


Testata giornalistica registrata
presso il Tribunale di Milano: n°258 del 17/10/2018 ANNO 7, n.1
“Amoglianimali” Bellezza
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Da vedere/ascoltare
Di tutto e niente
Il desco dei Gourmet
Il personaggio
Il tempo della Grande Mela
Comandacolore
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Classe 1951, laureata in Lettere moderne e giornalista scientifica, mi sono sempre occupata di medicina e salute preferibilmente coniugate col mondo del sociale. Collaboratrice ininterrotta del Corriere della Sera dal 1986 fino al 2016, ho introdotto sulle pagine del Corsera il Terzo settore, facendo conoscere le principali Associazioni di pazienti.Ho pubblicato più libri: il primo- “Pronto Help! Le pagine gialle della salute”- nel 1996 (FrancoAngeli ed.) con la prefazione di Rita Levi Montalcini e Fernando Aiuti. A questo ne sono seguiti diversi come coautrice tra cui “Vivere con il glaucoma”; “Sesso Sos, per amare informati”; “Intervista col disabile” (presentazione di Candido Cannavò e illustrazioni di Emilio Giannelli).
Autrice e conduttrice su RadioUno di un programma incentrato sul non profit a 360 gradi e titolare per 12 anni su Rtl.102.5 di “Spazio Volontariato”, sono stata Segretario generale di Unamsi (Unione Nazionale Medico-Scientifica di Informazione) e Direttore responsabile testata e sito “Buone Notizie”.
Fondatore e presidente di Creeds, Comunicatori Redattori ed Esperti del Sociale, dal 2018 sono direttore del magazine online Generazioneover60.
Quanto sopra dal punto di vista professionale. Personalmente, porto il nome della Fanciulla del West di Puccini (opera lirica incredibilmente a lieto fine), ma non mi spiace mi si associ alla storica fidanzata di Topolino, perché come Walt Disney penso “se puoi sognarlo puoi farlo”. Nel prossimo detesto la tirchieria in tutte le forme, la malafede e l’arroganza, mentre non potrei mai fare a meno di contornarmi di persone ironiche e autoironiche. Sono permalosa, umorale e cocciuta, ma anche leale e splendidamente composita. Da sempre e per sempre al primo posto pongo l’amicizia; amo i cani, il mare, il cinema, i libri, le serie Tv, i Beatles e tutto ciò che fa palpitare. E ridere. Anche e soprattutto a 60 anni suonati.
è presidente della Società Italiana di Sessuologia ed Educazione Sessuale e responsabile della Sezione di Sessuologia della S.I.M.P. Società Italiana di Medicina Psicosomatica. Ha partecipato a numerose trasmissioni televisive e come esperto di sessuologia a numerosi programmi radiofonici. Per la carta stampata collabora a varie riviste.
è un’autorità nella chirurgia estetica genitale maschile grazie al suo lavoro pionieristico nella falloplastica, una tecnica che ha praticato fin dagli anni ‘90 e che ha continuamente modificato, migliorato e perfezionato durante la sua esperienza personale di migliaia di casi provenienti da tutto il mondo
PLASTICO presidente Fondatore dell’I.S.P.L.A.D. (International Society of PlasticRegenerative and Oncologic Dermatology), Fondatore e Direttore dell’Istituto Dermoclinico Vita Cutis, è anche direttore editoriale della rivista Journal of Plastic and Pathology Dermatology e direttore scientifico del mensile “Ok Salute e Benessere” e del sito www.ok-salute.it, nonché Professore a contratto in Dermatologia Plastica all’Università di Pavia (Facoltà di Medicina e Chirurgia).
è sicuramente il più conosciuto tra i medici veterinari italiani, autore di manuali di successo. Ha cominciato la professione sulle orme di suo padre e, diventato veterinario, ha “imparato a conoscere e ad amare gli animali e, soprattutto, ad amare di curare gli animali”. E’ fondatore e presidente della Onlus Amoglianimali, per aiutare quelli più sfortunati ospiti di canili e per sterilizzare gratis i randagi dove ce n’è più bisogno.
giornalista scientifico, dopo aver girovagato per il mondo inseguendo storie di virus e di persone, oscilla tra Roma e Spoleto, collaborando con quelle biblioteche e quei musei che gli permettono di realizzare qualche sogno. Lettore quasi onnivoro, sommelier, ama cucinare. Colleziona corrispondenze-carteggi che nel corso del tempo realizzano un dialogo a distanza, diluendo nella Storia le storie, in quanto “è molto curioso degli altri”.
classe 1957, medico mancato per pigrizia e giornalista per curiosità, ha scoperto che adora ascoltare e raccontare storie. Nel tempo libero, quando non guarda serie mediche su una vecchia televisione a tubo catodico, pratica Tai Chi Chuan e meditazione.
Per Generazione Over 60, ha scelto di collezionare ricordi e riflessioni in Stile Over.
Barese per nascita, milanese per professione e NewYorkese per adozione. Ha lavorato in TV (Studio Aperto, Italia 1), sulla carta stampata (Newton e Wired) e in radio (Numbers e Radio24). Ambasciatrice della cultura gastronomica italiana a New York, ha creato Dinner@Zia Flavia: cene gourmet, ricordi familiari, cultura e lezioni di vera cucina italiana. Tra i suoi ospiti ha avuto i cantanti Sting, Bruce Springsteen e Blondie
Milanese DOC, classe 1957, una laurea in Agraria nel cassetto. Per 35 anni nell’industria farmaceutica: vendite, marketing e infine comunicazione e ufficio stampa. Giornalista pubblicista, fumatore di Toscano e motociclista della domenica e -da quando è in pensione- anche del lunedì. Guidava una Citroen 2CV gialla molto prima di James Bond.
COMANDACOLORE è uno Studio di Progettazione Architettonica e Interior Design nato dalla passione per il colore e la luce ad opera delle fondatrici Antonella Catarsini e Roberta D’Amico. Il concept di COMANDACOLORE è incentrato sul tema dell’abitare contemporaneo che richiede forme e linguaggi mirati a nuove e più versatili possibilità di uso degli spazi, tenendo sempre in considerazione la caratteristica sia funzionale che emozionale degli stessi.
MONICA SANSONE VIDEOMAKER
operatrice di ripresa e montatrice video, specializzata nel settore medico scientifico e molto attiva in ambito sociale.
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Generazione F
A Milano un nuovo Poliambulatorio aperto a tutti Editoriale di Minnie Luongo
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Stile Over Io e gli altri animali Di Paola Emilia Cicerone
-18Incursioni
Ci sono tanti mondi… Di Marco Vittorio Ranzoni
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Versi Di...versi Zefiro, go home! Di Bruno Belletti
-22Salute
L’epilessia in Italia: “Che vergogna!” di Minnie Luongo
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Di tutto e niente Routine
Di Andrea Tomasini
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Da leggere (o rileggere)
Nicola Gardini
Di Paola Emilia Cicerone
-32Spettacolando
Il grande ritorno di Marcella Bella Di Alessandro Paola Schiavi
-35Spettacolando
Eleonora Giorgi, la lezione di un’anima libera Di Alessandro Paola Schiavi
-38Benessere
L’intestino: il custode della tua salute A cura della Redazione
Un paio d’anni fa scrissi qui un Editoriale per dire “come un medico non deve effettuare una visita”. Lo spunto mi era stato offerto dopo essere uscita dallo studio di un noto specialista di una grande struttura (di cui non feci il nome per ovvi motivi) che in pratica mi aveva liquidato per il mio problema consigliandomi un antidolorifico (!), non senza aver premesso: “Quanti anni hai detto che hai? E alla tua età che cosa pretendi?”. Lasciando stare il tu rivoltomi senza che fra noi ci fosse alcuna conoscenza né tantomeno amicizia, si degnò di guardarmi la parte interessata solo davanti al fatto che presi l’iniziativa di sdraiarmi sul lettino e spogliarmi.
Ora, sul rapporto medico- paziente ci sarebbe da scrivere più libri (nel mio piccolo tre anni fa ne scrissi uno anch’io (con il prezioso contributo della collega Paola Emilia Cicerone e la prefazione del professor Paolo Veronesi) intitolato “Ho vinto una biopsia” per raccontare della mia esperienza di paziente oncologica operata per un tumore al seno. Sia chiaro: mai generalizzare! Scrivendo di salute e di medicina frequento camici bianchi da una vita, e anche durante l’iter dell’intervento e della radioterapia successiva incontrai un paio (non di più) di autentici professionisti, pieni di passione per il loro faticoso lavoro, ma anche ricchi di sensibilità e attenzione per la persona che prendono in carico.
Ecco perché, dovendo sottopormi a più esami (noi Over in particolare è bene che non tralasciamo tutte le visite di prevenzione nè i periodici controlli), La
un mesetto fa mi imbattei- è proprio il caso di dirlo- in una struttura che non conoscevo, e che ancora troppe poche persone conoscono, che mi colpì all’istante per vari motivi. Cominciando dalla pulizia super accurata di ogni ambiente (chiesi il permesso al dottor Massimo Campagnoli, Direttore Sanitario del Poliambulatorio, di vedere la camera di sterilizzazione…un ambiente che letteralmente abbaglia, non scherzo), dalla gentilezza degli impiegati alla reception, dai macchinari di ultima tecnologia presenti negli studi, e soprattutto dalla competenza dei vari specialisti, unita ad uno scrupoloso e reale desiderio di instaurare il corretto rapporto che deve esserci fra medico e pazienti.
Come si chiama e dove si trova questa realtà? E’ il Poliambulatorio della Fondazione ATM, in via Farini 9, a pochi metri da una fermata della Metropolitana lilla e da parecchie linee filotramviarie.
La cosa che ho scoperto e che necessita di essere divulgata è il fatto che le prestazioni del Poliambulatorio non sono riservate a dipendenti e pensionati ATM, oltre che ai loro familiari, ma anche a tutti i privati cittadini, con tariffe molto interessanti e con prenotazioni facilissime da effettuare (volendo anche con
whatsapp), e con appuntamenti fissati davvero a pochi giorni dalla telefonata o dalla prenotazione fatta al banco.
Non basta: io e i colleghi giornalisti, grazie ad un particolare convenzione con l’Ordine dei Giornalisti della Lombardia, possiamo usufruire di tutti i servizi di cui dispone la struttura con tariffe riservate a condizioni agevolate (almeno il 20% in meno rispetto alle tariffe dei privati, già molto convenienti) .
Da qui, dopo un incontro con il Direttore Sanitario e con una persona eccezionale non solo quanto a capacità professionale e dinamismo, ma anche per disponibilità umana - Valentina Codispoti, Responsabile amministrativa del Poliambulatorio- ho deciso di collaborare con loro per far conoscere una realtà d’eccellenza che è un fiore all’occhiello per la nostra Sanità. E Dio sa quanto ne abbiamo bisogno! Per i maligni che pensano la mia sia semplice piaggeria o interesse … sottolineo che non è così (e chi mi conosce sa che metto al primo posto competenza ed empatia). Se così non fosse, non starei prenotando tutte le visite qui, in via Farini 9, avvalendomi anche delle tariffe riservate a noi giornalisti. Né sarebbe scattata la decisione immediata di darci del tu, sia con Valentina che con Massimo. Altro che il professore che “non” mi visitò, dandomi innappropriatamente del tu e dimostrando di ignorare che significhi la relazione medico- paziente!
Di Paola Emilia Cicerone – giornalista scientifica
E’stata la scomparsa di Fulco Pratesi a farmi riflettere su come sia cambiato, nel corso degli anni, il mio rapporto con gli animali e la natura. E’ per merito anche suo, e del WWF di cui Pratesi stesso ha fondato la sezione italiana, come di altre associazioni – tra le altre la LIPU, la LAV, Greenpeace – che nel corso degli anni hanno fatto nascere nel nostro Paese quella che oggi si chiama “coscienza ambientale”. Un sentimento di cui negli anni in cui sono stata bambina eravamo per lo più ignari: gli animali si cacciavano e si mangiavano, le paludi erano una disgrazia da bonificare e non una riserva di biodiversità da visitare, e così via. Intendiamoci, io gli animali li ho amati da sempre, in carne e ossa o sotto forma di peluche.
E anche se da bambina mangiavo la carne, in casa mia ci sono sempre state alcune limitazioni: l’agnello pasquale non è mai comparso in tavola perché i cuccioli non si mangiano, e le operazioni cruente che nella campagna di mia nonna erano necessarie per portare il pranzo in tavola erano nascoste agli occhi di noi bambini. Il che non esclude che io da piccola fossi meno attenta di adesso ai diritti degli altri esseri viventi: non mi scandalizzava più di tanto che i gattini appena nati fossero “ portati via” dal contadino – per affogarli, suppongo – o che il maialino Busallino che gironzolava come un animale domestico in casa dei contadini fosse destinato al macello. E neanche che mia madre avesse una pelliccia; anzi, più avanti quella pelliccia – di castorino, ossia di nutria, povere nutrie che adoro e che sono sempre in pericolo perché accusate di chissà quali catastrofi ambientali – l’ho indossata anch’io con piacere, prima di consegnarla, molti anni dopo, a un “rogo di pellicce” organizzato proprio dalla LAV.
Insomma, amavo la natura e soprattutto gli animali, anche se non sapevo bene che cosa questo volesse dire: però il giornalino per bambini del WWF Italia, fondato nel 1966, aveva cominciato a entrare in casa, e lo leggevo con piacere, visto che poter vedere animali di ogni tipo, dalle mucche nella stalla alle formiche in pineta, è sempre stata per me una fonte di felicità.
Anche per questo, e perché avevo scoperto che abitava vicino alla mia prima casa romana, fu una gioia e un’emozione, molti anni più tardi, intervistare Fulco Pratesi. Che mi accolse gentilissimo, mi parlò dei suoi progetti e dell’Associazione che in oltre vent’anni era cresciuta rendendo il panda bianco e nero su fondo verde un’icona familiare e le tante oasi nate per proteggere scampoli di Natura una meta ambita.
Pratesi (qui la sua ultima intervista fatta in occasione dei 90 anni https://www.wwf.it/pandanews/wwf-life/fulco-pratesi-la-natura-e-un-miracolo/ ) non rinnegava il suo passato di cacciatore, che si concluse in un attimo di fronte a un’orsa con i suoi cuccioli, con la decisione di sostituire le armi con matite e pennelli . “La natura è tutto È ciò che ci salva dalla specie più dannosa al mondo : l’uomo”, sosteneva convinto Negli anni seguii le sue battaglie, la nascita delle aree protette, l’impegno per tutelare le specie meno amate, primi tra tutti i predatori come il lupo o l’orso, in concorrenza diretta con l’uomo. Ho conosciuto molti dei responsabili del WWF Italia, di alcuni come Grazia Francescato o Gianfranco Bologna sono stata amica. E ho perfino rischiato di andarci a lavorare, al WWF: sostenni un colloquio per entrare all’ufficio stampa, un incarico che non mi fu assegnato perché fui giudicata – a pensarci oggi fa sorridere, ma ero molto giovane – “ non abbastanza grintosa”.
Negli anni però i miei rapporti con il WWF si sono complicati, e non solo perché ho cominciato progressivamente a eliminare la carne dalla mia dieta. Il fatto è che nella galassia verde convivono non senza difficoltà almeno due anime, quella degli ambientalisti che proteggono le specie e la biodiversità – e quindi, per
esempio, non vedono niente di male in linea di principio a mangiare carne, anche se spesso poi non lo fanno – e quella degli animalisti, di chi riconosce gli altri animali come individui e non vede grandi differenze tra un orso e un vitello, o tra una gallina o un Cavaliere d’Italia.
Il che comporta quasi inevitabilmente una scelta vegetariana o vegana, che può essere faticosa e complicata: ricordo ancora con piacere le parole di Gianluca Felicetti, allora portavoce della LAV di cui oggi è presidente, quando commentò le mie debolezze gastronomiche, dicendo che comunque mangiare molta meno carne, e porsi il problema, era comunque positivo e salvava vite, e invitandomi a non entrare in crisi per l’occasionale sgarro. Che nel tempo si è molto diradato, anche se faccio fatica a rinunciare al formaggio, per cui probabilmente non sarò mai vegana, e a volte indosso ancora scarpe di cuoio.
Il “cavaliere d’Italia” (Himantopus himantopus), uccello acquatico
Ma il problema non è solo questo: il contrasto è soprattutto sulle specie alloctone, ossia importate, come le nutrie o gli scoiattoli grigi, che per chi ha a cuore soprattutto la biodiversità possono, anzi devono, essere arginate anche con mezzi cruenti mentre per gli animalisti sono degne di rispetto in quanto esseri viventi. Anche tenendo conto del fatto che noi stessi, originari dell’Africa e dilagati poi in tutto il globo, siamo una specie “ alloctona”, la cui presenza sul pianeta non è priva di conseguenze. Il dibattito resta aperto, e non mancano le contraddizioni, pensiamo solo a quanto anche i più sensibili dif -
ficilmente obiettino alle campagne di derattizzazione, anche se i ratti sono animali intelligenti e socievoli. E c’è chi si scandalizza per l’eccessivo affetto per i nostri pet, ma da poco – nel 2022 – la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi è stata inserita nella Costituzione della Repubblica Italiana. Ancora discriminiamo tra le diverse specie animali, in modo non sempre razionale, ma di diritti degli animali – degli “ altri” animali, visto che noi siamo primati – si parla sempre più spesso, e molte cose stanno cambiando in meglio.
Quando vedo saltellare tra i miei vasi lo scoiattolo grigio – certamente alloctono e quindi invasore – che ogni tanto fa incursioni sul mio terrazzo lo saluto con piacere, ma resisto alla tentazione di dargli da mangiare, un po’ per non renderlo pericolosamente fiducioso nei confronti degli umani e un po’ perché credo che averlo in casa sarebbe impegnativo. Ma proprio l’altro giorno ho trovato in casa mia a Firenze il disegnino incorniciato di un pettirosso. Mi pare di ricordare che sia di Fulco Pratesi, quello che non ricordo è se me lo abbia regalato lui o altri amici del WWF. Ma rivederlo proprio in questi giorni, e fotografarlo per voi, è stato un modo per salutare e ricordare ancora una volta il fondatore del WWF Italia.
Però oggi (sarà l’età?) il mio quotidiano bisogno di orizzonte na-
turale viene sempre più colmato dagli stessi luoghi dell’infanzia
Di Marco Vittorio Ranzoni – giornalista
“Sai papà, ci sono tanti mondi…” Questa frase, pronunciata con seria convinzione da mia figlia di cinque anni all’uscita dell’asilo, a rimarcare la sua fresca scoperta che esistono luoghi del vivere differenti, oltre all’ambiente di casa, al quale ci s’interfaccia con modi e atteggiamenti diversi, mi è rimasta impressa nella memoria.
Mi è servita e mi serve spesso per cercare di capire il mondo che mi circonda e provare a guardarlo con occhi diversi dai soliti miei.
Ho la fortuna di essere nato e cresciuto in una famiglia molto connessa con la natura e ho imparato presto a goderne la bellezza. I miei (nonno, padre, zii) erano tutti appassionati cacciatori e pescatori e -al di là delle opinioni e delle sensibilità- è un fatto che questi siano dei profondi conoscitori dell’ambiente naturale e anche egoisticamente interessati alla sua conservazione.
Lo stesso Fulco Pratesi, il fondatore del WWF da poco scomparso, è stato un appassionato e vorace cacciatore.
Ma non è di caccia e pesca che voglio parlare, non oggi e non qui, almeno.
Dicevo di essere stato abituato a frequentare la natura fin da piccolissimo: era tra l’altro l’unico modo per stare con mio papà, così come per altri miei coetanei poteva essere la partita di calcio della domenica.
Io a San Siro non ho mai messo piede. In compenso, in una scampagnata o un viaggio con amici, mi accorgo di notare dettagli di piante e di animali che molti altri non vedono.
Per natura ora intendo i paesaggi della pianura, dei boschi, dei fiumi e delle risaie della Lomellina e delle colline dell’Oltrepò, luoghi che anche oggi sono il mio normale sfogo dalla città.
Quel che voglio dire è che, col passare degli anni, la percezione, l’apprezzamento e il godimento di quel che è bello, nel mondo che ci circonda, cambia: subisce una evoluzione del suo perimetro che mi pare si possa assimilare a una curva gaussiana.
L’incanto di una nebbia mattutina al sorgere del sole nel basso Pavese a un certo punto non basta più e lascia il posto all’esigenza di vedere ed esplorare paesaggi diversi e nuovi, più vasti e più esotici (… ci sono tanti mondi ).
Ecco che il viaggio diventa un modo di abbracciare porzioni sempre più grandi di natura e di immagazzinare immagini, ricordi ed esperienze.
Però ho notato che adesso, invecchiando, torno a considerare meravigliosi quei luoghi così vicini a me. Sarà nostalgia del passato, sarà che guardo i dettagli con maggiore attenzione o anche che ho meno energie, fatto sta che ho molta meno curiosità per i luoghi lontani e il mio quotidiano bisogno di orizzonte naturale viene colmato dagli stessi luoghi dell’infanzia, rimasti magici e pieni di cose da scoprire e vedere con occhi nuovi: gli stessi tramonti e le stupefacenti aurore velate di bruma a due passi da casa.
Natura: miele o fiele?
Di Bruno Belletti – autore
Che ne è di questi mazzi di fiori, di queste vanesie sembianze di gioia? Detesto usignoli e i loro canti mielosi, disvelatori di quanto, acre e dolente, in me non canta e non gode. Vorrei una natura umbratile e schiva, una sorta di antro fidato, dove poter coltivare semenze per nuove colture.
“CHE
Presso la Camera dei Deputati, AIE(Associazione italiana epilessia) ha diffuso i dati emersi da 3.300 questionari somministrati per comprendere lo stato d’animo di persone con epilessia e dei loro familiari
Di Minnie Luongo– giornalista scientifica
Sono 81 su 100 le persone con epilessia che temono di essere giudicate “difettose” se gli altri scoprissero che hanno questa malattia. Il 76% afferma di provare vergogna se non riesce a controllare le crisi in pubblico, il 72% afferma di sentirsi inadeguato per via della propria epilessia e solo il 30% nega di sentirsi inferiore rispetto agli altri. Questi alcuni dei risultati emersi da una ricerca – la prima in Italia- su vergogna e vivere con l’epilessia, condotta dal punto di vista della persona con epilessia e dei suoi familiari, mostrano quanta parte abbia l’emozione “vergogna” nella quotidianità di chi ha l’epilessia come compagna di vita. “Se sei solo
non succede: ti vergogni solo quando sei di fronte agli altri – rimarca Tarcisio Levorato, presidente dell’Associazione Italiana Epilessia- ma la solitudine pesa nel mondo della persone con epilessia come un macigno che nessun farmaco riesce a risolvere. La vergogna è uno stato d’animo che mostra la risposta delle persone con epilessia a stigma e discriminazione subiti, percepiti o interiorizzati che rischiano di vanificare i vantaggi delle terapie, pregiudicandone percezione e quotidianità”.
La vergogna è la cenerentola delle emozioni, assai poco studiata in genere tra i sentimenti e le loro immagini sociali: “Abbiamo voluto iniziare l’analisi delle emozioni proprio dalla vergogna, che dal punto di vista della persona con epilessia ha una rilevanza importante che però attendeva di esser esplorata, ha dichiarato Tarcisio Levorato, presidente Associazione Italiana Epilessia nel corso della conferenza stampa AIE. Per questo l’associazione ha inviato al proprio target di 3300 persone due questionari – uno per le persone con epilessia, l’altro per i familiari- ottenendo 468 complete suscettibili di valutazione.
Le emozioni di una persona sono interpretazioni influenzate da norme collettive non scritte, frutto di un apprendimento sociale. Queste emozioni si manifestano nel corpo e variano a seconda del comportamento e della storia personale di ciascun individuo.
“Il fatto è che l’epilessia non è solo biologia – afferma Giancarlo Di Gennaro, Direttore Centro Epilessie IRCCS Neuromed, intervenendo alla conferenza stampa dell’AIE – e nella clinica dell’epilessia occorre tenerne conto. Nella persona con epilessia, l’intoppo è proprio nel suo essere nel mondo, insieme agli altri, che è fratturato dall’emergenza della crisi”.
L’epilessia, che in Italia è “segreta” compagna di vita dell’1% della popolazione è una patologia cronica caratterizzata da crisi ricorrenti. L’ampia offerta terapeutica riesce a consentire il controllo delle crisi in circa il 70% dei casi, il restante 30% è costituito da epilessia farmacoresistente suscettibile di interventi terapeutici che vanno dall’impianto dello stimolatore del nervo vago alla chirurgia. In italiano si usa il termine “crisi”, più opportunamente in inglese il termine usato è “seizure” che sta per “sequestro” o “rapimento”, perché la crisi interrompe la presenza cosciente ed efficiente della persona nel mondo in cui abita. Si realizza una desincronizzazione del vissuto della persona rispetto agli altri. La persona non si vede in crisi e non può che formarsi un’immagine di se stesso se non a partire dalle immagini che gli rinvia il vissuto del suo ambiente.
Secondo la ricerca, il 74% delle persone ha risposto sostenendo che la propria epilessia limita il modo con cui gli altri la percepiscano e solo il 45% afferma di non preoccuparsi che la propria epilessia possa esser vista come un fallimento personale. Il correlato dello stigma sul piano delle emozioni è la vergogna.
“Il pregiudizio e lo stigma nascono da lontano – prosegue De Gennaro- La vergogna è un sentimento umano, tutti ci vergogniamo, chi più chi meno, ma è una dimensione che richiede attenzione quando ci ostacola nella vita. In fondo tutti i paradigmi della sofferenza clinicamente riconosciuta si concentrano su quando questa impatta nelle attività quotidiane”.
Alla riunione AIE: Giancarlo De Gennaro, Ilenia Malavasi, Tarcisio Levorato, Andrea Tomasini, Angelo Labate, Liliana Grammaldo
Nella dimensione del trattamento, questi aspetti emergono in setting che non sono quelli della relazione con il medico, ma piuttosto quelli in cui opera lo psicoterapeuta. “ Nel mio lavoro le emozioni sono considerate dei messaggeri – spiega Liliana Grammaldo, neuropsicologa presso il Centro delle Epilessie IRCCS Neuromed, intervenuta alla conferenza stampa AIE-: quando chiedi a qualcuno cosa prova e cosa sente è il momento e il luogo in cui cogli il “funzionamento” della persona. Nel caso della persona con epilessia il sentimento della vergogna è interpersonale e ha a che fare con la possibilità, che diventa spesso certezza per via del pregiudizio, che la mia crisi epilettica sarà considerata qualcosa di sconveniente che finisce per sforare nel demoniaco”.
La maggior parte delle risposte dei familiari al loro questionario fa emergere una minore percezione di negatività, ma su un punto convergono con la preoccupazione delle persone con epilessia: fare errori relativi alla gestione dell’epilessia turba più di qualunque cosa l’84% delle persone con epilessia, percentuale che alla stessa domanda per il familiari corrisponde l’88%. “L’informazione e la comunicazione con il medico sono
centrali – commenta Angelo Labate, Coordinatore nazionale del Gruppo di Studio Epilessia della Società Italiana di Neurologia (SIN) e professore ordinario di Neurologia all’Università degli Studi di Messina intervenendo alla Conferenza stampa dell’Associazione Italiana Epilessia (AIE). “Servono a realizzare una relazione terapeutica in cui la persona con epilessia possa tenere in mano le redini della propria epilessia e ottenere il massimo dalla propria terapia. Un buon ascolto rende agli occhi del clinico il paziente un biomarcatore di se stesso consentendo di costruire la terapia come un abito sartoriale. Ma c’è di più – aggiunge Labate- lo aiuta a costruire sicurezza e consapevolezza nell’affrontare la quotidianità. L’epilessia è il contesto ideale in cui articolare un approccio biopsicosociale alla salute e alla malattia. Il neurologo epilettologo ne è consapevole e deve prendersi carico anche delle sofferenze che popolano il mondo della persona con epilessia a qualunque età abbia avuto diagnosi”.
L’epilessia è una patologia che colpisce senza distinzioni di età o di genere. “A causa della malattia – rileva l’On. Ilenia Malavasi, Componente della XII Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati e firmataria della Proposta di Legge “Disposizioni concernenti la tutela dei diritti e la piena cittadinanza delle persone affette da epilessia”, in occasione della conferenza stampa dell’Associazione Italiana Epilessia (AIE)- le persone che ne soffrono sono soggette a un duplice tipo di discriminazione: la prima, quella più evidente e di cui si parla di più, riguarda le difficoltà che si incontrano nei percorsi scolastici e occupazionali, così come nella vita affettiva o personale. La seconda è una forma di discriminazione più sottile e, possibilmente, ancora più dolorosa, perché è quasi “autoinflitta”. Lo stigma avvolge l’epilessia e induce le persone che ne soffrono e i loro familiari a nascondersi, a vivere un’esistenza di vergogna, causa di isolamento, depressione, ritiro sociale, fattori che si aggiungono ai sintomi della malattia stessa. Credo che occorra quanto prima giungere all’approvazione di una legge nazionale su questi temi, facendo tesoro di queste analisi, così come delle necessità espresse da chi convive quotidianamente con l’epilessia e da chi si prende cura di loro. Una persona con malattia non ha nulla di cui doversi vergognare, ma, anzi, ha un portato di conoscenze preziosissimo da condividere il più possibile con tutti, per arrivare a una concreta soluzione di tanti problemi”. http://www.associazioneepilessia.it PER OGNI INFORMAZIONE: tel. 320 9525589 – tomasini39@hotmail.com
Con l’età che avanza ripetere quotidianamente alcuni gesti è forse illudersi di rallentare il tempo
Di Andrea Tomasini – giornalista scientifico
Da sempre mi affeziono alle cose. Non mi importa se son nuove o che possano invecchiare. Da ragazzo qualcosa che non era mainstream la sentivo più adatta a me . Per dire, frugavo nell’armadio e, se mi stava di taglia, mi piaceva indossare come fosse mia la giacca di mio papà di quando era giovane . Se la cosa cui tenevo si rompeva me ne rammaricavo Se funzionava male la sostituivo, senza indulgere in particolari procedure di manutenzione . Troppo frettolosamente Ora mi accorgo che anche in questo sono diventato diverso .
Ho un paio di occhiali tondi, alla Benjamin. Di metallo, sottili. Mi piacciono tanto. Non sono di marca. Sono fragili. Li uso quasi solamente a casa. Anche la sera, a letto, per leggere. Il giorno, quando non ne ho bisogno li alzo sulla fronte. Questa abitudine ha infastidito la stanghetta di destra che patisce la manovra e necessita perciò di una frequente attenzione. Le due viti, la prima che serra la lente, l’altra che blocca la stanghetta impedendole di basculare in orizzontale nel suo alloggiamento, allentate dalle sollecitazioni improprie, devono essere riavvitate almeno una volta al giorno. Sono minuscole e per farlo devo mettermi l’altro paio di occhiali. Avevo un piccolo cacciavite a taglio che ben funzionava per serrarle, ma l’ho perso.
Il fatto che questi occhiali necessitino di un mio quotidiano intervento per registrare le viti mi piace, perché mi dà l’idea di una reciprocità: io ho bisogno delle lenti, e gli occhiali, per soddisfare la mia necessità, hanno bisogno di me. Questa fantasia me li fa sentire più miei e non estranei come accadrebbe con una montatura nuova, che sul naso sarebbe certamente più stabile, ma si configurerebbe come un’estranea.
Per stringere le due viti uso la punta del coltello che usava come posata prediletta la mia bisnonna Giuditta. Una lama sinuosa saldata al manico – ormai bruniti entrambi. Il manico è di un argento scuro levigatissimo Foto dell’autore
dall’uso. La lama, che uso come tagliacarte e me la godo quando ho libri intonsi le cui pagine vanno separate, man mano che si procede nella lettura (quelli editi da “Italo Svevo”, ad esempio) la lama è ancora affilata e finisce con una punta perfetta per il taglio che hanno le piccole viti che s’allentano.
Le due cose, di per sé banali al limite dell’ozioso, imponendo una routine ulteriore– sarebbe sufficiente non incaponirsi nel voler usare questa montatura di occhiali che s’allenta così di frequente sostituendola, o almeno decidere di acquistare un cacciavite, attrezzo più funzionale ed efficace perché stringer viti è ciò per cui è stato pensato ed è impiegato- le due cose son diventate scansioni di gesti quotidiani rituali che mi danno la sensazione di riuscire di più ad appropriarmi delle cose, connettendole a me per “ripararle”, proteggerle dal tempo, dall’oblio, dalla irrilevanza, dal buio giacere in un cassetto. In questa maniera contribuisco al disporsi su di esse non solo della patina del Tempo, ma anche quella del mio tempo. Una cura che me le fa sentire più mie – anche perché solo io le impiego così.
Credo sia un po’ una fisima connessa all’età. Mi accorgo che cerco, senza riuscirci, modi per rallentare il trascorrere del tempo. Artifici che sostengano questo desiderio illusorio, facendo leva sull’attenzione da prestare alla durata che impongono e provando a metterci qualcosa di mio. Uso solo penne stilografiche a stantuffo. Scrivo spesso utilizzando la matita e cancellando con la gomma, se devo correggere. Per fotografare impiego solo apparecchi a pellicola.
Ho da non molto rimesso in uso l’orologio di mio nonno, che ora tengo sempre al polso. Non è pregiato. Non ha il datario. Non è impermeabile. Non è automatico. Mi obbliga perciò a fare attenzione al giorno che è; a togliermelo prima della doccia perché non si bagni; a proteggerlo non perché sia di valore, ma solo per preservarne la funzionalità che mi riconnette alla memoria; a caricarlo quotidianamente portando avanti e indietro con indice e pollice la corona per predisporre la molla al funzionamento del bilanciere.
Questa carica della corona che vedevo fare a mio nonno -lui capace di non dimenticarsene mai e di cadenzarla ogni giorno alla stessa ora, io invece molto più disordinato, come fossi un dilettante della quotidianità- mi appare segno di saggia consapevolezza che il tempo che passa noi possiamo solo misurarlo nella sua fuga.
Avanti e indietro con la corona tra le dita: un atto quotidiano necessario sia perché l’orologio non si fermi, sia per potermi orientare di giorno e di notte rispetto a me e rispetto agli altri. Dare la carica – che per me dovrebbe essere soddisfazione rassicurante di una routine di cui vorrei dotarmi- produce un caratteristico suono assimilabile al frinire metallico di un grillo artificiale, grillo parlante che con schietta autenticità mi ricorda che un altro giorno è ormai trascorso.
Io sono salute. Quando la letteratura incontra la medicina
Aboca edizioni 2023
Di Paola Emilia Cicerone – giornalista scientifica
“La salute è anche un atto di volontà e di libertà, e ognuno di noi è il primo a doversene e potersene dare una”: lo ricorda Nicola Gardini in questo saggio che parla al tempo stesso di letteratura e di medicina, o meglio di quello che la malattia rappresenta nella nostra vita. Un libro che ha attirato la mia attenzione, soprattutto per come definisce la salute: non una condizione data, ma “qualcosa che si ricerca per tutta la vita, e che ognuno può darsi qualunque siano le sue condizioni oggettive”. Per esempio, osserva l’autore citando Seneca, ricordando di bastare a se stessi e di coltivare lo spirito.
Docente di letteratura all’Università di Oxford, oltre che artista e scrittore, Gardini parte da esperienze personali, come la malattia del padre e quella del marito cui ha dedicato due libri (il romanzo Lo sconosciuto , Sironi 2007, e il memoir Nicolas , Garzanti 2022). In un percorso che non può prescindere dalla letteratura, con ampie citazioni in cui spesso l’originale si affianca alla traduzione: “La letteratura parla sempre di salute, perché si preoccupa di spiegare la forza e la debolezza degli esseri umani”, ci ricorda l’autore. E si riferisce a una salute che va oltre la vita fisica, perché è salute anche essere presenti nei discorsi di altri quando non ci saremo più, così come leggere e ascoltare, e cercare le parole per raccontare le proprie esperienze, per quanto dolorose. Ricordando che la scrittura ricrea ogni volta la realtà rigenerando l’esperienza vissuta.
* Parola e cura
Ampio spazio è dedicato al tema dell’AIDS, di cui la letteratura si è occupata a lungo – Gardini ricorda Susan Sontag ma anche La sinfonia degli addii di Edmund White (Playground 2019) – analizzando come mai prima il corpo malato Ma al tempo stesso, sottolinea l’autore, ha fornito informazioni importanti sull’infezione, rafforzando l’identità omosessuale, dando voce a migliaia di malati che non avevano alcuna possibilità di farsi sentire, e creando un linguaggio del dolore e della perdita. Nel libro compaiono autori famosi segnati dalla malattia, come Baudelaire e Nietzsche, ma anche l’amicizia dell’autore con Pia Pera, scrittrice e traduttrice che ha saputo raccontare con grazia e sincerità la SLA che l’avrebbe uccisa nel suo Al giardino ancora non l’ho detto (Ponte Alle Grazie 2016). Un esempio, afferma Gardini, di come un’esperienza così drammatica sia anche un’opportunità per raccontare quanta vita ci può essere nella malattia. Vista come un’esperienza individuale che deve essere liberata dalle spersonalizzazioni dei protocolli medici per recuperarne l’unicità. Perché i malati, ricorda l’autore, sono tutti diversi tra loro, anche quando hanno la stessa malattia: non a caso l’inglese parla di disease e illness , due termini che indicano la differenza tra un oggettivo “essere malati” e un “sentirsi malati” che rimanda all’esperienza individuale.
* Specchio salute 1
E per qualcuno – come per Nicolas – anche la malattia terminale può rivelarsi “una condizione estrema di salute” che permette di “trovare nuove misure perché la vita perduta dia luogo a una vita nuova”, fatta dell’impegno a vivere la felicità giorno per giorno e anche della “cura” che viene dalla presenza degli affetti più cari. Ma per far questo ogni malato deve conservare la capacità di agire, in qualche modo, entro lo spazio della vita che gli resta. Un concetto che ci riporta alla medicina narrativa, e infatti tra gli incontri raccontati da Gardini c’è quello con Rita Charon, autorità indiscussa in questo campo. Ogni malato, scrive Gardini commentando le parole di Charon, “ha il dovere verso se stesso di onorare la vita fino all’ultimo contemplando il disegno della propria”, e ogni medico quello “di aiutarlo a compiere il disegno, a riconoscere lo svolgimento di una volontà”. Basterebbe questa frase per consigliare la lettura di Io sono salute a chiunque lavori in ambito sanitario, o abbia a che fare per qualunque motivo con la malattia
* Specchio salute 2
* Immagini generate con l’aiuto di intelligenza artificiale
“La mia musica come inno per le donne che combattono per la libertà”
Di Alessandro Paola Schiavi – giornalista e direttore artistico teatrale
La cantante protagonista al Festival di Sanremo con un brano virale sui social presenta il nuovo disco dopo anni di assenza dalle scene. 18 anni dopo Marcella Bella fa ritorno “a casa”. Sì, perché il Festival di Sanremo è stata ed è la casa di molte figure della musica italiana e non poteva non essere anche la casa di Marcella, una delle signore della nostra canzone. Sappiamo bene che il suo mondo è quella del mondo della musica che, assieme al fratello Gianni, l’ha vista protagonista per decenni firmando alcune delle più belle canzoni italiane di sempre.
Da un po’ di anni però Marcella mancava dalla scena e così, dopo un singolo estivo scoppiettante, “Tacchi a Spillo”, finalmente Marcella fa ritorno sul palco dell’Ariston che l’ha vista protagonista per molte edizioni . Un’edizione bizzarra questa appena passata, che ha visto un Carlo Conti direttore artistico applaudito ma
anche molto discusso. Dopo gli applausi della prima puntata, Marcella si è ritrovata ultima classificata fra i 20 cantanti in gara con la sua “Pelle Diamante”, un inno alle donne indipendenti, coraggiose e forti. Con molta onestà intellettuale, quella che l’ha sempre contraddistinta, Marcella commenta l’ultimo posto in conferenza stampa per il primo firma – copie del suo disco in Mondadori a Milano: “Non sono dispiaciuta dell’ultimo posto. Se fossi arrivata quindicesima o decima, che cosa sarebbe cambiato? L’opinione di una certa stampa ha condizionato il pubblico per la classifica, ma non posso lamentarmi dei risultati della canzone che stiamo ottenendo”. E la cantante di ragione ne ha da vendere. Se è vero che una certa parte di stampa ha quasi stroncato la canzone definendola banale o paragonando il brano a quello di Loredana Bertè dello scorso anno “Pazza”, Marcella gode di una grande popolarità derivata dai social. Anzi, su Tik Tok e sui social è adesso prima nelle tendenze, ed anche il pubblico più giovane (perfino i bambini), quello più difficile da raggiungere, sembra averla premiata. Non è un dato scontato. Ogni anno il Festival di Sanremo propone cantanti in auge, ma non tutti hanno il benestare del pubblico. Rettore, Iva Zanicchi, Massimo Ranieri sono tutti artisti che non hanno coinvolto il pubblico nelle ultime edizioni nonostante gli ottimi brani in gara. Solo Orietta Berti è riuscita a farsi amare da una nuova generazione, merito però anche dei duetti con le nuove leve della musica. Marcella invece ha fatto tutto da sé, portando all’Ariston un brano forse un po’ banale a livello di scrittura e sicuramente lontano anni luce dai brani scritti dal “suo” Gianni Bella, che l’hanno consacrata fra le signore della canzone italiana, ma capace di entrare in testa e diventare anche un simbolo LGBTQ. Marcella Bella è una donna ricca di consapevolezza ma soprattutto un’artista appagata dalla vita e dalla sua carriera: “In quest’ultimo album ho anche scritto dei brani di mio pugno. Durante la serata delle cover ho voluto omaggiare Gianni con quel capolavoro che è “L’emozione non ha voce” che Celentano ha portato al successo ma che io sentivo mia perché sono stata la prima alla quale Gianni la fece ascoltare . Vedere poi il pubblico in piedi per lui, per noi, quella è stata la mia più grande gioia . ” ha dichiarato la cantante durante l’intervista in Arena Mondadori Duomo . “Pelle Diamante”, il singolo in gara a Sanremo, è contenuto in ETNEA DIAMANTE EDITION in cui l’artista esplora una nuova fase della sua lunga carriera esordendo come autrice dopo un grande lavoro sfociato nel disco ETNEA, prodotto da Fausto Cogliati, scomparso da poco, in cui esprime tutte le sfumature ed i contrasti che sono distintivi del suo essere: da un lato vulcanica e una forza che si esprime in brani energici ed esplosivi, dall’altro lavica, piena di passione e di sentimento. Lo scorso 14 febbraio è uscito, in edizione speciale, ETNEA DIAMANTE EDITION, con l’inedito “Fino alla fine del mondo”, musica di Marcella e Rosario Bella, testo di Marcella e “Tacchi a Spillo remix”, di L. Vizzini e S. Cirenga. Completano la track list “L’Etna”, “Tacchi a spillo”, “Questo grande fuoco”, “Soffri soffri”, “Chi siamo davvero”, “Un amore speciale”, “Le parole che ti ho detto”, “Come ti vorrei”, “Mi rubi l’anima” (con Loredana Bertè), “Ti incanterò”. “Troppo spesso, per amore, ci dimentichiamo di noi, ci annulliamo. L’indipendenza, anche economica, ci rende libere. Oggi le donne continuano ad essere violate in ogni modo e credo che ognuno di noi debba fare la propria parte. Con questo inno voglio fare la mia parte come donna e come artista. Dopo anni in cui ho scelto di occuparmi dei miei figli e della mia famiglia, anche se non ho mai smesso di fare musica, ho scoper -
to una nuova sfumatura e l’attitudine a scrivere. Ho lavorato quasi quattro anni a questo disco che mi vede autrice di ben otto tracce. Una nuova sfida, che mi ha spinto a sperimentare e cercare in me nuove risorse, nel momento in cui Gianni, il mio amatissimo fratello, che mi ha regalato brani meravigliosi, non poteva più scrivere per me” dichiara Marcella. E tutti noi, uomini e donne, siamo al suo fianco in questo grande ritorno musicale.
Un incoraggiamento alla vita che ha valore soprattutto a partire da adesso, subito dopo averci lasciato
Di Alessandro Paola Schiavi – giornalista e direttore artistico teatrale
Due anni di lotte, due anni di terapia e ancora il sorriso nel dolore. È questa la vita di Eleonora Giorgi, icona del cinema italiano degli anni ’80, e reduce di diversi successi televisivi negli anni 2000. Precisiamo subito: non è nostra intenzione seguire le onde mediatiche che tendono a santificare una persona nei momenti bui della propria vita, tantomeno cercando di creare quella sorta di compassione che può derivare da una brutta notizia, come in questo caso, subito dopo il decesso. Il nostro omaggio a Eleonora Giorgi vuole essere uno spaccato di una vita vissuta in pieno fra alti e bassi lavorativi e personali, indubbiamente legati a un ruolo cinematografico quasi profetico, se rivisto oggi con la sua storia attuale.
Una vita no stop, gossip, cinema, televisione, uomini, famiglia… essere un personaggio viene costruito anche da se stessi ed Eleonora ha sempre saputo esserlo, anche nei periodi più bui.
Per mesi il suo incoraggiamento alla vita non è mai venuto meno, casomai il contrario: nelle interviste rilasciate ai settimanali, in televisione, ovunque. Senza più la paura di mostrarsi struccata, senza capelli causa chemio o addirittura in momenti di forte debolezza e fragilità.
Ma in realtà, vederla così non può non portarci indietro negli anni, forse in quello che si può considerare il ruolo che le ha cambiato la vita (anche sentimentale) nel film “Sapore di mare 2” nel 1983.
Divina, stupenda, femme fatale, generazionale, ricordo ancora quando poco più che bambino (avrò avuto 11 anni) andavo a casa di nonna e quest’ultima (che era una nonna tutta strana e diversa dalla altre) metteva la videocassetta di “Sapore di mare 2” che aveva registrato alla TV per allietare i pomeriggi di noi ragazzi.
C’era la Giorgi in quel sequel e tutto il resto passava in secondo piano. Come dimenticarsi alcune frasi iconiche? Su tutte il monologo finale del suo personaggio alla Marilyn: “Pizza fredda, birra calda, tutto alla rovescia come nella vita. Quale vita poi. Pillole per non addormentarmi, pillole per non svegliarmi, per stare su, per stare giù, pillole per non ingrassare, per non rimanere incinta. Sai che dovrebbero inventare le pillole per smettere di prendere pillole? Potrei anche smettere. Solo che dopo mi prende la malinconia. Tu lo sai cos’è la malinconia? È una cosa che ti svegli la mattina e non vuoi e non speri in niente e la sera te ne torni a letto e non è successo proprio niente”.
E poi ancora il monologo con un Ciavarro tutto orecchie incalzava: “Mi innamoro tutte le volte, darei 10 anni di vita per innamorarmi almeno una volta. Mi ammazzerei per essere felice un’ora” e, alla fine del monologo, rispondeva con un semplice “grazie” che racchiudeva tutto e niente.
Quel personaggio era Tea, ed è stato molto di più di un ruolo in una commedia capace di anticipare i cinepanettoni, un ruolo che, esaminato oggi, rappresenta molto di noi, anche più giovani di me, pieni di sogni ma attorniati da tante cose negative. Cosa bisogna fare? Come si può andare avanti?
Forse Tea non ci svelava come farlo, ma oggi questo percorso di vita così vicino a migliaia di casi di tutto il mondo, non solo italiani, è stato capace di svelare un’anima unica, donandoci un insegnamento di vita. Quanto ci resterà? Sicuramente, cara Eleonora, le tue frasi resteranno in tutti noi per l’eternità e in tutti quelli che oseranno guardare oltre un punto, consci che la nostra vita è nell’immensità dell’universo.
A volte è meglio una pizza fredda e una birra calda a tutto il benessere del mondo. Anima libera.
A cura della Redazione
Lo sapevi che il contenuto di una piccola bottiglietta di Yakult è unico? Parliamo dell’esclusivo ceppo probiotico di Yakult, L. casei Shirota (LcS), che è in grado di raggiungere vivo l’intestino e di favorire l’equilibrio della flora intestinale. I prodotti di Yakult sono il risultato di ben 90 anni di ricerca scientifica, iniziata nel 1935 quando il microbiologo e ricercatore giapponese Minoru Shirota isolò il ceppo esclusivo LcS e sviluppò la bevanda a base di latte fermentato che ancora oggi è apprezzata in tutto il mondo. Infatti, in ogni bottiglietta di Yakult Plus gusto pesca, l’ultimo nato, così come nelle altre versioni Yakult Original e Yakult Balance, sono contenuti ben 20 miliardi dell’esclusivo ceppo L. casei Shirota, chiamato così in onore del suo scopritore. Non tutti sanno che il ruolo dell’intestino va ben oltre la digestione: infatti, è la sede di una immensa comunità di microrganismi che svolgono numerose funzioni per la salute del nostro organismo e che prende il nome di microbiota intestinale (un tempo chiamato anche “flora intestinale”), un vero e proprio organo nell’organo intestino. Questa importante comunità di microrganismi, invisibile all’occhio umano, ma costituita da ben 100.000 miliardi di microrganismo appartenenti a circa 1.000 specie diverse, è capace di sintetizzare per noi vitamine e altre sostanze chiave, indispensabili all’organismo nello svolgere le proprie funzioni quotidiane. Tra queste vi sono la difesa da potenziali patogeni e allergeni, la digestione di specifici alimenti e la fermentazione delle fibre alimentari trasformate in energia proprio per le cellule intestinali.
Ma c’è di più. Spesso l’intestino è definito il nostro secondo cervello. Ciò perché esso contiene circa 500 milioni di neuroni e comunica costantemente con il “primo” cervello, attraverso il cosiddetto “asse intestino
– cervello”, ovvero una linea di comunicazione diretta che permette a questi due organi di scambiarsi continuamente informazioni. Ma in che modo e in quale “lingua” si parlano reciprocamente? In diversi modi. Per ora sappiamo che la “banda larga” è costituita dal nervo vago, un grande nervo che collega intestino e cervello e che invia segnali in entrambe le direzioni. Ma non è tutto. Ci sono anche delle vie alternative, dove entrano in gioco molecole specifiche come, ad esempio, ormoni e neurotrasmettitori. Molte di queste sostanze sono prodotte proprio dal microbiota intestinale.
Il nostro microbiota produce ad esempio alcuni neurotrasmettitori coinvolti nel controllo dell’ansia, e rende più disponibile il triptofano, un amminoacido importante per la sintesi di serotonina, coinvolta nella regolazione dell’umore e associata a uno stato di serenità
Condizioni quali lo stress, fattori ambientali, l’avanzamento dell’età, una dieta povera di fibre, infezioni intestinali o l’assunzione di antibiotici possono causare uno squilibrio della composizione e della funzione del microbiota che prende il nome di “ disbiosi”. Per tutti questi motivi, è importante assumere alimenti in grado di supportare la proliferazione dei cosiddetti “batteri buoni”, quali cibi fermentati, fermenti lattici probiotici e fibre, riportando così il microbiota nella situazione di equilibrio e armonia detta di “ eubiosi ”.
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