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Ti ricordi quella volta a Kukes
Quel pomeriggio mi aspettava un tranquillo volo notturno di addestramento e nient’altro ma l’avventura, se così la possiamo chiamare, era in attesa dietro l’angolo. Ma partiamo dall’inizio, mi chiamo Alberto Santoprete e sono un Maresciallo motorista EFV Specialista Polivalente presso l’83° Centro C/SAR. Quel pomeriggio d’aprile del 1999 mi preparavo per un volo d’addestramento notturno, insieme al mio collega e amico Roberto Sbaraglia, senza sapere che, di lì a poco, avremmo ricevuto una richiesta (non strana ma alquanto inaspettata) da parte dell’allora capolinea Zuccalà: “Alberto… Roberto… avete problemi a partire per una missione in Albania nel giro di un’ora? Siete al momento gli unici disponibili per una partenza immediata!” Non avevamo molte informazioni, anzi, queste erano le uniche. Si sa che nel nostro lavoro tutto può capitare ma era proprio questo “non sapere cosa ci aspettasse” che ci fece subito accettare. È l’atteggiamento da guasconi che spesso aiuta gli audaci! Dopo pochi minuti eravamo già in macchina, direzione casa, per preparare un minimo di bagaglio. Non si sapeva quanto tempo saremmo stati fuori ma non importava, sicuramente avremmo fatto il lavoro per cui ci eravamo addestrati! Ritornato in aeroporto dopo meno di un’ora ebbi altre notizie e non furono sinceramente molto confortanti. Al briefing tenuto dall’allora T.Col. Mariz era presente l’equipaggio interessato formato da: Alberto Pelacchi, Michele Vimercati, Roberto. Sbaraglia, Massimiliano D’Alessandro ed io (ometto di proposito i gradi perché da allora essi sono solo amici).

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In quei giorni i Serbi stavano effettuando la cosiddetta “pulizia etnica” in Kosovo e tutta la popolazione di origine albanese abitante in quella regione aveva cominciato ad accalcarsi al confine, in previsione dell’apertura della frontiera con l’Albania, passando attraverso il passo che portava a Kukes. Il nostro compito, una volta arrivati in Albania, sarebbe stato dare assistenza e soccorso a quella povera gente scacciata dalla propria terra o quanto meno da dove avevano vissuto per innumerevoli anni! Decollammo il più presto possibile ma una volta staccate le ruote da terra nel buio della notte mi posi una domanda… una domanda che sicuramente molti si pongono in queste situazioni… “Ma dove c…. sto andando?!” Questa domanda sorse non perché avessi cambiato idea e mi fossi pentito della decisione presa ma perché non sapevo davvero quello a cui andavamo incontro! L’ho saputo, diciamo con mio disappunto, il giorno dopo. Dopo essere atterrati e aver dormito a Brindisi, la mattina molto presto eravamo al velivolo: sbrigammo i nostri compiti e decollammo alla volta di Tirana insieme ad un altro HH-3F dell’84° Centro C/SAR di Brindisi. Giunti all’aeroporto di Tirana nessuno sapeva del nostro arrivo, ma trovammo il personale della nostra Protezione
Civile, dei Vigili del Fuoco e della Croce Rossa già al lavoro. Ci inserirono subito nella maglia dei soccorsi, non persero tempo! Ci rendemmo conto di quanto eravamo vitali per questa gente quando percorremmo per la prima volta la rotta per Kukes. Le strade per raggiungere questa cittadina erano praticamente inesistenti, da Tirana a Kukes erano tutte montagne alte ed impervie, quindi gli aiuti via terra avrebbero subito ritardi mostruosi. Gli unici che potevano fare qualche cosa in un tempo relativamente breve erano gli elicotteri e noi con loro (ma pensa te! Io proprio io). Il primo trasporto di materiale (viveri e medicinali) verso il campo profughi non fu facile e… in un certo senso, irto di pericoli ed ostacoli come tralicci, teleferiche non segnate sulla cartina in dotazione (la cartina di una nazione dell’Est quindi sconosciuta per lo più) e valli senza sbocco. Vidi pure i cavi d’acciaio che vengono usati dall’industria del legname per lo spostamento degli alberi lavorati… sì… quelli che “ci piacciono tanto a noi degli elicotteri”, ma grazie soprattutto alla bravura di tutto l’equipaggio riuscimmo ad avvistare Kukes e il campo profughi.

Quel panorama non era certo dei più belli, davanti a me si stagliavano verso l’alto due montagne ed in mezzo quello che si può definire un corridoio; da quel pertugio arrivavano i profughi che si riversavano nel campo allestito dalla nostra Protezione Civile e dalla Croce Rossa. Cercammo un posto dove atterrare in sicurezza e appoggiammo le ruote. Un ricordo che sicuramente rimarrà scolpito nella mia mente fu la confusione di quelle persone allo sbaraglio, dei bambini che correvano in tutte le direzioni e del rumore dei bombardamenti che avvenivano oltre il confine albanese (non molto distante dal paese). I nostri compatrioti che erano li, oramai abituati, ci dissero con tranquillità che a quell’ora bombardavano sempre. Il lavoro che portammo a termine fu duro e frenetico: trasportavamo medicinali, cibo e quant’altro potesse essere d’aiuto a quelle persone, ritornavamo a Tirana con feriti e ammalati bisognosi di cure urgenti e tutto questo più volte al giorno ( fino a sette tacche come si dice da noi) per più di una settimana, ma sempre concentrati su quello che stavamo facendo perché eravamo consapevoli di essere un piccolo ingranaggio di una grossa macchina che chiamerei Solidarietà! Un momento molto significativo fu quando dimostrammo il nostro “essere Italiani”. Arrivammo sulla piazzola di Kukes insieme ad un Super Puma francese. L’equipaggio francese coordinato dalla Croce Rossa Internazionale, arrivò lì per prendere una ragazza dializzata in fin di vita. Siccome i nomi slavi spesso sono ambigui ad aspettarli c’era invece un uomo dializzato che non poteva camminare. Beh… da non credere… si rifiutarono di caricarlo perché giudicarono pericoloso contravvenire al protocollo. Il medico Italiano che reggeva il campo, il fantastico Dr. Pezzi, venne da noi e ci chiese di portarlo, noi che avevamo già finito le procedure per il carico di feriti e già ingaggiato. Ci guardammo in faccia e dicemmo “E mo’? Chi facciamo scendere?” Invitammo il Dr Pezzi a salire e fare una scaletta di feriti con le varie priorità dopodiché, fatti scendere 5 feriti, togliemmo i sedili e montammo alla meglio la barella.
A Tirana la cosa più bella furono le scuse informali dell’equipaggio francese, che ci ringraziò per aver risolto il problema e averli tolti dall’imbarazzo; ci spiegarono che così erano le loro regole e che non potevano contravvenirle, il ferito ed io invece ringraziammo “noi” per la nostra flessibilità. Fortunatamente ci sono stati momenti in cui una battuta goliardica o un sorriso ti scrollavano di dosso la stanchezza e ti aiutavano a dare il meglio. Poi… tanti aneddoti da raccontare, come quello di una vecchietta ultracentenaria che non aveva mai visto un elicottero ne tanto meno c’era salita sopra. L’abbiamo trasportata a Tirana sdraiata su una barella e una volta scesa abbiamo constatato che ci aveva lasciato un “ricordino”… poverina, sicuramente il mezzo più tecnologico da lei usato fino a quel momento sarà stato il mulo! Un altro aneddoto riguarda la bandiera italiana che è incorniciata nel corridoio dei ricordi al nostro gruppo. Proviene da Kukes e ha una sua storia che vale la pena di essere raccontata… Ogni volta che si arrivava a Kukes il problema più grosso era quello di sapere la direzione del vento per poter atterrare in sicurezza. Più volte avevamo chiesto con cortesia se potevano attaccare in qualche punto anche uno straccio per vedere questa benedetta direzione, ma ogni volta era sempre il solito problema. Al che stufo, tornato a Tirana aeroporto, vado nella tenda della Protezione Civile e chiedo qualcosa per lo scopo. Il personale disponibilissimo si fa in quattro e dopo un po’ mi porta una bandiera italiana! “Perfetto!”, dico, “Due piccioni con una fava… oltre a segnalare la direzione del vento indica la presenza italiana al campo!” La prendo e una volta arrivato a Kukes la lego ad un pennone improvvisato. Dopo circa 4 mesi ritorno in Albania per la missione che ci vedeva rischierati a Durazzo e ho l’occasione di atterrare di nuovo a Kukes. Con mia grande meraviglia vedo la nostra vecchia bandiera che ancora sventola e dà la direzione, anche se logora. Il pensare di salire e portarla a casa è un tutt’uno… taglio le corde e la tolgo dal pennone, orgoglioso di riportarla in Patria: adesso fa bella mostra di sé a Rimini. Dopo circa 10 giorni ritorniamo a Rimini, stanchi morti ma consapevoli di aver fatto e dato tanto… più di quello che ci aspettavamo. Non voglio dire che mi sentivo un eroe ma quasi! Questo non lo nego e non nego neppure che chi mi ha fatto ritornare alla realtà è stato un semaforo, sì… proprio il primo semaforo sulla statale tornando a casa! Fino a quel momento non ci aveva fermato niente e nessuno, abbiamo lavorato come muli portando e trasportando di tutto, parlato con l’Ingegner Barberi, con l’Onorevole Costa, con medici volontari e tutti mi parlavano e trattavano come un pari e cosa mi ferma in Patria… un poco democratico semaforo rosso che mi intimava di fermarmi??


M.llo Alberto Santoprete