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Non più Iraq sofferente
Come ogni sera il pensiero và alla famiglia, alla moglie ed ai bambini che non vedo da circa un mese e mezzo. Nei momenti di dubbio e di stanchezza, quando si ripropone la domanda: “Ma cosa lo faccio a fare?”; l’unica risposta sensata è sempre la stessa: “lo faccio per i bambini”. Il deserto stanca la mente più che il fisico, ed avere un “perché lo faccio” equivale ad avere la carta vincente per poter far bene il proprio lavoro. Dopo i saluti a casa e queste piccole riflessioni filosofiche, anche se ormai è tardi, vengo contattato dalla sala operativa. Il giorno dopo sono d’allarme, e questa non è una novità; la novità sta nel fatto che si deve decollare presto: c’è un C-130 inglese a Bassora sul quale dobbiamo caricare un bambino! Cosa vuol dire tutto questo? Ancora poco. È tardi e domani si parte presto, ma ora c’è parecchio da lavorare, che, fa rima, ma ora non vuol dire volare. Messo in allerta l’equipaggio, si dividono i compiti e si parte per la caccia al tesoro, scusate: alle informazioni; si coordinano orari e nel frattempo la notte diventa sempre più fonda. È mattino presto, il sole sorgerà fra breve, siamo in linea volo, l’elicottero è pronto e tutto l’equipaggio, compreso un medico della Croce Rossa Italiana, è qui per il briefing prevolo. Lui arriverà fra breve. Ora le idee sono chiare: dobbiamo caricare e trasportare a Bassora un bambino iracheno di
3 o 4 anni, accompagnato dal padre. Sappiamo che il giorno prima è caduto nel fuoco, ha parte delle braccia, del dorso e di una gamba gravemente ustionati, qualche dito lo ha perso carbonizzato; cosa importante: “minimizzare le sollecitazioni”. Purtroppo sappiamo che gli elicotteri vibrano, per fortuna il nostro vibra poco; il target di oggi è volare senza alcuna vibrazione. Dopo il briefing ci si coordina col personale sanitario che lo accompagnerà, riguardo al comportamento e le procedure a bordo dell’HH, e, finalmente, arriva lui. Viene caricato e sistemato a bordo, noi davanti siamo seduti e legati pronti per le procedure di messa in moto. Mi informano che c’è la necessità di sistemare il padre vicino alla barella, se si allontana lui piange. Grazie all’ottima iniziativa dell’equipaggio anche questo problema è risolto, uno sgabellino di fortuna e delle cinghie da verricellista permettono di continuare in sicurezza. Dopo di che viene la mia parte: si decolla! Tutto bene, il distacco dal suolo non si è neppure sentito; il volo è monoprua e senza alcuna virata; i tanto temuti uccelli, causa di tanti impatti, specialmente nelle ore mattutine e serali, sanno che oggi noi dobbiamo volare il più tranquilli possibile, sicuramente “qualcuno” lo ha detto loro; niente problema, oggi sono loro a spostarsi, da domani se ne riparla. Anche le brume del mattino, che ricoprono gli sterminati acquitrini che dobbiamo sorvolare,
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si aprono dinnanzi a noi con rispetto, sanno che lui deve arrivare! Le nebbie che pochi giorni prima avevano fatto chiudere nelle prime ore del mattino l’aeroporto di Bassora, oggi si sono ritirate. Anch’esse sanno che non si può non aiutare un bambino che finora dalla vita ha avuto poco ed al quale la vita stessa ha già tolto tanto. Finalmente Bassora! Stiamo rullando. Ah! Scusate, dimenticavo, prima siamo atterrati; ma anche quello non si è sentito. Però il rullaggio sì che si fa sentire. I grossi blocchi di cemento che formano le vie di rullaggio fanno sobbalzare l’elicottero, ma ormai ci siamo. Siamo fermi, motori spenti e rampa aperta. Ecco il C-130 inglese che lo porterà a Baghdad, dove verrà seguito da uno staff medico della Croce Rossa Italiana presente in loco con attrezzatura e competenze necessarie a curare un bambino gravemente ustionato. Ma com’è questo bambino? Vi chiederete come sia possibile che non l’abbia ancora visto. Non l’ho visto solo perché non ho avuto il coraggio di guardarlo. La sofferenza fa paura ed a volte spaventa anche; non ho mai più guardato uno dei malati che ho trasportato da quando, giovane secondo pilota, ho visto la faccia di un uomo che aveva

appena perso un braccio e che dovevamo portare in un ospedale. Però… quel bambino l’ho guardato… e com’era? A cosa mi ha fatto pensare? A queste domande non vi risponderò, vi dirò solo quello che ho visto: ho visto gli stessi occhi dei miei bambini.
Cap. Luigi Martignoni