sesta opera, “Lo chiamavano Frank” (5 anni dopo il romanzo “Chiamatemi Frank”) scaturisce proprio da Gorizia News&Views, dove “Getto” è approdato in febbraio rispolverando appunto, riveduto e corretto, il personaggio che gli è caro. Il nuovo lavoro è infatti una raccolta delle short stories, più alcuni racconti inediti, con le quali Mosetti ha deliziato ogni mese i lettori del nostro magazine. Frank, da giornalista 40enne, è diventato un geometra in pensione di 75 anni ma non ha perso i suoi tratti caratteriali: politicamente scorretto, irriverente, cinico ma con insospettati slanci da “burbero benefico”. Nei suoi racconti Giorgio affronta con leggerezza temi d’attualità, dai migranti al bullismo, dalla religione alle fake news, insegnandoci a temere gli aspetti più turpi della contemporaneità, ma anche a non accettarli. Presentazione giovedì 5 dicembre presso la Minerva Group, in via fratelli Rusjan 15 a Savogna, alle 18.30 (“un posto alla Frank”, dice Mosetti) in un dialogo fra me e l’autore.

Due libri che, in qualche modo, “nascono” da Gorizia News&Views, il che mi rende ancor più orgoglioso di annoverare gli autori fra le colonne della nostra squadra. Anna è una formidabile raccontatrice di storie che hanno subito conquistato i lettori. In gennaio aveva puntato la lente su un personaggio affascinante, Lidya De Nordis Hornik, per tutti Lyduska. E appunto “Lyduska, la vita tra due mondi della contessa di Salcano” è il titolo del libro che verrà presentato giovedì 14 novembre alle 17.30 in sala Dora Bassi dall’editore, Carlo Giovanella, presenti l’autrice, Marilisa Bombi e Romano Facca, il custode della celebre villa di Salcano che, alla morte della nobildonna (2006) ne è diventato il proprietario. Approfondendo il suo certosino lavoro di ricerca, Anna ha scoperto particolari inediti della vita di Lyduska, la cui

Il Natale si avvicina e sono certo che quelli di Anna e Giorgio saranno due libri-strenna che in molti doneranno: con loro, si va sul sicuro. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Gorizia News & Views è reperibile in forma cartacea nei seguenti punti di distribuzione: Biblioteca statale isontina di via Mameli, Kinemax e Mediateca Ugo Casiraghi di piazza Vittoria, librerie Leg, Voltapagina e Ubik di corso Verdi e Antonini di corso Italia, Kulturni Dom di via Brass, Casa delle Arti di via Oberdan, bar Torino di corso Italia, bar Aenigma di via Nizza, Caffè degli Artisti di via IX Agosto, atrio dell’ospedale, negozio Il Laboratorio di piazza Vittoria, Taverna al Museo di Borgo Castello, tabacchino Da Gerry di via Rastello, tabaccheria via Duca D’Aosta 106, tabaccheria via Crispi 6, Ugg di via Rismondo. E’ consultabile on line all’indirizzo: https://issuu.com/gorizianewsand-

Gorizia News & Views Reg. Trib. Gorizia n. 1/2017 dd 11/12/2017 mensile del Mosaico & APS Tutti Insieme sede Nazareno Gorizia, via Brigata Pavia 25 gorizianewsandviews01@gmail.com DIRETTORE RESPONSABILE Vincenzo Compagnone REDAZIONE Eleonora Sartori (vice direttore) Ismail Swati, Rafique Saqib, Felice Cirulli, Renato Elia, Eliana Mogorovich, Timothy Dissegna, Anna Cecchini, Stefania Panozzo, Aulo Oliviero Re, Lucio Gruden, Laura Devecchi, Elio Candussi, Giorgio Mosetti, Francesca Giglione, Paolo Bosini, Luigi Casalboni STAMPA Cooperativa Sociale Thiel Sede operativa Fiumicello: Via Libertà 11, 33050 Fiumicello (UD) CF e P.IVA 01023280314 N.Iscr. Albo Naz. Coop.: A133094 In collaboration with: APS Tutti Insieme - www.tuttinsiemegorizia.it Nazareno Optimistic Youth Network and Consorzio Mosaico https://issuu.com/gorizianewsandviews

Le copertine dei libri di Giorgio Mosetti e Anna Cecchini

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