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IL SOL DELL’AVVENIRE E IL NOSTRO PRESENTE

Metti un celebre regista in crisi esistenziale ed artistica (Nanni Moretti), alle prese con un flm da realizzare centrato su un direttore del quotidiano L’Unità (Silvio Orlando) nel lontano 1956 (il momento forse più lacerante nella storia del Partito Comunista Italiano, all’indomani dell’invasione sovietica dell’Ungheria), con una moglie (Margherita Buy) che ne ha condiviso arte e vita ma che stanca delle sue paturnie vuole lasciarlo, con una fglia (Valentina Romani) che inopinatamente sposa un uomo molto più anziano di lei (Jerzy Stuhr), metti questo e un presente incomprensibile, un futuro incerto ed hai Il sol dell’avvenire

Ci si ritrova sempre un po’ spiazzati a commentare un’opera del regista romano, che ama sparigliare le carte, disseminare piste vere e false mai semplici da percorrere. E ancor più quando, come in questo caso, per raccontare un percorso biografco ed artistico, una storia pubblica e privata doppiamente dolorosa, egli si afda ad un’arma complicata da maneggiare, il meta-cinema, ovvero il cinema che rifette su se stesso e su chi lo fa.

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Gioca, Moretti, con la sua maschera beffarda e straniante, la rimette in scena con i suoi canti sguaiati, la passione per i dolci, l’amore per il cinema, le idiosincrasie verso una realtà sempre più folle, le spezzature del realismo, la recitazione antinaturalistica che tende all’espressionismo, fnalmente ammantata d’autoironia, quella che deriva da una maturità ormai pienamente raggiunta. Gioca, Moretti, con allusive citazioni, del cinema dello spettacolo e della vita, con l’ombra di Woody Allen e dei suoi risibili psicanalisti, con le intrusioni irrealistiche di personaggi reali, come Corrado Augias e Renzo Piano, che con montaggio divertente e divertito discetta sull’assurda violenza rappresentata nei flm odierni. Violenza che è sorta di spina dorsale del racconto, messa in scena in una ragguardevole mise en abyme e un fulminante riferimento a Kieślowski, di cui l’attore evoca come sulle assi di un palcoscenico le inarrivabili sequenze di un suo flm. Buca lo schermo Moretti in questo suo serissimo giocare, si siede accanto a noi in sala, ci prende per mano e ci conduce per i sentieri dell’immaginario, come in una novella Rosa purpurea del Cairo, un redivivo teatro pirandelliano.

Il regista romano ama sparigliare le carte, disseminare piste vere e false mai semplici da percorrere.

Davanti a tutto ciò la facoltà critica vacilla, ci si ritrova persi tra viali di lacrime e boschi di ironia, risalite sugli impervi sentieri della storia in cerca di improbabili rifugi e vertiginose discese in un futuro che forse è bene non evocare.

Le parole che vorrebbero articolare un giudizio rimangono non dette: ci si chiude in un meditato silenzio, lo stesso del protagonista, che ad alcune domande non sa trovare risposte adeguate.

In fondo, è proprio come un sole questo flm: rovente da maneggiare, carico d’un’etica incandescente, ulcera le nostre ridicole convinzioni, il nostro mondo vuoto d’ideali e di concretezza, fatto di apericena e di insensata violenza gratuita. Ma è anche come uno specchio, davanti al quale sediamo assorti, osservando noi stessi e il nostro sembiante sociale orrendamente mutato e mutilato, nel tempo e dal tempo. Assorti e in lacrime, le lacrime di chi sa pur senza ricordarlo da dove viene, cosa ne è stato di sé e degli altri come lui, dei sogni e delle utopie comuni mai realizzati. Le lacrime di chi si è smarrito nei meandri del divenire, di chi si ritrova a dibattersi nel flo rosso della storia che lo lega a memorie che s’illudeva di aver riposto in un cassetto accanto a ricordi radioattivi.

E allora, tra crisi pubbliche e private irrisolvibili, tra stalli della ragione e del sentimento, che sia il cinema a sconfggere la vita, che sia l’immaginario a farsi carico della storia e a spremerne la più intima essenza. Con il sorriso sulle labbra, determinati e certi come chi sa di essere nel giusto, lo sguardo dritto nel futuro per una volta non impauriti dalle sue ombre, condotti per mano siamo noi a balzare nello schermo, a marciare insieme a tanti attori dell’universo morettiano (Giulia Lazzarini, Alba Rohrwacher, Jasmine Trinca, Lina Sastri, Anna Bonaiuto, Renato Carpentieri, Dario Cantarelli, quelli di questo flm) per la via romana dei Fori Imperiali, come fgure incarnate del celebre dipinto di Pellizza da Volpedo, un Quarto stato ch’è s’è messo in movimento, illuminati da un sole caldo e resiliente. Un sole mai sorto, che forse mai sorgerà, ma che pure arde ancora, e che continuerà a scaldarci, malgrado tutto.

E poiché la sconftta esistenziale diventa vittoria dell’arte, in grado di rappresentare per simboli e silenzi una vicenda storica e privata di rimarchevole intensità, quello stesso sole forse scalderà i giurati del Festival di Cannes, dove Moretti da quel lontano 1978, quando vi portò Ecce Bombo, approda per la nona volta.

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