April 2020

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Gorizia News & Views Anno 4 - n. 4 Aprile 2020

EMERGENZA CORONAVIRUS da pag. 2 a pag. 9

UNGARETTI A GORIZIA pag. 10 e 11

RICORDO DI RENATO BENSA pag. 17


Il dopo Coronavirus: siamo sicuri di voler tornare alla normalità? di Eleonora Sartori

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uesto tempo sospeso e dilatato ci dà la possibilità di riflettere, di porci domande e di formulare desideri… Quando finirà questo strazio? Quando torneremo alla normalità ma, soprattutto, siamo sicuri di voler tornare alla normalità? Mi ha colpito una frase trovata su Facebook qualche giorno fa, nel pieno della quarantena: “No volveremos a la normalidad porque la normalidad era el problema”. Inutile rivangare il passato e trovare a tutti i costi i colpevoli di quanto sta accadendo. Di responsabilità ce ne sono e tante, ma a tempo debito chi per colpa o per dolo ha causato danni, ci farà i conti, se non sul piano legale, sicuramente su quello della coscienza. Possiamo, invece, impiegare questa reclusione forzata per far sì che ognuno di noi ne esca rinnovato, più consapevole, più motivato a cambiare in meglio la società che lascerà in eredità alle future generazioni. Partiamo proprio da qui, dai più piccoli, dallo stress che inevitabilmente stanno subendo a causa del totale sovvertimento dei loro ritmi di vita, in primis quelli scolastici. La scuola è stata la prima a chiudere i battenti e, onestamente, nessuno si aspettava rimanesse chiusa per così tanto tempo, molto probabilmente fino al prossimo anno scolastico. Di “scuola digitale” si parlava da un pezzo, ma sempre e solo sul piano teorico, tanto che gli insegnanti, con tempi e difficoltà diversi, hanno dovuto sperimentarla per la prima volta in emergenza. Questo non li ha per nulla aiutati, ma in un modo o nell’altro hanno dovuto fare di necessità virtù e dopo i primi giorni

di caos più totale sono riusciti a stabilire una routine. Innegabile che gran parte del lavoro ricada sulle famiglie ed è qui che i nodi vengano al pettine… In tutte le case esistono pc, tablet, banda larga, stampanti e giga a sufficienza? La domanda è retorica e la triste conseguenza è che saranno in molti a rimanere indietro, soprattutto i bambini delle famiglie economicamente e culturalmente più fragili. Il gap esisteva già prima, ora rischia di diventare una voragine, a meno che non sfrutteremo questa dura lezione per investire nella scuola, nell’istruzione dentro e fuori le mura degli Istituti, perché è fondamentale venga irrobustito il collegamento tra il dentro, la classe e gli insegnanti, e il fuori, la famiglia e i doposcuola. A subire ancora più pesantemente i cambiamenti e le limitazioni alla libertà di movimento sono i bambini fragili, con handicap psicofisici, che hanno esigenze particolari e ancora più importanti. Il contatto con educatori e insegnanti di sostengo è fondamentale ma in questo momento di fatto impraticabile. Per loro, ma in generale per tutti i bambini, l’aria aperta, il verde della natura sono da considerarsi bisogni fisiologici ma i vari Dpcm non li hanno presi in considerazione. Al lato opposto di un’ipotetica linea della vita ci sono gli anziani, anch’essi fragili anche se per motivi diversi, soggetti a rischio virus e isolamento. Le solitudini in questo periodo si sono accentuate e in molti si sono ritrovati senza una rete di supporto. Ma una comunità che non tutela bambini e anziani può definirsi civile? Insomma, sono venuti a galla un sacco di problemi della nostra società, veloce, smart, iper-connessa ma che paradossalmente patisce un deficit significativo nelle relazioni interpersonali. Gli strumenti digitali di cui ci serviamo, l’utilizzo, spesso abuso dei social, cosa porta alle nostre vite e cosa toglie? Capiremo che sono ausili indispensabili per le nostre vite e le nostre professioni ma non potranno mai sostituire il contatto e le relazioni umane? Ma, soprattutto, dopo le innumerevoli fake news divulgate, investiremo sulla nostra crescita cognitiva per difenderci da chi vuole solo inquinare i nostri spazi virtuali e incattivirci ancora di più? Infine, avendo sperimentato cosa significhi essere considerati degli appestatori, e avendo visto con i nostri occhi connazionali che irresponsabilmente scappavano dal nord per raggiungere le proprie famiglie al sud, saremo umanamente più vicini ai tanti migranti che quotidianamente vengono allontanati, cacciati, respinti? Ecco, io credo che la disgrazia che ci è capitata non debba passare senza lasciarci qualcosa, solo così i morti e i feriti potranno avere pace. E questo qualcosa non prevede la cosiddetta normalità, non quella di prima almeno. ©RIPRODUZIONE RISERVATA 2

SOMMARIO Pag. 2 Il dopo Coronavirus: siamo sicuri di voler tornare alla normalità? Pag. 3 Infografica: guida anti-stress per i cittadini in casa Pag. 4 “Rivoluzione” al San Giovanni di Dio per ospitare letti Covid Resta il dubbio: a emergenza finita tornerà tutto come prima? Pag. 5 All’ospedale la paura del contagio fa novanta: il pronto soccorso si è praticamente svuotato Pag. 6-7 Quando la peste travolse Gorizia: l’incredibile attualità del diario scritto (in quarantena) da Giovanni Maria Marusig Pag. 8 La quarantena di Frank che si scopre patriottico Pag. 9 Non la chiusura dei confini, ma una concreta collaborazione è il rimedio per sconfiggere qualsiasi avversità naturale Pag. 10-11 Ungaretti, 50 anni dalla morte: quel ritorno sul Carso nel 1966 e il percorso della memoria nel parco di Castelnuovo Pag. 12 Ciao Carluccio una vita “oltre” tra musica, arte e… biciclette Pag. 13 Una piccola scuola di giovani registi in città sulle orme del grande “Cesco” Macedonio Pag. 14-15 Storia di Magalì, la “prof ” romana delle Magistrali che non volle lasciare Gorizia in tempo di guerra Pag. 16 L’incredibile argento olimpico del pistard Giorgio Ursi Pag. 17 Ricordo di Renato Bensa, l’ultimo dei “grandi vecchi” del basket: un vero maestro nello sport e nella vita Pag. 18-19 Mille interrogativi sull’idea di cedere l’aeroporto a privati: chi c’è dietro Turin Aviation e quali sono le sue credenziali? Pag. 20 On line il primo numero del giornale targato “Tutti insieme”


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“Rivoluzione” al San Giovanni di Dio per ospitare letti Covid Resta il dubbio: a emergenza finita tornerà tutto come prima?

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nche Gorizia è stata chiamata a fare la sua parte, nell’ambito della programmazione regionale riguardante l’emergenza-Coronavirus, con la creazione al San Giovanni di Dio (diventato così di fatto, come si dice in gergo, un ospedale Covid+) di un’area isolata e ben distinta dal resto del nosocomio riservata a posti letto di terapia intensiva per pazienti colpiti dal virus. La “zona rossa” è stata ricavata al primo piano della struttura eliminando le degenze della Cardiologia (compresa, quindi, l’Unità coronarica) e accorpando i relativi posti letto a quelli della Rianimazione, per un totale quindi di 16 posti dotati di altrettanti ventilatori. Sono rimasti attivi soltanto alcuni ambulatori, insieme alla guardia medica. Inoltre è stato deciso di dislocare al terzo piano, nei locali dell’ex “Cardio-nefrologia”, tre – e non sei come era stato annunciato in un primo tempo – posti letto per pazienti a basso livello d’intensità di cura. Uno “svuotamento” quasi totale, dunque, con il trasferimento all’ospedale di Monfalcone di tutte le urgenze cardiologiche e dell’attività di impiantistica dei pacemaker che era uno dei fiori all’occhiello del reparto diretto dalla dottoressa Gerardina Lardieri. Non solo. A Gorizia è stata stoppata anche l’attività chirurgica di qualsiasi tipo, compresa quella ortopedica e urologica. A partire dal 23 marzo, tutto è stato dirottato al San Polo di Monfalcone. E, naturalmente, il San Giovanni ha dovuto rinunciare anche alla Rianimazione per pazienti “non Covid”, che, quindi, sono stati trasferiti altrove. Le certezze e le perplessità – Il provvedimento è stato accompagnato da una serie di polemiche, concernenti non certo il merito, ma bensì il metodo con cui è stato attuato. Ci spieghiamo. Le terapie intensive di Udine e Trieste a metà marzo erano sature. Si rendeva necessario, quindi, implementare i posti letto, e sono stati individuati allo scopo, in regione, cinque ospedali: i tre hub di Trieste, Udine e Pordenone, più Gorizia e Palmanova. Nulla da dire nel merito: Gorizia è stata scelta – così ha affermato l’assessore regionale Sebastiano Callari (ex primario di Urologia a Gorizia ed ex assessore comunale della giunta Cisint a Monfalcone) in un post su Facebook – perché “offre maggiori garanzie di spazi idonei e competenze adeguate” rispetto a Monfalcone. Bene. Che il nostro ospe-

di Vincenzo Compagnone dale possa vantare ottime professionalità è certo. E metterle al servizio di una terribile emergenza nazionale è motivo d’orgoglio. Ma le perplessità sono legate ad altri motivi che proveremo a elencare. Altrove, nessun impoverimento – La “rivoluzione” che ha trasformato l’ospedale di Gorizia lo ha impoverito – comunque si voglia vedere la cosa - in modo quanto mai consistente. Si tratta – è stato ripetuto dal direttore generale dell’Asugi, Poggiana, e dal sindaco Ziberna, di misure temporanee, destinate cioè a durare fino al termine del periodo emergenziale. Prendiamo atto, rimarcando peraltro che troppo spesso,

nel nostro Paese, nulla è più definitivo del provvisorio e, visto che da tanti anni seguiamo le vicende della sanità goriziana e il progressivo declassamento dell’ospedale, qualche preoccupazione è legittima. Va sottolineato, oltretutto, che mentre a Gorizia la Regione ha chiesto un sacrificio di non poco conto, non altrettanto è avvenuto negli altri ospedali interessati. A Trieste il reparto-Covid

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è stato creato ex novo al dodicesimo piano della Torre medica di Cattinara. A Udine e Pordenone sono stati sfruttati spazi non utilizzati, così come a Palmanova, dove la “zona rossa” è stata collocata nei locali dell’ex Dipartimento materno-infantile, trasferito a Latisana. Di questo sacrificio che Gorizia ha accettato, si terrà veramente conto nella programmazione regionale sanitaria futura? Disastrosa, poi, la gestione della comunicazione: poiché nessuno, né il sindaco, né l’Asugi, nella Regione si decidevano a informare la cittadinanza dei provvedimenti che stavano per scattare, abbiamo dovuto farlo noi, con un post su Facebook. Il nodo della Cardiologia – Ricordiamo nitidamente quel che disse, il 2 gennaio 2015, il direttore generale dell’Azienda sanitaria Bassa Friulana-Isontina Giovanni Pilati, appena insediato. “Devo risolvere due nodi principali: chiudere uno dei punti nascita fra Palmanova e Latisana e una delle due Unità coronariche fra Gorizia e Monfalcone”. Il primo è stato sciolto, il secondo è ancora in attesa di definizione. Nonostante più volte sia stato detto in passato che a sopravvivere sarebbe stata Gorizia, non si è mossa foglia. Non solo. In un recente incontro svoltosi a Trieste, presenti i cardiologi di Gorizia e Monfalcone, il “potente” primario cardiologo di Cattinara, professor Sinagra, ha detto chiaro e tondo che una delle due Unità coronariche va chiusa. E l’impressione che i presenti hanno avuto è che l’idea sia quella di mantenere attiva Monfalcone. E’ quanto avverrà? Sarebbe un ennesimo depauperamento-beffa per Gorizia. La petizione di due goriziani – In questo contesto si è inserita la lettera, corredata da una raccolta di firme (970 in soli 3 giorni), indirizzata a Poggiana e a Ziberna da due goriziani, l’ex sindacalista del comparto sanitario Giorgio Bisiani e il chirurgo in pensione Adelino Adami. “Non ripristinare i reparti tolti a Gorizia per far posto all’area-Covid, una volta cessata l’emergenza – hanno scritto, sollecitando un ulteriore impegno – sarebbe intollerabile”. Sottoscriviamo in pieno, accantonando “temporaneamente” (anche noi!) le polemiche ed esprimendo tutta la nostra vicinanza agli operatori sanitari del San Giovanni di Dio in prima linea in questa delicatissima fase dell’emergenza-Coronavirus. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


All’ospedale la paura del contagio fa novanta: il pronto soccorso si è praticamente svuotato di Vincenzo Compagnone

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una cosa, se non altro, il coronavirus è servito: quello di aver praticamente svuotato il Pronto soccorso dell’ospedale di Gorizia (ma un quadro analogo si è verificato un po’ dappertutto). Come d’incanto, la gente ha cominciato, per la prima volta, a recarvisi soltanto per una reale situazione di pericolo riguardante la propria salute. Non che i goriziani siano diventati tutti sani all’improvviso. Semplicemente, per effetto di un vero e proprio timore di recarsi nella struttura ospedaliera – pur sempre un ambiente a rischio sotto il profilo di possibili contagi - sono pressoché spariti i cosiddetti accessi impropri, i codici minori (bianchi e verdi) che da anni, provocando un costante sovraffollamento, continuano ad essere la piaga irrisolta che condanna i pazienti ad attese interminabili e il personale sanitario a un superlavoro. Il drastico calo degli accessi è iniziato gradualmente, man mano che anche la nostra città è stata toccata dalla pandemia con i primi casi di positività al Covid 19. Il crollo verticale è poi coinciso con l’installazione, proprio davanti all’ingresso del Pronto soccorso, del tendone del pre-triage, quello adibito ai controlli dei casi sospetti (per l’esecuzione dei tamponi è stato montato invece un gazebo a fianco della palazzina ex Cup del vecchio ospedale civile di via Vittorio Veneto, dove ha sede il Dipartimento di prevenzione). Meglio stare alla larga, devono aver pensato i più. Il colpo di grazia, infine, lo ha dato il manifesto affisso all’ingresso principale dell’ospedale, quello in cui si esortavano le persone ad entrare al San Giovanni di

Dio solo se ciò fosse stato assolutamente indispensabile, essendo stata sospesa, fra l’altro, l’attività ambulatoriale programmata. Non solo, ma anche le visite a familiari o amici degenti nella struttura di via Fatebenefratelli sono state soggette a limitazioni. In poche parole, è parso chiaro che, se è vero che i problemi della nostra sanità sono tanti, è altrettanto vero che – come cittadini – ci mettiamo del nostro a peggiorare la situazione. Avendo sperimentato personalmente lo strazio di attese bibliche al Pronto soccorso, con decine di pazienti sistemati su barelle e poltroncine in attesa di essere visitati, e altri che affollavano la sala d’attesa, l’immagine che si presentava agli occhi del cronista appariva surreale: addirittura vuota, talvolta la suddetta sala d’attesa, e lavoro di gran lunga alleggerito nei box dove operano medici e infermieri. Ci siamo presi la briga di controllare costantemente la situazione cliccando sullo smartphone il sito del pronto soccorso on line del Fvg, quello che fornisce le indicazioni sui pazienti in carico o in attesa, con i rispettivi codici, e i relativi tempi d’attesa. Ebbene, il numero dei pazienti non superava praticamente quasi mai quota 10. Un dato irrisorio, soltanto di poco inferiore a quello di Monfalcone, Palmanova, Latisana e persino Trieste. Su livelli di presenze abbastanza elevate soltanto il Pronto soccorso di Udine. Insomma, il messaggio delle istituzioni è passato forte e chiaro: a fronte di sintomi assimilabili a uno stato influenzale, soprattutto febbre superiore ai 37.5 associata a disturbi respiratori, meglio chiamare il 112, o il proprio medico di famiglia, o, ancora, il numero verde regionale d’emergenza.

sulla validità delle prenotazioni, sui prelievi, sulla possibilità di andare a trovare i ricoverati. Chissà se la lezione servirà anche in futuro. I medici hanno sempre lamentato l’eccessivo e troppo spesso improprio ricorso al Pronto soccorso di pazienti che non ne avevano un reale bisogno urgente ma che, in buona sostanza, ne “approfittavano” (saltando il più ovvio passaggio dal medico di base) perché sapevano che sarebbero stati comunque visitati, curati e sottoposti ad esami clinici del tutto gratuitamente. E questo è sempre avvenuto anche a costo, come si diceva, di sobbarcarsi lunghe code e tempi d’attesa estenuanti. Le autorità sanitarie, per decongestionare i Pronto soccorso, hanno tentato più volte (se ne parla ormai da quasi vent’anni) di istituire delle strutture intermedie formate da equipes di medici di base, di continuità assistenziale, infermieri e pediatri. Queste fantomatiche strutture hanno cambiato più volte nome (l’ultima versione sono stati i Cap, Centri di assistenza primaria) ma non sono in realtà mai decollati. Che sia la volta buona per creare qualcosa che funzioni veramente da filtro, evitando inutili affollamenti ospedalieri, visto questo sorprendente “effetto collaterale” del Coronavirus?

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Se, dunque, il Pronto soccorso si è quasi desertificato (persino al sabato e alla domenica: la gente ha preferito rivolgersi telefonicamente alla guardia medica), anche tutta l’attività ospedaliera, ai tempi del Coronavirus, si è snodata a ritmi più tranquilli. Superlavoro solo per i centralinisti e l’ufficio pubbiche relazioni, tempestati di telefonate per informarsi

La sala d’attesa del Pronto soccorso incredibilmente vuota e il tendone montato all’esterno per il pre-triage

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Quando la peste travolse Gorizia: l’incredibile attualità del diario scritto (in quarantena) da Giovanni Maria Marusig di Martina Delpiccolo

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mmergersi in un libro è salutare almeno quanto lavarsi le mani. «Si fore vis sanus, ablue saepe manus» ossia «se vuoi essere sano, lavati spesso le mani»: era quanto già insegnava la Scuola Medica Salernitana, maestra d’igiene, la più antica istituzione medievale d’Occidente. Eppure, una volta pulite le mani, resta da arieggiare la mente, specie in tempi straordinari in cui si cerca in tutti i modi di rinunciare all’onore di aver cinta la testa con una Corona virale. Un libro può essere allora la finestra da cui far entrare ossigeno e sole. E se proprio risulta difficile staccarsi dal tema-incubo che sembra ormai aver capovolto il mondo, le abitudini, le vite, disegnando nuove linee spaziali di zone rosse o temporali di un prima e di un dopo-diffusione che pare ormai demarcazione irreversibile, allora risulta utile e curioso andare a mettere il naso nella storia, dentro la quale non esistono distanze di sicurezza da mantenere. Non è pericoloso fare un viaggio nella letteratura dei contagi, negli scritti che hanno raccontato o immaginato epidemie. Benché siano evidenti le differenze abissali tra virus, peste, colera di epoche e contesti lontani, e benché sia palese l’odierna eccellenza del generale livello di conoscenza medico-scientifica e di condizioni igienico-sanitarie rispetto a secoli passati, risulta parimenti lampante l’invariata fragilità umana di fronte a un simile e sconosciuto pericolo che colora tutto di una tinta sola: la paura. Si potrebbe allora coraggiosamente varcare il romanzo “La peste” per scoprire che Camus narra un immaginario e contagioso morbo in una città algerina alludendo simbolicamente alla peste nazista che ha invaso e contagiato l’Europa, a ricordarci di restare vigili di fronte a bacilli che tendono a non scomparire mai. Si potrebbe tentare l’amore nel colera e allora “Il velo dipinto” di Somerseth Maugham svelerebbe la possibilità di trasformazione e purificazione attraverso l’epidemia. Si potrebbe far visita a Lucia nel lazzaretto milanese degli appestati del Seicento per ricordarci che “I promessi sposi” vivono per volere della divina provvidenza manzoniana che tutto regola, perfino l’epidemia, “scopa” nell’ottica pragmatica del pavido don Abbondio. Si potrebbe bussare alla villa-rifugio di giovani e fanciulle che il Boccaccio ha messo in salvo dalla peste trecentesca di Firenze, affinché compo-

nessero il Decameron, come se il morbo fosse movente del novellare e il racconto una via per sopravvivere. L’umanità di fronte al contagio - Dovunque si vada a curiosare e qualunque epoca si vada a rievocare, si incontra una stessa umanità di fronte al contagio. C’è chi avvia la caccia agli untori o chi

Il frontespizio del manoscritto di Marusig

tenta di arricchirsi attraverso il male, c’è chi fugge in stordimenti e distrazioni o chi resta immobile nella paura. C’è chi scopre la bellezza e l’importanza del contagio della solidarietà e chi alza gli occhi al cielo cercando conforto, aiuto o solo un perché. Anche il nostro territorio è segnato da epidemie nella storia. Basterebbe disegnare in esso i punti di una mappa di chiese o cappelle votive dedicate a san Rocco, protettore dal flagello della peste, o al collega san Sebastiano, o alla Madonna che tutto ascolta. Anche Gorizia unisce i due santi insieme a un terzo nella pala d’altare della chiesa di San Rocco, cappella ampliata proprio dopo una peste del Seicento. Se, nell’iconografia, le frecce che trafiggono il corpo di San Sebastiano alludono alla peste come a una maledizione che dall’esterno va a colpire l’uomo, la diversa immagine con mantello e bastone di San Rocco, pellegrino caritatevole accanto al cane che lo sfamò, impersona nel vissuto la possibilità di guarire attraverso il cambiamento a favore di una dimensione non contaminata. La modernità del diario della peste -

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Ma la testimonianza scritta che meglio narra una storia di contagio del nostro territorio, in una forma che pare di paradossale modernità, tanto da strizzare l’occhio ai post quotidiani dei social corredati da immagini, è “Il diario della peste di Giovanni Maria Marusig” del 1682. Il volume del 2005 (Edizioni della Laguna, a cura di Maria Cristina Cergna con saggio di Rienzo Pellegrini), raccoglie testo e illustrazioni originali della “Relatione del contaggio di Goritia” riproducendo uno dei fascinosi manoscritti autografi (diversi per l’uso o meno del friulano, per il numero dei disegni, per la data dell’ultima giornata) a cui si aggiungono sonetti di altri testimoni. L’abate Giovanni Maria Marusig (che si firmava Zanmaria) fu poeta, cronista, illustratore, ecclesiastico, poligrafo del barocco goriziano, autore di una produzione varia che rincorre la cronaca, le curiosità, la realtà dell’amata sua città di cui fu il primo versificatore friulano. Cappellano e confessore del monastero di Santa Chiara, costretto alla quarantena nella propria abitazione dell’allora piazza Grande (odierna piazza della Vittoria) durante l’epidemia del 1682, la più virulenta per la città tra le varie ondate del Seicento, registrò tutto ciò che andava vivendo, vedendo, percependo degli effetti del contagio. L’opera, di indubbio valore storico e documentario, è scritta, considerando i vari manoscritti, in italiano e friulano con alcune parole di origine slovena e alcune clausole latine, in un tono medio senza particolari pretese estetiche e letterarie. Racconta “l’anno miserabile”, dal 18 maggio 1682 fino alla primavera successiva, attraverso annotazioni quotidiane dettagliatissime che vanno dal primo contagio, ai decessi, elencati con nomi, soprannomi, mestieri, età, fino alla rinascita in una pluralità di sfumature. Si passa dal realismo all’ironia, al disincanto, alla sfrontatezza, al cinismo o alla constatazione della fragilità del destino umano. In particolare nei versi, per lo più nel friulano-goriziano che diventa strumento di comicità in uno stile che ulteriormente si abbassa, leggiamo la paura per la propria sorte, ma soprattutto gustiamo un accento scherzoso, ironico, satirico-moraleggiante che attraverso un ritmo serrato e un’espressività schietta, serve a esorcizzare timori e lutti, a far da contrappunto burlesco alla tragicità, in un equilibrio che pare il segreto per sopravvivere, fatto di concretezza e evasione.


Processione di S. Rocco a peste finita

“Resta a chiasa”, l’hashtag dell’epoca - Il diario seicentesco sembra l’antenato di profili e pagine social che tutto annotano in divenire; perfino il ricorso al riso e alla battuta a stemperare l’ansia, accanto al richiamo alla responsabilità, ritornano ora come allora. E se negli strumenti attuali basta un gesto per un plebiscito di “mi piace”, nel XVII secolo Marusig rileva che se la diffidenza verso di lui in quarantena aumentava, tuttavia non diminuiva l’interesse per

L’untore e il diramarsi dell’epidemia

i suoi versi che dunque si diffondevano comunque e “piacevano”. Scriveva infatti nel sonetto intitolato “Sopra quelli che burlavan l’authore in tempo di peste”: «Minchionadors, savevis dugh burlami / quant che ieri serat in quarantia. / Dalla cot vo schiampavis

duquaing via, / ma no da rimis che mi pon iudami.» (Canzonatori, sapevate tutti burlarmi quando ero rinchiuso in quarantena. Dal bubbone voi scappavate tutti via, ma non dalle rime che mi possono aiutare). C’è persino una sorta di #iorestoacasa: «Sta a chiasa», «Resta a chiasa, studios», «A chiasa, padri, no là ator» (a casa padre, non andate in giro), fino alla rima saggia: «Se mi chiatin fur dal tet, / a revedessi in lazaret» (se mi trovano fuori dal tetto, arrivederci in lazzaretto). Tutto si svolge come sotto ai nostri occhi, a partire dal sonetto “Sopra Andrea Cuculuta che fu l’origine della peste di Gorizia” ma anche in fondo l’origine delle righe scritte, e della fine della paura per le streghe, perché timore più grande era ora la peste che decimava anche il denaro: «Par te scrivei nel libri tanti’ riis / … né plui paura vevi delli striis…». Non c’è solo la disperazione per un male a cui non sembra esserci rimedio, l’impotenza dei medici, la calce che segna con una croce le case infette, fratelli che seppelliscono sorelle e madri che portano figlie al lazzaretto rischiando il contagio attraverso gli oggetti. Ma anche una Gorizia che impara a vivere diversamente con la chiusura delle scuole, le messe celebrate all’aperto in piazza, i voti ai santi. Prudenza traspare dalle parole del poeta cronista che annuncia la fine della quarantena in castello ma invita a limitare i festeggiamenti. E se da un lato c’è una nobiltà che lascia Gorizia e c’è chi ruba oggetti nelle case infette garantendosi l’impiccagione, dall’altro c’è una solidarietà che si manifesta anche in piccoli gesti come in botti di vino mandate da benefattori ai poveri del lazzaretto. Era meglio anticipare le restizioni… - Stupisce la lucidità con cui si prende 7

consapevolezza che non tutte le morti sono riconducibili alla peste, perché si muore anche di altro male o di vecchiaia, e che meglio sarebbe stato anticipare le restrizioni per spazzar via presto l’epidemia: «Se scomenzava prin la quarantia / la pesta trop devant sbratava via». Marusig, consolato da «bon pan, bon vin», è sempre stato portatore di allegria: «Stant sul balcon, chei siors mi domandavin / cimut che stoi e se la cot bisia. / Benchè serat, mostrai di vè ligria. / Duch… si indalegravin. / Par iessi ros, tros si maraveavin. / Io no pandei il secret e bizaria: / cun camisiola rossa Zamaria / freiava li ganassis…» (Stando alla finestra, quei signori mi domandavano come sto e se il bubbone pizzica. Benché chiuso, mostrai di avere allegria. Tutti…si rallegravano. Tanti si meravigliavano che io fossi rosso. Io non rivelai il segreto e la bizzarria: con la camiciola rossa Gianmaria massaggiava le guance). C’è spazio anche per il burlesco “Testamento se moro scrivendo questo libro” con naso e zibibbo altrui come lasciti insieme a «duti’ li’ balis da me fontanella» a chi di lui aveva sparlato. Infine le “Censure contro Gorizia” alimentate dalla paura delle terre vicine, a cui seguono risposte di difesa. Passata la cometa, nella speranza che sia di buon augurio e non maleficio, trascorre anche la Pasqua silenziosa «… sì alta / che senza favellà, sol alla muta». Ma ecco la rinascita: «I schoars zà scomenzin là a schuela, /no viodarìn plui muarz in ta barella» (gli scolari cominciano già ad andare a scuola, non vedremo più morti in barella). Si sente suonare per la prima messa grande dei Gesuiti e si dà notizia che la quarantena generale è finita grazie all’aiuto di Dio e dei santi protettori. «Finida la pesta» allora «disset partida» (dite che se n’è andata): «Li 7 marzo fu bellissima processione votiva a S. Rocho col venerabile con 5/m persone» (5000 persone). E alla fine, la processione a San Rocco - La scrittura in prosa e versi interagisce con le illustrazioni, dotate anch’esse di forza narrativa. Disegni, corredati da didascalie, illustrano fatti, personaggi, chiese, palazzi, luoghi della Gorizia del Seicento, “ritratti” di gruppo disposti su “alberi” che raccolgono religiosi in quarantena, e riti affollati come la bellissima processione votiva a San Rocco. Un racconto per immagini. Vignette che diventano fonti per ricostruire con precisione quasi fotografica costumi e architettura. Queste allora, dopo essersi ben lavati le mani, potrebbero essere le pagine da sfogliare, se non per sconfiggere, almeno per scoraggiare un virus e soprattutto la paura che attecchisce in ognuno di noi, perché, come dice Daniel Pennac, «Un libro ben scelto ti salva da qualsiasi cosa, persino da te stesso». ©RIPRODUZIONE RISERVATA


La quarantena di Frank che si scopre patriottico di Giorgio Mosetti

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mici lettori di Gorizia News & Views, vi comunico che quanto riportato qua di seguito non è materiale di mio pugno, ma proviene dal “Diario di quarantena di Frank”.

Mi è stato recapitato a fine marzo, non so da chi. L’ho trovato nella cassetta delle lettere. Dopo averlo trattato con l’amuchina, l’ho aperto. Dentro c’era un foglietto scritto a mano, firmato proprio da Frank, in cui mi chiedeva (in realtà me l’ordinava) di diffonderlo per il bene dell’Umanità. Sono preoccupato, lo ammetto, perché non capisco per quale motivo abbia deciso di renderlo pubblico prima della fine dell’emergenza. E io, in questi casi, tendo a pensare al peggio. Ma soprattutto, non comprendo come mai abbia scelto proprio me, visti i nostri trascorsi alquanto burrascosi. Ad ogni modo, lui me la chiesto, e io lo faccio. Giorno 1 Oggi è il primo giorno di quarantena. Dopo aver fatto la spesa mi sono chiuso in casa. Mi sono fatto da mangiare, ho accarezzato Nick e dormicchiato sul divano. Poi ho visto un film e letto un libro. Poi sono andato a dormire. Praticamente come tutti gli altri giorni. Da sempre. Giorno 2 Oggi, per sicurezza, ho disinvestito tutti i miei risparmi in oro e li ho reinvestiti nel nuovo bene rifugio: la carta igienica. Del resto, che te ne fai dell’oro quando finisci all’ospedale con le mutande sporche? Giorno 3 Ligio al decreto, sono uscito solamente per portare fuori il cane. Ho incrociato due tizi che si urlavano da tre metri di

distanza. Uno stava dicendo all’altro l’unica Verità sul virus. Non c’ho capito molto, ma so che c’entrava una qualche strana alleanza tra Lobby del farmaco, Poteri Forti, gestori di tecnologia 5G, Europa, Gino Strada e i rettiliani. Fino a Putin (Putin c’è sempre). Così sono rientrato a casa. P.S. Io non ho il cane.

sbraitava in strada per i tamponi dati agli americani. Proprio come ieri sbraitava per le mascherine che i tedeschi non ci volevano dare. Sono tornato dentro. Ho guardato il calendario. Giorno 9. Troppo presto, ho pensato. La Nuova Umanità deve essere ancora in lavorazione.

Giorno 4 Dopo tre giorni relativamente tranquilli, la situazione sta rapidamente degenerando. Ho visto cose a cui non avrei mai immaginato di assistere, cose che voi umani non potreste immaginarvi. Persone disperate al largo dei bastioni del castello ascoltare Burioni e cercare supporto nella medicina convenzionale.

Giorno 10 Oggi sono andato al supermercato a fare la spesa. A un certo punto, al reparto latticini, mi monta dentro uno starnuto. Cerco di neutralizzarlo serrando gli occhi, stirando la bocca e arricciando il naso. “No!” mi urla una signora dall’altra parte del banco alla vista delle smorfie sulla mia faccia. “Non penserà mica di starnutire!?” “No”, le faccio. “Mi sono solo eccitato alla vista di quel bambino”. E glielo indico. Ah, ecco. Per un attimo mi sono spaventata, sa?

Giorno 5 Oggi giornata eccitante. Prima sono andato in terrazza a cantare l’Inno. Poi, dopo aver battuto le mani per la Polizia e gli operatori sanitari, ho acceso la torcia del cellulare e l’ho sparata al cielo, in attesa del satellite che il Presidente Conte ha fatto deviare dalla sua orbita ordinaria per essere sul nostro Paese all’ora giusta. Emozionato, ho chiamato Leon per condividere l’esperienza. Per un po’ se n’è rimasto in silenzio. “Pronto? Pronto?” ho ripetuto senza ricevere risposta. Poi d’un tratto: “Nonno Frank?” “Dimmi?” “Stavo calcolando che, emettendo la torcia di un cellulare all’incirca 50-60 lumen, e un lampione stradale mediamente 13mila lumen, anche se tutti i 60milioni di italiani l’avessero accesa -e statisticamente lo trovo assai improbabile - avrebbero prodotto al massimo la luce del 2,5% di tutti i lampioni stradali in Italia”. “…” “Ovviamente senza tenere conto di tutte le altre fonti di luce che ci sono”. “...” “Se vuoi le calcolo, nonno”. Gli ho chiuso il telefono in faccia. Giorno 6 Qualcosa dentro di me sta cambiando. Mi sento travolto da un improvviso impeto di orgoglio per la Stirpe Italica. Per quello che, senza ombra di dubbio, è il Più-Grande-Popolo-Della-Storia-Dell’Umanità. E non solo in me, ma nel mondo intero qualcosa sta cambiando. Perché da tutto questo usciremo migliori, e una Nuova Umanità prenderà il sopravvento! Così mi sono fiondato su Facebook a postare video delle Frecce Tricolori. Giorno 7 Ho visto gente al supermercato comprare un pomodoro alla volta. Giorno 8 Ho visto cani con le zampe sanguinanti. Giorno 9 Oggi ho visto dalla terrazza Mario che 8

Giorno 11 Guardo fuori dalla finestra. Oggi è primavera, mi dicono. Spengo la cicca e torno al tavolo in cucina. Apro Facebook e leggo svogliatamente qualche commento. Scuoto la testa. È che proprio non riesco a capire perché tanta paura, quando la peggior cosa che ti possa capitare è morire. Ma forse è un problema mio. Così mi alzo, vado sul divano da Nick e comincio ad accarezzarlo. È una sensazione bellissima. Giorno 12 Oggi mi ha telefonato Leon. Mi ha detto che voleva solo salutarmi, ma la sua voce tremante lo tradiva. Abbiamo parlato del più e del meno. Poi d’un tratto mi fa. “Ma tu, nonno, cosa pensi? Non hai paura?” “Di questo, dici?” “Sì”. “No, Leon, proprio non riesco ad averla”. “E come mai?” “Non lo so. Forse è solo perché ho vissuto situazioni molto più spaventose. Fatte di un terrore che non può neppure essere descritto. Un terrore che non provai neanche quando mi diagnosticarono la malattia e mi diedero quindici anni di vita”. “Quindici anni di vita?” “Già”. “Ma allora...” “Tranquillo, Leon, è successo solo dodici anni fa”. “...” “...” “Io invece ho paura, nonno”. “Lo so. E va bene così”. “Perché va bene?” “Perché questo fa di te un ragazzo fortunato”.

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Non la chiusura dei confini, ma una concreta collaborazione è il rimedio per sconfiggere qualsiasi avversità naturale

N cultura 2025.

di Andrea Bellavite ell’occhio del ciclone che sta investendo il mondo, sembra quasi fuori luogo pensare alla candidatura di Nova Gorica/Gorizia capitale europea della

Non è così, anzi, è importante parlarne perché questo periodo di necessaria ma anche inquietante interruzione delle normali libertà costituzionali non deve essere anche una sospensione della Vita, al contrario può essere il tempo di una nuova fondazione delle relazioni internazionali, sulla scia dell’esperienza della lotta per estirpare il coronavirus.

Ci sono grandi capolavori d’arte e commoventi testimonianze di vita popolare, castelli, basiliche, chiese sontuose insieme a umili cappelle votive nel cuore dell’architettura semplice dei villaggi isontini, testimonianze di un cattolicesimo attivo e vivace intrecciate con la vita di Primož Trubar, protagonista della prima fase della Riforma luterana e il ritorno del protestantesimo metodista nella Gorizia della metà dell’800. Tutto ciò senza parlare della bellezza di una natura affascinante e in parte ancora poco contaminata dall’inquinamento e dal turismo di massa, senza dimenticare

Perché dunque Nova Gorica e Gorizia dovrebbero essere “capitale europea della Cultura”? I motivi sono tantissimi e vanno dalla storia del Novecento, talmente unica da non essere paragonabile ad alcuna altra zone in Europa alla coesistenza di una parte di città con oltre 1000 anni di storia accanto a un’altra crescita soltanto negli ultimi 70 anni. Si tratta inoltre di un territorio ampio, che va dall’alta valle della Soča/Isonzo e dalle sorgenti della Vipava/Vipacco fino alla bisiacheria, alla Laguna di Grado e alla Bassa Friulana intorno alla più che bimillenaria città di Aquileia. Dal punto di vista storico, quindi, si procede dal primo strumento musicale scavato in un osso d’orso e ritrovato presso Most na Soči risalente a 35.000 anni fa e si passa alle memorie della civiltà di Halstatt nel circondario di Tolmin; si condivide la storia dei gruppi preromani nella zona aquileiese per accompagnare la gloriosa vicenda spirituale, politica, artistica e teologica dell’Aquileia Romana, Cristiana e Patriarcale; si assiste alla lotta tra gli Asburgo e Venezia, alla nascita dell’Arcidiocesi di Gorizia per arrivare alle tragedie della prima metà del ‘900, poi nel secondo dopoguerra alla nascita di Nova Gorica e al lungo percorso di ricostruzione del tessuto unitario nella diversità culminato nel 2004 con l’ingresso della Slovenia in Unione Europea e nel 2007 con la definitiva rimozione delle barriere confinarie.

la necessità di sentirsi accomunati anche nella lotta contro il mesotelioma da asbesto che ha provocato grandi problemi nei comuni di Kanal e del basso corso del fiume. L’Isonzo è riconosciuto comunque come uno dei più bei fiumi d’Europa, le Alpi Giulie offrono panorami mozzafiato, come pure le montagne sopra le Gorica, Sabotin, Sveta Gora/ Monte Santo/ Šgabrjel/San Gabriele, scrigni di reliquie di tragedie belliche, di memorie spirituali e di specificità uniche di una Natura sorprendente. Insomma, si potrebbe continuare a lungo a parlare di questa terra dove i muri sono stati smantellati – non ultimo quello abbattuto da Franco Basaglia, tra il mondo della presunta “sanità” e quello della “malattia” mentale – e i ponti sono

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stati costruiti, primo fra tutti quello ferroviario di Salcano, con l’arco di pietra più grande del mondo. Ma perché tutta questa ricchezza possa essere riconosciuta e valorizzata occorre che ci si incammini sulla strada di una collaborazione che deve coinvolgere tutte e tutti i cittadini, nessuno escluso. Occorre favorire percorsi che consentano la conoscenza delle reciproche lingue, storie culturali, offerte letterarie e artistiche. E’ necessario creare delle infrastrutture che tolgano davvero dalla testa le frontiere che ancora ostacolano la comune convivenza. Si devono creare, da subito, tavoli inter-nazionali dove elaborare insieme il percorso futuro, dal punto di vista politico, economico, culturale, sociale, spirituale, ambientale, scolastico, in modo da poter elaborare un grande piano d’azione che davvero porti tutti a sentirsi parte della costruzione di un qualcosa di molto nuovo, una vera “città transnazionale”, dove gli elementi filosofico-culturali possano essere base di coraggiose e innovative scelte politico-istituzionali. E’ un sogno? Forse anche no. Tornando al punto di partenza, parlare di capitale europea della cultura in epoca di coronavirus potrebbe offrire proprio in questo momento una grande opportunità. Si potrebbe affrontare insieme la crisi, condividendo esperienze e mettendole a confronto, avendo anzitutto il coraggio di spostare le orribili nuove provvisorie barriere antivirus molto più in là e cominciando da subito a trovarci – necessariamente online - per pensare in piena solidale condivisione, quella che dovrà essere una vera rinascita, una comune ricostruzione di ciò che è stato devastato nella lotta contro il male. Se sapremo dimostrare in questa circostanza che non la chiusura dei confini, ma la collaborazione attiva e fattiva è il vero rimedio per sconfiggere qualsiasi avversità naturale, allora certamente avremo ottime possibilità di fare di Nova Gorica/Gorizia l’autentica capitale europea della Cultura (con la C maiuscola). ©RIPRODUZIONE RISERVATA


Ungaretti, 50 anni dalla morte: quel ritorno sul Carso nel 1966 e il percorso della memoria nel parco di Castelnuovo di Anna Cecchini

A

giugno saranno passati cinquant’anni dalla sua morte, ma la fortuna di una delle più grandi voci del Novecento non conosce il passare del tempo. Giuseppe Ungaretti, il poeta della Grande Guerra, nasce ad Alessandria d’Egitto da genitori toscani nel 1888. Protagonista di una delle grandi emigrazioni ottocentesche verso l’Egitto, che abbiamo raccontato nel numero di marzo con l’affascinante storia delle Alexandrinke, i legami di Ungaretti con l’Isontino sono indelebilmente legati al primo conflitto mondiale, alla guerra di trincea, al Carso. Dopo una parentesi parigina da studente alla Sorbona, durante la quale entra in contatto con l’ambiente artistico internazionale e coltiva la sua passione per la letteratura e la poesia, Ungaretti diventa nel 1914 un acceso interventista, e, un anno dopo, si arruola volontario. Il giovane fante viene gettato nelle trincee del Carso e, tra un attacco e l’altro, riempirà il suo taccuino di versi asciutti e taglienti come rasoi. Nel 1916 sarà l’amico tenente Ettore Serra a raccogliere e far stampare in ottanta copie dallo Stabilimento tipografico friulano di Udine la sua prima raccolta, “Il porto sepolto”, tratta dai foglietti conservati alla rinfusa nel tascapane di Ungaretti. “Soldati”, “San Martino” e la sciabolata di “M’illumino d’immenso”, scritta a Santa Maria la Longa nel gennaio 1917, diventano la narrazione asciutta di un giovane finito come tanti con un fucile in mano su quelle colline pietrose, che assiste alla disfatta dell’uomo contro l’uomo, ma che non si arrende all’orrore. Sono versi così scabri ed essenziali che

riesci quasi a vederlo, quel ragazzo in uniforme col lapis in mano, che scrive e poi leva, taglia, cancella, per consegnarci solo uno scheletro, un ramo nudo, poche manciate di parole indispensabili. Ungaretti tornerà a Gorizia e sul Carso solo molti anni dopo, nel 1966, dopo una lunga carriera universitaria, tanti riconoscimenti e inguaribili perdite, e dopo aver sfiorato il Premio Nobel nel 1958. E’ l’ospite d’onore del primo convegno dell’Icm (Istituto per gli incontri mitteleuropei) dedicato alla poesia, al quale parteciparono scrittori e poeti di sei nazioni. Per ricostruire questo “ritorno” ci viene in soccorso un’agile e interessante pubblicazione dal titolo “Giuseppe Ungaretti, Gorizia e il Carso”, edita da Nuove Edizioni della Laguna nel maggio del 2018 e curata da Gianfranco Trombetta. E’ Biagio Marin, dal tavolo del convegno, a dare il benvenuto al poeta, che ha ormai settantotto anni, porta vistosi occhiali scuri che nascondono il suo sguardo azzurro e penetrante, e cammina appoggiato al bastone. Marin pronuncia una frase profetica, quel giorno: “…I confini che tagliano l’unità della terra, non si scorgono, né da l’alto del Calvario, né da l’alto del castello, e neanche da l’alto del Colle di Santa Caterina al di là del confine. Sono quei confini una tristezza che ieri non esisteva, che forse, in un sia pur lontano domani, non esisteranno. E ciò non solo perché non solo la terra ha qui un aspetto unitario, ma anche perché non si vive per secoli gli uni accanto agli altri, gli uni frammischiati agli altri, senza che un filo d’oro ci colleghi; e anche perché in tutta l’Europa

si è risvegliato un bisogno di superiore unità tra i popoli”. Profetica, lungimirante e coraggiosa, questa frase viene pronunciata quando i gelidi venti della Guerra fredda spiravano forti. Ci sono voluti quasi quarant’anni per cancellare quel confine, ma i semi sono stati gettati anche quel giorno, quando si celebrava il cinquantennale della “liberazione” di Gorizia, divenuta italiana il 9 agosto 1916 a prezzo di perdite inenarrabili. Ungaretti risponderà così: “…Il nome di Gorizia, dopo cinquant’anni, mentre si compie il primo cinquantennio della vicenda che l’ha mutata, torna a significare per me ciò che per noi, soldati in un Carso di terrore, significava allora. Non era il nome di una vittoria – non esistono vittorie sulla terra se non per illusione sacrilega – ma il nome di una comune sofferenza, la nostra e quella di chi ci stava di fronte e che dicevano il nemico, ma che noi, pure facendo senza viltà il nostro dovere, chiamavamo nel nostro cuore fratello…” Riceverà il Sigillo della città e poi andrà a visitare il Carso, l’Isonzo e il Sacrario di Redipuglia. Sarà un giovane professore ad accompagnarlo, Sergio Tavano. Ungaretti rimarrà in silenzio per lungo tempo, ai piedi della monumentale scalinata. Poi picchierà con forza il suo bastone per terra, più volte, ripetendo “No, no, no”. A Tavano, che chiede il perché di quella reazione rabbiosa, Ungaretti risponde cupo “La morte è più semplice!” e chiederà poi di allontanarsi dal sacrario. Salirà sul San Michele e guarderà la vegetazione nuova, il nastro

In questa pagina tre immagini del Parco letterario dedicato a Ungaretti a Castelnuovo di Sagrado

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azzurro del fiume e Gorizia, laggiù, in una splendida giornata di sole, ricordando il deserto desolato delle pietraie e il fango rosso di ferro e di sangue. Dirà Ungaretti che è stata la guerra a fargli trovare la sua d’identità, i segni essenziali per riconoscersi. Sono stati i fiumi che gli scorrono dentro a far di lui l’uomo che è. Il fango del Carso gli dirà finalmente che le sue origini sono a Lucca, sulle rive del Serchio, e che è nato ai limiti del deserto e sul Nilo. Che senza Parigi e la Senna non avrebbe avuto parola, e che senza l’Isonzo non avrebbe avuto parola originale. La vita di Ungaretti sarà lunga e complessa. Oltre l’Egitto, la Francia e l’Italia, i suoi punti cardinali saranno anche il Brasile, dall’altra parte dell’Atlantico, dove si trasferirà con la famiglia per sedere alla cattedra di letteratura italiana dell’Università di San Paolo. Perderà un figlio e l’amata moglie Jeanne, ma mai l’amore per la vita, fino all’ultimo giorno, il 1^ giugno 1970. Raccordare Ungaretti e il Carso è stato un atto necessario. Nasce dall’intuizione di Gianfranco Trombetta, “ungarettologo”, come ama definirsi, che ne ha ideato, curato e diretto la realizzazione, in stretta collaborazione con la famiglia Terraneo e l’associazione Amici di Castelnuovo, e con il contributo della Regione Friuli Venezia Giulia. Il Parco è collocato nel giardino della secentesca villa Della Torre - Hohenlohe, sulle alture di Castelnuovo di Sagrado, tra ulivi e vigneti, immerso nel paesaggio che fu teatro della Grande Guerra. Progettato dall’architetto Paolo Bornello, è stato inaugurato ufficialmente il 16 settembre 2010, esposto alla 12^ Mostra internazionale di architettura della Biennale di Venezia e inserito nella successiva edizione della Biennale d’arte internazionale veneziana. La stessa villa, per un periodo sede del comando italiano della III Armata del generale Cadorna, conserva le tracce di quegli eventi e ha rivelato di recente alcuni graffiti tracciati all’epoca dai soldati. Si tratta di nomi, paesi e date di nascita, reparti di appartenenza, stati d’animo, descrizioni

Ungaretti in divisa da fante durante la Grande Guerra

di battaglie, disegni e caricature. Alcuni sono perfettamente leggibili, mentre altri sono di difficile interpretazione, ma ci restituiscono la testimonianza commovente di coloro che, attraverso una semplice firma, chiedevano semplicemente di essere ricordati. La narrazione immaginata da Trombetta e poi progettata da Bornello lega il paesaggio carsico con le vicende belliche e con la poetica ungarettiana, attraverso un percorso che parte dalla villa per giungere alle rovine del vecchio presidio militare, ricordato dal poeta. Ad accogliere il visitatore è stata posta una statua in bronzo a grandezza naturale del giovane Ungaretti, realizzata dallo scultore Paolo Annibaldi. Le installazioni sono essenziali, realizzate con materiali grezzi, e rappresentano la simbologia del Parco: la “Torre” offre una visuale aperta sui luoghi, il “Recinto sacro” propone dieci blocchi di pietra carsica che racchiudono una stele, ciascuna recante una delle poesie del Porto sepolto, e infine il “Sacrario”, una sorta di labirinto di alti pali in legno, al cui interno è custodito il ritratto del poeta in età senile ad opera dell’artista goriziano Franco Dugo. Quando questo articolo sarà pubblicato,

auspichiamo che sarà di nuovo possibile tornare a esplorare il nostro territorio e a godere di tutta la ricchezza che ci offre. Consiglio caldamente questa visita per passeggiare piacevolmente nel verde curato del parco e avere l’occasione di riscoprire la potenza evocativa della poesia come riscatto umano dagli orrori. Per informazioni: www.amicidicastelnuovo.it ©RIPRODUZIONE RISERVATA

San Martino del Carso Di queste case non è rimasto che qualche brandello di muro Di tanti che mi corrispondevano non è rimasto neppure tanto Ma nel cuore nessuna croce manca E’ il mio cuore il paese più straziato (Valloncello dell’Albero Isolato, 27 agosto 1916)

Il poeta a Gorizia nel 1966. Ad accompagnarlo è l’allora sindaco Michele Martina

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Ciao Carluccio una vita “oltre” tra musica, arte e… biciclette di Adriano Ossola

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all’officina di riparazioni delle biciclette posta alla sinistra dell’ingresso nella libreria. Aveva voglia di sbirciare dentro, ma soprattutto di interrompere il tran tran delle riparazioni che probabilmente già allora lo annoiava un po’ - quante volte ho assistito alla scena di suo padre che lo riprendeva quasi dolcemente per una consegna in ritardo o per assistere un cliente - e iniziare a discorrere di altro. Non di biciclette. Un pomeriggio avevo con me per qualche motivo che non rammento il Real Book, la Bibbia dei giovani aspiranti jazzisti. Lui, che ne aveva una copia, la

el febbraio scorso si è spento, a 66 anni, Carlo Quali, musicista e compositore goriziano, virtuoso della batteria. Dopo aver suonato da professionista sulle navi e nei night club, “Carluccio”, a trent’anni, aveva dovuto lasciare, o quasi, l’attività per occuparsi del negozio di biciclette di via Marconi (a fianco della pasticceria Cidin), gestito dai genitori. Ma senza rinunciare ai suoi molteplici interessi. I giovani goriziani che suonarono con lui, nell’era mitica dei “favolosi” anni 60, meditano di dar vita, quando sarà possibile, a un evento live per ricordarlo degnamente. Il patron di èStoria, Adriano Ossola, suo grande amico, ha voluto dedicargli qui un sentito omaggio. *** Benché di vista lo conoscessi da tempo - Roberto, mio amico fraterno, mi diceva al suo approssimarsi “Guarda, arriva Michael Caine”, per la sua vaga somiglianza, che trovo ancora oggi appropriata, con l’elegante attore inglese, nonostante nel suo volto e nella piega un po’ sghemba della bocca aleggiasse un’espressione molto meno composta e flemmatica, comunque profonda e intelligente, al pari di Caine - il mio primo incontro con Carlo risale ai giorni precedenti l’apertura della prima sede della Libreria Editrice Goriziana, nella quiete di Corte Sant’Ilario. Ci incrociavamo spesso mentre io portavo in quel minuscolo negozio qualche baule di libri, vecchi o nuovi, e lui si recava

adocchiò e, dopo qualche breve scambio di battute, mi chiese se avessi mai letto il Trattato di armonia di Arnold Schoenberg: tanto per farmi capire che, vabbé l’impegno degli aspiranti musicisti, ma lui era già oltre. Carlo aveva allora alle spalle le sue prime fondamentali esperienze di batterista professionista su navi di lungo corso e poteva affrontare allo stesso modo un trio jazz con piano, basso (soprattutto quando a suonarlo era il suo amico Paolo Gruden) e batteria, lui nei panni di Paul Motian, o una cover dei Led Zeppelin 12

o di Muddy Waters come era stato nei Distorsion Megaton (il suo gruppo d’esordio assoluto) con Giulio Nerini, Romano Schnabl e Gianni Corli, una samba in stile easy listening, o l’accompagnamento discreto dei Fairfield di Ararad Khatchikian (e sarebbe bello un giorno scrivere la fervida microstoria del rock e del jazz goriziano). Ma Carlo, a ripensarci, è stato oltre in tanti sensi e modi nel corso di tutta la sua vita: quando,come abbiamo appena detto, in pochi anni è riuscito a bruciare tutte le tappe possibili diventando un eccellente batterista professionista, oppure quando ha abbandonato del tutto il mondo del lavoro per dedicarsi a una vita creativa e del tutto libera da imposizioni, nelle scelte sentimentali fugaci o durature come quella importante con Ada, nell’amore per l’Oriente, meta privilegiata di molti suoi viaggi, nella passione politica che lo aveva condotto negli anni a una profonda idiosincrasia nei confronti della sinistra, nella conoscenza raffinata dei meccanismi della Borsa italiana, nel fiuto per gli affari immobiliari, nel suo sapere essere musicista e artista totale, sempre ricco di talento non solo nella musica ma anche nella pittura. In un’estate, verso la fine del periodo trascorso in Corte Sant’Ilario, Carlo e io prendemmo l’abitudine un po’ folle di uscire tutta l’estate verso il Carso tra la una e le tre del pomeriggio. Il caldo era torrido e ci sfinivamo nei saliscendi tra Doberdò e San Martino ingaggiando delle gare furiose al termine delle quali lui risultava quasi sempre vincitore. Non mollava mai, un combattente di ferro, allora e sempre, come lo è stato nei momenti più bui della lunga malattia che lo ha stroncato. Facendomi voce di tutti i suoi amici, parenti ed estimatori penso di potere dire che ricorderemo sempre Carlo come una persona buona e coraggiosa, ironica, dalla curiosità onnivora e dai giudizi inaspettati e illuminanti, un piccolo grande genio poliedrico e pugnace che avrebbe avuto diritto a misurarsi con prove di altro profilo rispetto a quelle vissute e avrebbe dovuto rimanere tra di noi più a lungo. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


Una piccola scuola di giovani registi in città sulle orme del grande “Cesco” Macedonio di Stefania Panozzo

C’

’era una volta Francesco Macedonio (Idria 1927 - Gorizia 2014), grande artista, uomo di profonda cultura, regista e autore teatrale. Un’eccellenza goriziana, come si direbbe ora con un termine un po’ abusato. Un uomo la cui carriera cominciò nel 1967 quando il Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia gli chiese di mettere in scena il documentario teatrale “Gorizia 1916” scritto ed interpretato da Vittorio Franceschi, che narra gli avvenimenti accaduti in quell’anno nella nostra città. Ma la sua fama è legata in modo particolare al teatro popolare La Contrada, che fondò nel 1976 assieme agli attori Orazio Bobbio, Ariella Reggio e Lidia Braico, e del quale fu direttore artistico per 38 anni.

Curiosamente, la sua eredità in questo incarico è stata poi raccolta nel 2014 da un’altra “eccellenza goriziana” dei nostri tempi: Matteo Oleotto, classe 1977, ormai regista affermato dopo il celeberrimo film “Zoran il mio nipote scemo” e la serie televisiva “Volevo fare la rockstar”. Quell’Oleotto al quale quest’anno è stato tributato il premio Città di Gorizia intitolato ai santi patroni (ancora in attesa di consegna causa Coronavirus). E’ come se, sulla scia del grande “Cesco” si sia innestata una piccola scuola di registi e cineasti goriziani di talento. Abbiamo già dedicato un’intervista a Cristian Natoli, amicone di Oleotto, che ci ha raccontato la sua passione per la storia e di come sono nati i suoi docufilm più famosi: “Figli di Maria” e”Per mano ignota”. Altri due docufilm di Natoli sono degni di nota: si tratta di “Áttörés” e “Állahmàtar” che in ungherese significano rispettivamente “passaggio oltre” o “sfondamento” e confine di stato. I due documentari sono stari girati tra il 2009 e il 2011 e sono la testimonianza dei viaggi compiuti dal regista lungo il confine tra Germania, Ungheria e Polonia. Il primo é stato girato in Germania durante i festeggiamenti per il ventesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino. Dopo quel viaggio Cristian ha riflettuto sul fatto che il muro divideva due parti della stessa città, ma che non doveva essere stato così dappertutto. Il giovane regista decise così di esplorare ulteriormente l’ex cortina di ferro e con un piccolo gruppo di amici partì alla volta del confine tra Germania e Polonia. Qui ha

scoperto due città che hanno qualcosa in comune con Gorizia e Nova Goriza: si tratta della cittadina tedesca di Görliz e della sua vicina polacca Zgorletec. Salta agli occhi la somiglianza dei nomi delle due città con Gorizia e Nova Gorica, ma il destino che lega la nostra città alla sua sorella slovena é molto diverso da quello vissuto da Görliz e Zgorletec. Infatti, se la nostra città e Nova Gorica sono riuscite dagli anni ’60 in poi ad intraprendere un dialogo che potrebbe portarle nel 2025 a diventare capitali europee della cultura, Görliz e Zgorletec che fino al 1989 erano politicamente sorelle adesso non dialogano più. Ciò porta ad una riflessione: i confini fisici sono come quei fiumi che uniscono le città che sorgono sulle loro sponde come succede al nostro Isonzo, mentre quelli mentali somigliano a quei fiumi che anziché unire le città che attraversano le dividono come succede per il fiume che scorre tra Görliz e Zgorletec. Il panorama dei cineasti goriziani non si esaurisce qui, ma conta tra i suoi componenti anche il nome di un montatore che di recente ha vinto il primo premio assoluto al “One screen short film festival” di New York: Lorenzo Colugnati. A differenza di ciò che si potrebbe pensare, il lavoro del montatore – ci ha spiegato - é importante nel mondo del cinema, perché non basta legare tra loro due immagini, ma bisogna avere un buon senso del ritmo e della narrazione se si vuole evitare di scrivere un racconto pieno di errori e noioso. Il docufilm montato da Lorenzo, e intitolato “Please arrest me”, tratta un tema scottante: lo stupro matrimoniale in India, che non é illegale, anzi é socialmente accettato cosicchè persino gli uomini che vanno ad auto-denunciarsi difficilmente vengono ascoltati. Ma le donne sono, ovviamente, quelle che pagano maggiormente questa situazione, perché non solo lo stupro é frutto di un matrimonio al quale vengono costrette dalla famiglia, ma devono subire in silenzio, visto che non hanno nessuno a cui chiedere aiuto. In questo momento é in corso una campagna di sensibilizzazione tramite una raccolta firme per promuovere presso la Corte suprema di Delhi una

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legge che criminalizzi lo stupro matrimoniale e garantisce la parità dei diritti agli uomini e alle donne. Concludiamo questa carrellata con Jan Mozetic, altro giovane regista goriziano che, nel 2018, ha girato a Merna il film “Miren Dan” (Una giornata tranquilla), prodotto dal Kinoatelje, e Giulio De Paolis, che ha firmato lo scorso anno “Stoj”, ambientato nel 1947, quando il confine tra Italia e Jugoslavia tagliò bruscamente la città: un lavoro ispirato alla storia nei nonni paterni dell’autore. Macedonio sarebbe contento di aver idealmente allevato tanti talentuosi “nipotini”. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Il vero pericolo siamo noi stessi La paura fa 90... però dovremmo capire che, noi tutti, siamo delle “macchine biologiche” che vivono in un “sistema Terra” e quindi anche i virus sono nostri “compagni” di viaggio, come i batteri e tutti gli altri esseri viventi... C’è solo un problema, ad una certa ora del giorno per tutti suona la campanella della fame.... e a questo punto che il topo diventa topo e il gatto diventa gatto e anche i virus potrebbero aver appetito. Se prendiamo come simbolo l’Arca di Noè, davanti alla catastrofe si decise di portare nel futuro tutte le specie viventi, per cui anche i microrganismi ecc. ecc. I grandi palazzi, chiese, moschee, banche, piramidi, sono solamente l’invenzione di coloro che nella incapacità di accettare la loro mortalità hanno inteso dare corso al loro orgoglio, hanno voluto costruirsi un mondo irreale e nocivo, purtroppo, per la Vita. Avremmo dovuto organizzare il progresso in direzione delle nuove generazioni, essere più attenti alla realizzazione di comunità collaborative e costruttive per una realtà intesa come parte di questo Pianeta che ci ha accolto. Le guerre, in quanto parte dell’agire di questa Umanità, sono all’ordine del giorno e, bacilli o non bacilli, continueranno nell’inutile strage di soldati e soprattutto di civili inermi. Il vero pericolo non sono i virus ma siamo noi stessi, il nostro desiderio di “onnipotenza” così da sperare di divenire padroni del fato. (renato elia)


Storia di Magalì, la “prof ” romana delle Magistrali che non volle lasciare Gorizia in tempo di guerra di Vincenzo Compagnone

“S

embra di essere in g1uerra”. Quante volte abbiamo sentito questa frase negli ultimi tempi, anche da parte di chi in guerra non c’è mai stato? Faccio parte anch’io di quest’ultima categoria, per cui non me la sento di azzardare un paragone. Queste giornate di preoccupazione mi hanno fatto tornare in mente, piuttosto, due brutte esperienze: il terremoto del maggio e settembre 1976 (avevo 25 anni e, da giovane cronista del Messaggero Veneto mi recavo quotidianamente nei luoghi devastati dal sisma dove, alla fine si contarono mille vittime) e la catastrofe di Chernobyl del 1986. L’impatto della prima, almeno dalle nostre parti, fu certamente superiore alla seconda. In entrambi i casi, peraltro, il “nemico” era qualcosa di subdolo e invisibile, difficile da combattere proprio come il coronavirus, a parte dormire in tenda per chi risiedeva nelle zone terremotate e, nel caso di Chernobyl, togliersi le scarpe prima di entrare in casa – già, come ci raccomandano di fare adesso -, evitare di mangiare ortaggi e poco altro. Anche allora la sensazione era quella di un pericolo incombente, che ci faceva sentire fragili e impotenti. Eppure allora, rispetto a oggi, c’era una grossa differenza: non esistevano l’isolamento e la reclusione forzata, il “distanziamento sociale” era un’espressione sconosciuta. Al contrario, stare vicini, riunirsi, era una delle poche cose che davano sollievo, conforto, persino momenti di gioia e allegria. La socialità – ricordo delle piccole feste in val Resia, nel 1976 - era fondamentale come sostegno anche ai più colpiti. Parlarsi, ritrovarsi, raccontare le proprie esperienze. Ecco, è questo che oggi ci manca, che ci rende più spauriti: non potersi avvicinare, restare barricati in casa, scoprire che whatsapp e i social network non ci bastano e, paradossalmente, acuiscono la mancanza dei contatti umani, reali e non virtuali. Per questo assimilo maggiormente la guerra, che grazie al cielo mi è stata risparmiata, a un’epoca come quella del terremoto: e sempre per questo vi racconto in questo articolo una storia che ha per protagonista una giovane professoressa romana, catapultata a 24 anni, nel 1935, a Gorizia, dove le era stato assegnato l’incarico di docente di italiano e storia all’Istituto magistrale Scipio Slataper (e dove insegnò, formando generazioni di allievi, per ben 37 anni, fino al 1972). Si chiamava Maria Cavazzuti, era nata nel 1911. Molti goriziani non più giovani la ricordano. Sorretta dall’amor di patria – pur prendendo nettamente le

distanze dal fascismo – e da un’incrollabile fede religiosa, decise di restare a Gorizia durante tutto il periodo del secondo conflitto mondiale (pur avendo la possibilità di tornare a Roma dai suoi genitori, o quantomeno da un’amica, che la “reclamava” a Brescia), “perché intendo condividere la sorte della Venezia Giulia qualunque cosa accada”, e avendo cominciato anche a sentire la città come “sua”, trovando calore e affetto – lei, così schiva e riservata – proprio nella cerchia di amici goriziani dei quali si era circondata.

La copertina del libro-epistolario dedicato alla professoressa Cavazzuti e curato dal cugino Piero Simoneschi e dall’ex allieva Tamara Badini

Un libro e un “Fondo” in Biblioteca – Devo la scoperta di questa figura straordinaria di insegnante, un po’ severa ma ironica e sempre generosa e altruista, a un libro uscito nel 2010, intitolato “Vita, amicizia e amore nelle lettere della professoressa Maria Cavazzuti – Gorizia 1938-1946”, curato dal cugino Piero Simoneschi e dalla bibliotecaria goriziana Tamara Badini (figlia di Giancarlo, brillante “penna” del quotidiano Il Piccolo) che fu allieva della nostra “prof ” e che da moltissimi anni vive a Torino. Ma non sapevo che alla Biblioteca statale isontina esistesse un “Fondo Cavazzuti”: vale a dire la ricchissima biblioteca della docente, donata – come mi ha spiegato il direttore Marco Menato – dai cugini nel giugno 2009 e composta da 3210 volumi di argomento letterario, tra i quali 16 antichi (Maria Cavazzuti era un’autentica

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divoratrice di libri, capace di leggerne anche uno o due al giorno), alla quale è unito un piccolo archivio con lettere e manoscritti vari, fra i quali un interessante “Libro dei sogni 1983”. Gli anni goriziani – Da Gorizia la docente scriveva moltissimo. Non solo articoli letterari che Il Piccolo le pagava 198 lire ogni due pezzi, ma soprattutto una quantità industriale di lettere, indirizzate ai genitori ma soprattutto alle due amiche del cuore: Bianca Morandi di Brescia e Lucia Grossi di Lecco, detta “Tom”. Le aveva conosciute all’Università Cattolica di Milano e i contatti non si erano mai interrotti. A proposito di soprannomi anche Maria ne aveva uno. Poiché nel suo gruppo di amici alla Cattolica c’erano già due Marie, proprio Bianca decise di affibbiarle il nomignolo di Magalì, che per brevità – nelle lettere – la professoressa faceva diventare Mag. Una curiosità: dal 1935 (data del suo arrivo a Gorizia) Maria-Mag cambiò diverse volte abitazione. Dopo una breve permanenza all’albergo Tre Corone, di via Carducci, “via che mi pareva assai inospitale”, trovò una sistemazione – sempre nella stessa strada – presso una vedova ebrea, Gilda Morpurgo. Nel dicembre 1938, a causa delle leggi razziali, con grande dispiacere fu costretta ad andarsene (“Ho dovuto cedere alle parole del mio preside”). Seguono una rapida tappa in corso Verdi, dove i rapporti con la padrona di casa non furono propriamente idilliaci, e poi, nel settembre 1939, il trasferimento a casa degli amici Ongaro, in viale XX settembre. Quando anche questo posto diventa indisponibile, ecco che “Mag” viene ospitata da una “celebrità” goriziana: nientemeno che Cecilia Seghizzi, violinista e pittrice, di cui era altrettanto amica, e nella cui abitazione di via Pascoli (dove Cecilia risiedeva con la mamma Palmira) trascorse in tempo di guerra tutte le sere di Natale (“cantando canti di montagna, bevendo tè e rammendando calze”), oltre a pernottare, anche in seguito, quando la mattina dopo doveva alzarsi presto per andare in stazione a prendere il treno per Trieste, una delle sue mete più abituali dove frequentava la libreria di Umberto Saba. Nel 1942 si stabilisce infine in via Volta, “in un appartamento esclusivamente mio, nel quale finalmente alloggio in assoluta e meravigliosa solitudine”. In questa abitazione Maria rimarrà per una quindicina d’anni, vivendo i momenti più intensi della sua esistenza, sullo sfondo di una città flagellata dalla guerra. Le pagine delle lettere inviate a Bianca e a “Tom” sono scandite, dal settembre 1943 in poi, da bombardamenti, colpi di mitraglia,


allarmi che talvolta la sorprendono sotto il casco del parrucchiere, corse in rifugio (gli ex sotterranei dei Gesuiti in piazza Vittoria) ed esplosioni (un ordigno, il primo marzo 1945, manda in frantumi tutti i vetri della casa). Una bomba scoppia al cinema Verdi durante uno spettacolo facendo tre morti. I domobranci fanno saltare il monumento ai caduti del Parco. Il maggio del ’45 è quello dell’occupazione titina e delle deportazioni. Ma Maria cerca sempre di minimizzare, temendo che notizie troppo allarmanti provenienti da Gorizia possano generare preoccupazione soprattutto nei genitori, con i quali fra l’altro non riesce più a comunicare (le missive, sottoposte alla censura, giungono a destinazione in tempi biblici). Maria lascerà la casa di via Volta nel 1957 per trasferirsi in un villino di via Pitteri con la mamma Marianna, giunta a Gorizia dopo la morte del marito, e dove le due donne resteranno, in compagnia del gatto Senofonte, fino al momento della pensione della “prof ” e al successivo ritorno di entrambe a Latina, ove si trovavano gli altri parenti. La guerra e gli amici – L’epistolario di Maria, che nel libro è circoscritto al periodo 1938-1946, comprende come detto lettere inviate alle due amiche recuperate dal cugino Piero Simoneschi: sono missive sofferte, che parlano di dolore e pesanti disagi materiali, alleggerite però spesso da un tono scanzonato e illuminate da un profondo amore per la patria. “Mag” parla degli amici della Cattolica che ritrova dalle nostre

Gianandrea, attraverso il quale “Mag” si inserisce nell’ambiente degli artisti goriziani, dominato dall’aeropittore futurista Tullio Crali. Nel 1942-43, solo per un anno, insegna allo Scientifico di Gorizia il milanese Luigi “Lillo” Santucci. laureato alla Cattolica, con il quale la Cavazzuti stringe amicizia per poi scambiare centinaia di lettere dal 1950 al 1999, (missive che non compaiono nel libro). Santucci lasciò l’insegnamento per dedicarsi esclusivamente alla scrittura e nel 1967 vinse il premio Campiello con “Orfeo in Paradiso”. Fra le amicizie di Maria nel mondo delle scuola, mi piace ricordare le sorelle Marcella e Jole Pellegrini, quest’ultima indimenticabile insegnante di storia e filosofia al Liceo Classico, che avevano fondato in via Dante un frequentato e attivissimo Circolo culturale. Da sottolineare infine

Il Fondo Cavazzuti, donato dal cugino di “Magali’”, Piero Simoneschi, alla Biblioteca statale Isontina nel 2009, consta di 3210 volumi appartenuto alla docente di italiano e storia

parti e dei colleghi: la triestina Renata Sartori, insegnante di disegno, con la quale nel 1941 si reca in pellegrinaggio, scalza, al Monte Santo. Poi c’è la fiumana Anita Antoniazzo Bocchina, pittrice e scultrice, alla quale Maria porta i viveri acquistati a Gorizia con la tessera. Vanda Petrinelli, di origine brindisina, e la sorella Ode, il veneziano Giuseppe Ongaro detto Bepin, che nel 1938 sposerà Vanda (entrambi insegnanti di lettere), Adelma Bevilacqua, Ferruccio Verzergnassi. E ancora, lo scultore romagnolo Ostilio

che, a riprova della sua generosità, Maria dal novembre 1943, su preghiera dell’amica Ode Petrinelli, ospita a casa sua un’allieva dello Scientifico con problemi familiari, Bruna Terpin, che nelle lettere chiama affettuosamente “la mia figlioccia”, e con la quale nasce un legame di grande affetto. Bruna è morta in Venezuela due anni fa. La vita e gli amori – Trapelano da ogni pagina dell’epistolario – come abbiamo detto – il sostegno e l’aiuto materiale che

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la professoressa Cavazzuti intrattiene in modo reciproco con gli amici, “facendosi visita, dividendo sapone, uova e sigarette” (aprile 1945). Religiosissima, va quasi tutte le mattine alla messa delle 7 al Sacro cuore, pranza dalle Orsoline che la imbottiscono di minestre, polpettine e verdure, e tiene conferenze alle infermiere della Scuola-convitto. La casa di via Volta diventa spesso un caravanserraglio, abitata oltretutto da figure degne di un romanzo di Zola. Così Maria le descriverà in una lettera del 1951: “Al terzo piano sulla mia testa abitava un fascistone fanatico, un bastonatore, che finì ammazzato dai partigiani. E, poveretto, pochi giorni prima di morire mi mandò il figlio ragazzino, oggi pezzo grosso dell’Msi, con quattro nazionali avvolte in un pezzo di carta: sapeva che ero sempre in cerca di sigarette e senza soldi. Al pianterreno c’erano poi delle donne di dubbia fama, che ricevevano continuamente soldati tedeschi. Il capo fabbricato era un essere impressionante: una donna anormale, quasi nana, che stava al secondo piano e vestiva con abiti di tipo maschile – capelli corti – e, insomma, aveva qualcosa in comune con Saffo, ma non il genio poetico. E aveva corteggiato un po’ anche me, poi per fortuna si era scoraggiata”. A proposito di corteggiamento e amori. Maria non è una che si lascia andare con facilità, l’unica alla quale confida, per posta, i suoi sentimenti è Lucia “Tom” Grossi. Gli spasimanti non le mancano, ma lei più che altro li irride benevolmente (“Il mio disgraziato pretendente dai capelli rossi mi ha scritto tre volte dalla Sassonia”), l’unico vero amore della sua vita è Vincenzo Z., un anno più di lei (rispettivamente 34 e 33), un tenente “italiano di Bucarest”, laureato in legge. Lui la corteggia assiduamente, lei dapprima sembra riluttante a impegnarsi, poi, nei primi mesi del 1945, scocca la scintilla. Scrive a “Tom”: “Oh, caro Tom, ci siamo proprio. In sua presenza, me ne sento sbigottita, non so abituarmi a questo sentimento”. Sono pagine molto delicate. Lui vive per lo più in Romania, appena può si precipita a Gorizia, in quella casa di via Volta e lei lo accoglie a braccia aperte. Ma non finirà bene, l’uomo uscirà di scena. Maria soffrirà molto per la rottura di un rapporto nel quale, per la prima volta, aveva creduto, e soltanto il conforto morale, da lontano, dell’amica Lucia, sarà tale da farle superare il periodo più buio della sua vita, probabilmente più triste anche degli anni della guerra. Epilogo - La professoressa Maria Cavazzuti muore a 94 anni, nel 2005, a Latina. Anche le sue amiche Bianca e Lucia si spengono ultranovantenni. Le sue lettere meritano di essere lette non solo per gli eventi tragici di cui fu testimone ma perchè restituiscono il ritratto di una donna libera e coerente, coraggiosa, colta e sempre disponibile verso il prossimo: oltre che una vera educatrice ricordata con gratitudine dai goriziani che la ebbero come insegnante. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


L’incredibile argento olimpico del pistard Giorgio Ursi di Paolo Nanut

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ono passati quasi 38 anni - era l’8 ottobre del 1982 - quando improvvisamente ci lasciò, a soli 40 anni, Giorgio Ursi (Jurij Ursic), grandissimo pistard, medaglia d’argento nell’inseguimento individuale alle Olimpiadi di Tokyo del 1964. Ursi in realtà fu una vera e propria meteora nel firmamento del ciclismo e dello sport italiano. Nato il primo settembre del 1942 a Doberdò del Lago, iniziò relativamente tardi una carriera brevissima ma piena di successi. Cominciò infatti a fare il ciclista “sul serio” a 18 anni, come juniores nel club triestino Rovis-Bartali, dedicandosi subito alla pista e mostrando le sue immense qualità. Negli anni 60 la pista non era affatto la parente povera del ciclismo su strada, ma aveva pari dignità, e i campioni delle piste in legno erano osannati quasi come gli stradisti. Il nostro atleta più famoso resterà per sempre il velocista milanese Antonio Maspes, il “re del Vigorelli”, celebre anche per i duelli all’ultimo sprint col più giovane veronese Sante Gaiardoni. La gente rimaneva incollata ai televisori per vedere queste sfide e gli interminabili “surplace” (ce ne fu uno addirittura di mezz’ora!) nei quali i contendenti fermavano le biciclette sulla parte alta della pista per poter lanciare la volata partendo da dietro. Nell’inseguimento brillava invece la stella del padovano Leandro Faggin, morto a soli 37 anni per un male incurabile.

Ma torniamo al nostro Ursi, il quale, mentre effettuava il servizio militare, notato dal commissario tecnico Guido Costa, guru del ciclismo su pista, lo chiamò in Nazionale dapprima per rimpiazzare un’atleta infortunato, e poi per assegnargli una maglia da titolare per la spedizione olimpica di Tokyo 1964. Nella terra del Sol Levante, sulla pista del velodromo Hachijoi a Tachikawa, Ursi compie nell’inseguimento individuale un vero capolavoro battendo a sorpresa in semifinale il favoritissimo campione del mondo olandese Tiemen Groen, salvo poi, risentendo dello sforzo sostenuto, perdere la finale contro il cecoslovacco Jiri Daler. Fu però una medaglia d’argento insperata e meritatissima. Al suo rientro a Gorizia, il 24 ottobre, numerosi goriziani si strinsero intorno a Ursi. Fu atteso alla stazione ferroviaria e a mezzogiorno, nella Sala bianca del Comune, venne ricevuto dall’allora sindaco Gallarotti e da Elvio Ferigo a nome del Coni provinciale. L’anno successivo Giorgio prima conquista il titolo italiano dei dilettanti e poi, sulla pista del Vigorelli, batte il record mondiale sulla distanza dei 4 kilometri con il tempo di 4’51’’70. Nel 1966 Ursi centra un altro argento ai campionati mondiali di Francoforte sempre fra i dilettanti e per lui, a 24 anni, si aprono le porte del professionismo e di un futuro ricco di prospettive. Ma il campione isontino (che correva per la società Ferrarelle di Roma) non ci sta, non accetta le leggi del mondo professionistico e, con una decisione a sorpresa, lascia addirittura lo sport e torna a Gorizia per dedicarsi alla professione di meccanico. Appesa la bicicletta al chiodo, Ursi non amava parlare di ciclismo e nemmeno di quella sua impresa formidabile in Giappone. Ho di lui un ricordo personale: nel 1978 andavo alle medie e, durante una settimana bianca nel Bellunese, a Tambre, Ursi era uno dei genitori accompagnatori. Gran tifoso di ciclismo, non vedevo l’ora di scambiare qualche parola con lui su questo mondo e suoi suoi ricordi. Ma con un cenno mi disse di no, per lui era tutto dimenticato. Chissà quali tarli, che inconsapevolmente avevo fatto riaffiorare, gli erano balenati in testa. Del triste epilogo della sua vita (Ursi venne trovato morto nella sua abitazione di via Paolo Diacono) non voglio e non posso dir nulla, ma mi sembrava giusto ricordarlo come grande atleta e grande

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uomo. Soltanto nel 2010 Gorizia si è ricordata di lui dedicandogli una scalinata, quella che congiunge via Brass con via Cadorna. Un po’ pochino. L’Isontino è sempre stato terra di campioni di tutti gli sport: per restare alle due ruote, chi si ricorda di Augusto Zara, uno dei grandi del ciclismo regionale a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, correndo in particolare con la divisa del Dopolavoro Safog, l’azienda per la quale ha lavorato per una vita intera? Passista esile ma dalla progressione irresistibile, morto due anni fa, ha vinto tantissime corse a livello dilettantistico in ogni angolo del Friuli Venezia Giulia, e pro-

babilmente, con un pizzico di fortuna in più avrebbe sfondato nel ciclismo anche tra i professionisti. Quando vinse il Gran Premio Moncini ebbe l’onore di ricevere la coppa proprio dalle mani di Giorgio Ursi. E, a proposito di sfortuna, come non ricordare il pugile Sebastiano Sotgia, d’origine sarda ma goriziano d’adozione, più volte campione italiano dei pesi leggeri, morto a 30 anni nel 1988 a causa di un terribile incidente sullo stradone della Mainizza, alla vigilia del match per il titolo europeo della categoria. Ci vorrebbe forse qualcosa in più di un’anonima tabella stradale per ricordare i campioni goriziani del passato e le loro storiche imprese. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


Ricordo di Renato Bensa, l’ultimo dei “grandi vecchi” del basket: un vero maestro nello sport e nella vita di Lucio Gruden

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mancato il mese scorso, a 96 anni, Renato Bensa, l’ultimo “grande vecchio” del basket goriziano, maestro di sport e di vita per generazioni di giovani atleti. Un uomo stimato e benvoluto da tutti per quel che ha fatto per oltre cinquant’anni, cioè l’allenatore soprattutto a livello giovanile. Ma il suo prestigio risiede nel “come” ha interpretato questo ruolo, perché è su questo fronte che può essere avviata una riflessione più ampia, come Don Ruggero Dipiazza, parroco di San Rocco, ha voluto ricordare nella commemorazione, avvenuta in uno spicchio di tempo non inibito dalle prescrizioni di questo pessimo periodo segnato dal coronavirus.

zione, alle quali Bensa partecipava quasi fisicamente, in piedi davanti alla panchina. Dopo un canestro realizzato in volata dalla sua squadra, al quale aveva contribuito con la voce e lo slancio fisico, si ricomponeva subito senza esultare, perché esagerare non era nello stile di chi sapeva di avere la squadra più forte (come gli capitava praticamente sempre). Quindi, girandosi verso la panchina, si aggiustava la giacca e si dava una lisciatina ai capelli, quasi a scusarsi della partecipazione precedente. Ma subito dopo si rigirava e invitava la squadra alla difesa e al pressing.

La semplicità, dicevo, come prima sua caratteristica. Il gioco era semplice se interpretato con semplicità. Ma la lezione era che occorreva sapere sempre cosa fare, con rapidità di pensiero nelle scelte. Questo primo insegnamento, a ben vedere, andava oltre il gioco della palla a spicchi. Al secondo posto la competenza. I fondamentali, soprattutto quelli del gioco di squadra con e senza palla, per abituarsi a prestare attenzione - come in una jam session jazzistica – a cosa stava facendo il tuo compagno, per esercitare l’opzione di gioco migliore. Quindi pochi schemi fissi, ma notevole predisposizione ai giochi a due, a tre e soprattutto al gioco senza palla. E poi grande difesa, con tanto contropiede e soluzioni in transi-

Infine la sua terza qualità: quell’enorme, smisurata e infinita passione per la palestra, per il gioco, per noi ragazzi, per l’ambiente. Allenava a fare scelte rapide: c’erano sempre più opzioni e bisognava ragionare in fretta. Dovevamo diventare uomini che sapevano scegliere e avere successo nel gioco, ma anche comportarsi sempre bene, nel rispetto per l’avversario e per il contesto. Chi osava parlare con il pubblico, trascinato magari in qualche polemica, finiva subito in panchina e non rientrava più per quella partita. Se aveva capito la lezione, tornava in campo la volta successiva.

Nei rapporti con gli altri, e più in generale nel modo di intendere la vita, Renato Bensa suscita inevitabili rimpianti, perché è chiaro che persone così oggi scarseggiano, capaci – come dicevamo - di allenare alla vita e non solo al basket. L’ha fatto, a mio parere, utilizzando tre qualità: la semplicità, la competenza e la passione. Chi è cresciuto nel basket goriziano degli anni 60 e 70 incontrava dei veri Signori con la S maiuscola, oltre che allenatori. Persone in giacca e cravatta, che venivano agli allenamenti direttamente dal posto di lavoro. Valeva un po’ per tutti, e quindi anche per Bensa, così come per gli altrettanto compianti maestri dell’epoca, Bruno Gubana e il professor Tullio Gabrielli, l’indimenticato “mago”, i più importanti educatori di quegli anni per noi ragazzi delle giovanili.

Ricordo un compagno e amico, purtroppo scomparso, che durante un allenamento, preso dalla trance agonistica per la velocità del gioco, chiuso in un angolo con la palla in mano senza saper cosa fare, azzardò un gancio da sei metri, che ovviamente finì ben lontano dal canestro. Bensa fermò il gioco e con il suo senso dell’umorismo disse “Caro mio, queste cose le fanno solo in America. Devono ancora arrivare qui da noi in Italia”. Immaginate le risate.

Mi chiamava con il vezzeggiativo di Charlie, perché ero basso e riccio come il playmaker della nazionale, Carlo Caglieris, detto appunto Charlie, e rimpiango il signor Renato quasi come un parente che non c’è più, come uno di famiglia, forse anche perché abitavamo vicini e lo vedevo ogni giorno.

Durante gli allenamenti interrompeva il gioco con il suo indimenticabile “Aaaalt... aaalt”, pronunciato con voce volutamente rassegnata e di sottile rimprovero. Accompagnava l’interruzione con uno sguardo severo verso chi aveva appena fatto una scelta di gioco sbagliata, e subito dava una dimostrazione pratica delle numerose variabili vincenti che sarebbero state a disposizione del giocatore in quel momento. E come non ricordare anche le volte in cui qualcuno forzava un tiro che però andava a bersaglio? Si alzava di scatto con la palla ancora in volo pronto al rimprovero, ma poi, vedendo il canestro realizzato, si girava verso la panchina e, ironico e pragmatico, mormorava “anche buono”.

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Era una persona che, ogni volta che mi incontrava, anche tanti anni dopo, si illuminava sempre e mi regalava un sorriso. Era un suo tratto, un suo dono, era ciò che regalava sempre a tutti i suoi ex giocatori, perché tutti gli volevano bene e lui voleva bene a tutti. Con questi suoi modi educati e sinceri, è sempre stato una persona vera, certamente semplice, competente e appassionata, che sapeva esprimere attaccamento alla vita, ai valori dello sport, all’impegno, con qualità morali prima di tutto. Pochi a Gorizia hanno trasmesso quello che Renato Bensa ha saputo infondere a così tanti giovani in cinquant’anni di attività, nel gioco e nella vita. E per questo io lo chiamo anche qui per quello che è sempre stato per molti di noi: un Grande. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


Mille interrogativi sull’idea di cedere l’aeroporto a privati: chi c’è dietro Turin Aviation e quali sono le sue credenziali?

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ra il novembre dello scorso anno e, mentre il Consiglio comunale di Gorizia si accingeva a votare l’ennesimo piano di salvataggio dell’aeroporto “Duca d’Aosta” – che nel frattempo, da gennaio, è diventato di totale proprietà comunale – faceva la sua comparsa sulla scena un gruppo angloamericano, Turin Aviation, sconosciuto ai più ma che con roboanti annunci sulla stampa si dichiarava pronto a investire fino a 200 milioni di euro a Gorizia, sull’aeroporto, per farne un hub per le proprie (quali?) attività aeroportuali. Il tutto non senza sostegni politici, di matrice Lega. Grande opportunità per Gorizia? O grande messinscena? Turin si dichiarava pronta perfino ad acquisire l’intero Consorzio industriale e chiedeva di convocare il Consiglio comunale, che doveva approvare la ricapitalizzazione della società aeroportuale, per mettere in discussione invece il proprio piano. Insomma, una sorta di tornado mediatico si è abbattuto in quelle settimane sulla vicenda-aeroporto. Ma chi è davvero Turin Aviation? Quando in una città come Gorizia, alle prese con una seria crisi occupazionale e vocazionale, arriva un investitore con proposte di investimenti così corpose, fare qualche indagine è doveroso. E così abbiamo fatto. Le informazioni che abbiamo raccolto sono tutte pubbliche, facilmente reperibili da internet o da archivi pubblici britannici o statunitensi. Ecco cosa abbiamo scoperto. Un po’ di storia Alla fine del 2016 la società Duca d’Aosta SpA riceve da Enac (Ente nazionale per l’aviazione civile) la concessione per la gestione dell’aeroporto di Gorizia. Nell’aprile 2017, in piena campagna elettorale, l’aeroporto viene aperto al volo: per molti, in maniera decisamente prematura perché in quel momento non sono stati realizzati diversi importanti investimenti previsti dalla concessione. Con la riapertura, la società deve però iniziare a sobbarcarsi il fardello, molto oneroso, del servizio antincendio: in pochi mesi esso inizierà a erodere drammaticamente il capitale sociale della società, che accumula ingenti perdite. Su chi deve pagare il servizio aeroportuale, i diversi Consigli d’amministrazione succedutisi intessono una sorta di “battaglia” con Pipistrel, l’industria aeronautica che, nei fatti, è il principale utilizzatore dell’aeroporto. A giugno 2018 un nuovo

di Marco Rossi Consiglio d’amministrazione presieduto da Roberto Silli subentra a quello guidato da Ariano Medeot: nel giro di pochi mesi Silli, con una provvidenziale operazione trasparenza, porta a conoscenza del Consiglio comunale e della città la precaria situazione dell’aeroporto, sull’orlo del fallimento ad appena un anno e mezzo dall’ottenimento della concessione. Una situazione che chi scrive non esiterà a definire, in Consiglio comunale, uno “scandalo goriziano”. Tra reticenze e lungaggini, anche la richiesta di una inchiesta da parte del Consiglio comunale, proposta dall’opposizione e approvata a dicembre 2018, verrà nei fatti disattesa: ancora oggi non è stato chiarito chi abbia portato la società pubblica alla situazione di dissesto. Si arriva a inizio 2019, si insedia un Consiglio d’amministrazione guidato da Adriano Ceccherini: un consiglio che tra mille polemiche impiegherà ben sei mesi per portare al Consiglio comunale un Piano di Salvataggio. Piano che a giugno 2019 sarà giudicato inadeguato dai consiglieri comunali: e si arriva quindi alla storia recente. A settembre 2019 si insedia un nuovo Consiglio d’amministrazione, il quarto in due anni, che a fine anno porta ad un nuovo Piano di Salvataggio, approvato da una risicata maggioranza, e sostenuto da una corposa ricapitalizzazione per 600 mila euro finanziata dal solo Comune di Gorizia. Sarà la volta buona? La società americana La società americana del “gruppo” è The Turin Aviation Group Llc, una società

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con sede presso l’hangar n.200 dell’aeroporto municipale di Zephyrhills, una piccola località della Florida non distante da Tampa. Stando al report pubblicato sul sito del Division of Corporations del Segretario di Stato della Florida (una sorta di registro delle imprese), che abbiamo avuto modo di consultare, ne

risulta amministratore Sarah Gilbreath e direttore operativo Edwin Franco. È quest’ultimo che, anche sulla stampa italiana, si presenta come Presidente del gruppo Turin Aviation. Lo stesso Franco che poco meno di un anno fa, nel marzo 2019, la stampa americana riportava come implicato in una battaglia legale sia con alcuni ex dipendenti della stessa Turin Aviation sia con il Museo del volo dell’aeroporto di Zephyrhills (l’articolo di Justin Trombly compare online sul sito del quotidiano TampaBay). Stando a quanto riportava il TampaBay, dunque, la Turin Aviation doveva 75 mila dollari


al Museo mentre la vertenza legale con tre dipendenti riguardava il mancato pagamento dei salari. Su quest’ultimo caso, si trovano notizie anche su siti specializzati in informazioni giudiziarie, come il grande database Pacermonitor. com (caso Scotello et al. v. The Turin Aviation Group). A ottobre 2018, una corte statale americana aveva imposto a Turin Aviation il pagamento di 75.000 dollari di debiti pregressi a Skyport, società insediata all’interno del Tampa Executive Airport e specializzata in servizi di aviazione generale. A seguito del mancato pagamento della somma, lo sceriffo della contea di Hillsborough provvedeva alla confisca di un aereo North American T-28 alla Turin, come riporta la stampa.

1 milione di dollari. Il documento è firmato Edwin Franco. La lista dei creditori allegata a tale documento riporta l’elenco dei debiti accumulati dalla società. Da tali documenti pubblici, parrebbe dunque emergere che sia in corso un procedimento legale intentato da Skyport nei confronti della società americana del gruppo Turin Aviation e che a febbraio 2020 sarebbe giunto alla presentazione di liste di testimoni al giudice Catherine Peek Mcewen della Florida Middle Bankruptcy Court, come si evincerebbe da un aggiornamento pubblicato online dalla bancadati Pacermonitor.com. La società inglese La controparte britannica è la Turin Aviation Group Ltd., una società regi-

imprese. Anche questa società non compare in alcun elenco degli operatori aerei riportati sul portale della Civil Aviation Authority (UK): la cosa non stupisce, dal momento che la società è nata appena ad agosto 2019. Ma chi c’è dietro questa società? L’istanza di registrazione dell’azienda è fatta a nome di Mario Farquharson, - che risulta, oltre ad avere ruoli in diverse Ong, avere un ruolo in un non meglio precisato Ordine del Tempio di Salomone che la sua biografia online riporterebbe essere l’erede dell’ordine dei Templari. Un dato che può ragionevolmente destare nel lettore qualche sorpresa… È inoltre Vicepresidente della House of Hope Foundation, un’organizzazione no profit fondata nel 2004 e con sede a Suffolk, in Virginia, che si presenta come organizzazione che opera per lo sviluppo locale attraverso joint ventures tra enti pubblici o no-profit e enti profit. Anche House of Hope figura nel registro delle imprese della Florida, e rappresentante locale ne sarebbe lo stesso Edwin Franco della The Turin Aviation Group Llc. Nessuna menzione della Turin Aviation si trova nemmeno nell’elenco degli operatori aerei titolari di Certificato di Operatore Aereo (Coa) valido, pubblicato da Enac in Italia e aggiornato al 23 gennaio 2020. Domande che esigono una risposta A fronte della possibile cessione di un Aeroporto pubblico a un soggetto privato – una privatizzazione vera e propria dunque – risulta assolutamente necessario avere chiarezza delle credenziali e della serietà dell’investitore che con roboanti dichiarazioni ha annunciato investimenti che, per la loro portata, lasciano sbigottiti. Opportunità potenzialmente importanti, ma che proprio per questo esigono trasparenza e certezze. Le notizie che giungono da Stati Uniti e Regno Unito e che abbiamo sopra riportato, a questo proposito, non lasciano affatto tranquilli. Chi c’è dietro Turin Aviation? Quali sono le effettive disponibilità economiche degli investitori? Quali esperienza e credenziali dell’azienda?

“Solo” problemi finanziari? Della società “The Turin Aviation Group” non siamo riusciti a trovare traccia nemmeno sul sito della Federal Aviation Administration. Un documento pubblicato dal database bankrupt.com, Official Form 201 - Voluntary Petition for Non-Individuals Filing for Bankruptcy, (http://bankrupt. com/misc/flmb19-01890.pdf) - presentato il 6 marzo 2019, registrerebbe una richiesta di ammissione al famoso Chapter 11, previsto dalle norme fallimentarie statunitensi. Il documento è interessante anche perché tra gli elementi che vengono dichiarati vi sono assets per un valore compreso tra (appena) 500 mila e

strata al registro delle imprese inglese appena il 5 agosto 2019, a Cardiff: dunque solo 2-3 mesi prima che Turin facesse la sua comparsa sulle scene goriziane. Il verbale di registrazione della società, di cui siamo in possesso essendo un atto pubblico facilmente reperibile dal Companies House, il registro delle imprese britannico, riporta che la società ha recapito a Londra, in Shelton Street, 71-75 Covent Garden. Qui ha sede la 1stFormations, una società specializzata nella registrazione online di società per clienti in Regno Unito e all’estero: solo un caso? Capitale della Turin Aviation inglese? Una sterlina, non versato, stando a quanto riporta il Registro delle 19

Il bene della città esige chiare garanzie e trasparenza dopo che, purtroppo, la società pubblica di gestione è stata portata sull’orlo del fallimento bruciando letteralmente centinaia di migliaia di euro di fondi pubblici. Addendum: dopo le prime notizie sul quotidiano Il Piccolo del dossier da noi elaborato, la risposta del Sindaco è stata che avremmo in qualche scoperto cose già note all’Amministrazione. Ci permettiamo però allora di aggiungere una domanda: se quanto sopra era già noto, per quale motivo informazioni così importante sono state taciute alla città? Capogruppo del Partito democratico nel Consiglio comunale di Gorizia ©RIPRODUZIONE RISERVATA


On line il primo numero del giornale targato “Tutti insieme” Per l’edizione cartacea rinnoviamo l’appello ai lettori

L’

emergenza-Coronavirus, che ha stravolto le vite di tutti, ha inciso inevitabilmente anche sulle modalità di pubblicazione del nostro mensile. Giunti al quarto numero del quarto anno di vita, per la prima volta non “usciamo” in versione cartacea ma cogliamo l’occasione per dar vita a un ulteriore progetto che coltivavamo già da tempo. Quello di aprire un nuovo sito web, realizzato dal nostro vicedirettore e art director Eleonora Sartori, in cui potrete trovare l’edizione on line di Gorizia News & Views. Non è escluso che verso la fine del mese, con la possibile, graduale riapertura dei nostri tradizionali punti di distribuzione (le librerie innanzitutto, e poi gli altri luoghi di cultura come il Kinemax, il Kulturni Dom, la Mediateca, la Biblioteca, la Casa delle Arti e così via) si possa stampare un certo quantitativo di copie cartacee, ma in questo momento non siamo in grado di fare previsioni. Come tutti, possiamo soltanto auspicare un ritorno alla normalità che non sarà semplice, ma prima o poi dovrà per forza arrivare, dopo questa immane e collettiva tragedia. Permetteteci soltanto un piccolo passo indietro, anche perché a causa delle chiusure generalizzate siamo riusciti a distribuire soltanto un terzo delle copie del numero di marzo. Dobbiamo ricordare la grossa novità che ci riguarda: la fine dell’esperienza targata Mosaico, vale a dire il Consorzio di cooperative che, sin dall’inizio, ha ricoperto il ruolo di editore di Gorizia News & Views, accollandosi le spese di stampa.

della Redazione Ci siamo trovati, così, di fronte a un bivio: proseguire soltanto con l’edizione on line oppure continuare a diffondere anche quelle 600 copie della versione cartacea che ha rappresentato sin dal primo numero il nostro tratto distintivo, una caratteristica che forse ad alcuni potrebbe sembrare un po’ demodèe ma che col passar del tempo, e l’aumento del numero delle pagine, ha riscosso sempre maggior consenso e apprezzamenti da parte dei nostri lettori. Proprio per quest’ultimo motivo abbiamo deciso di proseguire su questa strada e oggi, se non ci fosse stato il maledetto Coronavirus, potreste andare in uno dei punti di distribuzione, prelevare gratuitamente Gorizia News & Views e poi leggerlo tranquillamente seduti sul divano di casa. Dobbiamo però chiedervi un sostegno, anche minimo, a favore dell’Aps Tutti Insieme, l’associazione di promozione sociale no profit che da questo numero subentra al Mosaico, e della quale tutti noi redattori del giornale facciamo parte. Ringraziamo di cuore chi ha già versato un contributo partecipando al crowfunding (ora chiuso) lanciato sulla nostra pagina Facebook o effettuando un bonifico diretto alla Banca Popolare di Cividale, come indicato nel riquadro che riproponiamo e che continuerà ad essere aperto. Rinnoviamo quindi l’appello a sostenerci, promettendo in cambio di accrescere il nostro impegno per offrirvi ogni mese un giornale sempre più ricco di notizie, approfondimenti, interviste e storie legate alla nostra città, che tanto amiamo. Un grazie in anticipo a tutti, e, per il momento, buona lettura on line! ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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Gorizia News & Views è reperibile in forma cartacea nei seguenti punti di distribuzione: Biblioteca statale isontina di via Mameli, Kinemax e Mediateca Ugo Casiraghi di piazza Vittoria, librerie Leg, Voltapagina e Ubik di corso Verdi e Antonini di corso Italia, Kulturni Dom di via Brass, Casa delle Arti di via Oberdan, bar Torino di corso Italia, bar Aenigma di via Nizza, Caffè degli Artisti di via IX Agosto, atrio dell’ospedale, negozio Il Laboratorio di piazza Vittoria, tabacchino Da Gerry di via Rastello, tabaccheria via Duca D’Aosta 106, tabaccheria via Crispi 6, tabaccheria Tomasi Marco di via Santa Chiara 4, tabaccheria Fontana di Sant’Anna, Ugg di via Rismondo. E’ consultabile on line all’indirizzo: https://issuu.com/gorizianewsandviews

Gorizia News & Views Reg. Trib. Gorizia n. 1/2017 dd 11/12/2017 mensile dell’APS Tutti Insieme http://tuttinsiemegorizia.it/ info@gorizianewsandviews.it DIRETTORE RESPONSABILE Vincenzo Compagnone REDAZIONE Eleonora Sartori (vice direttore) Ismail Swati, Rafique Saqib, Felice Cirulli, Renato Elia, Eliana Mogorovich, Timothy Dissegna, Anna Cecchini, Stefania Panozzo, Aulo Oliviero Re, Lucio Gruden, Martina Delpiccolo, Elio Candussi, Giorgio Mosetti, Francesca Giglione, Paolo Bosini, Luigi Casalboni, Paolo Nanut

PUBBLICATO SU www.gorizianewsandviews.it In collaboration with: APS Tutti Insieme - www.tuttinsiemegorizia.it Nazareno Optimistic Youth Network and Consorzio Mosaico https://issuu.com/gorizianewsandviews


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