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Volare Iraq

Un anno e mezzo è trascorso da quando i nostri elicotteri hanno cominciato a solcare i cieli dell’Iraq, in Asia per la prima volta nella storia: all’inizio prudentemente, si direbbe in silenzio se non si trattasse di macchine rumorosissime, poi via via in modo sempre più spavaldo. Con il crescere della conoscenza del deserto, del caldo, dei limiti fisiologici, della minaccia circostante, è nata in noi una confidenza sana e per certi aspetti affettuosa con il mondo di Nassiriya e l’Iraq tutto. Un anno e mezzo di passione e di convivenza con difficoltà di ogni sorta: i ricordi si accavallano gli uni sugli altri, incessantemente, volti, odori, rumori, sensazioni, scoraggiamenti, dolori e sorrisi tornano a visitare la mente di chi ha vissuto, di chi è stato assorbito, di chi ha costruito con impegno diuturno l’operazione Antica Babilonia. Perché siamo lì? Già, una domanda all’apparenza scontata che prevede una risposta ufficiale (non falsa, ufficiale, desumibile con facilità dai media) e una di cuore. Per chi fa il nostro mestiere i conti con la coscienza sono all’ordine del giorno, al di là di considerazioni politiche, di convinzioni umanitarie, di ragionamenti sugli equilibri planetari e sul ruolo del nostro Paese nel contesto internazionale. Noi siamo in Iraq perché in Iraq c’è bisogno di noi: un “sistema d’arma” (ovvero l’insieme di equipaggio altamente addestrato – aeromobile idoneo al teatro – equipaggiamento specifico) in grado di salvare vite umane, che rappresenta per gli italiani che lavorano sul territorio la sicurezza di interventi efficaci e tempestivi, per gli iracheni uno dei dispositivi più efficaci per il perseguimento degli obiettivi di pace e di stabilizzazione sociale. E allora decade ogni remora ed è palpabile a pelle il sacrificio, il coraggio e l’abnegazione con le quali la gente affronta i 4 mesi di missione. Volare in Iraq. Dei cinque sensi, apparentemente solo la vista è coinvolta quando voliamo: la terra, riarsa dal sole sul deserto, allagata dalle paludi, spazzata dallo shamal che soffia come un phon professionale, scorre sotto il muso dell’elicottero presentandosi in tutta la sua selvaggia bellezza coi villaggi, le fattorie, le dune, i canali: ci riempie gli occhi di una luce prepotente. Eppure anche udito e olfatto danno miriadi di informazioni e sensazioni, per non parlare del tatto, stressato dal calore che emanano i comandi di volo e tutti gli apparati metallici quando la temperatura in cabina supera i 55°C. Nei rari momenti nei quali ci è concesso godere del volo fine a se stesso, senza compiti tattici pressanti o minacce dalle quali sfuggire, ci si abbandona facilmente alla bellezza del paesaggio e a considerazioni semplici: dove siamo finiti? Ma davvero stiamo sorvolando le terre degli Assiri, quelli che furono i giardini di Babilonia, la Mesopotamia studiata sin dalle elementari come un paradiso lontanissimo? Le città di Ninive e Lagash, mitiche nel senso più profondo della parola, teatri di avventure e di leggende di inenarrabile fascino? Guarda l’aeroporto di Tallil, lo Ziggurat di Ur, solitaria vestigia della città di Abramo e non si può non rimanerne attratti, quasi ipnotizzati. La gente. Purtroppo i contatti con la gente irachena sono sporadici, è ancora lontano il tempo della tranquillità e della vicinanza umana. Eppure chi ha avuto la fortuna

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di visitare da vicino la città e, ancora di più, i villaggi in campagna ha potuto toccare con mano una realtà poliedrica, sfaccettata, non

riconducibile a schemi stereotipati e qualunquistici: la povertà profonda ma vissuta con grande dignità delle fattorie perse nella savana; la miseria pezzente che questua senza ritegno il tuo orologio e gli occhiali da sole; la vita misteriosa dei nomadi; la violenza strada per strada; la spazzatura e il vunciume delle città; i sorrisi dei ragazzini, così aperti e solari, tutto questo è la gente irachena, come poter generalizzare? Sono andato alla cerimonia di consegna di una scuola elementare regalata dall’Aeronautica Militare, in un miserrimo villaggio a 20 chilometri da Nassiriya: entusiasmo festoso, richieste di ulteriori aiuti, minacce di improbabili vendette contro nemici di varia natura, promesse, inganni da parte delle ditte appaltatrici della struttura, sorrisi e affetto, dubbi sul futuro di quella scuola, del villaggio, di quel tipo di intervento... Tutto e il contrario di tutto. Ho idea che chi è stato giù possa sentirsi cambiato dentro, toccato. Chiacchierando della missione in Iraq, tutti indistintamente coloro che hanno avuto la ventura di parteciparvi, alla domanda “com’è?” tendono a rispondere “una bella esperienza”, accontentando con semplici parole la curiosità dell’interlocutore. Ma quanta profondità, quanta fatica, quanti timori, quale arricchimento interiore ci siano dietro questa “bella esperienza” rimangono nella mente e nel cuore, come se una cortese forma di pudore impedisse di rivelarne l’essenza più vera.

T.Col. Tomaso Invrea

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