
9 minute read
Iraq 6 Luglio 2004… (seconda parte
Parte seconda.
…continua da pag. 47.
Advertisement
Il “RICEVUTO” dell’operatore già mi diede quel minimo di tranquillità mentre ci stavamo avvicinando al margine di un villaggio enorme che era abitato da circa 12.000 iracheni, di diverse tribù, diverse fazioni e soprattutto di diverse idee politiche sulla coalizione! Spegnemmo il motore, ci slegammo, mi alzai dal seggiolino … e in quel momento capii … una bomba scoppiò dentro di me … adrenalina pura! Ero in mezzo all’IRAQ. Cosa dovevo fare … sicuramente capire! Rivedo ora come in un film la scena in cui la mia mano afferra la pistola e l’altra và a “scarrellare” per inserire il colpo in canna. Scendendo dalla rampa dovevo capire … la notevole quantità di adrenalina dentro funzionava, focalizzavo informazioni in tempo brevissimo, forse non ho mai conosciuto momento più lucido e reattivo nella mia vita. Mi guardai intorno, sui tetti delle case saltavano immediatamente all’occhio le nere bandiere anti-coalizione, tenute ben aperte dal vento che soffiava incessante, anche se meno intenso del solito. Magra consolazione che, comunque, non ci aiutò nelle 6 ore che passammo sotto il sole cocente. La tensione era chiaramente evidente nei volti di tutti noi, anche se cercavamo di mostrare freddezza e professionalità nei movimenti così da poter guadagnare rispetto da tutte quelle persone che da subito arrivarono ad ammassarsi attorno al velivolo. Dapprima qualche decina, poi un centinaio, fino ad arrivare velocemente a quasi 300 personaggi tra uomini, donne e bambini. Non eravamo in grado di capire se avessero o meno intenzioni ostili. Il cuore dentro di me batteva forte.

Il Capo Equipaggio, intento a creare qualche collegamento con la popolazione locale, iniziò a parlare con un uomo sui 40, che solo in seguito scoprii che ne aveva appena 28. Si era presentato come una sorta di capo quartiere. Il Capo Equipaggio venne verso di me dicendomi che si sarebbe allontanato per andare alla vicina stazione della neo costituita polizia irachena. Chiamò con sé il Carabiniere come scorta e accompagnato da qualche indigeno, scomparve alla vista tra le vie del villaggio. Mi guardai intorno, non avevo avuto modo di riflettere su cosa avrebbe comportato quell’allontanamento. A parte il grosso rischio nel dividerci, acquisivo il comando di un gruppo di 5 uomini. Cosa avrei dovuto fare? Forse semplicemente seguire l’esempio del CE e mentre i due operatori di bordo coprivano ad ore 11 e 2 e i due Operatori Forze Speciali erano intenti a controllare ore 4 e 7, io mi muovevo liberamente intorno all’elicottero. Fui subito colpito da due ragazzi che avevano uno sguardo d’odio misto a sfida nei nostri confronti. Si avvicinarono a pochi metri da me. Mi fissarono intensamente negli occhi. Senza muoversi, senza parlare. Il secondo era mezzo passo dietro a quello che sembrava più agguerrito, più spavaldo, dotato di un fisico robusto e un’espressione cupa, rude, segnata dalla cattiveria. Il secondo quasi ironico mi fece segno di inserire il caricatore, mimando il gesto con le sue mani a forma di pistola, cercai di mostrarmi impassibile per tutto il tempo di quel test, alla richieste non seppi tirarmi indietro, il caricatore che avevo nella mano sinistra era il secondo, alzai la pistola
impugnata nella destra mostrando il caricatore inserito. La mia espressione non cambiò, ma dentro l’orgoglio esplose per aver dimostrato a me stesso freddezza a quella richiesta di sfida, eravamo pronti a tutto … o quasi. Dovevamo incutere rispetto proprio per non doverlo guadagnare con uno scontro reale, dove probabilmente avremmo avuto la peggio. Ogni tanto sentivamo furgoni che si avvicinavano a velocità sostenuta “clacsonando” all’impazzata, la gente si scansava velocemente e la paura di un’eventuale raffica da arma da fuoco era forte. Fortunatamente in tutti i casi erano ragazzi che giocavano o che mandati da qualcuno venivano a controllare la situazione. Ormai era passata più di un’ora da quando il CE si era allontanato e ancora non avevamo alcuna notizia. I bambini prendevano coraggio e si avvicinavano sempre più insistentemente, stavamo perdendo il controllo sulla massa di gente che ci
circondava. I contatti radio erano ancora inesistenti e l’unico collegamento con il nostro mondo era il ripetersi del tono del beacon selezionato sulla radio portatile alla quale avevo concesso un minimo di volume sia per verificare il continuo funzionamento, sia perchè in quella situazione non sembrava il solito rumore fastidioso ma un messaggio che chiedeva per noi continuo aiuto. Un C-130 inglese riportò alla torre dell’aeroporto di Tallil ricezione e posizione approssimativa. Non fu corretta, ma almeno scoprimmo che funzionava.

Ad un tratto pensieri ed azioni furono interrotte dalla voce dell’Aerosoccorritore: “ATTIVAZIONE; ORE SETTE; DUE PERSONE; DUECENTO METRI; ARMATE”. La parola ARMATE ebbe per me l’effetto di una doccia gelata. Andando verso la parte posteriore dell’elicottero si presentò una scena che sicuramente sarebbe rimasta come una foto nella mia mente. I due uomini, ormai a circa 150 metri, erano sbucati da palazzi in fondo alla via che passava accanto alla nostra piazzola d’emergenza ed avevano fucili Kalashnikov lungo il fianco. Li tenevano quasi distrattamente, come fossero oggetti folcloristici dell’immagine che dovevano dare di loro stessi, come ombrello e bombetta per un inglese. Cosa fare?! Se dimostravano tutta quella spavalderia nel giungere in prossimità di un gruppo, anche se esiguo, comunque vistosamente armati, voleva probabilmente dire che avevano la sicurezza, o l’incoscienza, di una nostra sicura non possibile reazione. Interpretai il messaggio, pensando che non accorgendocene avevamo già intorno gente armata pronta a farci la festa. Non saprei dire se ero realmente pronto ad uno scontro a fuoco! Una luce di speranza squarciò quella densa nebbia di dubbi ed angosce. Al braccio dei due era ora possibile notare una fascia nera, simbolo della neo costituita polizia irachena che ancora non disponeva delle adeguate divise. Ci attaccammo a quella flebile speranza che fossero “amici”. Uno dei due OFS disse: “Tenè, li vada a riconoscere”, ossia... toccava a me andare incontro ai due e scoprire se appartenevano ai buoni o ai cattivi. Scortato da uno dei due Aerosoccorritori OFS, che apparivano professionali e tranquilli (tranquillità tra l’altro trasmessa involontariamente anche a me), mi avvicinai agli ospiti. L’altro Aerosoccorritore era posto a protezione, a debita distanza, mentre i due OB facenti funzione di mitraglieri, coprivano la parte anteriore. I nostri sguardi incrociandosi studiavano i movimenti. Le movenze non sembravano
ostili ma fidarsi è bene, non fidarsi... in quei casi può salvare la vita! Ormai ci separavano una decina di passi, pistola sempre in mano e scorta al seguito, intimai l’alt con un gesto severo della mano ed espressione dura che accentuava la marzialità dell’atteggiamento, provando a nascondere il battito del mio cuore, sempre più forte come un rullo di tamburi impazziti. Il primo dei due si fermò mostrandomi un tesserino che mi feci consegnare per controllarlo. Ricordai il briefing sui documenti iracheni avuto qualche tempo prima dal nucleo Intelligence: sembrava uno di quelli. Controllai attentamente quel documento, guardai lui e tornai nuovamente sul tesserino, la mia vista era talmente annebbiata dalla tensione e la mia attenzione fissata ai loro movimenti, che non riuscii a confrontare neanche la foto di riconoscimento. Quel documento poteva essere tranquillamente una tessera dell’autobus di qualcun altro e non me ne sarei accorto. Ma come spesso avviene in situazioni critiche è l’istinto ad indicare la giusta via e quei due tutto sembravano tranne che pericolosi.






Non parlavano inglese. Con qualche gesto improvvisato, grazie alla mimica tipica italiana, riuscimmo a comunicare. In breve intuimmo che erano stati inviati dalla caserma di polizia probabilmente dopo un positivo contatto avvenuto con i due in avanscoperta. Passò altro tempo, forse mezz’ora, il CE con al seguito il Carabiniere ed un piccolo gruppetto di gente, riapparve come un miraggio dalle assolate vie di quel villaggio sede del nostro provvisorio “rischieramento“. Ci riportò brevemente di come era stato accompagnato verso la stazione di polizia, dei rischi corsi e del vano tentativo di comunicare posizione ed esigenze alla base. Mentre le parole fluivano rapide per descrivere i particolari, alcuni bambini ci corsero incontro mimando macchine in arrivo. Non capimmo subito ma ci volevano avvertire della colonna di mezzi che ci stavano cercando. Nell’attesa socializzai con un ragazzo che aveva appena 23 anni ma, come il resto della popolazione, dimostrava almeno 10 anni di più. Conosceva un po’ di inglese e tramite quello riuscì a farmi comprendere molte cose.
Era un maestro elementare, la sua famiglia, tre sorelle, due fratelli, due madri ed un padre, era stata sterminata da Saddam Hussein circa 6 anni prima, così, unico superstite, era entrato a far parte della famiglia dello zio, anch’egli con qualche moglie e svariati figli. In questo clima di apparente serenità l’improvvisato interprete chiamò due ragazzi che indossavano la kefia, il classico fazzoletto che copre il volto da vento e sabbia, divenuto simbolo di scontri a carattere politicoreligioso. Mentre si avvicinavano, lui mi spiegò con incoscienza che i due avevano partecipato ai conflitti a fuoco sui ponti. Feci finta di non capire ma il mio interlocutore non capì la delicatezza delle informazioni che mi stava fornendo. Enfatizzò con la gestualità per farmi capire e per confermare il racconto, fece prima togliere la kefia ai due e poi sbottonò la camicia nera ad uno che aveva un’espressione sorridente; mi mostrò fiero delle ferite da arma da fuoco, non coperte e mal disinfettate tanto che l’infezione su di esse era chiara. La situazione divenne tesa. Non sapevo cosa fare, ma istintivamente dissi al mio traduttore che uno dei ragazzi accanto al guerrigliero somigliava ad un attore italiano. Avevo notato in precedenza che erano attratti dalle trasmissioni televisive, tanto da conoscere giocatori di calcio delle nostre squadre. L’attenzione si spostò su questo casuale quanto improbabile attore. L’atmosfera si distese e tornammo ad attendere. Due giorni dopo in quello stesso villaggio si ebbero dei sanguinari scontri tra polizia locale e ribelli. Con un brivido lungo la schiena scoprimmo che quel luogo era una polveriera di guerriglieri pronta ad esplodere.

Finalmente arrivò con non poche difficoltà l’autobotte con il carburante, permettendoci di tornare a “casa”. Non posso evitare di ringraziare tutti coloro che in un modo o in un altro si sono prodigati per risolvere una situazione che poteva tramutarsi in una notizia di cronaca nera. Ringrazio chi ha girato per le vie dell’Iraq con un mezzo pieno di combustibile in zone non proprio raccomandabili. Un plauso alla professionalità dimostrata ed al comportamento ammirabile di tutto il personale coinvolto direttamente o indirettamente che ha permesso, dopo oltre 6 ore di tirarci fuori dai problemi. Un grazie al Comandante del 6° ROA che in quell’occasione è stato molto collaborativo per la più rapida ed indolore risoluzione della parte burocratica. Il ricordo dell’evento è ancora oggi vivo dentro e, probabilmente, ha segnato un passaggio importante per il mio carattere ed il mio lato professionale. Conscio e fiero di appartenere al Reparto oggi più impegnato nella vita operativa all’estero ed in patria, ho provato con questo breve-lungo racconto a testimoniare uno dei tanti momenti in cui ci viene richiesto di dimostrare di appartenere al plurimedagliato 15° STORMO.


Cap. Marco Mascari