FOTOgraphia 273 luglio 2021

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/ LUGLIO 2021 / NUMERO 273 / ANNO XXVIII / DIANE ARBUS CINQUANTENARIO (1971-2021)273 ALTRI CINQUANTENARI (1971-2021) ALLE ORIGINI, ANCHE CON MAMIYA C33 RICHARD MOSSE DISPLACED AL MAST

NONNELLAFOTOGRAFIAEOSSERVAZIONIRIFLESSIONICOMMENTISULLARIVISTACHETROVIINEDICOLA / Sottoscrivi l’abbonamento a FOTOgraphia per ricevere 10 numeri all’anno al tuo indirizzo, a 65,00 euro Online all’indirizzo web in calce o attraverso il QRcode fotographiaonline.com/abbonamento ABBONAMENTO ANNUALE 10 numeri a 65,00 euro info:Per abbonamento@fotographiaonline.com0436716602srlgraphia

/ 273 SOMMARIOPRIMA COMINCIAREDI BordoniAntonio

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Diane Arbus ha vissuto sulla propria persona le ansie e contraddizioni di una generazione. Maurizio Rebuzzini; a pagina 27 / Copertina Ritratto di Diane Arbus realizzato a Central Park, di New York, da Gary Winogrand, nel 1969. A pagina ventisei, l’inquadratura orizzon tale completa originaria. Nella stessa apertura del ricordo della celebre e celebrata autrice, nel cinquantenario dalla sua scomparsa, per mano propria (26 luglio 1971), altri suoi ritratti. Questo cinquantenario non è il solo su que sto numero di luglio: 1971-2021 Fotografia attorno a noi Dettaglio da un francobollo emesso il 27 aprile 2020 dalla Repubblica Centrafricana, in comme morazione del novantesimo anniversario dalla nascita dell’astronauta Charles Conrad (19301999), dell’equipaggio di Apollo 12, la seconda missione sulla Luna (14-24 novembre 1969). Il ritratto realizzato sul suolo lunare è equivoco: si tratta del secondo astronauta dell’equipaggio sceso sulla Luna, Alan L. Bean, con Hasselblad 500 EL Data Camera al collo. Charles Conrad è autore dello scatto, e compare solo in riflesso sulla visiera del casco. In precedenza, questa presenza Hasselblad in una fotografia lunare è stata sottolineata in un francobollo svede se emesso il 27 marzo 1988 [in alto, a sinistra] Editoriale Senza grazie, in rivoluzione villana Alle origini In parafrasi, cinquant’anni di solitudine 03? 27 46 12 08 40

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Un percorso stradale unico porta dal passato al presente, ma una miriade di vie possibili si dirama verso il futuro. mFranti; a pagina 8

Come si salutano i nibbi quando se ne van no? Non si salutano. Lello Piazza; a pagina 11

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Luglio 1971. Antonio Bordoni; a pagina 43

Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano

■ 2021 / 273 - Anno XXVIII - € 7,50 aassociataRivista TIPA www.tipa.com

■ LUGLIO

/ 36/ / 21/ / 10/ / 15/ / 42/ / 33/ SOMMARIO DIRETTORE RESPONSABILE Maurizio Rebuzzini ART DIRECTION Simone Nervi IMPAGINAZIONE Maria Marasciuolo REDAZIONE Filippo Rebuzzini CORRISPONDENTE Giulio Forti FOTOGRAFIE OttavioRouge Maledusi SEGRETERIA Maddalena Fasoli HANNO COLLABORATO Pino MarcoLelloGraziaAngelomFrantiFrancoAntonioBertelliBordoniCanzianiGalantiniNeriPiazzaSaielli www.FOTOgraphiaONLINE.com Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl - via Zuretti

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10 / Egidio Gavazzi Ha fondato la Società Italiana di Caccia Foto grafica (1973); ha creato Airone (1981) 12 / Ossessione? Come specifica il titolo, il film Fur. Un ritratto immaginario di Diane Arbus si propone come biografia interpretata. Rispetta la promessa: visione spettacolarizzata di un tormento esi stenziale profondo Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini 16 / Richard Mosse Tutt’attorno Alla fondazione Mast, di Bologna (Manifat tura Arti Spettacolo Teatro), la personale di Richard Mosse, intitolata Displaced, affron ta domande fondamentali sulla Fotografia. E, magari risponde anche di Lello Piazza 26 / Soprattutto, tormento Nel cinquantenario dalla scomparsa della au torevole Diane Arbus (per mano propria, il 26 luglio 1971), ritorno su una visione fotografica in dolore di Maurizio Rebuzzini 35 / Ventotto anni Monografia Toscana Photographic Workshop, per raccontare decenni di TPW 40 / Alla ricerca del Tempo Ancora un cinquantenario, tra gli altri, per ri evocare la Mamiya C33 originaria. Eccoci qui 44 / Sullo scaffale Otto pensieri profondi espressi da fotografi 48 / Dal tormento Riflessioni di Diane Arbus 50 / Parole Vogliamo parlarne? di mFranti 2a, 20125 Milano MI 02 66713604 è venduta in abbonamento. FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento po stale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), ar ticolo 1, comma 1 - DCB Milano.

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EDITORIALE Maurizio Rebuzzini 7

intenzionetivarechiamocheneavernenetreversodimentoileegiornodopogiorno,lamemoriaindividualeperdecolpifadimenticarequalcosa.Speriamoche,comunquesia,rapportoqualitativo,primachequantitativo,traappreneperditasiaafavoredelprimo,siabendispostol’acquisizionesistematicaecontinua.Inognicaso,olmoderateemodestevolontàattive,tuttoquestoavvieperlopiùpassivamente:impariamoescordiamosenzaintenzionealcunae-spesso-anchesenzarenderceimmediatamenteconto.Poi,inparallelo,capitaanchecimettiamodelnostro;ovvero,accadechedimentivolontariamente...perabbandono,senzapoteratuncontrariocompensativo:nonimpariamomaiperanaloga.Rapidamente:aconseguenzadivolontàmalapplicate,a

seguitodell’allontanamentoconsapevole,finiscecheintrop valutanopiaccantoninoinsegnamenti,nozioniecomportamentichesuperatidapresunteevoluzionisocialialtrimenti prattuttointerpretate.Inparticolare,enellospecifico,pensionanosoeducazionisecolari,immolatesull’effimeroaltare diunacontemporaneità(inutilmente)frenetica.Abbozziamodalnostromicrocosmoindividuale,vissuto trainnumerevoliintreccidellaFotografia,cheproiettiamo sulmacrocosmocomplessivodell’Esistenza,condottacon osenzalaFotografiacheciappassiona.Delresto,comeos dell’Esistenza.sovoltaservatointanteoccasioniprecedenti,equiribadiamounaancora,l’attivitàprincipaledell’UomoèquellaattraverlaqualeciascunoosservalaVitaecomprendegliintrecciPermillemotivi,nonnecessariamentetutti leciti,lanostraattivitàprincipaleèdimatricefotografica.

(meglio,Giornopergiorno,giornodopogiorno,conilsolo“vivere”senonpassivo),apprendiamonozioninuove,incre

mentiamoilnostrobagagliodiconoscenze(finoaquan madoriusciremoafarlo?).Purtroppo,contragittoequivalente,disegnoalgebricoopposto,compliciinevitabilieine luttabiliinsidieanagrafiche,nellostessogiornopergiorno

conoscenzesolomeratornassescolaritàZeroincondottaèstataunaanticaminacciaintempidi(ormai)arcaiche.CipiacerebbechequelloZerotranoi:magari,perpunirecoloroiquali,inanticadiscorrettezzaetradimenti,hannoripudiatoancheeducazione,galateo,garbo,eleganza,gratitudineerichesonoappartenutiallenostreradicieche diano,renderebberomenodifficoltosoepesanteilviverequotiperfinoanchesoloinFotografia.

farlopallevonosettembrenediatosecoliteriezioneImpassibilicompagniditragittohannodimenticatol’in“grazie”.Sonosecolichenonlasentopiù;sonochemolti/troppiinterlocutoriquotidianihannoripuprofessionalitàcheieril’altrononeranonegoziabili.Eallora?Allora,l’abbandonodelgalateomiharotto.Nonpossopiù.InparafrasidaAltan(copertinadiLinus,del1985),sonoarrivatoadinvidiarelefarfallecheviungiornosolo,«equandosonleseidiserahangiàlepiene».Noiviviamodipiù,ma-ultimamente-dobbiamoattorniatidamaleducatisenzaalcunaprofessionalità, chenomatantapresunzioneearroganza:fotografichesiinventa“critici”,miserabilichesiinventano“fotografi”,temerarisiinventano“editori”(scrivereefarscriverediFotografia chechenoni,èambizionetralepiùfrequentate;quantopoirispettarecaprincìpieformalitànecessarieaicontenuti...),ignoranticredonodi“sapere”.Siamoinpienarivoluzionevillana,nonriusciamoadaccettare.

8 Me la sono raccontata tante di quel le volte che, alla fin fine, ci sono stati momenti nei quali ho quasi finito per cedere che sia andata così. Ma non è vero, e lo so bene, perché -durante la giornata e giorno dopo giorno- ci so no istanti durante i quali non possia mo mentire, neppure a noi stessi, per esempio, sul water, la mattina. Però, nonostante tutto, continuo a raccontar la così, prima di correggere verso una sincerità senza abbellimento alcuno. La Storia è quella della Vita: se si na sce “poveri”, lo si rimane per sempre, nonostante altre apparenze quotidiane. Ancora, e poi basta: se si viene educati verso umiltà e modestia, l’imprimatur non svanisce nel nulla, e rimane linea guida per sempre. Linea guida e con dizionamento, restrizione e vincolo.

Però, in rievocazione di un cinquan tenario personale, per date di luglio Mil lenovecentosettantuno di avvio verso la Vita adulta, quella con incombenze concrete e responsabilità ineluttabili e certe, rimango fedele al passo che ho perseguito e mi sono raccontato de cennio dopo decennio. Così, ecco la fiaba del buon insegnante che indi rizza un proprio allievo e gli dischiude porte che invitano a...

Cinquant’anni fa, nel luglio 1971, in giorni durante i quali -a migliaia di chi lometri di distanza- la fotografa Dia ne Arbus conduceva se stessa verso la propria fine volontaria [avrei avvicina to e conosciuto la vicenda anni dopo; comunque, su questo stesso numero, soprattutto da pagina ventisei, ma non soltanto], completai il percorso scola stico con la maturità tecnica: indirizzo Ottica, sia strumentale, sia optometri ca, all’Istituto Tecnico Industriale Sta tale (Itis) Galileo Galilei, di Milano, che oggi se la tira meglio (?), autodefinen dosi Istituto Istruzione Superiore (Iis). In attesa di prestare l’allora doveroso servizio militare (dal quattro dicembre successivo, Terzo Contingente 1971, Ae ronautica), mi guardavo attorno. La fiaba inizia con il buon insegnante che regala una monografia fotografica, recupera ta dalla propria libreria. Colpo di auten tica fortuna, segno del Destino, Caso di quelli che indirizzano: Conversations with the Dead, di Danny Lyon, pubblicata da Henry Holt and Company, di New York. abbia sempre voluto che fosse vero, non è andata proprio così. In seconda edi zione dicembre 1971, immediatamen te successiva alla prima di novembre, la monografia arrivò nel corso del succes sivo Settantadue (ma io me la racconto retrodatando lo svolgimento). In verità, in stagioni precedenti, visitan do il Sicof, l’allora fiera tecnico-commer ciale italiana della fotografia, avevo già acquistato qualche libro, approfittando di promozioni di vendita effettuate da Il diaframma (Galleria e casa editrice di rette da Lanfranco Colombo). Lo ricordo bene, tutti in edizione 1969, a mille lire ciascuno: I cinesi, di Caio Garrubba, Black in White America, di Leonard Freed, e Gli esclusi, di Luciano D’Alessandro [oggi, ognuno di questi titoli è altrimenti quo tato nel mercato bibliografico].

Ma la fiaba è stata utile, forse addirit tura necessaria, per compensare e bilan ciare umiltà e modestia che mi hanno sempre fatto sentire “di troppo” e “ina deguato” alle manifestazioni sociali en tro le quali ho dovuto agire: sentendomi sempre un pària tra gli altri. Sempre tra la gente, mai con la gente. E ancora oggi. Confessione a parte, e relativa rico struzione dei fatti così come si sono effettivamente svolti, in autobiografia raddolcita, rimando comunque le ra dici di un Pensiero con e dalla Foto grafia, che si è edificato nei decenni, a quel Conversations with the Dead e a Caio Mario Garrubba e Luciano D’A lessandro, che in seguito, in frequen tazione e svolgimento di giornalismo fotografico, avrei anche conosciuto e frequentato, e Leonard Freed. Per quanto, nel corso del Tempo, idee e opinioni si siano perfezionate ed evo lute, addirittura modificate, ancora og gi -in assoluto- la penso come alle mie origini: non mi rivolgo a una fotografia fine a se stessa e arido punto di arrivo, ma perseguo una fotografia che avvii il Pensiero: s-punto privilegiato di osser vazione e riflessione. Non intendo confi narmi entro frontiere protettive in chiu sura, ma perseguo una libertà di Pen siero che sia soprattutto accoglienza e comprensione. Così che oggi, come ieri l’altro, sono convinto che, rispondendo a una natura formata in parti uguali di cultura (?) e istinto, il vero luogo natio è quello dove per la prima volta si è posa to lo sguardo consapevole su se stessi: la mia prima (e unica) patria sono stati i libri. Ancora, la parola scritta mi ha inse gnato ad ascoltare le voci. La Vita mi ha chiarito i libri: osservare, piuttosto che giudicare, fino al linguaggio fotografi co, fantastica combinazione di regole logiche e usi Indipendentementearbitrari. da tanti altri rami e fiori della Vita, senza alcuna soluzione di continuità tra privato e pubblico (non siamo quello che facciamo, ma faccia mo ciò che siamo), ogni momento della Vita è stato un crocevia. È il senso della Storia, anche individuale: un percorso stradale unico porta dal passato al pre sente, ma una miriade di vie possibili si dirama ancora verso il futuro. Alcu ne di queste strade sono ampie, lisce, ben segnate, e -perciò- sono quelle che più probabilmente verranno prese; ma, qualche volta, la Vita compie svolte ina spettate. In propria missione, la Foto grafia è una forma di comunicazione visiva che, in modo proprio, rivela e sot tolinea questo che ho appena definito “percorso stradale”, offrendo fantastici s-punti di riflessione. In alcuni casi, riesce a farlo meglio di altre forme di comu nicazione; in altri, agisce insieme con altre forme di comunicazione. La Vita in Fotografia e con la Foto grafia, per come l’intendo: esortazione a pensare, invece di credere Alle origini di tutto.

■ ■ / CINQUANT’ANNI FA / di Maurizio Rebuzzini (Franti) ALLE ORIGINI

CanzianiFranco

10 la mia visione del mondo. È volato via lo scorso diciannove giugno; volato co me piaceva lui, che era convinto di es sere un nibbio reale (Milvus milvus). Dal prologo del suo ultimo bellissimo libro, Desiderio di volo (Sironi Editore, 2005): «Sono nato sotto il segno del Leone, nei giorni in cui i nibbi guadagnano con as sidue spirali la base grigia dei cumuli per fare vela a uno a uno, lentamente, verso l’ospitale inverno africano. Le loro odori della prima casa, e ogni volta che mi raggiungono risvegliano dentro di me remotissime emozioni. Ho cercato e ritrovato nel nibbio il conforto di una continuità emotiva, la rassicurante per sistenza di un desiderio di volo. Coloro che da bambini provano desiderio di volare scelgono un uccello nel quale immaginarsi. Io scelsi il nibbio». Nel novembre 1973, all’interno della Sezione culturale del Sicof [l’allora rasse per promuovere la caccia col teleobiet tivo, invece che con il fucile: la Società Italiana di Caccia Fotografica. Quella fu la prima idea rivoluzionaria di Egidio, ri voluzionaria almeno per il nostro pae se. Da quel momento istitutivo, i soci si riunivano una sera alla settimana nella grande sala al primo piano del Museo di Storia Naturale di corso Venezia 55, a Mi lano. Incontrai per la prima volta Egidio a una di quelle serate, nell’inverno del / IN RICORDO / di Lello Piazza EGIDIO GAVAZZI

(2)PiazzaLelloArchivio

■ Dal settembre 1980 al maggio 1981: dal numero 0 al numero 1 di Airone, inven zione di Egidio Gavazzi. A seguire, dall’ottobre 1992, l’eccellente mensile Alisei.

1973, invitato da uno dei soci a proiet tare le fotografie che avevo scattato in un viaggio in Indonesia. Egidio mi dis se: «Belle, ma usa il Kodachrome, non l’Ektachrome» [forse serve annotarlo: due famiglie di diapositive Kodak di matrice estremamente diversa: il Kodachrome, complesso nella propria struttura, pri ma che nell’articolato processo di svi luppo, ai tempi realizzato soltanto da laboratori Kodak nel mondo]. Oltre a Egidio, in quella occasione, co nobbi Oliviero Dolci, altro amico al qua le devo lo spirito della mia vita. Diventai socio. Fu grazie a Oliviero, editore di li bri per bambini, proprietario dell’Editrice Piccoli, che si concretizzò l’idea di Egidio di pubblicare il suo primo periodico: nel 1974, nacque Il Teleobiettivo, trimestrale di fotografia naturalistica dedicato alle esperienze dei soci e alle loro immagi ni. Per qualche anno, fui direttore di Il Teleobiettivo, ma fu un impegno di co ordinatore, più che di direttore. Le idee venivano dai soci, da Egidio, da Oliviero, da Paolo Fioratti, che una decina di anni dopo avrebbe fondato il mensile Oasis, e da molti altri. Tra i quali mi limito a citare Piermario Nazari, anche lui figlio di un pilota, come Egidio, e l’architetto Luigi Figini, che con Gino Pollini aveva realiz zato uno dei sodalizi più importanti dell’architet tura italiana del Vente simo secolo. Cito Luigi, perché era innamorato di un merlo che andava ogni giorno sul suo ter razzo a mangiare larve di tenebrione, che Luigi nascondeva nei posti più strani. Il merlo era tal mente scaltro da trovar le sempre, meritandosi -per la sua diescel’appellativointelligenza-diDante.Nel1981,amaggio,ilprimonumero Airone, uno dei più importanti capolavori di Egidio Gavazzi. Il men sile Airone racchiuse in sé due idee rivoluziona rie. La prima fu quella di pubblicare in Italia una rivista fino ad allora ine sistente che, dal sottotitolo Vivere la na tura, conoscere il mondo, si presentava come una novità editoriale assoluta, no vità sulla quale pochi erano disposti a scommettere un centesimo. Invece, fu un trionfo e, dalle cinquantamila copie del primo numero, si arrivò alle duecen tomila di quando, nel gennaio 1986, Egi dio lasciò la direzione e la Giorgio Mon dadori, la casa editrice della rivista. La seconda idea rivoluzionaria fu il cam bio di paradigma, cambio al quale, secon do me, era inaspettatamente collegato il successo della rivista. Fino ad allora, il WWF (World Wildlife Found), ente più importante e praticamente unico per la protezione della natura in Italia (e nel mondo), ne propagandava la protezio ne facendo vedere soltanto immagini di disastri naturali. Il cambio del para digma fu di non far più vedere i disastri, ma di mettere in primo piano la bellezza della Natura e il piacere di viverla. Cer tamente, la chiave del successo fu an che nella qualità formale della stampa, a valle di contenuti profondi. E nella qua lità della fotografia: solo rigorosamente Kodachrome. Quasi tutti, credo, i fotografi naturalisti italiani che oggi raccolgono premi nel mondo sono nati e cresciuti sulle pagine e sulle fotografie di Airone Dal primo numero, cominciai a tene re una rubrica di fotografia naturalisti ca su Airone. Quella rubrica diventò, an ni dopo, un lavoro, il photo editor, che si affiancava a quello di matematico al Politecnico. Andò avanti così per più di vent’anni. Sono stato come un ipoteti co essere professionalmente anfibio, ho avuto una vita con due indirizzi: diciamo, sott’acqua la matematica; in superficie, la fotografia (e non viceversa). Una fortuna! Via da Airone, Egidio fondò prima Aqua, dedicata al mare, poi Silva, dedicata alla natura in generale. Le riviste, splendide, pubblicate dalle sue nuove Edizioni del Cormorano, non ebbero lo stesso succes so di Airone. I motivi furono molteplici. Forse, il principale fu che le nuove testa te dovettero combattere proprio contro Airone, dominus del mercato. Poi, Egidio si candidò per le elezioni politiche del 1987, nelle fila del Partito Repubblica no Italiano (PRI) [per chi si ricorda o ha nozione della politica italiana scandita da partiti dalla personalità e dai confini chiari e dichiarati e perseguiti]. In questa iniziativa, non ebbe fortuna: purtroppo, appena prima del disastro di Chernobyl, il 26 aprile 1986, il PRI appoggiò una po litica energetica basata sull’atomo. Una scelta che non poteva essere premiata nelle elezioni dell’anno dopo. Sulla sua candidatura esistono / sono esistite fotografie di Frans Lanting, uno dei più grandi fotografi naturalisti del Ventesimo secolo, che -venuto a Milano per un suo servizio che avremmo pub blicato su Airone- mi portò degli scatti di manifesti elettorali su un tram con il ritratto di Egidio. Molto irriverenti... ci fa cemmo quattro risate. Ma Frans le foto se le è portate in California, e credo che non esistano più. Nel 1987, Egidio stava per uscire con una nuova testata, Terra, che voleva proporre un punto di vista geologico sul pianeta. Egidio era lau reato in Scienze Geologiche, la scienza per eccellenza secondo Charles Darwin. Debacle: Aqua fu ceduta alla casa edi trice Portoria; Silva fu chiusa subito. Egidio Gavazzi si trasferì a Londra, rimanendo distante dall’editoria fino alla sua ultima creazione editoriale, Alisei, un mensile progettato per il Touring Club Italiano, il cui primo numero esce nelle edicole all’i nizio di ottobre 1992. Una rivista magni fica. Ho appena sfogliato per l’ennesima volta il primo numero, con sulla copertina un biplano Stearman ros so degli Anni Trenta in virata. Erano gli albori del declino della carta stampata. Come diret tore, guida solo i primi sei numeri, così ricordo. Ma ricordo molto bene che una delle cause del suo allontanamento fu una specie di guerra sot terranea che gli scatenò cautamente contro un personaggio strano, lo chiamerò Innominato, in omaggio al Manzoni. E pensare che Oliviero ed io gli avevamo calda mente consigliato di non prenderlo in squadra. Ho scritto questa cro naca serenamente, lon tano dalle emozioni e dalle passioni. La vicenda dell’Innomi nato è l’unica deviazione dalla serenità che mi concedo. Non ricorderò, invece, lo sturm und drang, le discussioni, i litigi e le riconciliazioni, i pranzi al ristorante L’Angolo, di Milano 2, le gioie condivise dalla natura, tutti quei garbugli che han no resa preziosa la nostra vita. E chiudo. Come si salutano i nibbi quando se ne vanno? Non si salutano, si sta lì a guardarli fino a quando non spariscono nel cielo, tenendo a freno la nostalgia e le lacrime.

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Nelle rispettive interpretazioni degli attori Nicole Kidman e Ty Burrell, in sala di posa, Diane Arbus assiste il marito Allan, che avviò la loro professione comune (più di quanto il cinematografico Fur. Un ritratto immaginario di Diane Arbus lasci intendere): fotografia commerciale e pubblicitaria con efficace banco ottico Sinar 13x18cm, che nel film è visualizzato anche dalla parte del vetro smerigliato. (pagina accanto) Da momenti complementari della presenza di Diane Arbus ac canto al marito fotografo Allan (risistemazione degli obiettivi, nella cui inquadra tura si riconoscono corpi macchina Leica e Hasselblad, e supporto in un’occasione mondana) alla evoluzione individuale verso una fotografia propria... d’autrice. Nella scenografia cinematografica, è sottolineato l’uso di una biottica Rolleiflex con flash a bulbo (estetica ed estetizzante); nella realtà, Diane Arbus fotografava con biotti ca Mamiya C33 a obiettivi intercambiabili [in copertina di questo stesso numero].

IL FILM Firmato dal regista Steven Shainberg, che -anni prima- fu acclamato per la di rezione dell’affascinante Secretary, nonostante il richiamo esplicito, Fur. Un ritratto immaginario di Diane Arbus è un film niente affatto fotogra fico. Infatti, per quanto Patricia Bosworth, bio grafa accreditata, sia tra i co-produttori della pel licola, la sceneggiatura di Erin Cressida Wilson non ha alcun debito di riconoscenza con la sua Biografia ufficiale, che Rizzoli ripubblicò, in coda allo stesso film, con un nuovo titolo più appetibile per un pub blico di taglio consapevolmente pette golo: Diane Arbus. Vita e morte di un ge nio della fotografia (con fascetta esterna aggiuntiva “Da questo libro il film Fur con Nicole Kidman”, ingannevole nel proprioSemmai,richiamo).rileviamolo, Fur. Un ritratto immaginario di Diane Arbus si limita, non soltanto attarda, sull’ossessione della fotografa per i definiti “freaks”, soggetto esplicito, probabilmente unico (in accezione ide ologica allargata), della sua concentrata para bola visiva. Se proprio vogliamo, il film descrive la forma zione dell’espressione artistica (fotografica) di Diane Arbus, indipen dente dall’avvio di una professione originaria nell’ambito della moda e pubblicità a fianco del marito Allan [per la cro naca, Allan Arbus lasciò la fotografia commer ciale, per intraprendere una carriera di attore: lo troviamo soprattutto in serie televisive, con marginali appa rizioni sul grande schermo]. Nata Nemerov, nel 1923, in una ricca famiglia ebrea di New York, proprieta ria della catena di pelliccerie Russek’s, fondata dal nonno materno emigrato dalla Polonia nel 1880, Diane Arbus ha vissuto sulla propria persona le ansie e contraddizioni di una generazione (e su questo tema, è doveroso rimandare anche ai Diari di Susan Sontag, ordinati dopo la sua scomparsa, nei quali torna ossessivamente la condizione di intel lettuale ebrea newyorkese; altri tempi, altra gente, altro clima, altre capacità di riflessione esistenziale). In particolare, più esplicitamente di come raccontato nella Biografia, il film sottolinea la ribellione interna a una con dizione perbenista familiare e ai relativi obblighi di casta. Dopo di che, dovere di botte ghino a parte, siamo stu piti dalla scelta di Nicole Kidman, nella-parte-di: ci saremmo aspettati una Diane Arbus meno fascinosa, meno legge ra e più compresa nella propria angosciosa esa sperazione. FREAKS Ripetiamolo, Fur. Un ri tratto immaginario di Diane Arbus è meno fo tografico di quanto lo Ricerca di

Presentato e lanciato con grande clamore, nell’autunno Duemila sei, tanto da inaugurare il Primo Festival del Ci nema di Roma, venerdì tredici ottobre, una set timana prima di arrivare ufficialmente nelle sale, dal venti ottobre, Fur ha richiamato l’attenzione dei media prima di al tro, e soprattutto, per la protagonista Nicole Kid man, attrice da prima pagina nella cronaca ro sa internazionale. Invece, su altra lunghezza d’on da, il mondo fotografi co è stato attirato dalla trama annunciata, peraltro sottolinea ta nel titolo completo, che specifica Un ritratto immaginario di Diane Arbus : a tutti gli effetti, una delle figure determi nanti della fotografia contemporanea. Morta per propria mano, il 26 luglio 1971, Diane Arbus è certamente una au trice con la quale ogni possibile Storia della Fotografia deve fare i propri conti, condividendone la visione ossessiva, op pure prendendone le distanze, ma mai ignorandola. Nel cinquantenario dalla prematura scomparsa, riprendiamo il film dedicatole (?), ma anche approfon diamo il personaggio: su questo stesso numero, da pagina ventisei.

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/ CINEMA / di Maurizio Rebuzzini /

iconografica

Filippo Rebuzzini OSSESSIONE?

13 petere un elenco che abbiamo compi lato più volte. Però, se vanno cercati rife rimenti letterari, bisogna andare alla bi bliografia dei titoli sui “freaks”, i fenomeni fisici le cui anomalie sono state messe a frutto nei circhi e spettacoli itineran ti di fine Ottocento e inizio Novecento. Ricordiamo che “freaks” è un termine che ha diversi significati, tra i quali il rife rimento che, dai secondi anni Sessanta del Novecento, la cultura statunitense underground ha coniato per coloro i quali non si adeguano alle regole della nendosi al concetto di “normodotato” esteso allo svolgimento delle singole esistenze. Nel proprio intendimento ori ginario, l’identificazione “freaks” indica persone con particolari mostruosità e deformità fisiche, tali da collocarle in contesti estranei alla vita sociale quoti diana (per l’appunto a misura e dipen denza di “normodotati” e “neurotipici”).

Etimologicamente, ci si riferisce al film Freaks, del 1932, un horror del re gista Tod Browning che accese le luci della ribalta su una serie di personag gi da “corte dei miracoli” (che si ripete nell’attuale Fur ): film che Diane Arbus do, va sottolineato il fenomeno di col lezione di fotografie di “freaks”, che nel corso dei decenni ha affascinato molti (si parla anche del leggendario illusio nista Houdini). L’eccezionalità di queste raccolte si è sempre basata sulla fortu nata stagione dei relativi personaggi (e usiamo i termini senza scarto di signifi cato, seppure con doveroso rispetto). A margine, rileviamo che in una nota fo tografia di Eugène Atget, in una vetri na di un antiquario parigino, è esposta proprio una fotografia di “freaks”.

Soprattutto negli Sta ti Uniti, a cavallo del se colo (scorso), l’esplosio ne di interesse per il “te atro” fece proliferare an che numerosi circhi e spettacoli viaggianti di taglio eterogeneo. In ta le clima, molte di queste esibizioni rappresenta rono una sostanziosa fonte di guadagno per artisti di vario genere: prima di tutti, gli acro bati e gli illusionisti, e -in subordine, ma mica poi tanto- le persone affette da difetti fisici congeniti, che diven nero attrazioni popo lari. Da metà Ottocento, 14 perfino il celebre Circo Barnum & Bailey, uno dei capisaldi nel proprio genere, ebbe un ruolo di primo piano nel fa vorire questa sarebberocheperPersiamesi,credibiliti,tredoingaggiandotendenza,efacenesibirepersonecongambe,ermafrodieccessidipesooinmagri,gemellinaniegiganti.tuttieraguadagno:ilcirco,comeanperi“freaks”(cosìstatiidenti ficati decenni dopo). Comunque, registria molo, l’interesse verso queste esibizioni dal vi vo aumentò addirittura Tre edizioni della biografia di Diane Arbus compilata da Patricia Bosworth: l’originale statunitense Diane Arbus. A Biography, del 1984; la prima traduzione italiana Diane Arbus. Una biografia, pubblicata da Serra e Riva editori, nel 1987; la riedizione Rizzoli Diane Arbus. Vita e morte di un genio della fotografia, del 2006, a ridosso della di stribuzione cinematografica del film Fur. Un ritratto immaginario di Diane Arbus (3)

Archivio FOTOgraphia

fotografie qui presentate appaiono nella la vicenda; in un campo nudisti, Diane Arbus, con Rolleiflex biottica tra le mani, incontra una ragazza: «Vuoi farmi una fotografia?», «No, non ancora»).

■ ■ UsaIllinois,Chicago,Chicago,ofInstituteArtthe/AtgetEugène

15

Ora, annotiamo momenti autenti camente fotografici della scenografia, in assenza di riferimenti altrettanto si gnificativi in sceneggiatura. Così, in rapidità, rileviamo la costante presenza di una Sinar Norma 13x18cm in sala di posa, sia a riposo sia all’opera (in Finito.

RICHARD MOSSE , Walikale

TUTT’ATTORNO

16 Che ruolo ha la fotografia documentaria, e come lo svolge? Cosa può fare e a cosa dovrebbe aspirare? Quali reazioni suscita? Quali possibilità apre? E, nel migliore dei casi, cosa pre viene o distrugge? Cosa distingue l’esperienza sul campo, in zona di guerra, dallo sfruttamento giornalistico e dal rimaneggiamento del materiale fotografico? La Fotografia di Richard Mosse, in personale alla Fondazione Mast, di Bologna, con l’al lestimento Displaced, risponde ad alcune di queste domande

2012Congo;delDemocraticaRepubblicaKivu,North;

Hombo

17 di Lello Piazza A mio disdoro, vi racconto una storia vera. In mostra alla Fondazione Mast, di Bologna (Manifattura Arti Spettacolo Teatro), Displaced - Migrazione, conflitto, cambiamento climatico è la prima mostra antologica dedicata ai lavori del fotografo concettuale irlandese Richard Mosse (1980): fino al prossimo diciannove settembre, settantasette foto grafie di grandi dimensioni. Alcune delle fotografie allestite in mostra provengono dalla serie Tristes Tropiques (2020), sull’Amazzonia brasilia na; altre da Infra (2012), dedicata alla Repubblica del Con go; altre ancora da Heat Maps (2016), sulle principali vie migratorie degli Umani verso l’Europa, dal Golfo Persico a Berlino, dal nord del Niger al terrificante campo per rifu giati di Calais (Francia), lavoro realizzato con una termoca mera. Oltre a queste fotografie, la mostra propone anche due monumentali video-installazioni, The Enclave (2013), gemello di Infra, e Incoming (2017), gemello di Heat Maps Va bene: squilli di trombe, esecuzioni ditirambiche, pro cessioni di folle esultanti. Questa è la sensazione che ho per cepito leggendo l’incipit della presentazione di Displaced Ma, ohibò, oh me ignorante come don Abbondio (ricordate il Carneade di manzoniana memoria?): Richard Mosse, chi è costui? Motivato dall’incipit, do un occhio alle immagini che accompagnano il comunicato stampa. Per se stesse, le fotografie non sembrano un granché. Ma l’impressione dura poco. Carlo Roberti, inventore e direttore del Toscana Photographic Workshop / TPW, mi telefona per dirmi che ha visitato la mostra e che è tanto bella quanto Anthropo cene, di Edward Burtynsky, della quale ci siamo occupa ti a tempi debiti, nell’estate Duemiladiciannove. Va bene. Ma io non sono ancora convinto. Non essendo stato a Bo logna (non ancora), voglio avvicinare altre immagini. Mi ri mane il catalogo... E qui (stupore e meraviglia!), la ricchezza di fotografie presenti nel volume illustra in modo efficace il grande lavoro di Richard Mosse. Però, prima di parlare dell’autore, dovrete aspettare i miei complimenti ai bravissimi stampatori del volume. Devo ricor dare che gli stampatori sono gli invisibili gnomi che rendono superlativo il lavoro di un fotografo (per quanto ci riguarda e interessa, quantomeno qui, ma non soltanto qui). Nessuno parla mai di loro. Nonostante mi sconsiglino di farlo, addu cendo difficoltà, contatto direttamente la litografia Labanti e Nanni Industrie Grafiche, di Bologna (www.labantienanni.it).

2017Libano,Valley;Bekaacamp,SarhounTel

Per esempio, Richard Mosse non avrebbe mai potuto re alizzare fotografie così tanto eccezionali senza l’uso con sapevole e controllato e informato di una termocamera, o -come diremo più avanti, riferendoci a un altro lavoro in mo stra a Bologna- della pellicola Kodak Aerochrome (ufficial mente, Kodak Aerochrome III Infrared Film 1443: emulsione invertibile, originariamente a indirizzo tecnico-scientifico). Cominciamo dalla termocamera: cos’è? Lo spiega lo stesso Richard Mosse in una intervista all’autorevole mensile newyor kese pdn (Photo District News), del 2017. «Sembra un bidone della spazzatura dannatamente grande, e pesa più di venti chilogrammi. È dotata di un sensore al tellururo di cadmio [composto chimico cristallino e stabile formato da cadmio e tellurio, con una struttura cristallina di blenda] e di un obiettivo in germanio [Ge: elemento chimico di numero atomico 31; ha l’aspetto di un metallo lucido, con la stessa struttura cristallina del diamante]. L’apparato è mantenuto a meno Cinquanta kelvin, quindi dispone di un congelatore al proprio interno». Da rilevare che Richard Mosse non ha nominato il produtto re, ma ha affermato che si tratta di «un’azienda che produce missili e droni, tutti potenti strumenti di morte». Richard Mosse ha appreso di questa tecnologia, nel 2014, da Sophie Darlington, uno dei top film-maker della Bbc Na tural History. «Viaggiare con questa thermo camera non è come andare a un picnic. È soggetta alle normative inter nazionali sulle armi, il che significa che il suo trasporto ha

18 «Affascinati dalle fotografie, abbiamo realizzato qualcosa di più», mi rivela Gianmarco Gamberini, portavoce di una squa dra di oltre cento persone che costituiscono il gruppo di la voro dell’azienda grafica che ha realizzato il volume Richard Mosse. Displaced : un capolavoro! Già è eccellente la qualità della stampa su carta bianca con l’usuale processo di quadricromia, nel quale, però, al magen ta standard, è stato sostituito un magenta fluorescente. Ma è la stampa su carta nera opaca, in bicromia, con due argenti speciali UV Led bicomponenti, a stupirmi: è una delle cose più belle che, in fatto di stampa, ho visto negli ultimi vent’anni. La stampa in argento su carta nera ben racconta il lavo ro realizzato da Richard Mosse con la termocamera. Ed ec coci, oltre a quello degli stampatori, a un altro tema spes so trascurato quando si presenta un autore. Si tralascia di precisare gli strumenti che ha utilizzato per la realizzazione delle proprie opere. Se questa è vicenda trascurabile nella pittura, non lo è nella musica e nella fotografia.

L’invertibile Aerochrome è stata finalizzata da Richard Mosse per realizzare il progetto Infra (esposto al Mast). Si tratta di una pellicola diapositiva di sensibilità nominale di 400 Iso, da sviluppare in un bagno invertibile E6 o negativo C41. Attualmente prodotta su richiesta (ma non è mai stata una emulsione conteggiata nella produzione standard da catalogo), come rivela l’identificazione, l’Aerochrome nasce per la fotografia aerea, soprattutto per applicazioni militari.

Per esempio, è stata ampiamente utilizzata dagli Stati Uni ti durante la guerra del Vietnam, per individuare installazioni mimetizzate dal nemico, nella fitta giungla del sud-est asia tico. Ma è stata finalizzata anche per scopi “pacifici”, come nelle indagini sulla salute delle foreste. L’Aerochrome è sen sibile all’intero spettro visibile, ma percepisce anche l’invisibile all’occhio umano, ciò che è illuminato dalle radiazioni infra rosse e ultraviolette. Sulle difficoltà incontrate nel fotografare inquadrando qualcosa di invisibile, Richard Mosse ha avuto modo di annotare: «Poiché questa luce è invisibile, fotogra favo letteralmente alla cieca... non solo la mia capacità di fo tografare era in pericolo, ma rischiava di fallire addirittura la mia percezione riguardo cosa fotografare». (continua a pagina 22)

19 coinvolto interventi di ambasciate e avvocati». L’autore foto grafo ricorda un momento di lavoro svolto con Trevor Twe eten, il direttore della fotografia con cui ha realizzato il film Incoming (un lungometraggio della durata di cinquanta due minuti in proiezione al Mast); stavano girando nel sud della Turchia, vicino alla città di Tilis: «Attraverso la termoca mera, potevamo vedere una battaglia all’interno del confine siriano, a oltre trenta chilometri di distanza, che coinvolgeva combattenti dell’Isis, militari dell’esercito arabo-siriano e mi cidiali aerei americani A-10 / OA-10 Thunderbold II, general mente identificati come Warthog [facocero]. Siamo rimasti sorpresi di poter vedere da così lontano tutti questi dettagli, e abbiamo finalmente capito che quello era davvero lo scopo per cui la l’apparato è stato progettato». Per una spiegazio ne dettagliata di come Richard Mosse ha realizzato questo lavoro, rimandiamo alla bellissima presentazione del cura tore Urs Stahel, nel volume-catalogo Displaced, già citato. Spendiamo invece qualche riga per ricordare cosa è la Kodak Aerochrome, in una stagione -come è l’attuale- nel la quale le pellicole sono oggetti quasi dimenticati, come i cavallini a dondolo, giocattolo che un tempo rappresenta va il massimo dei desideri per un bambino.

2012Congo;delDemocraticaRepubblicaKivu,North;

20 Platon

21 V(1966)OutCome Kivu,North; 2011Congo;delDemocraticaRepubblica Dreams)Beam(TripleXXXI(1966)OutCome Kivu,North; 2012Congo;delDemocraticaRepubblica ViolenceVintage Kivu,North 2011Congo;delDemocraticaRepubblica

22

(continua da pagina 19)

2016ottobreGrecia,Atene;camp,Skaramagas2017giugnoGrecia,Island;Chioscamp,Souda

Ecco come Urs Stahel presenta il progetto Infra. Oltre l’e stratto, si legga la sua intera notevole introduzione storica. «Il Congo avrebbe le potenzialità per essere una delle aree più ricche, influenti e potenti dell’intero continente africano; e, invece, è l’esatto opposto. Nel Sedicesimo e nel Diciasset tesimo secolo, e a ritmi sempre più frenetici, dopo il crollo del Regno del Congo, avvenuto alla fine del Seicento, i mer canti di schiavi esportavano uomini in Occidente, soprattut to in Brasile; mentre i trafficanti islamici, operanti principal mente da Zanzibar, rifornivano i paesi arabi in Oriente. Dopo la dominazione portoghese, subentrarono governanti colo niali olandesi e britannici. Poi fu il re del Belgio Leopoldo II a esercitare il dominio personale su alcune regioni del Congo, per ventitré anni, sfruttandone in modi illeciti gli abitanti durante il primo grande boom della gomma. «Si giunse a eccessi così crudeli, che -alla fine- Leopoldo fu costretto a cedere la colonia allo Stato del Belgio. Nel 1960, l’allora Repubblica del Congo conquistò l’indipendenza, ma il paese non giunse mai a conoscere la pace. Attraverso tre conflitti bellici, i leader Joseph Kasa-Vubu, Patrice Lumumba, Joseph-Désiré Mobutu, Kabila padre e figlio hanno guidato il Congo (per un certo periodo ribattezzato Zaire) in un incerto presente. L’enorme paese, grande sette volte la Germania, è ricco di risorse minerarie, oro, diamanti, rame, coltan, man ganese, piombo, zinco, stagno: un potenziale che non è mai stato sfruttato appieno, perché le milizie ribelli stabilitesi nei territori della Repubblica Democratica del Congo dopo il ge nocidio in Ruanda, del 1994, non hanno mai smesso di alimen tare nuove ondate di violenza, che hanno causato più di cin que milioni di morti, in gran parte dovute a malattia e fame. «Le cronache descrivono un disastro umanitario di pro porzioni inimmaginabili, che si protrae da oltre cinquecento anni e che ha intriso di sangue in profondità la terra rossa di questo paese. Come se quest’angolo del pianeta fosse cari co di negatività, un luogo di orrore incapace di rinunciare al proprio karma. Tra il 2010 e il 2011, Richard Mosse si stabilisce nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo, nella regione del Kivu Nord (North Kivu), dove viene estrat to, perlopiù a mani nude e con l’ausilio di piccoli strumenti, il coltan, un minerale altamente tossico dal quale si ricava il

Per il suo uso, Kodak consigliava di utilizzare un filtro gial lo Wratten n. 12 [per chi sa cosa stiamo evocando]. Ma non si sa quali filtri abbia effettivamente impiegato Richard Mosse.

23 tantalio, materiale che trova largo impiego nell’industria elet tronica globale ed è presente in tutti i nostri smartphone. A questo tema sono dedicati il progetto Infra e la complessa video-installazione a sei canali The Enclave. Lo strumento prescelto per quest’impresa ambiziosa e irta di pericoli è una pellicola molto particolare: la Kodak Aerochrome». Più avanti, Urs Stahel aggiunge: «Richard Mosse fotogra fa paesaggi, scene con i ribelli, raduni all’aperto; ha ritratto civili e soldati, ma anche le abitazioni mobili di una popo lazione costretta a spostarsi senza sosta, perennemente in fuga, in una zona di guerra nella quale le milizie ribelli sbucano fuori dal nulla per poi scomparire di nuovo nella giungla, in un conflitto senza fine combattuto senza armi pesanti, ma principalmente con machete e fucili. «L’artista crea una sorta di mappa visiva di un paesaggio bellico popolato da molti attori, vittime e carnefici, nel folto di una giungla lussureggiante. L’impiego della pellicola Kodak Aerochrome, attraverso l’alterazione cromatica fotochimica che trasforma il paesaggio da verde intenso a rosso rosato, filtra la realtà, la proietta in una dimensione teatrale, surre ale. Questo procedimento straniante la trasforma ai nostri occhi, facendola apparire artefatta, visionaria: un racconto per immagini di grande respiro, complesso, frammentario, che fino a oggi appare senza uno scopo e una conclusione, e senza alcun tipo di catarsi. Una dura lezione del tutto priva di una spiegazione chiarificatrice. Un immaginario splendido e terribile, che si colloca a metà strada tra fotografia e arte, tra documento e simbolo, colorato nei toni rosa acceso della vegetazione, saturo della miseria di una guerra senza fine». Chiudo e concludo, riportando ancora un altro pensiero di Urs Stahel, tratto ancora dal volume-catalogo di accom pagnamento alla mostra. «Alla fine degli anni Sessanta [del Novecento], la fotografia documentaria in tutte le proprie forme -la street photography, la fotografia di eventi, il fotogiornalismo in generale, ma, so prattutto, la fotografia di guerra e di crisi- viene messa in di scussione, se non addirittura criticata, come se la televisio ne, e in particolare le telecamere live, una novità dell’epoca, l’avessero dispensata dal dovere di cronaca. Che ruolo ha la fotografia documentaria, e come lo svolge? Cosa può fare e a cosa dovrebbe aspirare? Quali reazioni suscita? Quali pos sibilità apre? E, nel migliore dei casi, cosa previene o distrug ge? Cosa distingue l’esperienza sul campo, in zona di guer ra, dallo sfruttamento giornalistico e dal rimaneggiamento

2017gennaioGrecia,Lesbo;I,SnowinMoria

Fino al 19 settembre; martedì-domenica, 10,00-19,00 (su prenotazione).

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Richard Mosse. Displaced - Migrazione, conflitto, cambiamento clima tico; Fondazione Mast, via Speranza 42, 40133 Bologna; www.mast.org.

La Fotografia di Richard Mosse risponde ad alcune di que ste domande. Ma non perdetevi il resto della presentazione di Urs Stahel. C’è molto da pensare se avete a cuore la Fotografia. A cuore la Fotografia.

▶ Volume-catalogo Richard Mosse. Displaced ; Corraini Edizioni, 2021; 202 pagine 21x26,5cm; 40,00 euro.

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ÁPardiStatoRiver,CrepoiShip,Mineral;Brasile,2020

24 del materiale fotografico? All’inizio degli anni Settanta, Allan Sekula e Susan Sontag sfidano su questo terreno la fotogra fia con i propri scritti, mentre, dal 2000, sono filosofi, critici e artisti, come Judith Butler e Hito Steyerl, a svolgere un ruo lo di primo piano nel dibattito, insieme a molti altri autori».

INLIBRERIA

26 La monografia Diane Arbus, del 1972 (più recente edizione 2008), ha affermato lo smalto di una visione fotografica che compone i tratti di una mediazione fondamentale, addirittura di riferimento lungo il cammino della Storia della Fotografia. Nel cinquantenario dalla scomparsa SOPRATTUTTO TORMENTO 1969)York;NewPark,(CentralWinograndGarry

27 di Maurizio Rebuzzini Figura di spicco della Storia espressiva della Fotografia, la statunitense Diane Arbus ha manifestato una personalità creativa quantomeno controversa e sof ferta. Lei stessa ne è stata vittima, toglien dosi volontariamente la vita, nell’estate 1971, a quarantotto anni: esattamente cinquant’anni fa, il ventisei luglio. Certa mente, è una autrice con la quale ogni possibile Storia della Fotografia deve fa re i propri conti, condividendone la vi sione ossessiva, oppure prendendone le distanze, ma mai ignorandola. Come la sua vita, anche la morte di propria mano è stata oscura. Tra le tan te annotazioni che sono state riferite, at tribuite ad amici e fotografi a lei vicini (avanti tutti, Richard Avedon e Lisette Model), c’è sempre la mancanza di mes saggio di addio o spiegazione, fatto sal vo un biglietto che la fotografa Lisette Model (1901-1983), che le fu accanto ne gli ultimi momenti, asserisce di aver ri cevuto, e del quale ha sempre rifiutato di divulgare il contenuto. Nata Nemerov, il 14 marzo 1923, in una ricca famiglia ebrea di New York, proprie taria della catena di pelliccerie Russek’s, Diane Arbus ha vissuto sulla propria per sona le ansie e contraddizioni di una ge nerazione. Prima fotografa (statuniten se) ad aver varcato i confini che -ancora cinquanta anni fa- tenevano la Fotogra «Dare una macchina fo tografica a Diane è co me mettere una bomba a mano nelle mani di un bambino», ha affermato l’accreditato scrittore sta tunitense Norman Mailer, dopo essersi fatto fotogra fare da Diane Arbus se duto -tutt’altro che com posto- su una poltrona. Come precisato nel testo, Diane Arbus ha optato per la biottica 6x6cm Ma miya C33 Professional a obiettivi intercambiabili. (1970)FrankA.Stephen(1968)KellyRoz

fia distante e separata dall’espressione dell’arte, con una personale allestita al la (allora) selettiva Biennale di Venezia, dove -nel 1972- rappresentò (postuma) il proprio paese, Diane Arbus si impose all’attenzione internazionale nel 1967, partecipando con trenta immagini al la fantastica selezione New Documen ts, presentata al Museum of Modern Art (MoMA), di New York, con la quale il cu ratore John Szarkowski stabilì i termini della nuova fotografia contemporanea (nella collettiva a tre, anche Lee Friedlan der e Garry Winogrand).

Secondo Patricia Bosworth, che ha compilato l’approfondita Diane Arbus. Una biografia, quella esposizione fu «un Donna con veletta in Fi fth Avenue (Woman with a veil on Fifth Avenue); New York City, 1968.

DI PROPRIA MANO Leggiamo da Diane Arbus. Una bio grafia, di Patricia Bosworth.

(2)ArbusDianeofEstateThe

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trionfo, che rese celebre Diane Arbus, ma ne accelerò anche il declino emoti vo; l’artista temeva che la propria opera fosse fraintesa e, soprattutto, soffriva le nuove aspettative che il successo gene rava intorno a lei». [Annotiamo anche qui, ancora qui, una riedizione speculativa Diane Arbus. Vi ta e morte di un genio della fotografia, pubblicata da Rizzoli, nel 2006, in coda al film Fur. Un ritratto immaginario di Diane Arbus, del quale riferiamo da pa gina 12, su questo stesso numero].

Damigella col cestino dei fiori a un matrimonio (A flower girl at a wedding); Connecticut, 1964.

[Il ventisei luglio] Quella mattina, Dia ne aveva fatto scivolare sotto la porta di Andra Samuelson una stampa della maschera della morte di Kandinsky. Andra gliel’aveva chiesta. Più tardi, fece colazione alla Russian Tea Room con Bea Feitler. Aveva ac cettato un lavoro da Bud Owett per fotografie di pubblicità per il New York Times, e Owett dice che andò un mo mento al suo tavolo per parlarne. Il fotografo Walter Silver la incontrò per strada: «Aveva in mano una ban diera. Disse che stava per prendersi l’influenza. Disse anche che stava pen sando di andarsene da New York. Le intimai di non dire sciocchezze».

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Il ventisette luglio il telefono suonò a lungo nell’appartamento di Diane. Peter Schlesinger continuò a chiamare per avere la conferma di una sua par tecipazione a un simposio di fotogra fia che aveva organizzato per quella settimana e che lei avrebbe dovuto dirigere. Anche Marvin Israel chiamò invano varie volte. Il ventotto luglio an dò a Westbeth [l’edificio nel quale abi tava Diane Arbus]. La trovò morta, i polsi tagliati, sdra iata su un fianco, nella vasca da ba gno vuota. Aveva i pantaloni e una camicetta, il corpo era già «in stato di decomposizione». Sulla scrivania, il suo diario era aperto sul giorno venti

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Diane Arbus è la fotografa dell’infelicità. O, meglio, è l’espressione dell’infelicità che diviene vita quotidiana. Negli anni Sessanta, Diane Arbus partecipa alla pro testa statunitense. Conduce una vita randagia. Speri menta droghe, amori lesbici, turbolenze esistenziali. Walker Evans vede in lei una cacciatrice di anime, e sostiene che l’audacia delle sue fotografie contiene l’in genuità del diavolo. Diane Arbus porta la propria mac china fotografica nei bordelli, nei ghetti, nelle strade, nei giardini pubblici, mette i soggetti in posa (come un ritrattista) e poi riempie quella fissità apparente in una graffiante istantanea che fa del tempo dell’indicibile il tempo della conoscenza. Un uso egualitario dell’esistenza. Pino Bertelli Diane Arbus; Photology, 2008; 184 pagine 23x28cm, cartonato con sovraccoperta; 59,00 euro [in copertina: Gemelle identiche (Identical twins); Roselle, NJ, 1967].

Appena lo seppe, Richard Avedon lasciò quello che stava facendo e pre se il primo volo per Parigi. Voleva es sere lui a dire a Doon che la madre si era uccisa. A Westbeth, gli inquilini, intanto, di scutevano del suicidio di Diane. Subi to dopo, cominciarono a litigare tra loro per chi avrebbe occupato l’ap partamento. «Era uno dei più grandi dell’edificio», dice un commediografo. «E aveva una vista magnifica» [anche questa è New York]. Al funerale di Diane al Frank Campell, tra la Ottantesima e Madison Avenue, c’era poca gente. [...] Durante il rito fune bre, [Richard] Avedon mormorò: «Vor rei poter essere un vero artista, come Diane!», e Frederick Eberstadt sussurrò in risposta, «Oh no, non devi volerlo».

Non venne trovato nessun altro mes saggio, ma Lisette Model dice di aver ricevuto un biglietto di cui rifiuta di divulgare il contenuto. Circolò anche una voce secondo cui Diane avrebbe preparato la macchina fotografica e il cavalletto [treppiedi] per fotografar si morire. Quando arrivarono la poli zia e il magistrato, tuttavia, non c’era traccia di macchina né di pellicola. [...]

[Il fratello] Howard fece l’elogio fune bre, breve. [Howard Nemerov è stato uno dei più celebrati poeti americani del Novecento]. Scrisse poi una poesia per Diane, ristampata, da allora, molte volte. [A questo proposito, segnalia mo l’ottima retrospettiva Silent Dialo gues. Diane Arbus & Howard Neme rov, realizzata da Alexander Nemerov, figlio di Howard, a propria volta poe ta e docente alla Stanford University, pubblicata dalla Freaenkel Gallery, di San Francisco, nel 2015]. A D., morta per propria mano Cara, io mi domandoseprima della fine Hai mai pensato a un gioco da bambini Io so che lo conosci e ci hai giocato Che hai corso lungo il murodiun giardino Come fosse un crinale di montagna Erto sulla nevosa oscurità che si perdeva Da entrambi i lati, in baratri profondi. E quando l’equilibrio ti è mancato Hai saltato, temendo di ecaderetiseidetta Per un istante solo: forse è così morire. Era un’altra vita. Tu te ne sei andata E più non giochi al gioco degli adulti In equilibrio sul crinale, al buio Corri e non guardi in basso Né salti per paura di cadere.

30 bocchiate le parole: «L’ultima cena».

Silent Dialogues. Diane Arbus & Howard Neme rov, di Alexander Ne merov; Fraenkel Gallery, 2015. Ottima raccolta, realizzata dal figlio di Howard Nemerov, a propria volta poeta e docente alla prestigiosa Stanford University, in California, a sud di San Francisco.Oltrelafotografia di Diane Arbus, ma an che a sua comprensio ne esistenziale, questo incontro ipotetico, ma plausibile, con il fratello Howard, poeta di alto valore, è un utile e pro ficuo percorso di vita.

Diane Arbus conosceva l’orrore e lo splendore della car ne, e -come Imogene Cunningham, Dorothea Lange e Tina Modotti- sapeva che «la fotografia è un segreto intorno a un segreto, più rivela e meno lascia capire... la fotografia è l’arte della frazione di secondo» (Dia ne Arbus). Le fotografie che non suscitano nessuna emozione non valgono nulla. I migliori fotografi sono sovente persone fuori dalle righe o indesiderabili da gli esegeti della cultura dello spettacolare integrato.

Archivio

Con l’occasione, dopo la traduzione, proponiamo il testo originario della po esia, così come è stata pubblicata e ri pubblicata in numerose antologie di Howard Nemerov. Lo riprendiamo dall’autorevole rac colta The Collected Poems of Haward Nemerov, pubblicata da The Universi ty of Chicago Press, nel 1977, conside rata la più esaustiva del suo percorso.

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Ragazzo con paglietta in attesa di marciare in un corteo a favore della guerra (Boy with a straw hat waiting to march in a pro-war parade); New York City, 1967.

ArbusDianeofEstateThe

To D-, Dead by Her Own Hand My dear, I wonder if before the end You ever thoughtabout a children’s gameI’m sure you must have played it too-in which You ran along a narrow garden wall Pretending it to be a mountain ledge So steep a snowy darkness fell away On either side to deeps invisible; And when you felt your balancebeing lost You jumped because you feared to fall, and thought For only an instant: That was when I died. That was a life ago.And now you’ve gone, Who would no longer play the grown-ups’ game Where, balanced on theaboveledgethe dark, You go on runningandyou don’t look down, Nor ever jump because you fear to fall.

32 PERSONALITÀ CONTROVERSA

Diane Nemerov Arbus è l’angelo o il mito della fotografia ma ledetta. Le sue immagini, ormai celebri, di nani, handicappati, “freaks”, omosessuali, puttane... hanno contribuito a ridefinire il confine tra la “normalità” e la “devianza”, tra la ghettizzazione e l’accettazione, tra la fine della paura e la politica della bellezza.

Il genio di Diane Arbus ha rotto con tutte le scuole, le prassi e narcisismi della scrittura fotografica come aneddoto sulla diversità e apologia della celebrazione tecnica. Ha mostra to che più un fotografo è lo “stile” delle proprie fotografie e più sarà universale. Il 26 luglio 1971, Diane Arbus si dà la morte. Viene trovata con i polsi tagliati nella vasca da bagno vuota. Nel proprio diario, aperto sul giorno ventisei luglio, scritte in modo obli quo, aveva lasciato le parole: «L’ultima cena». Il genio ha ini zio sempre col dolore. Pino Bertelli (Una volta ottobre 2000)

Il suo fare-fotografia è stato, forse, la più alta poetica o scrit tura iconografica della nostra epoca. Il fascino inquietante del la sua opera nasconde tenerezze infinite e genialità corrosive, che nulla o poco hanno a che fare con il fotogiornalismo ram pante degli anni Cinquanta/Sessanta. Diane Arbus ha foto grafato l’infelicità e l’ingiustizia degli esclusi, dei senza voce e di tutti gli esseri estremizzati. Le sue immagini di strada sono così profondamente antiche o moderne da non avere più età. Diane Arbus nasce da una famiglia ebrea aristocratica, nei “ghetti dorati” di New York, nel 1923. Sono proprietari dei gran di magazzini Russek’s, in Fifth Avenue. Ha un’infanzia affetti va difficile con i genitori e un grande legame d’amore con il fratello, il poeta Howard Nemerov. Si sposa a diciotto anni, con Allan Arbus, un fattorino dei ma gazzini Russek’s, e negli anni Cinquanta raggiungono insieme un certo successo come fotografi di moda. Lavorano per le maggiori riviste del settore e le loro fotografie sono sovente pubblicate da Vouge e Glamour Ma Diane Arbus vede altro nella macchina fotografica e lascia la mondanità e la notorietà. Nel 1958, va a studiare la “Fotografia” con Lisette Model, un’intrigante pacifista, ritenuta troppo sinistrorsa e poco affi dabile dalla “buona borghesia” newyorkese, che la inizia all’av ventura e al viaggio atemporale della fotografia trasversale. Con lei, apprende che «la fotografia è quello che sappiamo e quello che non sappiamo» (Lisette Model). La fotografia ha ampliato la capacità visiva, intuitiva e culturale del mondo, ma in forme, linguaggi, surrealtà che non sempre siamo in grado di comprendere. C’è una grande differenza tra ciò che vede l’occhio e ciò che vede la macchina fotografica. Infatti, il passaggio dalle tre alle due dimensioni è il luogo dove na sce la poesia della fotografia o dove muore. A trentotto anni, Diane Arbus comincia a fotografare vera mente; e, se Henri Cartier-Bresson ha teorizzato una “fotogra fia di rapina” e ha illuminato le percezioni del cuore e quell’al trove senza fine come pochi, Diane Arbus è riuscita a cogliere l’attimo decisivo nella posa e oltre la posa. I suoi sono stati «gli occhi più istintivi della storia della fotografia» (Lisette Model). A vedere in profondità le “immagini sgangherate” di Diane Arbus, per esempio Il bambino con la bomba giocattolo, si coglie una filosofia dello stupore e della tristezza dell’infan zia che si spinge là fin dove il desiderio dei quasi adatti può penetrare. «Sono nata per salire la scala della rispettabilità borghese, e da allora ho cercato di arrampicarmi verso il bas so, il più rapidamente possibile», ha dichiarato. È l’ignoranza dell’amore che rende le persone stupide. E l’amore è l’om bra del disincanto o l’immaginale sconosciuto dell’individuo. Diane Arbus è stata una figura rivoluzionaria e solitaria nel la fotografia contemporanea, ma è riuscita a trasformare il convenzionale e il grottesco in emozione. L’immaginazione della realtà era più forte dell’iconologia del consenso, e il ci nema e le favole di Alice nel paese delle meraviglie e Il ma go di Oz, lo studio di Carl G. Jung, le letture di Kafka, Emily Dickinson, Louis-Ferdinand Céline, gli acquerelli di George Grosz la portarono verso quella fotografia del margine che tagliava fuori la rapacità, l’ipocrisia o l’ingiustizia deposti nei valori dominanti. Fotografava la disperazione più cupa per raggiungere una gaia scienza della seduzione. Infrangeva così la notte della fotografia mercantile. [...]

Nella visione radicale di Diane Arbus sono evidenti le trac ce espressive di grandi fotografi e iconosclasti dell’immagine bella, come Brassaï, Weegee, Walker Evans, Robert Frank e August Sander; ma ciò che la chiama fuori di ogni scuola e da ogni maestro è il senso profondo della pietas e della nobiltà del proprio sguardo di fronte ai soggetti. Che si trattasse di folli, emarginati o di solerti patrioti del “grande paese”... per lei ciò che contava era l’espressione profonda della propria condizione umana. Diane Arbus fotografava i perdenti della Terra, e quando portava le cartelle con le proprie immagini crude alle gallerie e ai giornali, gli art director la cacciavano o la ignoravano, perché le sue icone del dolore venivano giudi cate di “infimo ordine” e non pubblicabili o non abbastanza artistiche da essere presentate al pubblico. [...] Il linguaggio fotografico di Diane Arbus raggiunge un’arte della trasgressione non equivocabile o sospetta, nella mostra fotografica New Documents [...]. Il disorientamento di pub blico e critica fu forte. Non tutti avevano compreso che la “fo tografia maledetta” di Diane Arbus aveva spazzato via tutta la fotografia documentaristica tradizionale e proponeva un nuovo modo di scrivere con la luce, cioè di instaurare un rap porto di collaborazione e consapevolezza tra il soggetto e il fotografo. Il momento della fotografia era il “tempo dell’an gelo” o la “danza del gatto selvaggio”, cioè il tempo in cui fo tografo e soggetto divengono qualcosa di unico e danno vita a un’immagine che è anche autobiografia, interscambio, de riva di accoglienza e reciprocità che travalica l’immediato e la retorica dei bisogni. Quella impressa nella pellicola da Dia ne Arbus è una teorica della malinconia dell’angelo ribelle, incentrata sui temi del Doppio, dell’Altro, della Tentazione e della Seduzione come ribellione luciferina che si scaglia con tro ogni dogma e reinventa una politica della differenza, do ve l’etica e la poesia definiscono la politica (e non viceversa). Gli attimi nudi della fotografia così fatta la portano a riflettere sul Mondo e sull’Uomo, ma non per interpretarlo, quanto per esaminare come l’Uomo vive in questo Mondo. L’imperfezione estetica e il disagio dell’umana imperfezione, catturata alla realtà da Diane Arbus, nascono dall’idea affabula tiva dell’artista: «È importante fare brutte fotografie, sono pro prio le brutte fotografie che rappresentano quello che non si è mai fatto prima. [...] A volte, guardare nel mirino è come guar dare in un caleidoscopio; lo scuoti, ma può capitare che non tutto se ne vada via. [...] Cerco di fare del mio meglio per dare unità alle cose [...]: la poesia, l’ironia, la fantasia, è tutto mischia to in una sola cosa» (Diane Arbus). Come è noto, tutte le opere d’arte più singolari sono in principio dirompenti, incomprese e derise, prima di diventare patrimonio della cultura comune.

Pino Bertelli è autore del saggio su Diane Arbus Della foto grafia trasgressiva. Dall’estetica dei “freaks” all’etica della ribellione (NdA, 2006, 128 pagine 21x20,5cm / TraccEdizioni, 1994; 100 pagine 17x24cm).

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Non parole perse, quelle di Diane Ar bus, ma sguardo crudo, mai cinico, sul la realtà. La stessa che troppo spesso cerchiamo di ignorare. Magari, con tormento. ■ ■ Giovane famiglia di Bro oklyn in partenza per una gita domenicale (A young Brooklyn family going for a Sunday outing); New York City, 1966.

Rispetto l’edizione originaria, realizza ta con l’aiuto di John Szarkowski, Lisette Model, Richard Avedon, Neil Selkirk, Sudie Trazoff e Sidney Rapoport, si registra la selezione litografica di Robert Hennessey da una nuova serie di stampe fotogra fiche prodotte (ancora) da Neil Selkirk. Le ottanta fotografie sono introdotte da testi trascritti da lezioni tenute da Diane Arbus nel 1971, da interviste con Studs Terkel e Ann Ray Martin, di Newsweek, e da altri scritti dell’artista.

In conclusione, su altro percorso nar rativo, ricordiamo che nel 2008, Pho tology ha proposto l’edizione italiana della monografia Diane Arbus, fonda mentale per avvicinare l’autrice. In simultanea alla riedizione statuniten se coeva, di Aperture, di New York, che ne curò l’originaria del 1972, la selezio ne fotografica di questa fresca edizione di Diane Arbus ha conservato l’impian to editoriale allestito dal pittore Marvin Israel (1924-1984), amico e collega della fotografa, e Doon Arbus (1946), una del le figlie, che agirono nel rispetto delle opere e del modo con il quale l’autrice giudicava la propria fotografia e di co me voleva che venisse recepita.

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35 di Lello Piazza Non stiamo compilando la recensione di un libro. TPW. 28 Years. A journey and a journal è certamente un libro, una chic ca che ogni appassionato di fotografia dovrebbe sfogliare, conservare nella li breria, e riguardare ogni tanto. È una chicca perché ha una veste editoriale molto bella, carta e stampa perfette. Ma questo libro lo vedo come corona di un’impresa eccezionale e irripetibi le: ventotto anni filati di workshop foto grafici, tenuti ogni estate in Toscana, da cui Toscana Photographic Workshop, che hanno coinvolto firme notevoli del la professione fotografica. Nomi come...! Ricavo un elenco da coloro che, nella monografia TPW. 28 Years, sono presenti con una immagi ne. Non sono nemmeno la metà de gli insegnanti (docenti!) del TPW, ma sono quelli che ho scelto io. Consiglio di sfogliare questi nomi uno per uno, per scoprire un’eccellenza di fotogra fi, direttori della fotografia, esperti di camera oscura chimica e di camera chiara digitale. Tutti di un certo peso nella Storia Recente della Fotografia. Se andrete a cercare su Internet quel li che non conoscete/riconoscete, ar ricchirete la vostra cultura fotografica. Eccoli qui (ekkoli qui): Michael Acker man, William Albert Allard, Amy Arbus, Jane Evelyn Atwood, Gianni Berengo Gardin, Monika Bulaj, Lorenzo Castore, Gianluca Colla, Nigel Dickinson, Giorgia Fiorio, Sally Gall, Lois Greenfield, Da vid Alan Harvey, Roger Hutchins, Jeff Jacobson, Ed Kashi, Douglas Kirkland, Kent Kobersteen, Antonin Kratochvil, Gerd Ludwig, James Megargee, Arno Rafael Minkkinen, Andrea Modica, Chri stopher Morris, Paolo Pellegrin, Andrea Pistolesi, Ira Rokka, Bob Sacha, Sandro Santioli, Marianna Santoni, Eddie So loway, Bruno Stevens, Joyce Tenneson, Alex Webb e Rebecca Norris Webb, Sa bine Weiss, Michael Yamashita. Grazie al godimento delle fotogra fie pubblicate, grazie a un lavoro di scoperta di chi è chi, almeno tra i no mi citati, questo volume permette di ipotizzare una risposta alla domanda fondamentale, formulata per l’eternità da Georges Tourdjman nell’espressio ne francese che già altre volte ho ci tato: «Que’est-ce que c’est la photo?» [Cosa è la fotografia?]. Vi risparmio la sua risposta. Ma se cercate una rispo sta “seria”, la trovate nelle pagine del libro di cui stiamo parlando.

VENTOTTO ANNI

TPW. 28 Years. A journey and a journal ; Carlo Roberti, 2021; 250 pagine 17x21,5cm su carta patinata opaca da 170g e 50 pagine su carta usomano 100g; 45,00 euro. (continua a

Se ventotto anni vi paiono pochi, provate voi a lavorare in fotografia. Sintesi di un’esperienza sostanziosa, che si è allungata nel Tempo, confortata dall’apporto nutriente di insegnanti/docenti, assistenti, allievi, organizzatori e contorni. Creato e diretto da Carlo Roberti, il Toscana Photographic Workshop (TPW ) celebra i suoi primi ven totto anni di vita. Lo fa con una avvincente monografia di ricordi che possiede le stigmate di un’eccellenza utile e proficua per ciascuno di noi, che frequentiamo la Fotografia

pagina 38)

(Questa fotografia del mio collega Chris Anderson Martin Bogren. Ho trascorso molto tempo a Roma, mentre fotografavo per il mio libro Italia In un workshop, hai la possibilità meravigliosa di vedere il lavoro dei tuoi studenti, e di aiu tarli a raggiungere la propria visione finale. Non ho avuto molto tempo per me; tuttavia, camminando con loro o durante le mie passeg giate notturne con Carlo, parlando di tutto, ho riconosciuto lo spirito e il senso che cercavo.

Se penso al TPW, la prima immagine che mi viene alla memoria è la scia di stelle che incorniciava un telo steso sopra un prato, dopo cena, nelle serate di agosto, dove venivano proiettati i portfolio dei fotografi. Una Toscana di agosto al meglio di se stessa e in un luogo così unico e particolare della regione non ancora contaminato.

A fianco, al mitico cascinale di Castelnuovo Tancredi, ci si sedeva o su una sedia o sul prato, e si guardavano, insieme agli studenti agli in segnanti agli stagisti agli assistenti agli ospiti, le fotografie che veni vano poi discusse e commentate tra di noi. Grande magia vedere una proiezione di Sally Mann, per esempio, seguìta a una proiezione del giovanissimo e molto amato Paolo Pellegrin, allora al proprio debutto, seguìta da una proiezione di un giovane studente.

Cercherò di non usare altri nomi in questo piccolo omaggio al caris simo Carlo Roberti e alla sua intuizione nel realizzare il TPW in Tosca na, e poi in altri luoghi, perché -scorrendo l’elenco dei partecipanti al Festival- vedo amici così eccezionali e dei maestri della fotografia che amo e venero, o con i quali discuto e mi diverto: per cui, questo piccolo omaggio diventerebbe un elenco di amici. Non posso, però, non men zionare la lettura di portfolio di Christian Caujolle, a San Quirico d’Or cia, e una singolare colazione con lui e altri amici della fotografia, che per me è stato un momento memorabile, e la proiezione di fotogra fie di Lea Crespi, divenuta così giovanissima celebre per i collezionisti.

Una seconda impressione indimenticabile è sempre stata un’atmo sfera sensuous (sensuale), intesa nella traduzione inglese come risve glio di tutti i sensi. Per me, è stata nutrita dalla gradevolezza dello staff, definita in uno dei mitici programmi cartacei “anima portante” del Workshop, della bellezza dei giovani, non come ormai nauseante im magine hollywoodiana e modaiola, ma persone belle nell’esprimersi, nel porgersi, nell’essere connotati nel magico minimalismo dei giovani quando riescono stare lontani dai cliché della moda. Poi, la musica. Veniva scelta per accompagnare le proiezioni, o au tonomamente in qualche circostanza (balli finali, ristorante e altro), esattamente nello stesso minimalismo degli abiti delle magiche assi stenti. Il clima estivo, temperato da una brezza serale e da quella pau sa dalle cinque alle sette di sera, per “farsi belli” prima della serata. La partecipazione costante di Carlo, che è sempre arrivato a tavola rilas sato e introducendo se stesso a tutti noi in modo libero e democratico. Mi è stato riferito che al TPW sono nate molte storie d’amore, e ne sono contenta. E su questo vorrei aggiungere che la fotografia ha un lato magico: unisce persone importanti influenti, giovanissimi studen ti di fotografia, anziani appassionati, ospiti, critici della fotografia che si ritrovano usando il medesimo linguaggio (molto British, internazio nale). In questa libertà totale di comunicazione e incontri, la fotografia è sempre stata al centro di ogni interesse, almeno per tutte le edizio ni che ho frequentato. Fotografia e studio in totale serietà, ma anche in completa libertà di rapporti. Diciamo che al TPW, un fotografo può esprimere domande ingenue sulla fotografia, ma -allo stesso- tempo esporsi a realizzare un servizio fotografico in una settimana, e proiettarlo. Nella mia carriera personale, la nascita del TPW è coincisa con un’e stensione dei miei interessi fotografici nell’apprendimento e insegna mento, e dopo la frequenza ai Festival nelle sedi classiche, come Arles, il mio interesse a nuove sperimentazioni. Tra queste, il TPW Il TPW è diventato un brand sicuro; è maturato in altre sedi, e -tra castelli, ville e piscine- ho incontrato il meglio della fotografia. Un wor kshop in Toscana non è solo un approfondimento della fotografia, ma anche un modo insolito di fare vacanza. Forse. Certo, mi affluiscono in mente moltissimi altri ricordi, tra i quali le feste e le proiezioni al mitico castello falso e la scelta di musica così bella. Annotazione forse troppo prosaica: ho sempre mangiato bene e bevuto bene. In particolare, non dimenticherò mai una eccezionale pastasciutta di una cuoca sarda. Veramente notevole. Caro Carlo, continua così. Grazia Neri

David Alan Harvey. La mia settimana al TPW è stata eccezionale. Buone vibrazioni ovunque.

36 TESTIMONIANZA

Doug Beasley. Dopo avere scattato in luoghi stupefacenti, ogni sera tornava mo per incontrarci con gli studenti di altre classi. Mi è piaciuta questa varietà di partecipanti, riuniti dalla propria visione e per espandere la propria conoscenza.

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con il figlio Atlas e la moglie Marion l’ho scattata durante il pranzo con gli studenti. Secondo me, cattura l’atmosfera di famiglia del TPW ). Sally Gall. Arrivare a Castelnuovo Tancredi, per insegnare al TPW, è stato come arrivare in un paese magico: sensuale, meraviglioso, secco, caldo, intensamente coltivato, pieno di sorprese. Che luogo meraviglioso da esplorare, esta te dopo estate, che punto di partenza per imparare tutto il possibile riguardo il saper vedere, e realizzare fotografie. E incontra re altri fotografi e persone sulla medesima lunghezza d’onda. La settimana ha sempre riservato sorprese, come questo pomeriggio di pioggia (!), al laghetto dove spesso anda vamo a fotografare e nuotare.

Sono rimasto impressionato da come tutto, in Toscana, fosse antico; sono cresciu to in America, dove non c’è niente di vecchio. Ero tornato nella mia stanza, dopo cena, e lo slide-show serale, e stavo guardando fuori dalla finestra. La luce veniva dalla Luna piena. Ho appoggiato la macchina alla finestra e ho trattenuto il respiro.

Michael Ackerman. I miei ricordi di questa fotografia sono vaghi. Era l’estate del 2000. Il mio primo workshop come insegnante.

Ma ora basta. Sul TPW lascio la parola alla ben più autorevole Grazia Neri, con la quale ho condiviso le mie presenze al workshop, riportando la sua intro duzione presente all’inizio del libro [a pagina 36]. Monografia che è poetica, elegante, per niente autocelebrativa, di studio e di piacere. Da avere. (continua da pagina 35) ON LINE /code TPW: ATTUALITÀ E STORIA

Chiudo con David Alan Harvey, altra delle star abituali del TPW. Membro di Magnum Photos dal 1997 al 2020, quan do il rapporto si è interrotto per accuse di molestie sessuali che avrebbe com messo nei confronti di colleghe. I suoi reportage per National Geographic Ma gazine rappresentano capolavori della documentary photography.

■ ■

SOLO

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Monika Bulaj. È stata la prima volta che insegnavo un workshop a quattro ma ni, con il super-talentuoso Bruno Stevens. È stato anni fa, ma ricordo ancora il suo impegno e generosità con i partecipanti e con me, che ero alle prime armi come insegnante. E ricordo anche la bellezza del luogo e il piacere di incontra re gli studenti e gli altri insegnanti.

Eddie Soloway. Durante il mio primo anno al TPW, credo nel 2000, Carlo mi disse che aveva sentito parlare di rovine abbandonate di un vecchio villaggio, da qualche parte nella zona. Avevamo indicazioni molto vaghe, eravamo curio si, così siamo partiti, Carlo in testa. Attraversando vecchi sentieri di campagna, campi e entrando nei boschi. Ci siamo completamente smarriti! Non abbiamo trovato le rovine, ma ci siamo divertiti. Mi ricordo che abbiamo pensato che Lost in Tuscany sarebbe stata una buona identificazione per un workshop! 38 Attraverso un’immagine per ogni au tore, potete esplorare la varietà degli stili e dei retrostanti pensieri della Fotogra fia dei recenti trent’anni. Comincio con il mosso inquietante e in bianconero di Michael Ackerman e col suo primo libro End Time City (Editions Robert Delpi re,1999), uno straordinario ritratto di Be nares, città al nord dell’India. Dal 1997, Michael Ackerman entra nell’Agenzia e Galleria VU, di Parigi; nel 1998, gli viene conferito il prestigioso Infinity Award for Young Photographer, dell’Interna tional Center of Photography, di New York; ottiene il Prix Nadar, nel 1999, e il Civil Society of Multimedia Authors Roger Pic Award, nel 2009. Mi inchino, poi, davanti alle fotografie di nudo di Joyce Tenneson, un nudo sa cerdotale e non i culoni di altro tipo. Il suo lavoro è stato esposto in più di cen to mostre, in tutto il mondo; con coper tine di Time, Life, Newsweek, Premiere, The New York Times Magazine, eccetera. Gianluca Colla, prima allievo, poi assi stente, quindi insegnante/docente del TPW, non gode di altrettanta fama, ma per me è irresistibile la sua fotografia notturna della Abbazia senza tetto di San Galgano, in provincia di Siena. O la fotografia di Monika Bulaj, una vi sione che non appartiene ai suoi grandi lavori, ma li invoca: Where Gods Whi sper (Contrasto, 2017), Nur. La luce na scosta dell’Afghanistan (Electa, 2013), Genti di Dio, con prefazione di Moni Ovadia (Postcart, 2012).

INLIBRERIA

RULLO 120, IERI L’ALTRO La realtà dei decenni Cinquanta, Sessan ta e pure Settanta, che abbiamo osser

Riflessione che potrebbe (dovrebbe!) essere latente nel piccolo-grande mondo della Fotografia, e che riguarda persone e personalità oggettivamente diverse tra loro, ma soggettivamente accumulate da un identico rapporto con di Antonio Bordoni Pure se facciamo spesso finta-che, tut ti sappiamo bene come la storia venga sempre scritta a posteriori; e, soprattutto, sappiamo che la storia si basa su interpre tazioni della cronaca. Ci sono tanti modi per leggere gli avvenimenti, e anche se limitiamo le nostre attenzioni a quelli og gettivamente “onesti” e “politicamente corretti”, le sfumature del personalismo inducono spesso a decifrazioni quanto meno soggettive. È sempre questione di punti di vista; ovverosia, per dirla in codice a noi vicino, di prospettiva. Accade così che, nel piccolo delle pro prie storie personali, ciascuno di noi cer chi di guardarsi indietro osservando le cronache passate attraverso la com piacenza di benevole lenti rosa. Nella memoria, alle intemperie del Tempo, resistono soprattutto gli avvenimenti belli ed edificanti, e la storia individua le viene così ricostruita con nuances quantomeno condiscendenti. Per quanto riguarda l’attrezzatura del proprio lavoro in Fotografia, spesso si tende a dimenticare il trascorso reale, per lasciare spazio a un vissuto colletti vo, tanto impersonale quanto esempla re. E questi valori sfalsati finiscono, poi, per costituire l’ossatura di una asettica storia evolutiva degli apparecchi foto grafici che non tiene in alcun conto la componente “sociale” di una cronaca composta e compitata con altri nomi. Prendiamola alla grande, prima anco ra di arrivare all’apparecchio fotografico di cui oggi parliamo, in accostamento di cinquantenari (dalle Origini, a pagina otto, a Diane Arbus, soprattutto da pa gina ventisei, peraltro, anche per lei, in coincidente combinazione Mamiya C33 Professional ). In chiarimento di pensiero, esemplifichiamo osservando come le sto riografie Leica siano spassionatamente eccessive. Sull’onda di una interpretazio ne attuale, queste storie prevaricano nei fatti l’autentica socialità della fotografia degli anni dai Trenta ai Settanta (alme no), che ha espresso valori di mercato

40 ALLA RICERCA

Accordando assieme esigenze professionali e individuali, all’inizio degli anni Settanta, io stesso arrivai a un com promesso che -allora non lo immaginavo- era fon damentalmente collet tivo. Nel luglio Settan tuno, cinquanta anni fa, l’acquisto di una biottica Mamiya C33 Professio nal, peraltro di seconda mano, appagò una diver sificata serie di bisogni della fotografia applica ta: dall’“istantanea” alla ripresa in studio, al pic colo still life da catalogo. Sono sincero quando ri conosco che -allora- fui condizionato soprattutto da questioni di ordine fi nanziario, tant’è che una serie di accessori rimase ro per sempre un sogno: prima ambizione tra tut te, condivisa con Gabrie le Basilico, con il quale ci confrontammo tempo fa, il dispositivo esterno di accomodamento della parallasse tra l’obiettivo superiore di visione e quello inferiore di ripre sa alle inquadrature siste maticamente ravvicinate, surrogato da un uso cali brato del sollevamento a cremagliera della colon na centrale del treppiedi. Invece, mi ha sempre la sciato indifferente il pen taprisma Porroflex (che oggi ho rivalutato),feticisticamenterealizzatoda Nippon Kogaku (Nikon) per le biottica Mamiya e Rolleiflex.

assolutamente diversi. La Leica era un sogno: le Comet Bencini, le Eura Ferra nia e quant’altro costituivano la realtà.

BordoniAntonio

Ingenuo è l’otturatore centrale Seikosha-S della Mamiya C33 Professio nal, in versione ogget tivamente primordiale; ingenua è la finitura del corpo macchina con la texture della “M” di Ma miya ripetuta all’infinito; ingenua è la pretesa di assolvere tante condizio ni della fotografia pro fessionale (fino all’inter cambiabilità degli obiet tivi e alla messa a fuoco ravvicinata); ingenuo è il dispositivo visivo di in dicazione della parallas se, che scorre sul vetro smerigliato 6x6cm. Del resto, a ben consi derare, anche noi siamo stati ingenui, in anni nei quali l’ingenuità è stato uno degli elementi ba se per costruire perso nalità professionali di grande spessore. Dun que, al tempo dei nostri vent’anni (e oggi sono settanta), la Mamiya C33 Professional è stata in genua per quanto ser viva che fosse. E noi continuiamo ancora oggi a far prevalere il va lore tattile della Mamiya C33 Professional, con la quale abbiamo avviato anche la nostra Fotogra fia. Come in molte altre scelte tecniche, anche in questo caso osiamo esprimere l’ipotesi di una “estetica della funziona lità” che riveste di sen sazioni personali e emo zioni la serie basilare di prestazioni fotografiche.

41 DEL TEMPO...

MAMIYA C33, IERI L’ALTRO Come già ricordato, comperai la mia Ma miya C33 d’occasione, che tra l’altro fu la mia prima macchina fotografica au tenticamente tale, nel luglio 1971, all’in domani della maturità tecnica. In quel tempo, sul mercato, la C33 Pro fessional, in commercio dal 1965, era già stata soppiantata dalle più evolute Ma miya C330 Professional e Mamiya C220 Professional, rispettivamente nate nel 1968 e 1969, che negli anni seguenti avrebbe ro dato vita a una serie di ulteriori per fezionamenti C330f, C330S, C220f..., ver sioni con svariate migliorie d’uso. Non vato da vicino e che poi abbiamo finito per vivere dall’interno, è stata costellata di scelte personali che dovevano conci liare tra loro le necessità con i bisogni e con le possibilità finanziarie persona li, molte volte fondamentalmente limi tate. Di necessità, sapemmo fare virtù.

gli strumenti del mestiere. La generazione che oggi raggiunge i settant’anni (di età) ha spesso un minimo comu ne denominatore Mamiya, a partire -magari- dalla biottica C33 Professional. Anche qui, ancora qui, in cinquantenario Accordando assieme tante esigenze professionali e individuali, all’inizio de gli anni Settanta, io stesso arrivai a un compromesso che -allora non lo imma ginavo- era fondamentalmente collet tivo. Nel luglio Settantuno, cinquanta anni fa esatti, l’acquisto di una biottica Mamiya C33 Professional, peraltro di se conda mano, appagò una diversificata serie di bisogni della fotografia applica ta: dall’“istantanea” alla ripresa in studio, al piccolo still life da catalogo. Sono sincero quando riconosco che -allora- fui condizionato soprattutto da questioni di ordine finanziario, tant’è che una serie di accessori rimasero per sem pre un sogno: prima ambizione tra tut te, condivisa con Gabriele Basilico, con il quale ci confrontammo tempo fa, il dispositivo esterno di accomodamento della parallasse tra l’obiettivo superiore di visione e quello inferiore di ripresa alle inquadrature sistematicamente ravvici nate, surrogato da un uso calibrato del sollevamento a cremagliera della colon na centrale del treppiedi. Invece, mi ha sempre lasciato indifferente il pentapri sma Porroflex (che oggi ho rivalutato), realizzato da Nippon Kogaku (Nikon) per le biottica Mamiya e Rolleiflex. Oggi, considero la C33 sintesi perfet ta tra funzionalità e livrea, in cosciente e consapevole lettura anche feticistica ed edonistica degli utensili della Fotografia.

VALORI Tecnicamente, la Mamiya C33 è impec cabile, e lascia trasparire tutti i princìpi di fotografia professionale applicata che nei decenni a seguire hanno costituito l’ossatura dell’intramontabile RB67 Pro fessional (6x7cm), nata nel 1970, fino alla successiva configurazione RB67 ProSD, e della fenomenale Mamiya RZ67 Pro, fino alla consecutiva versione RZ67 Pro II. La linea di collegamento tra le biottica Mamiya Professional e la declinazione 6x7cm delle reflex monobiettivo RB67 e RZ67 è soprattutto rappresentata dal dispositivo di allungamento del tirag gio dell’obiettivo -comprensivo di pro pria scala di riferimento delle distanze-, che consente di approdare alla messa a fuoco estremamente ravvicinata: da 35,4cm con lo standard Mamiya-Sekor 80mm f/2,8 della C33, con corrispon dente campo coperto di 86x86mm sul formato reale 56x56mm. E poi, non possiamo ignorare come tante altre caratteristiche tecniche del le reflex 6x7cm costituiscano agevoli in terpretazioni delle prestazioni del siste ma reflex a due obiettivi accoppiati, la cui assenza di specchio mobile facilita l’uso a mano libera di tempi di ottura zione lunghi... prolungati. Ancora, ricordiamo che la Mamiya C33 Professional non è dotata di molte sofisti cazioni che sarebbero poi state adottate con la versione successiva C330 Profes sional, che viaggiò per anni in parallelo con la semplificazione C220. (2)BordoniAntonio

Per quanto riguarda l’attrezzatura del pro prio lavoro in Fotogra fia, spesso si tende a di menticare il trascorso re ale, per lasciare spazio a un vissuto collettivo, tanto impersonale quan to esemplare. E questi valori sfalsati finiscono, poi, per costituire l’ossa tura di una asettica storia evolutiva degli apparec chi fotografici che non tiene in alcun conto la componente “sociale” di una cronaca composta e compitata con altri nomi. Prendiamola alla grande, prima ancora di arrivare all’apparecchio fotogra fico di cui oggi parliamo, in accostamento di cin quantenari (dalle Origi ni, a pagina otto, a Dia ne Arbus, soprattutto da pagina ventisei, peraltro, anche per lei, in coinci dente combinazione Ma miya C33 Professional ). In chiarimento di pensie ro, esemplifichiamo os servando come le storio grafie Leica siano spas sionatamente eccessive. Sull’onda di una interpre tazione attuale, queste storie prevaricano nei fatti l’autentica socialità della fotografia degli anni dai Trenta ai Settanta, che ha espresso valori di merca to assolutamente diversi. La Leica era un sogno: le Comet Bencini, le Eura Ferrania e quant’altro co stituivano la realtà. Tornando in argomento specifico e diretto: co sa fa grande e insupe rata la C33, avanguardia in ordine temporale di un sistema che ha dato tanto alla fotografia pro fessionale contempora nea (alla quale ha pure offerto una 6x7 / 6x9cm Mamiya Press, evolutasi in Super 23)? Come già annotato, soprattutto la sua fresca e accomodan te ingenuità.

42 ho nulla da dire contro questi aggiusta menti successivi, molti dei quali furono professionalmente fondamentali, primo tra tutti l’autentica possibilità di usare sia il rullo 120 sia il suo doppio 220, per il quale la C33 doveva invece adottare un dorso apposito. Però, non dovrei esse re contraddetto quando affermo, con il senno-di-poi, cioè con quel codice che trasforma la cronaca in Storia, che la C33 Professional rappresentò l’apoteosi della linea evolutiva di un fantastico sistema fotografico (Mamiya, appunto) che non è mai stato cantato dalla critica per ciò che effettivamente è, ed è stato: ecce zionale, grandissimo e clamoroso. Chiunque riprenda tra le mani una Ma miya C33, non può che commuoversi nell’incontro con un passato della tec nologia fotografica ancora tanto vivo e palpitante. Sull’onda di questa emozione, qui e oggi condita con rievocazioni coin cidenti, ciascuna in proprio cinquantena rio, condividiamo la nostra commozione.

MAMIYA C33, IERI... OGGI Ma noi continuiamo ancora oggi a far prevalere il valore tattile della Mamiya C33 Professional. Come in molte altre scelte tecniche, anche in questo caso osiamo esprimere l’ipotesi di una “estetica del la funzionalità” che riveste di sensazioni personali e emozioni la serie basilare di prestazioni fotografiche. Cosa fa gran de e insuperata la C33, avanguardia in ordine temporale di un sistema che ha dato tanto alla fotografia professiona le contemporanea (alla quale ha pure offerto una 6x7 / 6x9cm Mamiya Press, evolutasi in Super 23)? Soprattutto la sua fresca e accomodante ingenuità. Ingenuo è l’otturatore centrale Seiko sha-S, in versione oggettivamente pri mordiale; ingenua è la finitura del cor po macchina con la texture della “M” di Mamiya ripetuta all’infinito; ingenua è la pretesa di assolvere tante condizioni del la fotografia professionale (fino all’inter cambiabilità degli obiettivi e alla messa a fuoco ravvicinata); ingenuo è il disposi tivo visivo di indicazione della parallasse, che scorre sul vetro smerigliato 6x6cm. Del resto, a ben considerare, anche noi siamo stati ingenui, in anni nei quali l’in genuità è stato uno degli elementi base per costruire personalità professionali di grande spessore. Dunque, al tempo dei nostri vent’anni (e oggi sono settanta), la Mamiya C33 Professional è stata ingenua per quanto serviva che fosse. Ancora oggi, le sono grato di avermi preso per mano e di avermi introdotto in un mondo che ha finito per diventare la mia dimensione esistenziale quotidiana. Allora non lo sapevo, non l’avevo intuito. Il suo ultimo servizio, quella C33 Profes sional lo fece quando la barattai per un ingranditore Durst 609, mio biglietto di ingresso alla camera oscura. Per quan to possa farlo, il mio odierno ricordo del la C33 Professional, in cinquantenario, è un omaggio al mio Tempo, al suo Valore, al nostro comune mondo fotografico. ■ ■ Ancora oggi, sono grato alla biottica 6x6cm Ma miya C33 Professional a obiettivi intercambiabili di avermi preso per mano, nel luglio 1971, e avermi introdotto in un mondo che ha finito per diven tare la mia esistenzialedimensionequotidiana.

Allora non lo sapevo, non l’avevo intuito. Come già ricordato, com perai la mia Mamiya C33 d’occasione, che tra l’altro fu la mia prima macchi na fotografica autentica mente tale, nel luglio 1971. In quel tempo, sul mer cato, la C33 Professional, in commercio dal 1965, era già stata soppianta ta dalle più evolute Ma miya C330 Professional e Mamiya C220 Professio nal, rispettivamente nate nel 1968 e 1969, che negli anni seguenti avrebbero dato vita a una serie di ulteriori perfezionamen ti C330f, C330S, C220f..., versioni con svariate mi gliorie d’uso. Non ho nul la da dire contro questi aggiustamenti successi vi, molti dei quali damentali,professionalmentefuronofonprimotratutti l’autentica possibilità di usare sia il rullo 120 sia il suo doppio 220, per il quale la C33 doveva in vece adottare un dorso apposito. Però, non do vrei essere contraddet to quando affermo, con il senno-di-poi, cioè con quel codice che trasforma la cronaca in Storia, che la C33 Professional rappre sentò l’apoteosi della linea evolutiva di un fantastico sistema fotografico (Ma miya, appunto) che non è mai stato cantato dalla critica per ciò che effet tivamente è, ed è stato: eccezionale e clamoroso. Se ne parlerà, quando si scriverà una autenti ca Storia Sociale della tecnologia fotografica.

Oltre a quanto abbiamo già citato, la C330 fu provvista di due pulsanti di scatto, dispone di un pressapellicola commu tabile al rullo 120 e 220, ha una scala di distanze estremamente semplificata, e ha un cappuccio con alette incernierate che si chiudono con una sola mano. La montatura meccanica della gamma di obiettivi intercambiabili Mamiya-Sekor fu ridisegnata, e fu provvista di un ot turatore centrale Seiko/Seikosha este ticamente più aggressivo. Ma!

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BUONE LETTURE. OTTIME Inevitabile ripetizione d’obbligo, una volta ancora, una volta di più, mai una di troppo. Ribadiamo il princìpio fonda mentale in base al quale non richiedia mo ai fotografi di riflettere, né scrive re di Fotografia. Il loro compito è altro: quello di comunicare con l’Immagine, magari per far meditare. Ma! Ma ci sono casi esemplari di fotografi che sono capaci di ragionare sulla Fo tografia, certamente a partire da pro prie esperienze personali sul campo, in modo da aggiungere altri valori alla propria personalità. Ovviamente, non intendiamo riferirci ai fotografi che par lano soltanto di sé (spesso sbrodolan dosi addosso), ma a quei fotografi che, partendo da sé, approdano a percorsi TANO D’AMICO. MISERIA E TRADIMENTO. FOTOGRAFIA, BELLEZZA VERITÀ Nelle Parole dell’autorevole fotogiornalista, una delle eccellenze della foto grafia italiana contemporanea, attraverso le sue Parole, trasversale e impli cita a una coerente e connessa Coscienza dell’Uomo, si manifesta un’inten zione esplicita, e qui dichiarata, di gratificazione della Fotografia, attraverso la Fotografia, che non si esaurisca nella sola e sterile osservazione asettica della sua apparenza a tutti accessibile, ma nel coinvolgimento in una vicen da (materia? espressività? creatività?) che solleciti una partecipazione indi viduale diretta alle problematiche stesse del linguaggio fotografico.

44 / SULLO SCAFFALE / di Angelo Galantini

Detta meglio, forse: è proponimento affermato, è intento notificato di Tano D’Amico quello di sollecitare riflessioni e considerazioni tanto coinvolgenti da indurre pensieri. Ancora: la sua intenzione di assaporare e far assapora re il profondo di un’esperienza che sembra essere sempre uguale, ma che invece è sempre così diversa. Misericordia e tradimento. Fotografia, bellezza, verità, di Tano D’Amico; Mimesis Edizioni, Collana Sguardi e Visioni, 2021; 112 pagine 13,5x20,2cm; 12,00 euro. ANDO GILARDI. FOTOGRAFIA. VOLUME 2: VIE NUOVE 1971-1978

Fresca di stampa, e di edizione, la raccolta completa e conclude il percorso compiuto da Ando Gilardi dalle pagine del periodico specificato: Vie Nuove, settimanale informativo controllato e pubblicato dall’allora Partito Comu nista Italiano. Al pari del precedente Fotografia. Volume 1: Vie Nuove 19641970, del 2020, anche qui, ancora qui, in anastatica, sono raccolte le rubriche settimanali di Fotografia -è ovvio- compilate dall’autorevole personaggio/ personalità, che hanno sempre affrontato la materia da punti di vista estremamente individuali e arbitrari. Tanto da indurre l’autore a specificare che «Scopo supremo di questa rubrica è di educare raccontando barzellette». In assoluto, un casellario di interventi la cui somma di argomenti apparen temente svincolati uno dall’altro, ma tutti coerenti con una intelligenza li bera, ha prodotto infiniti totali: a ciascuno, i propri. Fotografia. Volume 2: Vie Nuove 1971-1978, raccolta anastatica delle rubri che scritte per il settimanale Vie Nuove da Ando Gilardi; introduzioni di Ele na Piccini, Laura Davì e Maurizio Rebuzzini; Fototeca Gilardi Edizioni, 2021 (www.fototeca-gilardi.com); 290 pagine 23x32cm; 27,00 euro. che offrono Parole rilevanti e nobili, of frendole a piene mani. In questo senso, come spesso invitiamo, e ancora, non si tratta di considerare la Fotografia come arido punto di arrivo, ma fantastico (e privilegiato) s-punto di partenza... ver so la Vita, per la Vita. A diretta conseguenza, non è soltan to un problema del sapere (conoscen za?), ma di voglia di condividere. E ca pacità di farlo. Forse. Del resto, sia anche chiaro che, per come l’intendiamo noi e per quanto coinvolgiamo nei ragionamenti, con la Fotografia tutta, è legittimo e indi spensabile approdare a un effettivo ri conoscimento di una (stessa) Fotogra fia che non vale solo per sé, e le proprie intenzioni e/o necessità di partenza, ma per qualcosa di altro che ciascuno tro va prima di tutto in se stesso. Le parole (non “le Parole”) sono facili da usare: apparentemente, sono a di sposizione di ognuno. Se così voglia mo vederla e considerarla, l’autentica bellezza della parola è di non imporre, né pretendere, sincerità, né -tantome no- garantirla. Così che si possono de clinare parole per farsi belli (?). Quan to, poi, comportarsi in onore di quanto pronunciato e promesso... è ben altra questione. Lo pensiamo e affermiamo per esperienze e conoscenze personali. Anche recenti, soprattutto fotografiche. A differenza, gli autori qui in passe rella, con relativi titoli di spessore, coor dinano la propria voce con comporta menti connessi e coerenti. Da ascoltare.

FERDINANDO SCIANNA. ETICA E FOTOGIORNALISMO

in esordio riconosce che non esiste un’etica specifica del giornalismo e fotogiornalismo. L’etica è etica, ovunque si manifesti. Da non perdere! Etica e fotogiornalismo, di Ferdinando Scianna; Electa, 2010; venticinque illustrazioni; 76 pagine 15x23cm; 19,00 euro. NADAR. QUANDO ERO FOTOGRAFO Lo affermiamo da decenni, dalla prima edizione italiana, pubblicata da Edi tori Riuniti, nel 1982, dell’originario Quand j’étais photographe, memorie di Nadar (Gaspard-Fèlix Tournachon; 1820-1910), del 1895, testo primigenio di un fotografo. Il titolo avrebbe dovuto essere Quando sono stato fotografo: più dinamico e attivo di un “ero” al passivo e finito. Pace. Quello che effettivamente conta, oltre la nostra inutile pignoleria, sono i quattordici capitoli con i quali Nadar esterna proprie esperienze e conside razioni sulla professione fotografica... di metà Ottocento. Tra vicende prati che (per esempio, Il primo tentativo di fotografia aerostatica) e riflessioni (tra le quali, Balzac e il dagherrotipo), anche concretezze in qualche misura “attualizzabili”: Le clienti e i clienti. Comunque, e in assoluto, scrittura lieve e fresca, per lettura agevole e confortevole Altrettanto nutriente è la postfazione del curatore Michele Rago. Quando ero fotografo, di Nadar; a cura di Michele Rago; traduzione di Ste fano Santuari; Abscondita, 2004 e 2010; 256 pagine 12,8x22cm; 24,00 euro.

Approfondita riflessione che dovrebbe appartenere alle conoscenze/compe tenze individuali di tutti coloro, noi tra questi, che si occupano di Fotografia senza limitarsi alla sua sola superficie apparente: «L’etica e la morale, come sempre dovrebbe essere in fotografia, soprattutto nella fotografia che osserva la vita nel proprio svolgersi. Etica e morale di chi agisce, etica e morale di chi osserva. [...] Ci guidi soprattutto l’inflessibilità di quell’etica e quella mora le che ci fa distinguere naturalmente il bene dal male, il giusto dall’ingiusto».

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WILLY RONIS. IL MANUALE DEL PERFETTO FOTOREPORTER Libro di piccole dimensioni, ma grandi contenuti, da rintracciare nel mer cato antiquario (e dintorni): auguri. Realizzato da Aldo Quinti Editore, nel 1953, in traduzione dell’originario Publications Paul Montel, di Parigi, del precedente 1951, autentico manuale non necessariamente pratico, ma di contenuti: «Reportage e caccia alle im magini non sono due termini che si contraddicono. La caccia alle immagini è lo sport e l’arte che pratica chiunque -dilettante o professionista- si serva del proprio apparecchio per fissare gli aspetti fuggevoli del mondo esterno. Il reportage è un’applicazione della caccia alle immagini». Beh, non male. Parole che da sole giustificano il prezzo del libro, qualsiasi fosse all’epoca e qualsiasi possa essere oggi, e che promettono bene: «Scri vendo questo libretto, ho pensato a tutti voi, amici dilettanti che nella af fascinante magia della superficie sensibile cercate di fissare per l’avvenire alcuni momenti scelti nel presente»! Non male! Niente male! Il manuale del perfetto fotoreporter, di Willy Ronis; Aldo Quinti Editore, 1953; 124 pagine 12x17cm.

Con eccezionale capacità, polso fermo, mente brillante, Ferdinando Scianna non si disperde. Prende per mano il lettore e lo accompagna lungo un tra gitto che dischiude porte delle quali per lo più si ignorava perfino l’esisten za. Porte chiuse, che si spalancano e rivelano meravigliosi panorami. Meravigliosi per la Giustamente,mente.l’osservazione

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Archivio FOTOgraphia

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In progressione temporale, i titoli a tema unico (uso degli apparecchi a ban co ottico) sono presto riassunti: Das goldene Buch der Gebrauchsfotogra fie: Großformat (1969; manuale originario, pubblicato anche in altre lingue, compreso l’italiano, che qui evochiamo: Il libro del sistema Sinar - Manuale della fotografia su grande formato); Il sistema Sinar - Manuale dell’appa recchio fotografico professionale (1974 e 1977); Il grande formato - Manuale del sistema Sinar (con Jost J. e C. Marchesi, 1982, 1986 e 1990); Photo KnowHow - L’alta scuola del grande formato (1972); Photo Know-How - Corso di fotografia in grande formato (con Jost J. Marchesi, 1984).

Il libro del sistema Sinar, di Carl Koch; Ippolito Cattaneo (Genova), 1970 (?); 112 pagine 20x20cm.

ANSEL ADAMS. FOTOGRAFIA IN BIANCO E NERO

Fotografia in bianco e nero, di Ansel Adams; estratto dai manuali di Ansel Adams, pubblicato nella serie dei manualetti Hasselblad, 1980; 28 pagine 14,5x21cm.

Archivio FOTOgraphia (3)

CARL KOCH. IL LIBRO DEL SISTEMA SINAR Questo è il primo titolo di una serie che si è allungata nel tempo, con edizioni via via rivedute e corrette, via via perfezionate (per dichiarazioni esplicite... ma non è poi detto). I manuali di Carl Koch, fotografo di seconda (terza?) generazio ne e ideatore della Sinar, rappresentano ancora oggi pietre miliari del settore.

EMILIO FRISIA. LA MACCHINA FOTOGRAFICA PROFESSIONALE Scomparso nell’estate 2004, a ottant’anni, Emilio Frisia è stato attento fo tografo e apprezzato insegnante. Oltre una certa serie di monografie illustrate, ha compilato un manuale di uso degli apparecchi a banco ottico, ai tempi sollecitato dalla Fatif DS, originariamente progettata dal designer Giò Colombo [altrove Gio o Joe] insieme all’ingegner Quintino Piana (1969; premio Compasso d’Oro). Proprio la milanese Fatif pubblicò La macchina fotografica professionale, curandone anche la distribuzione. Si tratta dell’unico “manuale” (e non solo “manuale”) sull’uso degli apparecchi fotografici a banco ottico a firma italia na (altri ce ne sarebbero... ma lasciamo perdere). La premessa dell’autore è discriminante: «Il presente manuale sull’uso delle macchine professionali è stato scritto da un fotografo e non da un tecnologo». E, ovviamente, ci si ri ferisce a esperienze professionali e didattiche che -nel testo- guidano la presentazione dei movimenti caratteristici del banco ottico, i cui decentramenti e basculaggi sono finalizzati al controllo della prospettiva e della nitidezza. La macchina fotografica professionale, di Emilio Frisia; Fatif, 1975 (?); 80 pagine 18x25cm, cartonato.

I testi tecnici di Ansel Adams sono stati pubblicati da Zanichelli, editore al quale si deve pure L’autobiografia (1993; 416 pagine 22x26cm, cartonato). In consecuzione logica: Il negativo (1987; 288 pagine 18,5x25cm, cartonato), La stampa (1988; 224 pagine 18,5x25cm, cartonato) e La fotocamera (1989; 216 pagine 18,5x25cm, cartonato), reperibili anche in cofanetto. Dalla serie originaria dei manuali, manca e mancherà per sempre, la traduzione di Po laroid Land Photography (1963 e 1970), per altro ormai inutile. E, poi, ci sarebbe perfino un estratto Fotografia in bianco e nero, pubbli cato nella serie dei manualetti Hasselblad: introvabile? Ed è anche per questa sua sostanziosa irreperibilità che lo segnaliamo, in chiusura di carrellata, per sollecitare a quella ricerca di titoli fotografici del passato, anche remoto (a ciascuno, la propria unità di misura e considera zione dello scorrere del Tempo). A differenza, del passato, oggi le ricerche, perfino bibliografiche, sono sostanzialmente agevoli. In Rete.

Quello che cerco di spiegare è che è impossibile mettersi nei panni degli altri. Questo è più o meno il senso di tutto il discorso. La tragedia degli altri non è mai uguale alla propria.

Ultimamente, mi sono resa conto di quanto, in una foto grafia, amo ciò che non si vede.

/ RIFLESSIONI / DAL TORMENTO

Accadono sempre due cose. Una è il riconoscimento di qualcosa di familiare e l’altra è il cogliere qualcosa di assolutamente peculiare. Ma in qualche modo mi ci identifico sempre.

48 Niente è mai come si diceva che fosse. Quello che non ho mai visto prima è ciò che riconosco. Se fossi solo curiosa, sarebbe molto difficile dire a qualcuno “Vorrei venire a casa tua, chiac chierare un po’ e ascoltare la storia della tua vita”. La gente mi direbbe che sono pazza e si metterebbe subito sulla difensi va. Ma la macchina fotografica è una specie di lasciapassare. Molti vogliono che gli si presti attenzione, e questo è un tipo di attenzione più accettabile. Accadono sempre due co se. Una è il riconoscimento di qualcosa di familiare e l’altra è il cogliere qualcosa di assoluta mente peculiare. Ma in qualche modo mi ci identifico sempre. Tutti vorrebbero apparire in un modo e finiscono per ap parire in un altro. Ed è questo che la gente osserva. Guardi qualcuno per strada, e ciò che fondamentalmente noti sono i difetti. È straordinario che ci siano state date queste pecu liarità, ma noi, non contenti, ne creiamo tutta un’altra se rie. L’intera nostra immagine esteriore serve a dare un se gnale al mondo, affinché pensi di noi in un certo modo. Tuttavia, c’è sempre una dif ferenza tra quello che voglia mo che si sappia di noi e quel lo che non possiamo evitare che si sappia di noi. Ha a che fare con quello che ho sem pre chiamato la distanza tra l’intenzione e l’effetto. Quando esamini la realtà abbastanza da vicino, e in qualche modo la cogli veramente, è straordi nario. Sai che è assolutamente fantastico che siamo così, e a volte, in una fotografia, lo noti molto chiaramente. C’è qual cosa di ironico nel mondo, ed ha a che vedere con il fatto che i risultati non corrispondono mai alle intenzioni.

Una vera e propria oscurità fisi ca. È davvero emozionante per me vedere di nuovo l’oscurità. Ciò che trovo emozionante nella cosiddetta tecnica -odio definirla così, perché suona co me qualcosa che tiri fuori dal cilindro-, ciò che veramente mi coinvolge emotivamente è che viene da qualche luogo profondo e misterioso. Sì, può avere a che fare con la carta e il rivelatore e tutta quella roba, ma viene soprattutto da alcune scelte molto profonde che fai, che richiedono parecchio tem po e continuano a ossessionarti. L’invenzione è soprattutto una cosa sottile e inevitabile. Ci si avvicina alla bellezza della propria invenzione. Vi si pene tra in modo sempre più minu zioso e accurato. L’invenzione ha molto a che fare con la luce che alcune persone posseggo no, con la qualità della stam pa e la scelta del soggetto. Si fanno un milione di scelte. È la fortuna, o la sfortuna. Alcune persone odiano un certo tipo di complessità. Altre vogliono solo la complessità. Ma niente di tutto ciò è davvero intenzio nale, perché deriva dalla pro pria natura, dalla propria iden tità. Tutti abbiamo un’identità. Non possiamo evitarlo. È ciò che rimane quando si toglie tutto il resto. Credo che le in venzioni più belle siano quelle alle quali non si pensa. Alcune fotografie sono incur sioni sperimentali e nemme no te ne rendi conto. Diventa no metodi. È importante fare brutte fotografie. Le foto mal riuscite hanno a che fare con ciò che non hai mai fatto pri ma. Possono mostrarti qualco sa che non avevi visto, così che, rivedendolo, lo riconosci.

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di Diane ArbusESTRATTI COERENTI DA RIFLESSIONI ESTRAPOLATE DA TESTI E LEZIONI

Un’altra cosa è che un fo tografo deve essere specifi co. Ricordo che tanto tempo fa, quando cominciavo a fare fotografie, pensavo “Al mon do c’è un numero enorme di persone, e sarà difficilissimo fotografarle tutte. Quindi, se fotografo alcune tipologie ge neriche di esseri umani, tutti le riconosceranno. Sarà quel lo che chiamiamo l’uomo co mune o qualcosa del genere”. Fu la mia insegnante, Lisette Model, che alla fine mi spiegò che più si è specifici, più l’effet to è generale. Devi guardare le cose in faccia. Esistono cer ti equivoci, certe premure di cui, penso, bisogna liberarsi. Sono un po’ stanca di fotogra fare persone note o anche sog getti conosciuti. Mi affascinano quando ho a malapena sentito parlare di loro, e -nel momento in cui diventano pubblici- non mi dicono più niente.

Quando ero bambina, avevo l’idea che non appena dicevi una cosa, quella cosa non fosse più vera. Sicura che se non avessi cambiato idea sarei diventata pazza alquanto velocemente. Tuttavia, c’è un che di simile in ciò che sto cercando di spiega re. Una volta fatto, desideri an dare da un’altra parte. È come se volessi uscire da un recinto. Non ero una bambina con aspirazioni particolari. Non de sideravo suonare il piano o co se del genere. Dipingevo, ma lo odiavo, e ho smesso subito do po la scuola superiore, perché mi sentivo continuamente dire quanto ero fantastica. Era l’epoca dell’autoespressione. Frequen tavo una scuola privata in cui la tendenza era quella di chie derti: “Cosa ti piacerebbe fare?”. Mi dava i brividi. Ricordo che odiavo l’odore della tempera e il rumore che faceva il pennel lo quando lo passavo sulla car ta. A volte, non guardavo nem meno, mi limitavo ad ascolta re quell’orribile specie di squish squish squish. Non volevo sen tirmi dire che ero bravissima. Credevo che se fossi stata dav vero così brava a dipingere, non sarebbe più valsa la pena farlo.

Francesco Guccini (E un giorno...)

50 Poi un giorno, in un libro o in un bar si farà tutto chiaro, ca pirai che anche altra gente si è fatta le stesse domande.

Quando ti vien voglia di criticare qualcuno, ricordati che non tutti a questo mondo hanno avuto i vantaggi che hai avuto tu.

L’uomo [...] è tutto concen trato sull’attimo presente [...]; si aggrappa a un frammento di tempo scisso dal passato co me dal futuro; si è sottratto al la continuità del tempo; è fuori del tempo - in altre parole è in uno stato di estasi: [...] di con seguenza non ha paura, poi ché l’origine della paura è nel futuro, e chi si è affrancato dal futuro non ha nulla da temere. Milan Kundera (La lentezza)

Quando ti vien voglia di criticare qualcuno, ricordati che non tutti a questo mon do hanno avuto i vantaggi che hai avuto tu.

La casa sul confine dei ricordi, la stessa di sempre, come tu la sai / e tu ricerchi là le tue radici se vuoi capire l’anima che hai. Francesco Guccini (Radici ) Non me ne frega niente se la storia mi sta togliendo tutto. Le ho già preso tantissimo, viven do come ho creduto e come ho voluto. Ciò che è stato fatto per il partito è ormai polvere, nuvole. Ma ciò che abbiamo fatto per noi stessi, è ciò che noi stessi oggi siamo. Michele Serra (Salsicce pulite)

La velocità è la forma di estasi che la rivoluzione tecnologica ha regalato all’uomo. [...] Ma quando l’uomo delega il po tere di produrre velocità a una macchina, allora tutto cambia. Milan Kundera (La lentezza) Mi ricordo Jurij Gagarin. Georges Perec (Mi ricordo) La verità non è qualcosa di semplice e facile che si può conoscere automaticamen te, ma un insieme di fatti ed equilibri laborioso e sempre da verificare: la verità è intrinse camente ipotetica, anche se sembra del tutto ovvia. Come la scienza, suppongo. Ernest Callenbach (Ecotopia) E il mio maestro mi insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire. Franco Battiato (Prospettiva Nevski ) Sono un clown, e faccio rac colta di attimi. Heinrich Böll (Opinioni di un clown) Fantasia: tutto ciò che prima non c’era, anche se irrealizza bile. Invenzione: tutto ciò che prima non c’era, ma esclusiva mente pratico e senza problemi estetici. Creatività: tutto ciò che prima non c’era, ma realizzabi le in modo essenziale e globa le. Immaginazione: la fantasia, l’invenzione e la creatività pen sano, l’immaginazione vede. Bruno Munari (Fantasia) Non c’è una sola idea, per quanto assurda e ripugnante, che non abbia un aspetto sen sato e non c’è una sola idea, per quanto plausibile e umanita ria, che non incoraggi, e quin di dissimuli, la nostra stupidità e le nostre tendenze criminali. Paul K. Feyerabend (Dialogo sul metodo) Quando ti metterai in viag gio per Itaca / devi augurarti che la strada sia lunga / fertile in avventure e in esperienze. Konstantinos Kavafis (Itaca) È questa armonia, questa Qualità, se si vuole, l’unico fon damento dell’unica realtà che ci sia mai dato di conoscere. [...] Quando siete davvero blocca ti nessun soggetto o oggetto vi dirà dove dovete andare; la Qualità sì. Robert M. Pirsig (Lo Zen e l’arte delladellamanutenzionemotocicletta ) Io mi rendo conto. Chance (Giardiniere) (Oltre il giardino) Una società sguaiata, che esprime la sua fredda voglia di vivere più esibendosi che go dendo realmente la vita, me rita fotografi petulanti. Ennio Flaiano (La solitudine del satiro) «Bisogna che accada qual cosa!» / «Qualcosa accadrà». Heinrich Böll (QualcosaRaccontoaccadrà.densodiavvenimenti ) Che cento fiori sboccino e cento scuole contendano. Mao Zedong (Sulla giusta soluzione delle contraddizioni in seno al popolo) D’ora in poi, se tu crederai che io esisto, anch’io crederò che esisti tu. Lewis Carroll (Le Avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie) Servirebbe? Rudol’f Ivanovič Abel’ (Il ponte delle spie / Bridge of Spies) ■ ■

/ VOGLIAMO PARLARNE? / PAROLE DA

Francis Scott Fitzgerald (Il grande Gatsby ) Se vivere è un’arte, è un’ar te strana, che dovrebbe com prendere tutto, e in particolare un forte piacere. La sua forma evoluta dovrebbe comprende re un numero di qualità fuse insieme: intelligenza, fascino, fortuna, virtù, nonché saggezza, gusto, conoscenza, compren sione, oltre all’accettazione del fatto che l’angoscia e il conflit to fanno parte della vita. [...] Le persone di cui penso che viva no con talento sono quelle che hanno vite libere, che formula no grandi schemi e li vedono realizzati. E loro sono anche la migliore compagnia. Hanif Kureishi (Nell’intimità)

Francis Scott Fitzgerald (IlgrandeGatsby) NON CREDERE (?), LETTURE E INSEGNAMENTI. DA CONSIDERARE. DA CONSERVARE

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