FOTOgraphia 260 aprile 2020

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Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano

ANNO XXVII - NUMERO 260 - APRILE 2020

Yoshiyuki Akutagawa VISIONI DALL’ALTO Peter Menzel e Faith D’Aluisio QUANTO CIBO Franco Zampetti (in Iran) OSSERVAZIONI ZENITALI

JULIA WATSON: LO-TEK DESIGN NATIVO


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prima di cominciare DAL PASSATO AL FUTURO. Non abbiamo competenze in merito. Ovvero, per quanto possiamo leggere e interpretare fenomeni sovrastanti, non abbiamo mezzi intellettivi specifici per andare troppo oltre. Soprattutto, ci mancano quelle basi filosofiche in relazione alle quali tradurre rilevazioni quotidiane, in proiezione futuribile. Così essendo, possiamo soltanto osservare e riflettere e considerare... magari in rispetto a un mandato inderogabile, spesso richiamato, secondo il quale siamo coerenti e conformi al princìpio di osservare, piuttosto di giudicare, con relativo accompagnamento di pensare, invece di credere. E tanto ci basta... spesso... sempre. A fine Duemiladiciannove, come propria tradizione, il settimanale Time Magazine è arrivato in distribuzione giornalistica con un numero sostanzialmente speciale e, perché no?, monografico. Riferiamone. In forma di casellario, con suddivisione in capitoli di riferimento primario, sono state censite le migliori cento invenzioni dell’anno (ovviamente, 2019). La Fotografia, in quanto tecnologia applicata, è assente. E non abbiamo nessuna voglia di andare a consultare le analoghe sintesi, compilate in anni passati: l’assenza attuale e odierna tanto ci basta.

Questo numero di FOTOgraphia è datato “aprile 2020”, come da sua lavorazione e intenzione originaria. Nel frattempo, sono intervenuti fatti a tutti noti, relativi alla tutela preventiva da contagi Coronavirus. Manteniamo la data di copertina, come faremo sui numeri immediatamente a seguire, confortati dal fatto che il ritardo in arrivo, per quanto possa compromettere alcuni degli argomenti affrontati e trattati, in cronaca, sia sostanzialmente ininfluente sul nostro modo di intendere la relazione attorno la Fotografia. E lo speriamo.

Riscopri in tuo amore per le piccole cose. Aliya Salahuddin; su questo numero, a pagina 10 Tutti noi, un po’ obesini, potremmo trarre spunti di riflessione da quanto si vede e si legge nel libro a proposito del nostro regime alimentare. Lello Piazza; su questo numero, a pagina 44 Tradizionalmente, l’elemento guida e caratterizzante dell’architettura iraniana è stato il proprio simbolismo cosmico «per il quale l’Uomo è messo in comunicazione e partecipazione con i poteri del Paradiso». Antonio Bordoni; su questo numero, a pagina 27 Spesso, sottolineiamo come e quanto la Fotografia non sia territorio assoluto dai confini e inderogabili. Angelo Galantini; su questo numero, a pagina 30 Fate voi. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 50

Copertina

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA

Dalla convincente e coinvolgente selezione di fotografie che compongono il passo delle considerazioni su quello che, in traduzione libera, identifichiamo come “Design nativo”, a cura di Julia Watson, una visualizzazione dallo studio Lo-TEK. Design by Radical Indigenism, del quale riferiamo da pagina 28

3 Altri tempi (fotografici) Annuncio pubblicitario per le pellicole fotosensibili Ilford Selochrome, del 1912. Valori ormai dimenticati Allo stesso momento, registriamo che la Fotografia è ampiamente presente nelle proposte/offerte su eBay. Lo è in due modi: presentazioni di oggetti degni dell’attenzione antiquaria e collezionistica e, in contraltare, suggerimenti svincolati da qualsivoglia concretezza, declinati in forma e sostanza di “arredamento”, totalmente slegato da utilità pratiche. Ripetiamolo, ribadendolo. Se avessimo strumenti opportuni di considerazione e analisi, potremmo stilare anche considerazioni ad ampio raggio. Invece, per quanto poco riusciamo a considerare, ci basta questa sola registrazione: i manufatti fotografici del passato, soprattutto remoto, che entrano a far parte del mobilio quotidiano. Qualcosa vorrà pur dire. O no?

7 Editoriale Certo, in questi momenti attuali, siamo tutti compresi nelle logiche del Coronavirus. Ma non dobbiamo dimenticarci che La qualità è contagiosa. Sempre

8 Onde dello stesso mare Certamente, fotografie che diventeranno icona rappresentativa dell’attualità dei nostri giorni (e altre, sopraggiungeranno). Riflessioni a complemento di Aliya Salahuddin

13 Eisenhower stereo Curioso ritrovamento da un numero di Life, del 1952: certificazione dell’interesse per la fotografia 3D da parte di Ike Eisenhower, poi presidente degli Usa


APRILE 2020

RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA

16 Quello svitato Nel rievocare la figura e personalità di Dario Fo, Premio Nobel per la Letteratura 1997, rievochiamo un film nel quale fu protagonista. In veste di fotocronista Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

Anno XXVII - numero 260 - 6,50 euro DIRETTORE

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

IMPAGINAZIONE

Maria Marasciuolo

REDAZIONE

20 Pompei ed Ercolano Per quanto l’esposizione fotografica, a Modena, abbia potuto incorrere nei divieti della prima fase di contrasto al Coronavirus, una intensa e appagante monografia: Requiem, del giapponese Kenro Izu, in edizione Skira

Filippo Rebuzzini

CORRISPONDENTE Giulio Forti

FOTOGRAFIE Rouge

SEGRETERIA

Maddalena Fasoli

HANNO

22 Iran zenitale Fotografia di Franco Zampetti che restituisce per intero lo stile e il valore di architetture antiche, che sottolineano la partecipazione dell’Uomo con i poteri del Cielo. Avvincente e convincente stilema espressivo e progettuale di Antonio Bordoni

28 Design nativo Monografia di argomento. A cura di Julia Watson, Lo-TEK. Design by Radical Indigenism rivela sostanziose alterazioni che l’Uomo infligge all’ambiente, al Pianeta di Angelo Galantini

36 Sguardi dall’altro Con la sua fotografia dall’aereo, Yoshiyuki Akutagawa decontestualizza il soggetto (pretesto?), per affermare personalità visive autonome e indipendenti. Splendido di Marina De Meo e Maurizio Rebuzzini

44 Quanto cibo A Villa Carlotta, sul Lago di Como, selezione dall’intenso progetto Hungry Planet: What the Word Eats, di Peter Menzel e Faith D’Aluisio (ammesso e non concesso che le restrizioni Coronavirus abbiano consentito l’allestimento scenico). E monografia di Lello Piazza

48 Crateri lunari... Intitolati a Joseph Nicephore Niépce, Louis Jacques Mandé Daguerre, William Henry Fox Talbot, pionieri della Fotografia / natura che si fa di sé medesima pittrice. E a Ernst Karl Abbe e Alhazen, ai quali dobbiamo molto Nella stesura della rivista, a volte, utilizziamo testi e immagini che non sono di nostra proprietà [e per le nostre proprietà valga sempre la precisazione certificata nel colophon burocratico, qui accanto: «È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo)»]. In assoluto, non usiamo mai propietà altrui per altre finalità che la critica e discussione di argomenti e considerazioni. Quindi, nel rispetto del diritto d'autore, testi e immagini altrui vengono riprodotti e presentati ai sensi degli articoli 65 / comma 2, 70 / comma 1bis e 101 / comma 1, della Legge 633/1941 / Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio.

COLLABORATO

Yoshiyuki Akutagawa Antonio Bordoni Franco Canziani Marina De Meo mFranti Angelo Galantini Lello Piazza Marco Saielli Aliya Salahuddin Franco Zampetti

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Rivista associata a TIPA

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Attrezzature fotografiche usate e da collezionismo Specializzato in apparecchi e obiettivi grande formato

di Alessandro Mariconti

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editoriale MAURIZIO REBUZZINI

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uoi per Caso (!?), vuoi per emergenza sanitaria conclamata, dall’inizio di marzo, stiamo vivendo una esistenza inconsueta, perlomeno alla luce dei soliti parametri di vita quotidiana. A tutela del Coronavirus, che sta avvolgendo l’intero pianeta, con impressionanti punte di morti, in molti paesi, Italia compresa, l’ordinanza di base è quella di rimanere protetti in casa propria, evitando così possibili contatti e contagi. Non sta a noi giudicare l’efficienza delle normative, ma ci limitiamo a considerare come e quanto questo “isolamento” quotidiano non abbia conseguenze solo immediate, ma si possa psicologicamente allungare in avanti quando (?) tutto tornerà al ritmo normale di vita: con negozi a disposizione, luoghi di ritrovo affollati e altro tanto ancora. In medesima considerazione, non siamo qualificati ad esprimere valutazioni a breve, medio e lungo termine. Soltanto, ci rimane da registrare i fatti per come si manifestano e presentano. Nulla di più, né diverso... se non che. Richiamandoci al nostro indirizzo statutario, la Fotografia, fino a questo momento così particolare, abbiamo sempre ipotizzato un altro concetto di “contagio”, non certo sanitario, ma esistenziale. Ovvero: trasmissione e propagazione di idee, atteggiamenti, approcci. In questo senso, una trentina di anni fa, ormai!, visitando le fabbriche Polaroid dislocate attorno a Cambridge, Boston, Massachusetts, Stati Uniti, in una dipendenza indirizzata alla ricerca della qualità nei e dei propri prodotti, oltre i parametri oggettivi di progettazione, ci imbattemmo in un poster che qui riportiamo, in sua riproduzione fotografica: quell’invito, «La qualità è contagiosa», riprendeva una delle nostre convinzioni, che appunto così si esprime, esattamente. Un certo modo di pensare, che non condividiamo e che abbiamo sempre commentato in senso negativo, su queste nostre pagine, vorrebbe elevare la Fotografia (e la Letteratura e il Cinema) affidando loro il compito (immane, smisurato spropositato) di migliorare il mondo. Non è proprio così; anche perché, se così fosse, considerate queste Opere dell’Uomo, il nostro sarebbe veramente un mondo migliore nel quale vivere. Invece, molto più concretamente, l’azione positiva dell’Uomo non ha riscontri solleciti, conseguenze tempestive, ma agisce, giorno per giorno, in contagiosità: «La qualità è contagiosa». Sostanzialmente, le esistenze individuali sono somma di tante sollecitazioni, non il risultato dare-per-avere che si consuma in fretta. Altrove, questo può accadere (un gol consente di vincere una partita di calcio; più vittorie favoriscono la conquista del campionato). Nella Vita, i passi sono più lenti, ma radicati nel profondo. C’è un virus per coloro i quali si occupano di Fotografia, a qualsiasi livello e con qualsivoglia intenzione lo facciano: è quello della qualità, a partire dalla propria azione individuale, per approdare al rapporto continuo e costante con l’esterno. Una Fotografia non cambia alcun equilibrio; tante Fotografie influiscono positivamente sulle coscienze. E lì, in quel momento, maturano percezioni e convinzioni. Maurizio Rebuzzini

La qualità è contagiosa.

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Icona del Tempo di Aliya Salahuddin

ONDE DELLO STESSO MARE

P

World Press Photo of the Year 1990 (1989). Si storicizza l’inquadratura da circa un chilometro, da un balcone dell’Hotel Beijing, con un 400mm... ma non è questo che conta qualcosa. Entrambe le immagini, piazza san Pietro 27 marzo 2020 (scegliete voi quale) e Tienanmen 5 giugno 1989, ci sembrano l’icona della biblica lotta di Davide contro Golia, degli eroi che cercano di fermare nemici più grandi di loro, dello studente che affronta i carri armati, del papa che cerca di fermare il Coronavirus. Accompagniamo una serie di fotografie del papa, con il riassunto di un articolo scritto il venti marzo (dunque, per se stesso estraneo al soggetto implicito) da una giornalista pakistana che risiede in Italia, Aliya Salahuddin, per un quotidiano di Karachi (Pakistan), il Dawn. L’articolo commenta con garbo e umanità il lockdown (blocco, isolamento...) del nostro paese sotto la minaccia del virus. L.P.

VATICAN MEDIA (2)

Papa Francesco, alle diciotto dello scorso ventisette marzo, impartisce la benedizione Urbi et Orbi (a Roma e al mondo) in una piazza san Pietro, in Vaticano, svuotata dal Coronavirus, sotto le nuvole nere di un temporale che si è inghiottito il tramonto, con le pietre del selciato bagnate dalla pioggia. Le fotografie, dove il papa appare piccolo e insignificante, come il virus che vuole esorcizzare, sono destinate a diventare icone della Storia della Fotografia, tanto importante come quella di un’altra piazza, quella di Tienanmen, a Pechino, altrettanto deserta di uomini, ma piena di carri armati minacciosi, Tipo 59, che vengono fermati da un omino in maniche di camicia, Il rivoltoso sconosciuto. Era il cinque giugno 1989. Ci sono molte versioni di questo istante; alla Storia, si accredita la fotografia più famosa, scattata da Charlie Cole (19552019), mancato lo scorso settembre [ FOTOgraphia, ottobre 2019]:

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Icona del Tempo

S

Sabato scorso, io e la mia famiglia siamo rimasti sul balcone a mezzogiorno. Nel silenzio di una città bloccata, hanno cominciato a suonare le campane di tutte le chiese di Monza. Quando il suono delle campane è svanito, l’aria si è riempita di un lungo applauso: vigoroso e appassionato. Ci siamo uniti all’applauso che dalle città, dai paesi e dai villaggi del paese esprimeva la gratitudine degli italiani per dottori, infermiere e operatori sanitari che combattono in prima linea nella lotta per contenere il Coronavirus. In un’Italia sempre saccente e polemica, tale dimostrazione di unità è commovente. Dopo un numero devastante di morti e

malati, gli italiani ora concordano che i dottori sono angeli e l’isolamento è l’unica via da seguire. Gli italiani hanno imparato rapidamente ad annullare ciò che è pratica naturale: niente baci e abbracci, niente soste per le chiacchiere. Ci siamo seduti a un metro l’uno dall’altro nei ristoranti e bar, quando erano ancora aperti e frequentabili, e ora, dopo il blocco, usiamo gli spazi condominiali una famiglia alla volta. Quasi due settimane dopo l’inizio del blocco, sembra che stare a casa non sia molto difficile. Anche isolati, siamo insieme nella nostra esperienza di crisi e nella nostra ansia dell’ignoto. Questo non è un coprifuoco in tempo di

guerra, è un blocco del Primo Mondo: c’è elettricità, internet e buon cibo nel frigorifero. La parte difficile è il silenzio fuori. Vivo nel centro di Monza, alle porte di Milano, e le finestre della mia casa si aprono sulla strada principale, che un tempo si riempiva dei rumori di un flusso costante di automobili e persone che passavano. Ora, tutto ciò che sento è il cinguettio degli uccelli che sono tornati per la primavera, interrotto solo da suoni snervanti di ambulanze che passano. Ma le persone hanno trovato il modo di connettersi, divertirsi e mantenere il morale alto. I social media mantengono unito il paese. Abbiamo visto gli italiani

cantare dai loro balconi e suonare il violoncello, l’arpa, la tromba, il tamburello, il flauto, il piano, le pentole e le padelle: tutto ciò che ci si poteva aspettare da un paese culturalmente vivo. Di recente, un gruppo di persone ha tenuto per diciotto ore filate una trasmissione in diretta su YouTube, passando da una casa all’altra attraverso le chat video. Abbiamo scoperto che c’è qualcuno che legge una storia per bambini, un altro legge brani di un libro. La telecamera si è poi spostata nella redazione di un giornale locale, a cui ha fatto seguito un pranzo con uno chef che ha insegnato al pubblico le sue ricette.

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YARA NARDI / POOL

Icona del Tempo

Si passa molto tempo davanti agli schermi degli iPad e dei computer, mentre la primavera brilla all’esterno. È una cosa strana assistere alla primavera dalla finestra senza poterla vivere, senza poterla sentire sul volto. Oggi, le persone fortunate possono lavorare da casa, altre sono costrette a raggiungere i luoghi di lavoro. Banche, negozi di alimentari, tabaccherie, edicole e farmacie sono aperti, così come le stazioni dei pompieri, i soccorsi e i servizi funebri. Ci è permesso di uscire di casa, ma non senza un modulo ufficiale di autocertificazione firmato che dichiara una ragione ammissibile per la nostra uscita.

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Si discute se il blocco porterà a più bambini o a più divorzi. Quasi tutti si lamentano di ingrassare. Io e i miei amici stiamo pensando di prendere lezioni di danza online. Le persone si offrono volontarie per assumersi le responsabilità della spesa per anziani e disabili. I giornali hanno pubblicato supplementi su cosa fare la domenica: leggi un libro, ascolta musica, chiama amici con i quali altrimenti non hai tempo di parlare, guarda un thriller, o “piangi su un film romantico”. Riscopri il tuo amore per le piccole cose, come la bevanda nazionale italiana, il Negroni (un cocktail di gin e Campari).

Alcune aziende e molti privati hanno donato generosamente agli ospedali. I principali quotidiani hanno reso quasi gratuiti i propri abbonamenti digitali; le società di Internet hanno annunciato un uso illimitato gratuito della Rete; le più grandi fondazioni cinematografiche offrono accesso a archivi di video e libri online. Il governo ha ritardato i pagamenti delle tasse, annunciato interruzioni, annullato i pagamenti dei mutui per il mese di aprile e vietato alle aziende di interrompere la fornitura di gas, elettricità e acqua per i morosi. Ci sono linee di assistenza per persone con più di sessantacinque anni e un servizio in grado di offrire pasti caldi.

Noi stiamo organizzando aperitivi con gli amici, attraverso le chat video; ma non è comunque tutto un film allegro con musica, vino, pizza e sorrisi. Non c’è modo di sfuggire al trauma che una nazione attraversa quando duemila persone periscono in un mese per una malattia infida che aggredisce e colpisce senza sosta. Mentre scrivo, sento di nuovo debolmente il suono di un’ambulanza che riempie una notte altrimenti molto tranquilla. Questa è la quarta ambulanza che è passata. Le sirene sono diventate un suono inquietante per una piccola città dove è diventato probabile che si conosca qual-


VATICAN MEDIA

Icona del Tempo

cuno che è risultato positivo o è ricoverato in ospedale o, forse, non ce l’ha fatta. La situazione è devastante per le famiglie che devono stare lontane dai propri genitori anziani solo per tenerli al sicuro da un possibile contagio. Recentemente, un video è diventato virale sui social media: un uomo sfoglia le pagine dei necrologi di un giornale locale bergamasco. La provincia, a quaranta chilometri dalla mia, ha visto un’allarmante concentrazione di casi di Coronavirus. All’inizio di febbraio, un giorno, gli annunci dei necrologi sul giornale erano lunghi quasi una pagina e mezza. Il tredici marzo, hanno riempito dieci pagine.

Queste persone non sono più solo numeri composti da nomi sconosciuti. Hanno delle storie. Includono una vecchia coppia che è morta insieme, un operatore sanitario di quarantasei anni, un padre e un figlio che sono morti a un giorno di distanza. Questo sta mettendo a dura prova le comunità locali. Secondo quanto riferito, un normale sabato di marzo, a Bergamo, vedrebbe da quattro a cinque morti in città, ma ora la media è di quasi venti persone. Questo sta accadendo anche in una città vicina, Zogno, dove «il parroco non segnala ogni morte con il suono della campana a martello, perché altrimenti la

campana funebre suonerebbe implacabile tutto il giorno». Il tempo è diventato un concetto confuso. All’interno delle quattro mura di casa, il tempo a volte si ferma. Ma negli ospedali vicini, il tempo va a un’altra velocità. Uno dei più grandi ospedali di Milano afferma che i nuovi pazienti arrivano «ogni cinque minuti». Il primo ministro Conte afferma: «Il tempo sta per scadere» (incombente spada di Damocle). Poi c’è il momento della paura: alle diciotto ogni giorno, vengono rilasciate le statistiche quotidiane di coloro che sono morti. Solo due mesi fa, venivano scritti articoli sul comportamento razzista degli italiani nei confronti

dei cinesi. Sembra che da allora sia passata una vita. La scorsa settimana, una delegazione cinese di medici è arrivata con forniture mediche ed esperienza accumulata sul campo di Wuhan per aiutare una Italia in difficoltà. Oggi ci sono post sui social media che ringraziano la Cina e celebrano la partnership Cina-Italia, mentre il portavoce del ministero cinese ha parlato della sfida comune dell’umanità, citando l’antica filosofia romana di Seneca: «Siamo onde dello stesso mare, foglie dello stesso albero, fiori dello stesso giardino». Onde dello stesso mare. ❖ Pubblicato in Dawn - EOS / Pakistan, 22 marzo 2020

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Ritrovamento di Antonio Bordoni

EISENHOWER STEREO

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Dwight D. Eisenhower, confidenzialmente Ike, è stato appassionato della fotografia stereo, come testimonia il servizio pubblicato da Life nella primavera 1952 (fotografie di David Douglas Duncan). Quello stesso anno, l’eroe del fronte occidentale della Seconda guerra mondiale venne eletto presidente degli Stati Uniti (con doppio mandato, dal 1953 al 1961).

Che Dwight D. Eisenhower fosse un appassionato fotografo Stereo (3D) lo aveva già rivelato, una quarantina di anni fa, una affascinante carrellata sulla fotografia tridimensionale compilata da Hal Morgan e Dam Symmes: Amazing 3-D, pubblicata da Little, Brown and Company, nel 1982. Nel capitolo dedicato alle vicende della Stereo Realist (David White Company, di Milwaukee, nel Wisconsin, dal 1947 al 1971), che negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento ottenne un certo successo tecnico e commerciale negli Stati Uniti, vengono ricordate le campagne stampa con testimonial di grande spessore: tra i quali, gli attori Ann Sothern, Bob Hope e Fred Astaire e il regista Cecil B. de Mille. Allo stesso tempo, una serie di fotografie tridimensionali realizzate dal generale Eisenhower, tra le quali spicca un’istantanea del premier inglese Winston Churchill, è introdotta da un ritratto di un Dwight David Eisenhower sorridente con tra le mani, appunto, una Stereo Realist.

A distanza di anni, nel solito peregrinare per mercatini e bancarelle dell’usato, siamo incappati in un vecchio numero di Life, che ha attirato la nostra attenzione per due accattivanti strilli di copertina. Per alimentare la nostra personale passione per il baseball, confessione dovuta, non abbiamo voluto perdere una intervista a Ty Cobb, uno dei personaggi più controversi e discussi del baseball statunitense (a margine della vicenda dell’Uomo dei sogni, film americano del 1989, con Kevin Costner, viene citata la cattiveria di Ty Cobb, al quale il cinema hollywoodiano ha poi dedicato una pellicola: appunto Cobb, del 1994, con Tommy Lee Jones). Quindi, non passeremmo in secondo piano un altro richiamo di copertina: i segreti di Chaplin al lavoro, fotografati da W. Eugene Smith. Insomma, due piccioni con una fava. Questa è la vicenda originaria. Poi, per quel Caso, che viene comunque favorito, se non già determinato (condizionato quasi) dalle strade che si percorrono tutti i giorni, sfogliando la copia

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA

All’indomani della Seconda guerra mondiale, durante la quale si distinse come generale in comando sul fronte europeo, Dwight David Eisenhower (familiarmente Ike) fu eletto presidente degli Stati Uniti d’America, in un momento di grande scontro politico tra democratici e repubblicani: come repubblicano, è succeduto al democratico Harry Truman (confermandosi per due mandati, dal 1953 al 1961, con vice presidente Richard Nixon), per poi cedere il passo al democratico John Fitzgerald Kennedy, che fu capace di sconfiggere il potente candidato repubblicano Richard Nixon. Dietro le quinte della politica, di questa politica planetaria, Dwight D. Eisenhower appartiene alla schiera dei personaggi pubblici appassionati di fotografia: e tanti ce ne sono, molti dei quali addirittura insospettabili (lo stesso Harry Truman, il presidente italiano Francesco Cossiga, il presidente francese François Mitterand, la regina d’Inghilterra Elizabeth II... per non estenderci ad attori e cantanti).

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Ritrovamento Dwight D. Eisenhower in versione stereo è stata la piacevole sorpresa di Life del 17 marzo 1952, avvicinato per gli strilli di copertina relativi al giocatore di baseball Ty Cobb e a un reportage di W. Eugene Smith.

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA

di Life in questione, del 17 marzo 1952, abbiamo incontrato il servizio fotografico dal quale venne ripreso il ritratto di Ike Eisenhower con Stereo Realist pubblicato in Amazing 3-D. Anche perché inaspettato, l’incontro è stato folgorante. In toni tanto favorevoli da diventare addirittura consenzienti, viene presentata e commentata la sua abile conduzione delle forze militari della Nato in Europa. Soprattutto, vengono lodate le qualità diplomatiche dell’eroe del fronte africano ed europeo della Seconda guerra mondiale, culminato con lo sbarco in Normandia degli alleati (6 giugno 1944), capace di vincere le proprie battaglie anche lontano dai campi di combattimento. Ovviamente, la coincidenza di date è poco casuale, anzi non lo è affatto. Nominato dal Partito repubblicano alle elezioni presidenziali, nel novembre di quello stesso 1952, Dwight David Eisenhower divenne il trentaquattresimo presidente degli Stati Uniti, per due mandati (1953-1961).

Ma queste sono altre questioni, seppure più importanti della combinazione con l’apparecchio Stereo Realist che interessa il nostro particolare punto di vista. Quindi, quale considerazione ispira il ritrovamento di questo servizio fotografico di Life, firmato nientemeno che da David Douglas Duncan, comprensivo di una sequenza di immagini che ritraggono Ike Eisenhower mentre fotografa la basilica bizantina Haghia Sophia di Costantinopoli? Al pari di altre

segnalazioni sulla stessa lunghezza d’onda, possiamo provocatoriamente pensare: chi se ne frega?! Ovvero, che interesse può avere questo senso/gusto retrospettivo, che va a cercare la Fotografia in cronaca, prima che diventi Storia? E pensiamo soprattutto ad altri celebri reportage, dei quali non conosciamo mai il primo impiego originario. Ufficiosamente non c’è senso. Ufficialmente ce ne sono infiniti. Soprattutto, non bisogna mai dimenticare le radici, le evoluzioni e i percorsi compiuti. Questa coscienza deve essere parte integrante di un mondo, nello specifico del mondo fotografico, indipendentemente dalle impellenze del momento. Il compito non è da svolgere privatamente, come alcuni di noi stanno facendo, ma bisognerebbe convogliare tutti questi sforzi, queste capacità in un contenitore pubblico a completa disposizione di ciascuno. In definitiva, e a conti fatti, tutti noi siamo la nostra Storia. ❖



Cinema

di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

Per quanto in una stagione di nostra vita, quasi cinquanta anni fa (anche questo ci impone l’anagrafe), abbiamo attivamente collaborato con l’attore, regista e drammaturgo Dario Fo, politicamente impegnato con la sinistra (allora extraparlamentare), quando e per quanto, occupando uno stabile vuoto e dismesso, diede vita a un teatro autenticamente popolare (in gergo, Palazzina Liberty, a Milano), siamo tra quanti, nel 1997, rimasero sbigottiti dall’assegnazione del Premio Nobel per la Letteratura. Per certi versi, condividemmo lo stupore dello stesso Dario Fo (19262016), che ebbe a dichiarare «Sono esterrefatto». E noi, con lui. Ora, a oltre vent’anni dalla cronaca, non è il caso di aggiungere nulla agli infiniti commenti riportati dai quotidiani, dai telegiornali, dai giornali radio e dai settimanali di informazione. Ognuno ha detto la propria, e noi vogliamo ricordare solo le note del critico Giovanni Raboni, riportate sulla prima pagina del Corriere della Sera, del dieci ottobre. Invece di lanciarsi nelle lodi o nel disprezzo della personalità di Dario Fo, come hanno fatto in molti (troppi), Giovanni Raboni ha voltato più alto: «Bisogna riconoscerlo -ha affermato-: la giuria del Premio Nobel per la Letteratura ha una capacità veramente formidabile di sorprendere, di spiazzare, di confondere generi e valori». Senza nulla togliere all’abilità recitativa e inventiva di Dario Fo, che (magari) non c’entra con questo Premio, siamo perfettamente consapevoli che il suo modo di scrivere teatro sia meritevole di considerazione. Che poi il Nobel sia troppo, è tutto un altro discorso, che però non può ignorare come l’Accademia svedese tenga alla propria sopravvivenza, e dunque si orienti anche nella direzione di quei clamori, oppure di quelle benevolenze che le fanno guadagnare simpatie e notizie stampa (per esempio, è il caso del lungo giro per accodarsi all’emozione suscitata dalla tragica scomparsa di Lady Di, ricordata nel proprio Premio per la Pace). Se poi vogliamo rimproverare all’Accademia notevoli

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OSVALDO CIVIRANI (2)

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QUELLO SVITATO


dimenticanze letterarie, a partire da Jorge Luis Borges, ricordiamoci che il Nobel non rappresenta, né ha mai rappresentato, la Letteratura, ma una sua interpretazione di comodo. Certamente, Dario Fo è più celebrato all’estero di quanto non sia compreso in Italia, dove la dichiarata appartenenza politica ha comunque etichettato sia la sua vita sia la sua professionalità. Osannato da sinistra, vilipeso da destra, Dario Fo è stato sempre e comunque giudicato in base a preconcetti di parte; dunque, né la sinistra (che pure ha avuto modo di boicottarlo alla sua maniera), né la destra hanno dato merito a una figura sicuramente grande del nostro teatro. Nel rallegrarci per il Nobel, Ci imponiamo di dimenticare alcuni slittamenti di stile, troppo condizionati da emozioni del momento e dall’incapacità di interpretare la cronaca. Allo stesso momento, ricordiamo genialità assolute di Dario Fo, che ci hanno folgorato fino a diventare parte attiva della nostra personalità. Dunque, è per questo che commentiamo l’assegnazione del Nobel: per rivelare un dietro-le-quinte esistenziale che, as-

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA

Cinema

sieme a molte altre lezioni apprese, ci ha permesso, tra l’altro, di essere quello che siamo e che ci piace essere quello che siamo. Un Nobel, qualche polemica, dei testi e il ricordo di una stagione nella quale si è formata una intera generazione. Prima di tutto, ricordiamo l’edizione di Canzonissima di Dario Fo, che proprio allora e per ciò che andò dicendo in trasmissione venne allontanato dalla Rai. La sigla iniziale deve essere andata in onda al massimo tre volte, non di più; si era nell’inverno 1962, dei nostri undici anni. Però, abbiamo ancora oggi chiare in mente le visioni delle “vedove che piangono” e degli “esuli che cantano”. Scritta con Fiorenzo Carpi e Leo Chiosso, Su cantiam recitava così (in una delle versioni accreditate; altre, simili, ce ne sono: Popolo di poeti, di cantanti, di canzonettisti, di cantautori; popolo di Canzonissima: cantate! / Popolo del miracolo, / miracolo economico. / O popolo magnifico, campion di libertà. Di libertà di transito, di libertà di canto, di canto e controcanto, di petto e di falsetto. Chi canta è un uomo libero da qualsivoglia ragionamento, chi can-

Il backstage dal set di Lo svitato (di Carlo Lizzani, 1956), nel quale Dario Fo interpreta un fattorino di redazione con ambizioni da fotoreporter, è di Osvaldo Civirani (1917-2008), fotografo di scena dal 1935 al 1965, e poi regista negli anni Sessanta e Settanta. I suoi ricordi sono stati raccolti e pubblicati da Gremese Editore, che li ha riuniti nella biografia Un fotografo a Cinecittà - Tra negativi, positivi e belle donne, del 1995. Nel cast del film risulta anche Leo Wächter, con lo pseudonimo di Leo Pisani, abile impresario teatrale e grande inventore di spettacoli e teatro (sua è la formula cinema-cabaret del Ciak, di Milano), che -nell’aprile 1965portò i Beatles in Italia.

ta è già contento di quello che non ha. Su cantiam, su cantiam, evitiamo di pensar, per non polemizzar mettiamoci a cantar. Su cantiam, su cantiam, evitiamo di pensar, per non polemizzar mettiamoci a cantare. Facciam cantare gli orfani, le vedove che piangono, e gli operai in sciopero facciamoli cantare. Facciam cantare gli esuli, quelli che passano le frontiere assieme agli emigranti che fanno i minator. Su cantiam, su cantiam, evitiamo di pensar, per non polemizzar mettiamoci a cantar. Su cantiam, su cantiam, evitiamo di pensar, per non polemizzar mettiamoci a cantare. O popol musicomane, che adori i dischi in plastica e aspetti Canzonissima come Babbo Natale. Un babbo senza scrupoli che alleva un sacco di canzonette, e poi te le fa correre al posto dei caval. E poi te le fa correre al posto dei caval. Dopo di che, come non riconoscere il proprio ruolo, come non chiamarsi fuori dal coro dei piangenti che abbiamo avuto la fortuna di ascoltare in splendide interpretazioni di Enzo Jannacci e in amabili duetti Jannacci-Fo [uno, anche a cinque voci con Giorgio Gaber, Antonio Albanese e Adriano Celentano, in aggiunta). [Dài, dài, cunta su. Ah beh, sì beh. Cunta su. Dài, dài...] Ho vist un re [se l’ha vist coss’è?]. Ho visto un re! [Ah beh, sì beh] Un re che piangeva, seduto sulla sella; piangeva tante lacrime [ma tante che] bagnava anche il cavallo. [Povero re] E povero anche il cavallo. [Sì beh, ah beh, sì beh, ah beh] È l’imperatore che gli ha portato via un bel castello [ohi, che baloss!], di trentadue che lui ce n’ha. [Povero re] E povero anche il cavallo [sì beh, ah beh, sì beh, ah beh, sì beh, ah beh]. Ho vist un vesc [se l’ha vist coss’è?]. Ho visto un vescovo! [Ah beh, sì beh] Anche lui, lui piangeva; faceva un gran baccano, mordeva anche una mano. [La mano di chi?] La mano del sacrestano. [Povero ve-scovo] E povero anche il sacrista. [Sì beh, ah beh, sì beh, ah beh, cunta su, dài, dài] È il cardinale che gli ha portato via un’abbazia [oh, pover crist], di trentadue che lui ce n’ha. [Povero ve-scovo] E povero anche il sacrista [sì beh, ah beh, sì beh, ah beh, cunta su].

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Ho vist un ricch [se l’ha vist coss’è?]. Ho visto un ricco! [Un sciór! Sì! Ah beh, sì beh, ah beh, sì beh] Il tapino lacrimava su un calice di vino, ed ogni goccia andava [denter al vin], sì, che tutto l’annacquava. [Pover tapin] E povero anche il vino. [Sì beh, ah beh, sì beh, ah beh, dài cunta su] Il vescovo, il re, l’imperatore l’han mezzo rovinato. Gli han portato via tre case e un caseggiato, di trentadue che lui ce n’ha. [Pover tapin] E povero anche il vino [sì beh, ah beh, sì beh, dài cunta su, dài, dài cunta su]. Ho vist un vilan [se l’ha vist coss’è?]. Un contadino!!!! [Ahhhh beh, sì beh, ah beh, sì beh] Il vescovo, il re, il ricco, l’imperatore, perfino il cardinale, l’han mezzo rovinato. Gli han portato via...: la casa, il cascinale, la mucca, il violino, la scatola di... radiotransistor, i dischi di Little Tony... la moglie! [e poi coss’è?] un figlio a militare [ah beh, sì beh]. Gli hanno ammazzato anche il maiale. [Pover porscèll] Nel senso del maiale. [Sì beh, ah beh, sì beh] Ma lui no!, lui non piangeva. Anzi, ridacchiava! Ah, Ah, Ah. [Ma se l’è, matt?] No! Il fatto è: che noi vilan [noi vilan]... e sempre allegri bisogna stare! Ché il nostro piangere fa male al re, fa male al ricco e al cardinale; diventan tristi se noi piangiam. E sempre allegri bisogna stare! Ché il nostro piangere fa male al re, fa male al ricco e al cardinale; diventan tristi se noi piangiam... [Ah beh!]. E sempre allegri... restiamo.

L’edizione attuale in Dvd del film Lo svitato, del 1956, di Carlo Lizzani, con Dario Fo protagonista, riprende e ricalca la locandina cinematografica originaria [pagina precedente]. Evidenziazione visiva a richiami espliciti della sceneggiatura: interpretazione di Dario Fo e richiamo alla fotocronaca con biottica Rolleiflex e flash elettronico.

Comunque, per rimanere fedeli a noi stessi, al nostro mandato e alla segnalazione della presenza della Fotografia nel Cinema, va ricordata l’interpretazione di Dario Fo nel film Lo svitato, di Carlo Lizzani, del 1956, per il quale l’attore è anche co-sceneggiatore e aiuto regista. In tutta sincerità, si tratta di un film ancora oggi godibile, frutto di interpretazioni di classe, eccellente regia e una brillante sceneggiatura, condita da dialoghi e siparietti che reggono perfettamente sessant’anni dopo (pochi film, soprattutto italiani, anche d’autore, possono vantare tanto). Ancora, in chiave

privata milanese: esterni di una città con poche auto e tanto temperamento che ricordiamo bene, ma che non c’è più. Achille (Dario Fo) è un ingenuo fattorino di redazione del quotidiano scandalistico del pomeriggio L’intransigente, con sede in piazza Cavour, a Milano, in quello che -ai tempi- si identificava come “Palazzo dei giornali”. Si innamora di una bella ragazza, Elena (Georgia Moll), che dopo vari tentativi clowneschi riesce a conquistare. Nel frattempo, un personaggio truffaldino (Gigi, interpretato da Leo Pisani / Leo Wächter) gli propone un raggiro attraverso il quale potrebbe avere visibilità come fotogiornalista, con la possibilità di indagare su un caso di cani di razza scomparsi misteriosamente. In realtà, è tutto un inganno dell’uomo per intascare i soldi del riscatto, e anche per rubargli la ragazza. Finale edificante, con Achille che viene ammirato per quello che è dall’affascinante Diana (Franca Rame, sua moglie nella vita, per tutta la vita). Film più che gradevole. ❖

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Cinema



Monografia di Angelo Galantini

POMPEI ED ERCOLANO

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I corpi rattrappiti, che sono venuti alla luce nelle stanze o lungo corridoi lastricati, colgono impreparati, perché li vediamo dove, certamente, l’eruzione li ha sorpresi, inermi e abbandonati dopo aver cercato invano un rifugio. Statue dal Passato remoto. Quella di Kenro Izu non è una rilettura storica per immagini in chiave narrativa, e neppure staged photography; piuttosto, è un premuroso e delicato omaggio alla gente di Pompei ed Ercolano. Nel suo approccio così trasparente e lucido, c’è la medesima partecipazione che, da decenni, lo stesso Kenro Izu riserva a tutti quei luoghi del mondo ancora puri e sacri; verso quegli uomini e animali di pietra, c’è un profondo rispetto e una grande discrezione. ❖

FORO, POMPEI; 2016

FORO, POMPEI; 2016 DEL

TERME

Requiem, di Kenro Izu; con contributi di Malcolm Daniel (Gus and Lyndall Wortham Curator of Photography al Museum of Fine Arts, di Houston: Una città fantasma, bella e malinconica ), Massimo Osanna (Direttore Generale del Parco Archeologico di Pompei: Le “impronte” della morte. L’invenzione dei calchi dei pompeiani ) e Filippo Maggia ( Ad perpetuam rei memoriam), Skira Editore, 2019; bilingue italiano e inglese; 72 immagini; 120 pagine 24x28cm, cartonato; 35,00 euro.

Da qui, riprendiamo dalle note ufficiali di presentazione, in modo da definire più oggettivamente che soggettivamente il progetto e la sua relativa realizzazione: suggestive immagini del fotografo giapponese Kenro Izu, tra spiritualità e reperti archeologici. Requiem si distingue da altri lavori realizzati in siti archeologici, anche dallo stesso Kenro Izu, per due ragioni fondanti: narra una storia e restituisce vita e dignità a quanti morirono per l’eruzione del Vesuvio nel 79 dC, incapaci di reagire di fronte a tanta improvvisa violenza. La risoluta caparbietà del fotografo nell’allestire i corpi dei fuggitivi trasformati dalla lava incandescente in statue eterne, nelle case come negli esterni di Pompei ed Ercolano, sembra riconsegnare la vita a quei momenti.

CASA DEGLI AMORINI DORATI, POMPEI; 2016

S

Stravolta per i motivi che tutti conosciamo, a cui tutti ci siamo adeguati e che (speriamo) ognuno abbia eseguito per quanto è stato richiesto a ciascuno di noi, la mostra Requiem, del giapponese Kenro Izu (1949) è stata certamente sospesa prima delle date originariamente programmate: dallo scorso sei dicembre al tredici aprile, presso l’autorevole Fondazione Modena Arti Visive, già sede di una consistente e cospicua e valida programmazione fotografica. È un peccato per coloro i quali avevano programmato una visita con tutta calma, in tempi consoni; però, a certificazione e testimonianza, rimane una monografia ben allestita, in forma di volume-catalogo, pubblicata da Skira. Chi è attento lettore conosce una nostra posizione/opinione al proposito, perché l’abbiamo espressa in molte occasioni, ogni volta che si è ritenuto di doverlo fare. Quindi, a questo proposito è opportuna una precisazione in merito. Sì, è vero, salvo casi eccezionali, all’esposizione di originali fotografici preferiamo la loro raccolta in volume, che ci dà tempo e modo di riflettere con maggiore concentrazione, rispetto gli allestimenti scenici. Però, sia chiaro: «salvo casi eccezionali», la cui singolarità si basa su elementi eterogenei. Per fare qualche esempio, emozione di fronte a copie storiche di particolare rarità (vogliamo dire, ritratti di Nadar?), impatto coordinato tra l’ingrandimento delle stampe e la scenografia (richiamimo il progetto Anthropocene, di Edward Burtynsky, al Mast, di Bologna, lo scorso anno? [FOTOgraphia, giugno 2019]). In questi casi si impone la particolarità degli originali fotografici rispetto la loro riproduzione litografica. Comunque, eccoci qui: curata con attenzione eccezionale e rifinita in qualità superba, la monografia Requiem, di Kenro Izu, in edizione Skira, è adeguatamente coerente alla raffinatezza della loro forma fotografica, in accompagnamento e presentazione dei Contenuti (selezione litografica in bicromia). In ogni caso, un volume prezioso e di alta classe.



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IRAN ZENITALE

SHIRAZ: IWAN (NORD)

NELLA

MOSCHEA NASIR

OL

MOLK


MOSCHEA JAMEH ATIGH NELLA

ESFAHAN: IWAN SAHEB (SUD)

Noto e riconosciuto per le sue visioni zenitali, il fiorentino Franco Zampetti ha applicato il proprio avvincente stilema espressivo e progettuale sull’architettura iraniana. Tradizionalmente, l’elemento guida e caratterizzante dell’architettura iraniana è stato il proprio simbolismo cosmico «per il quale l’Uomo è messo in comunicazione e partecipazione con i poteri del Paradiso». Tale tema, condiviso virtualmente con pressoché tutte le altre culture asiatiche e persistente ancora in tempi moderni, non solo ha dato unità e continuità all’architettura della Persia, ma è stato anche una delle fonti principali nella scelta dei suoi caratteri espressivi. Questa fotografia zenitale ne restituisce per intero lo stile e il valore 23


Sull’aspetto formale della fotografia zenitale, che oggi e qui ritorna con un potente progetto svolto in Iran, occorrono note esplicative, che ne introducono e motivano i contenuti. Semplificando i termini del discorso, senza alterarne la sostanza, si identifica come “zenitale” la fotografia realizzata da un punto di vista/ripresa prospetticamente centrale, che include la visione planimetrica del soggetto inquadrato. Nel caso di Franco Zampetti, che opera dal basso verso l’altro, per inquadrare volte di affascinante svolgimento architettonico, la sapiente combinazione (autocostruita) con obiettivo di ripresa Voigtländer Aspherical Ultra Wide Heliar 12mm f/5,6, collegato al magazzino portapellicola Hasselblad 6x6cm tramite un otturatore centrale Prontor Press, produce immagini tonde (cerchio immagine completo) di 45mm di diametro al centro del fotogramma 56x56mm (contro i 43,3mm della diagonale del fotogramma piccolo formato 24x36mm di origine dell’obiettivo).

di Antonio Bordoni

A

TEHERAN: SALA NEL GRAN BAZAR SOLTANIYEH: SALA TORBAT KHANEH

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NEL

MAUSOLEO

DI

OLJEITU

SUD NELLA

ZANJAN: IWAN QAZVIN: SALA DELLA CASA AMINIHA HOSSEINIYEH

GRANDE MOSCHEA

mmirevole. Nella propria azione fotografica, condotta con rigore e concentrazione, il fiorentino Franco Zampetti (1954) è lodevole per come e quanto abbia fatto lessico della composizione e visione zenitale, dal basso verso l’alto, in rappresentazione e restituzione di visioni architettoniche che, per il solito, sfuggono all’osservazione affrettata del pubblico, che riserva loro soltanto istanti in totale distrazione. Ne abbiamo già riferito, con solenni soggetti dell’architettura storica italiana, da palazzi a chiese in doppio senso di marcia; in due occasioni collegate e consequenziali: settembre 2009 e luglio 2018, con ulteriore allestimento nell’ambito dell’autorevole programma Coscienza dell’Uomo, a Matera, la scorsa primavera Duemiladiciannove.


Ancora in misura di contenuto formale, influente sull’aspetto complessivo dell’immagine, una volta stampata in dimensioni generose, è l’assenza di distorsione geometrica con visione complessiva migliore di quanto si possa osservare a occhio nudo che stabilisce i canoni della raffinata e colta raffigurazione. Attenzione, quindi: nonostante l’aspetto della composizione tonda su fondo nero, non si tratta di inquadratura fish-eye, ma di restituzione ipergrandangolare che utilizza tutti i centoventuno gradi nominali di angolo di campo dell’obiettivo. Dopo aver percorso l’Italia dei grandi monumenti e delle architetture della sua Storia (condita di quel Rinascimento al quale si riferisce tutta l’architettura), sostenuto altresì da una laurea in architettura, che è sua professione quotidiana e continua, Franco Zampetti ha rivolto il proprio sguardo oltre e altrove... a Est, laddove l’architettura urbana si è espressa nei secoli con interpretazioni visive che tolgono il fiato, che destano ammirazione.

MOSCHEA DEL VENERDÌ DELLA

QAZVIN: ATRIO MOSCHEA VAKIL DELLA

SHIRAZ: MIHRAB

QAZVIN: CUPOLA CHAHAR SOUGH

NEL

CARAVANSERRAGLIO SAD-O-SALTANEH

ESFAHAN: MOSCHEA DELLO SCEICCO LOTFOLLAH [ANGOLO]

Una volta perfezionato il proprio modus operandi, Franco Zampetti si è indirizzato ai soggetti. L’operazione fotografica compiuta è degna di ammirazione, sia per il proprio rigoroso passo, sia per i risultati che la sua progettualità propone. Chiariamoci: non si tratta tanto, né soltanto, di ripetere una cadenza in modo casuale e replicato (fino a diventare monotono), quanto di individuare laddove e quando l’assunto architettonico è degno e meritevole di «punti di vista/ripresa prospetticamente centrali, che includono la visione planimetrica del soggetto inquadrato». A conoscenza dei più prestigiosi esempi dell’architettura persiana, a frutto di maturazioni educate nel corso del tempo, Franco Zampetti si è cimentato con visioni zenitali esterne ed estranee alla propria conoscenza diretta di luoghi e situazioni. A tavolino, la progettualità ha affrontato e risolto l’infrastruttura della missione, scandita anche dalla distinta dei luoghi da fotografare, in dipendenza della accessibilità e delle normative vigenti.

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SAN SALVATORE D’ESFAHAN)

ESFAHAN: SALA DELLA MUSICA NEL PALAZZO ALI QAPU

CATTEDRALE DI

ESFAHAN: CATTEDRALE ARMENA DI VANK (O

OL

MOLK

MOSCHEA JAMEH ATIGH

MOSCHEA NASIR

NELLA

SHIRAZ: IWAN (SUD)

NELLA

ESFAHAN: CUPOLA NEZAAM AL-MOLK

Climaticamente, il periodo più confortevole è risultato la primavera Duemiladiciannove, con le luci e la clemenza di aprile. Amici e colleghi hanno offerto il proprio supporto, grazie al quale è stata pianificata una metodologia di lavoro. Ha visitato la capitale Teheran, tappa obbligata di arrivo e rientro in Italia, poi Qazvin, per due giorni, Soltaniyeh e -di sfuggita- Zanjan, Esfahan, per tre giorni; poi, un giorno a Yazd (troppo poco!), e, infine, Shiraz, per quasi tre giorni, con anche una visita a Persepolis e dintorni. Con architettura iraniana o persiana si intende l’architettura dell’area del cosiddetto Grande Iran (regione nella quale vennero parlate le lingue iraniche, come le regioni che facevano parte della Persia e/o dell’impero persiano), caratterizzato da vicissitudini storiche e culturali comuni sin da un’epoca risalente almeno al 5000 aC. Si possono rintracciare elementi tipici dell’architettura persiana su un’amplissima area, che si espande pressappoco

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dalla Siria all’India settentrionale, fino ai confini con la Cina, e dal Caucaso fino a Zanzibar. All’interno di questo vasto contenitore, sono presenti numerosissime tipologie di edificio: dalla capanna per contadini alle sale da tè, fino ai meravigliosi padiglioni presenti nei giardini e a maestose strutture. L’architettura persiana mostra di sé una grande varietà, sia dal punto di vista strutturale sia estetico, sapendosi espandere gradualmente e coerentemente nel corso dei secoli, traendo spunto dalle precedenti tradizioni ed esperienze. Senza improvvise innovazioni, ha mantenuto una distinta individualità rispetto agli altri paesi musulmani. Varie sono le caratteristiche fondamentali rintracciabili: soprattutto, una marcata attitudine per le forme e le proporzioni; inventiva strutturale, specialmente nella costruzione di volte e cupole (gonbad); un gusto geniale nella decorazione, con una libertà espressiva e una riuscita non comparabile con qualsiasi altra architettura.


QAJAR

QAZVIN: IWAN

NELLA

MOSCHEA IMAMZADE HOSSEIN

SHIRAZ: IWAN REZA NELLA MOSCHEA SHAH CHERAGH

QAZVIN: VESTIBOLO

DELL’HAMMAM

QAZVIN: MOSCHEA IMAMZADE HOSSEIN

È su questa base che ha proceduto Franco Zampetti, consapevole del proprio agire, Tradizionalmente, l’elemento guida e caratterizzante dell’architettura iraniana è stato il proprio simbolismo cosmico «per il quale l’Uomo è messo in comunicazione e partecipazione con i poteri del Paradiso» [Nader Ardalan e Laleh Bakhtiar: Sense of Unity. The Sufi Tradition in Persian Architecture; Abjad Book Designers & Builders, 2000]. Tale tema, condiviso virtualmente con pressoché tutte le altre culture asiatiche e persistente ancora in tempi moderni, non solo ha dato unità e continuità all’architettura della Persia, ma è stato anche una delle fonti principali nella scelta dei suoi caratteri espressivi. In undici giorni, in Iran, Franco Zampetti ha visitato e fotografato moschee in attività, moschee adibite a museo, una cattedrale cristiana armena, vari palazzi, numerosi bazar, alcuni ex caravanserragli, due hammam e altre architetture storiche; in totale, ha realizzato quaranta fotografie zenitali, qui in sintesi

di messa in pagina (la totalità è presentata al sito dedicato: https://www.francozampetti.it/it/locations/in-Iran). Testimonianza diretta: «L’esperienza di questo viaggio in Iran è stata indubbiamente appagante e di grande soddisfazione; oltre alle splendide architetture, sono rimasto colpito dalla cordialità degli iraniani, sempre disponibili a offrire volentieri informazioni e a curiosare attorno la mia particolare attrezzatura fotografica e alle fotografie zenitali, che spesso mostravo loro sul mio tablet; ho apprezzato molto la comodità dei viaggi in busvip, anche per lunghissimi tragitti notturni, l’accoglienza cordiale degli albergatori e, non ultima, una cucina ricca di particolarità e caratterizzata da sapori esotici e genuini. Sono rientrato in Italia con il fermo proposito di organizzare, in futuro, spero prossimo, un altro viaggio in Iran, terra di cultura millenaria le cui stratificazioni sono spesso ancora ben visibili e di grande fascino». Un’altra progettualità... ancora. ❖

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DESIGN NATIVO

© AMOS CHAPPLE

Monografia di argomento. Pubblicato da Taschen Verlag, Lo-TEK. Design by Radical Indigenism, a cura di Julia Watson, è un ulteriore studio fotografico, condotto con il passo di un linguaggio forte e diretto, che -a propria volta- rileva sostanziose alterazioni che l’Uomo infligge all’ambiente, al Pianeta. Ulteriore efficace risposta all’Antropocene...



© JASSIM ALASADI

© ALIREZA TEIMOURY

Una linea di crateri equamente distanziati si snoda lungo la superficie del deserto dalle alte montagne di Elburz alle pianure irachene; è l’unica prova di un flusso d’acqua artificiale sotterraneo chiamato qanat, costruito per la prima volta dai persiani durante primi anni del primo millennio aC.

di Angelo Galantini

(doppia pagina precedente) Un giovane pescatore cammina sotto un ponte naturale nel villaggio di Mawlynnong, nel distretto di East Khasi Hills, nello stato di Meghalaya, nel nord est dell’India. Nell’inesorabile umidità delle giungle di Meghalaya, i Khasi hanno usato per secoli le radici allenabili degli alberi della gomma per far crescere Jingkieng Dieng Jri, ponti radicali sui fiumi. L’area è nota per la sua pulizia. Fa parte del blocco di sviluppo della comunità di Pynursla e del collegio elettorale di Vidhan Sabha.

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S

pesso, sottolineiamo come e quanto la Fotografia, al pari di tante discipline/materie, non sia territorio assoluto dai confini prestabiliti e inderogabili. Tanto che, in riferimento, usiamo precisare “qualsiasi cosa questa [la Fotografia] significhi per ciascuno di noi”. Ovviamente, non ci riferiamo a quella sciagurata e infausta autoreferenzialità che induce molti -soprattutto non professionisti- a chiudersi e isolarsi nella sola propria Fotografia, senza confronti con le espressioni ed esperienze maggiori, quelle che scrivono anche la Storia del Mondo, nel proprio svolgersi. Ma, più in generale, riprendiamo quell’idea, ben espressa da Lello Piazza lo scorso marzo, nell’ambito della perspicace presentazione dell’allestimento di Uniform. Into the Work / Out of the Work, a cura di Urs Stahel, esposto alla PhotoGallery di Bologna (Mast / Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia), che -a suo dire- oltre ad esprimere il proprio mandato, offre e propone avvincenti spunti di considerazione

e riflessione. Tra molte possibili, una (nostra): in quanti tanti modi si può osservare la Fotografia, andando sottotraccia, collegando immagini apparentemente lontane tra loro, ma vicine nello spirito. In esempio chiarificatore, sia di questa considerazione appena espressa, sia del fatto evidente, con il quale abbiamo esordito, riguardo “qualsiasi cosa la Fotografia rappresenti per ciascuno di noi”, lo stesso Lello Piazza precisa, avvertendo (circa): «Se siete esteti, appassionati all’uso della luce, ispirati da Caravaggio (1571-1610), dalla Ronda di notte, di Rembrandt (1606-1669), o dagli spot luminosi dei quadri di Georges de La Tour (1593-1652)» [...]. Ovvero, mette in guardia sull’approccio soltanto formale, estetizzante, appagante che certa Fotografia ha ereditato dalla storia dell’arte, facendo linguaggio proprio di composizioni, inquadrature, evocazioni [comunque, in termini storici, noi siamo tra coloro i quali deplorano e disapprovano la stagione del Pittorialismo fotografico del secondo Ottocento]. Ancora da e con Lello Piazza: «Mi sono goduto questa sapiente raccolta di immagini, che -attraverso la semplice esibizione di persone in abito da lavoro- con-


ferma che la Fotografia, per essere Grande, non ha sempre bisogno di momenti memorabili, o di una particolare impostazione della inquadratura, o di una scelta sofisticata della illuminazione, o -infine- di una ricerca di nuove forme espressive al limite dell’improbabile. «Per essere Grande, alla Fotografia bastano -talvolta- la immediata leggibilità del risultato, le verità palesi che propone, un soggetto che lasci immaginare la realtà nella quale vive. Un bouquet di qualità che definirei intensa semplicità esplorativa e compositiva».

A CIASCUNO, IL PROPRIO Autentico linguaggio visivo dal Novecento, con il proprio linguaggio esplicito, che ciascuno può avvicinare secondo propri parametri di conoscenza e approfondimento (dunque, di comprensione), la Fotografia applica il proprio lessico, il proprio modo di esprimersi indirizzandosi e concentrandosi alla vita nel proprio svolgersi. Così facendo, dà vita a una vasta serie di incontri possibili: con autori, apprezzati per il modo di svolgere la Fotografia; con argomenti, presentati in modo mirabile e con concentrazione.

Da queste monografie illustrate, sia d’autore (in casellario di proprio percorso espressivo e creativo), sia d’argomento (in conoscenza tematica), ciascuno di noi si può incamminare lungo quel tragitto di comprensione e consapevolezza... “qualsiasi cosa la Fotografia rappresenti per ciascuno di noi”. Per esempio, la vita nel proprio svolgersi offre infiniti spunti di riflessione: sia in forma di fotografia documentativa (reportage e dintorni), sia in forma di registrazioni fenomenologiche (dalla pubblicità alla moda, al ritratto, allo sport...). Ogni anno, basta sfogliare l’elenco di vincitori e segnalati ai più intensi Concorsi fotografici planetari, magari a partire dall’autorevole World Press Photo, per incontrare, accanto agli accadimenti annunciati, e inevitabili, tanta Fotografia che ha indagato sottotraccia per rendere visibili a tutti istanti e momenti della Vita dell’Uomo difficilmente raccontabili con altro linguaggio. Anche soltanto seguendo le nostre pagine (pardon), quanta e quale Fotografia trasversale si offre per ampliare le conoscenze, la consapevolezza, la coscienza e la partecipazione di ciascuno di noi?

Nelle zone umide meridionali dell’Iraq, un’intera casa Ma’dan, nota come mudhif, costruita interamente in canna di qasab, senza l’uso di utensili e chiodi, può essere demolita e ricostruita in un giorno.

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(in basso) Las Islas Flotantes è un sistema di isole galleggianti sul lago Titicaca, in Perù, abitato dagli Uros, che costruiscono la loro intera civiltà dalla canna di totora coltivata localmente.

e sono stati provocati dal mutare lento della geologia della Terra. Cambiamenti immensi, come l’emergere delle catene alpina e himalayana. Oggi, invece, qualcosa è cambiato. Negli ultimi secoli, si è verificata l’estinzione, per colpa dell’Uomo, di un numero elevatissimo di specie animali. Sempre per colpa dell’Uomo si sta verificando un inquietante aumento del riscaldamento dell’atmosfera. Ed è l’Uomo che taglia, ogni anno, il manto vegetale antico che costituisce milioni di ettari di foresta tropicale (dodici milioni nel 2018, una superficie pari alla Grecia). «È ancora l’Uomo che sta combattendo in alcuni paesi la Guerra dell’Acqua. E ancora e ancora, attraverso l’Uomo viene valutata la poco rassicurante impronta ecologica, un indice complesso che misura la superficie di mare e terra emersa necessaria a rigenerare le risorse consumate da Homo sapiens nell’unità di tempo e a smaltirne i relativi rifiuti. «Cioè è l’Uomo, e non la geologia, che sta cambiando in modo rapidissimo il pianeta. Per questo, negli anni Ottanta, il biologo Eugene Filmore Stoermer (1934-2012) coniò il neologismo Antropocene a in-

Tiziana a Gianni Baldizzone: Transmissions (la trasmissione del sapere [FOTOgraphia, settembre 2019]); Daniele Tamagni: Gentlemen of Bakongo (stile di vita e distinzione sociale nel continente africano [FOTOgraphia, maggio 2019]); Francisco Boix, matricola 5185: Il fotografo di Mauthausen (in graphic novel [FOTOgraphia, febbraio 2019]); Mauro Vallinotto: Torino ’69 (nel cinquantenario da una stagione italiana di confine, tra il prima e il dopo [FOTOgraphia, dicembre 2019]); Altin Manaf e Andreas Ikonomu: Così il tempo presente (la comunità monastica che risiede nell’Abbazia di Chiaravalle, alle porte di Milano [FOTOgraphia, novembre 2019]).

ALTERAZIONI DELL’UOMO E, poi, in autentica apoteosi: Anthropocene, di Edward Burtynsky, al Mast, di Bologna (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia), la scorsa estate [FOTOgraphia, giugno 2019]. Riprendiamone il concetto, dal testo di Lello Piazza. «Fino a pochi decenni fa, i grandi cambiamenti che hanno caratterizzato le ere sono durati milioni di anni

© ENRIQUE CASTRO-MENDIVIL

© DAVID LAZAR

Vista sulle sacre terrazze di riso del Mahagiri, una piccola parte del sistema agrario millenario noto come il subak, che è unico per l’isola di Bali, in Indonesia.

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ALTRE ALTERAZIONI Pubblicato da Taschen Verlag, di Colonia, editore che interpreta il libro illustrato senza preconcetto alcuno, ma risponde soprattutto a valori di Contenuto, che si

basano anche sull’efficacia della Forma, spesso fotografica, Lo-TEK. Design by Radical Indigenism, a cura di Julia Watson, è un ulteriore studio fotografico, condotto con il passo di un linguaggio forte e diretto, che a propria volta rileva sostanziose alterazioni che l’Uomo infligge all’ambiente, al Pianeta. Trecento anni fa, gli intellettuali dell’Illuminismo europeo elaborarono ed esaltarono una mitologia della tecnologia. Suggestionata e influenzata da una confluenza di umanesimo, colonialismo e razzismo, che finì per dominarne l’ispirazione originaria, la mitologia ha cambiato passo, fino a ignorare la saggezza locale e l’innovazione indigena, ritenendole primitive: per certi versi pre-Antropocene. Oggi, maturati verso la comprensione universale, senza scala gerarchica in presunte “diversità” discriminanti, ci siamo lentamente resi conto che l’eredità di questa mitologia ci sta perseguitando. Ancora! I designer comprendono l’urgenza di ridurre l’impatto ambientale negativo dell’umanità, ma perpetuano la stessa mitologia della tecnologia che si basa sullo sfruttamento della natura. Per rispondere ai cambiamenti La civiltà degli Uros, risalente a quattromila cinquecento anni fa, che ha sempre vissuto isolata sul lago Titicaca su case galleggianti, ora sopravvive assecondando il turismo.

© ENRIQUE CASTRO-MENDIVIL

dicare un periodo che inizia qualche decennio prima del nostro oggi e dura tuttora. Periodo durante in quale, sul pianeta, sono avvenuti cambiamenti provocati dall’Uomo e non da un meteorite o dalla eruzione di centinaia di vulcani, così sconvolgenti da attribuire a questi cambiamenti una valenza geologica. «Il neologismo “Antropocene” divenne celebre quando, nel 2002, fu adottato dal Premio Nobel per la chimica Paul Crutzen (nel 1995, insieme con Frank Sherwood Rowland e Mario Molina: «per gli studi sulla chimica dell’atmosfera, in particolare riguardo alla formazione e la decomposizione dell’ozono»), che ci pubblicò un articolo, Geology of Mankind, sulla rivista scientifica più prestigiosa, Nature (numero 415). E ci scrisse anche il libro Benvenuti nell’Antropocene. L’uomo ha cambiato il clima, la Terra entra in una nuova era (Mondadori, 2005; 94 pagine; 12,00 euro)».

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© IWAN BAAN

Costruita dal Tofinu, la città di Ganvie, che significa “siamo sopravvissuti”, galleggia sul lago Nokoué, al sud del Benin, circondato da un sistema di scogli radianti di dodicimila penne di pesci acadja.

© ESME ALLEN

La canna di Qasab è stata a lungo una materia prima per case, oggetti di artigianato, strumenti e foraggi per animali, con le tipiche case mudhif del popolo Ma’dan, che compaiono nelle opere d’arte sumere di cinquemila anni fa.

Lo-TEK. Design by Radical Indigenism; a cura di Julia Watson; con il contributo di W-E Studio; Taschen Verlag, 2019; in inglese; 420 pagine 17x24,4cm, cartonato; 40,00 euro.

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climatici, edificano infrastrutture complesse e favoriscono un design omogeneo ad alta tecnologia, che ancora ignora la conoscenza millenaria di come vivere in simbiosi con la natura. Senza implementare sistemi soft che utilizzano la biodiversità come elemento costitutivo, i progetti rimangono intrinsecamente insostenibili. Derivato dalla conoscenza ecologica tradizionale, Lo-TEK. Design by Radical Indigenism è un insieme cumulativo di conoscenze, pratiche e credenze multigenerazionali, che contrasta l’idea che l’innovazione indigena sia primitiva ed esista isolata dalla tecnologia. Invece, è tanto sofisticata e progettata per funzionare in modo sostenibile con ecosistemi complessi. Con una prefazione dell’antropologo Wade Davis e scandita in quattro capitoli consequenziali, che abbracciano montagne, foreste, deserti e aree umide, questa monografia fotografica esplora migliaia di anni di saggezza e ingegnosità umana da diciotto paesi, tra i quali Perù, Filippine, Tanzania, Kenya, Iran, Iraq, India, e Indonesia. Nel viaggio, riscopriamo un’antica mitologia in un contesto contemporaneo, radicalizzato nello spirito della natura umana.

Lo-TEK. Design by Radical Indigenism è una approfondita indagine su base fotografica curata dall’accademica Julia Watson, ispiratrice e fondatrice del Julia Watson Studio, una autorevole istituzione di progettazione sperimentale, paesaggistica e urbana, nonché co-fondatrice e direttrice di A Future Studio, un collettivo di designer consapevoli con un ethos (norma di vita, regola) verso il cambiamento ecologico globale. Insegna Urban Design alle prestigiose Harvard University e Columbia University. Dopo essersi laureata ad Harvard, con il più alto riconoscimento per il suo lavoro sulla conservazione e sui paesaggi spirituali, è stata pubblicata su testate autorevoli e prestigiose; con l’antropologo statunitense J. Stephen Lansing è co-autrice della Spiritual Guide to Bali’s UNESCO World Heritage (Guida spirituale al patrimonio mondiale dell’UNESCO di Bali). In stretta collaborazione, Piera Wolf e Claudine Eriksson sono i designer del W-E Studio, con sede a Zurigo e New York, che agisce per colmare tempo e spazio tra queste città in costante evoluzione e in contrasto. Ancora, Antropocene. ❖


RITORNO

SINAR NORMA 4X5

POLLICI

(FOTOGRAPHIA DI ANTONIO BORDONI)

AL GRANDE FORMATO

Una Ipotesi Un Sogno Un Invito Una Proposta (graphia@tin.it)


SGUARDI DALL’ALTO


HOKKAIDO LAKE MASHU (3000

PIEDI)

Il punto di vista distaccato dai soggetti terreni, simbolicamente da mille piedi (anche titolo della monografia 1000 feet, che raccoglie un campionario fotografico vasto ed esaustivo), dissolve il contorno e significato dei particolari, a vantaggio dell’insieme, del paesaggio in estensione: quasi a dire la “parte per il tutto”. Intervenendo con tagli arbitrari, il giapponese Yoshiyuki Akutagawa decontestualizza i ghiacciai, le montagne, le distese marine e i campi arati, che -attraverso la sua rappresentazione- acquistano una forte personalità visiva autonoma e indipendente (da se stessi)

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Il punto di vista distaccato dai soggetti terreni, simbolicamente da mille piedi / trecento metri (anche titolo della monografia appena ricordata), dissolve il contorno e significato dei particolari, a vantaggio dell’insieme, del paesaggio in estensione: quasi a dire la “parte per il tutto”. Intervenendo con tagli arbitrari a zenit (ma non soltanto zenitali), Yoshiyuki Akutagawa decontestualizza i ghiacciai, le montagne, le distese marine e i campi arati, che -attraverso la sua rappresentazione- acquistano una personalità visiva autonoma e indipendente (da se stessi). Comunque, lo sguardo poetico e l’eredità artistica giapponese non nascondono l’altra formazione dell’autore, quella che rivela la propria impostazione moderna e occidentale e che fa riferimento al concetto produttivo dell’arte: cioè la sua esperienza di industrial designer esperto nella progettazione di strumenti fotografici standard e speciali. Yoshiyuki Akutagawa ha collaborato soprattutto, ma non soltanto, con Komamura-Horseman e Fujifilm: suo è il progetto e il disegno delle straordinarie Fujifilm Panorama G617 Professional e GX617 Professional [FOTOgraphia, giugno 1997] e suo è il disegno della Fuji TX-1, che noi conosciamo nella propria versione Hasselblad XPan [FOTOgraphia, marzo e novembre 1999]. Inoltre, per proprio interesse e predisposizione, modifica apparecchi convenzionali, per adattarli a esigenze specifiche, in modo particolare alla fotografia aerea. Dunque, ancor prima della passione per la fotografia dall’alto, interpretata con eccezionale sensibilità e fascino, con le proprie immagini, Yoshiyuki Akutagawa svela e rivela l’efficace combinazione di due tempi e mondi originariamente distanti -appunto il pensiero orientale classico e la mediazione tecnica moderna-, che danno la cifra della sua sensibilità artistica. Sì, proprio di arte è il caso di parlare. (continua a pagina 43)

di Marina De Meo e Maurizio Rebuzzini

A

EHIME-KEN (4000

PIEDI)

EHIME-KEN (4000

PIEDI)

nche se ci arriviamo in conclusione, per non intaccare quanto c’è da rilevare sulle sue fotografie, va subito rivelato che il giapponese Yoshiyuki Akutagawa (1939) non è soltanto un fotografo, come pure è, ma è anche un industrial design specializzato in fotografia: e la combinazione è meno casuale di quanto possa apparire pensando con superficialità. Ciò anticipato, non possiamo non rilevare come e quanto Yoshiyuki Akutagawa sia un fotografo almeno singolare, quantomeno nelle considerazioni delle sue fotografie dall’alto, dall’aereo, finalizzate non tanto alla registrazione e documentazione di luoghi, quanto all’armonia naturale (il più delle volte) che si crea spontaneamente. Nel 1997, è stata pubblicata l’autorevole monografia 1000 feet, che certifica subito l’altezza in volo dalla quale scatta, diciamo circa trecento metri, che -personalmente- consideriamo uno dei più affascinanti libri fotografici mai pubblicati (purtroppo, la sua reperibilità è concentrata sul territorio nazionale giapponese, per il quale possono essere d’aiuto le strade percorribili sulla Rete). Il forte carattere scenografico e spettacolare delle immagini che Yoshiyuki Akutagawa realizza non deve tradire il senso della sua ricerca espressiva. Osservando in profondità, evitando la sembianza a tutti evidente, approfondendo oltre la semplice e inappuntabile apparenza grafica delle composizioni, si avverte che la sua opera, nota soprattutto per le riprese aeree realizzate con dotazioni fotografiche grande formato (generalmente, 4x5 pollici / 10,2x12,7cm), oscilla tra una rappresentazione orientale, classica e antica, e un più moderno pensiero sintetico arte-produzione di origine occidentale.

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OKINAWA-KEN (700

PIEDI)


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AOMORI-KEN (5000

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TOYAMA-KEN (1000

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YOSHIYUKI AKUTAGAWA... DESIGNER E PROGETTISTA

FRANCO CANZIANI PIEDI)

OITA-KEN KUSU (2000

La Horseman 3D è una stereo per coppie di fotogrammi 24x30,5mm sull’area immagine 24x65mm della Fuji TX-1 / Hasselblad XPan. Il progetto è di Yoshiyuki Akutagawa (qui sotto), che ha agito sul corpo macchina Panorama da lui stesso disegnato, in precedenza. Questa interpretazione tridimensionale si basa su una coppia di obiettivi di ripresa Fujinon 38mm f/2,8, in disegno ottico Tessar.

ANTONIO BORDONI

Probabilmente, la Horseman 3D, ufficializzata alla Photokina 2006 [FOTOgraphia, novembre 2006], è stata l’ultima delle macchine fotografiche a pellicola fotosensibile. Non sappiamo se la certificazione serva a qualcosa o qualcuno, ma siamo coscienti che interessi noi, nel nostro consueto percorso di curiosità e trasversalità della Fotografia: che affrontiamo con sguardo aperto, a trecentosessanta gradi.

(continua da pagina 38) Del resto, rimanendo in campo fotografico, quella del punto di vista non consueto è considerazione entrata a pieno diritto nella Storia. Ricordiamoci l’esclamazione di Yuri Gagarin, il primo Uomo lanciato nello Spazio, che portò a termine la sua missione, con la navicella Vostok 1, il 12 aprile 1961; una sola orbita attorno alla Terra: «Vedo la Terra! È così bella», avrebbe esclamato, avrà certamente esclamato. Incamminandoci verso le fotografie dal cielo, dall’alto, dall’aereo di Yoshiyuki Akutagawa, questo richiamo è d’obbligo, così come è necessario riprendere un’altra esperienza spaziale, che si è imposta nella memoria di tutti: quella di Apollo 8, del dicembre 1968, la prima con circumnavigazione della Luna. Fu la prima volta che l’Uomo si allontanò dalla Terra tanto da poterla osservare tutta intera su sfondo nero. Quindi, raggiunta l’orbita lunare, dopo aver sorvolato l’emisfero nascosto, gli astronauti videro e fotografarono la Terra che “sorgeva” sopra la Luna. Con quel controcampo, per la prima volta lo sguardo umano non si volgeva verso l’infinito, bensì verso il luogo finito, dove c’erano le sue radici. Quella piccola sfera bianca-azzurraverde-giallina sospesa sopra il deserto lunare apparve in tutta la propria preziosa anomalia. Nel cosmo, ci sono certamente molti sassi come la Luna; la Terra è forse unica. Molto probabilmente, non si vedrà mai un luogo tanto bello. Sette anni dopo Yuri Gagarin, gli astronauti Frank Borman, James Lovell e William Anders si commossero nel guardare la Terra. Guardando la sferetta lontana, hanno potuto immaginare che tutte le creature ci vivessero in simbiosi. Comunque, da quello sguardo sono nati i pensieri ecologici di tutela e difesa: da allora è facile immaginare che il sottile alone azzurrino potrebbe anche essere compromesso dall’Uomo.

Yoshiyuki Akutagawa non vola tanto alto. Non raggiunge distanze dalle quali poter osservare la Terra, ma sorvola da distanze che permettono di coglierne dettagli e sfumature. Così che il suo occhio fotografico si proietta alla parte... per il tutto. Fotografa il reale, ma non lo rappresenta. Raffigurativa per propria natura, che richiede la presenza fisica di un soggetto, intaccato o costruito che sia, la fotografia è rappresentativa per scelta e linguaggio. Soprattutto nelle intenzioni dell’autore, che si offrono e propongono all’osservazione, non necessariamente ciò che la Fotografia mostra corrisponde a ciò che ha visto. Da cui, le visioni di Yoshiyuki Akutagawa, che si inseriscono in una corrente espressiva e culturale di radici antiche. Questa è fotografia dell’illusionismo, che affida all’elemento realistico compiti diversi dalla sola raffigurazione oggettiva. Diversi, perché più profondi e, siamo sinceri, migliori: è un illusionismo (pittorico?) che dischiude una finestra sull’eternità, che scruta e offre al di là di ciò che vede l’occhio fisiologico, per edificare un’esistenza fondata sulla spiritualità e lo sguardo interiore. Pur nell’apparente uguaglianza della superficie delle proprie raffigurazioni, la fotografia di Yoshiyuki Akutagawa è tanto diversa da altre immagini analogamente “prese dal vivo”, “dal vero”. Non sprofonda nell’esteriorità, nell’emotività e nel soggettivismo, ma si impone altrimenti, e lascia libero l’osservatore di volare per propri richiami, guidato da proprie esperienze, proiettato verso strade autonome (ma anche coincidenti). Sulla psiche individuale, le immagini -anche quelle fotografiche- hanno una forza che può essere paragonata a quella di certi elementi della natura. Le immagini plasmano la psiche più di ogni altra cosa. E ora, abbiamo a disposizione un’altra serie, quella di Yoshiyuki Akutagawa, con la quale fare i nostri conti. Ciascuno faccia i propri. ❖

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Allestita a Villa Carlotta, sul lago di Como, in ambito appropriato, una selezione di fotografie dall’intenso progetto Hungry Planet: What the World Eats, di Peter Menzel e Faith D’Aluisio, rivela come l’intero pianeta sia stato coinvolto attraverso una visione mirata su ventiquattro paesi, dal Bhutan alla Bosnia, dal Messico alla Mongolia, dalla Germania agli Stati Uniti, all’Italia, nei quali sono state individuate trenta famiglie rappresentative... quanto cibo

(pagina accanto) Da Hungry Planet: What the World Eats, di Peter Menzel e Faith D’Aluisio: la famiglia Aboubakar, della provincia del Darfur, in Sudan, di fronte alla loro tenda nel Breidjing Refugee Camp, campo profughi nel Ciad orientale, con il cibo che consumano in una settimana. D’jimia Ishakh Souleymane, quaranta anni, ha tra le braccia la figlia Hawa, di due anni; gli altri figli sono, da sinistra, Su, di dodici anni, Mariam, di cinque, Youssouf, di otto, e Abdel Kerim, di sedici. Metodo di cottura: fuoco a legna. Conservazione dei cibi: essiccazione naturale. Il cibo preferito da D’jimia è la zuppa con carne fresca di pecora. Per l’alimentazione, la famiglia Aboubakar spende 1,23 dollari alla settimana.

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di Lello Piazza

E

ccellenza italiana. Sul lago di Como, nel comune di Tremezzina, c’è una villa, una delle più importanti e famose ville “botaniche” del nostro paese, Villa Carlotta. Il sostantivo botanica, con il quale mi permetto di evocarla, nasce dallo straordinario giardino che la circonda. Cinque terrazze la fronteggiano. Le terrazze offrono molte sorprese botaniche: piante di papiro, tunnel di agrumi e numerose rose profumate. Poi, ci sono gli enormi cespugli di camelie di diverse varietà, alcune assai rare, dai più intensi colori. E le azalee, che da aprile a maggio, offrono un percorso fiorito che non ha eguali in Italia. E il bosco dei rododendri (Rhododendron arboreum), che il sapiente lavoro di generazioni di giardinieri ha saputo trasformare in un ambiente che esiste solo sulle montagne himalayane. Decine di esemplari ultracentenari di rododendro, oltre a bellissime fioriture, esibiscono rami e tronchi contorti che creano uno spettacolo unico. Non mi dilungherò nel resoconto dettagliato di altre meraviglie botaniche: il giardino dei bambù, la valle delle felci, le piante grasse del giardino roccioso. Cito, invece, il Museo degli Attrezzi Agricoli, che conserva la memoria storica delle tecniche agricole e di giardinaggio del passato. E, importantissima, la collezione di porcellane, argenti e documenti, conservata in Villa, il cui studio ha dato origine a una ricostruzione dell’economia alimentare della Villa stessa tra Settecento e Ottocento. Da tutto questo straordinario patrimonio nasce l’idea della mostra Natura e Delizia in Villa Carlotta, proposta per la stagione 2020 (sempre che le restrizioni imposte dal Coronavirus si siano risolte: comunque, rimaniamo su dati e date ufficiali). Si è pensato di mettere a confronto i risultati degli studi sugli oggetti conservati in Villa, sugli angoli botanici dei giardini, con gli stili di vita e la liturgia dell’alimentazione nel mondo contemporaneo globalizzato. Per la rappresentazione della “modernità”, si è ricorsi a un importante progetto fotografico/sociologico di Peter Menzel, fotografo, e di sua moglie Faith D’Aluisio, economista, raccolto anche in monografia illustrata: Hungry Planet: What the World Eats (Ten Speed Press, 2007; 288 pagine 30,5x23cm, cartonato con sovraccoperta) [FOTOgraphia, maggio 2008].

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA

Hungry Planet: What the World Eats, di Peter Menzel e Faith D’Aluisio; Ten Speed Press, 2007: 288 pagine 30,5x23cm, cartonato con sovraccoperta.

In Hungry Planet, Peter Menzel e Faith D’Aluisio presentano un eloquente studio fotografico su famiglie di tutto il mondo, completato da una sostanziosa e fondamentale massa di dati raccolti su ciò che le persone mangiano nel corso di una settimana. Il profilo di ogni famiglia include una descrizione dettagliata degli acquisti settimanali di cibo; fotografie della famiglia a casa, al mercato e nella propria comunità; e un ritratto di tutta la famiglia circondato da una settimana di generi alimentari. Per realizzare questo immenso lavoro, Peter Menzel e Faith D’Aluisio hanno viaggiato in ventiquattro paesi e hanno visitato trenta famiglie, dal Bhutan e dalla Bosnia al Messico e alla Mongolia. Come appena ricordato, FOTOgraphia ha dedicato un servizio, nel maggio 2008. Quell’intervento, ancora palpitante in attualità, non parla soltanto dell’importanza documentale del lavoro, ma rivelò anche uno dei primi furti di massa di fotografie su Internet. Quando fu pubblicato sul settimanale americano Time e sul suo sito web, decine di media hanno scaricato, se pur in bassa risoluzione, molte immagini del reportage, utilizzandole per servizi ripubblicati -poisui propri siti web. Questo furto di massa ha provocato un notevole danno economico agli autori, che avevano dedicato tre anni della loro vita per realizzarlo. Come molti altri [insieme a Lo-TEK. Design by Radical Indigenism, a cura di Julia Watson; su questo numero, da pagina 28], Hungry Planet: What the World Eats è un libro che dovrebbe essere in tutte le biblioteche pubbliche del mondo e anche nelle case dei cittadini occidentali. Tutti noi, un po’ obesini, potremmo trarre spunti

QUANTO CIBO


© PETER MENZEL / LUZ

di riflessione da quanto si vede e si legge nel libro a proposito del nostro regime alimentare, sia confrontandolo con quello del resto del mondo, sia verificandone la sua adeguatezza a un nostro salutare stato fisico. Peter Menzel è uno dei grandi interpreti americani della documentary photography, noto per i suoi reportage su temi che riguardano soprattutto scienza, società e ambiente. Le sue immagini, premiate in tutte le più importanti competizioni internazionali, sono state pubblicate, tra gli altri, da Life, National Geographic, Smithsonian, The New York Times Magazine, Time, Stern, GEO e Focus. Da una quindicina di anni, elabora grandi progetti, che lo tengono impegnato decine di mesi. Da ogni progetto nasce un libro e molti servizi. Material World: A Global Family Portrait, del 1994, fu il primo in questo senso. Il progetto si è materializzato nell’incontro con famiglie-tipo in trenta nazioni: tutto l’arredo e le suppellettili delle loro case sono stati portati all’aperto, dove è stata scattata una fotografia. Come si può capire, un impegno gigantesco. Il progetto successivo è stato Women in the Material World, dedicato ai problemi della donna nel mondo. Successivamente, Peter Menzel ha realizzato Man Eating Bugs: The Art and Science of Eating Insects, una coinvolgente panoramica di come, in molte parti del pianeta, si ricavano proteine da insetti e artropodi (una selezione di questo imponente lavoro è stata esposta nell’ambito di ObiettivoUomoAmbiente, a Viterbo, nell’autunno 2005, alla Prima Biennale Internazionale di fotografia e dibattiti tra scienza e cultura [FOTOgraphia, luglio 2005]). Quarto progetto è stato Robo sapiens: Evolution of a New Species, dedicato alle evoluzioni tecnologiche e implicazioni sociali della robotica. Infine, ricordiamo ancora l’attuale Hungry Planet: What the World Eats. In tutti questi progetti è stato fondamentale il contributo della moglie di Peter Menzel, Faith D’Aluisio, che si è occupata della raccolta dei dati, delle interviste, delle statistiche e dei testi.

Villa Carlotta è una dimora del tardo Seicento, situata a Tremezzo, sul lago di Como. Sono settantamila metri quadri visitabili, tra giardini (sono centocinquanta le varietà del fiore originario della Cina meridionale e dell’Himalaya che si alternano nel parco in una tavolozza di colori bianchi, gialli, rosei, porporini, rossi), Museo degli Attrezzi Agricoli e sale della Villa. Il parco è celebre per la fioritura primaverile dei rododendri e delle azalee, in oltre centocinquanta varietà. Ma ogni periodo dell’anno è adatto per una visita. Il patrimonio artistico annovera opere da Antonio Canova a Francesco Hayez. Dal 1927, Villa Carlotta è gestita da un Ente Morale, e destina tutti gli introiti derivanti dai biglietti di ingresso “esclusivamente” a opere di miglioramento della Villa stessa e del proprio parco botanico, demanio dello Stato.

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© PETER MENZEL / LUZ

Da Hungry Planet: What the World Eats, di Peter Menzel e Faith D’Aluisio: la famiglia Revis nella cucina della loro casa alla periferia di Raleigh, North Carolina, Stati Uniti, con il cibo che mangiano in una settimana. Ronald Revis, trentanove anni, e la moglie Rosemary Revis, quaranta, con i figli del primo matrimonio di Rosemary, Brandon Demery, sedici anni, e Tyrone Demery, quattordici. Metodi di cottura: forno elettrico, tostapane, forno, forno a microonde, barbecue all’aperto. Conservazione dei cibi: frigorifero congelatore. I loro cibi preferiti sono gli spaghetti (Ronald e Brandon), le patate in generale (Rosemary) e il pollo (Tyrone). Per l’alimentazione, la famiglia Revis spende 341,98 dollari alla settimana.

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Hungry Planet: What the World Eats ha lo stesso vasto orizzonte di Women in the Material World e Man Eating Bugs: l’intero pianeta è stato coinvolto attraverso una visione mirata su ventiquattro paesi, dal Bhutan alla Bosnia, dal Messico alla Mongolia, dalla Germania agli Stati Uniti, nei quali sono state individuate trenta famiglie rappresentative. Anche in questo caso, le fotografie, ambientate in casa, al mercato o all’interno della comunità di appartenenza, non sono di puro reportage, ma sono posate, con i membri della famiglia che esibiscono tutto il cibo che mediamente consumano in una settimana. A ogni famiglia, Faith D’Aluisio e Peter Menzel hanno dedicato proprio una settimana di tempo, vivendo con loro e controllando lo stile di vita alimentare, come in una gigantesca inchiesta sul mondo affamato, “hungry planet” appunto, il titolo del libro. Il testo che accompagna le immagini racconta come la famiglia si procura il cibo, dove lo acquista o dove lo raccoglie, quanto spende per mangiare in sette giorni. Ispirato dalle grandi mutazioni che hanno modificato il nostro modo di nutrirci, in primo luogo la globalizzazione, che ci consente di mettere in tavola cibi esotici provenienti da terre lontane, ma anche permette a McDonald’s di esportare in tutto il pianeta il suo pollo fritto e i suoi Cheeseburger, Hungry Planet si propone per e con chiavi di lettura e osservazione stratificate e individuali (a ciascuno, la propria): è un coffee table book, da sfogliare e guardare, un libro di cucina, uno

speciale atlante geografico gastronomico, un libro di viaggi, un saggio di economia politica (nell’era nella quale, per la prima volta nella Storia, l’umanità sovralimentata ha superato il numero di coloro i quali non riescono a mangiare a sufficienza). Nel 2006, la James Beard Foundation, un ente non profit che ha per scopo promuovere e difendere il valore del cibo e della cucina americana (sic!), lo ha nominato Best Book of the Year. In mostra a Villa Carlotta, di Tremezzina, sul lago di Como, insieme a una selezione di opere d’arte, mappe, documenti e ricettari di metà Ottocento, che rivelano i gusti dell’epoca, alla collezione di porcellane, di argenti, vetri e tessuti, che permette di rievocare la sala da pranzo di Villa Carlotta (assetto testimoniato da fotografie di inizio Novecento, anche in mostra), sono presentate dieci fotografie tratte dal libro. Infine, ma non meno importante, ricordiamo che una sezione dell’esposizione è dedicata alle erbe spontanee e al loro utilizzo in ambito alimentare e medicinale, secondo una antica tradizione popolare del territorio del lago di Como. ❖ Natura e Delizie in Villa Carlotta; mostra prodotta da Villa Carlotta. ❯ Con selezione fotografica da Hungry Planet: What the World Eats, di Peter Menzel, Faith D’Aluisio. Villa Carlotta, via Regina 2, 22016 Tremezzina, Località Tremezzo CO; 0344-40405; www.villacarlotta.it. Fino all’8 novembre [compatibilmente con altre direttive governative]; fino al 27 settembre, 9,00-19,30; dal 28 settembre al 25 ottobre, 9,30-18,30; dal 26 ottobre all’8 novembre, 10,00-17,00.


TAU Visual si presenta

Ciao! Probabilmente ci conosci già, ma ci presentiamo ugualmente: l’Associazione Nazionale Fotografi Professionisti TAU Visual è un’associazione di fotografi professionisti che lavora per offrire strumenti concreti di lavoro. L’obiettivo principale dell’Associazione consiste nell’aiutare il fotografo nelle sue necessità professionali di ogni giorno, con consulenza, informazioni, incontri, testi, documentazione e attività gratuite, per risolvere i problemi immediati della professione. Nel medio termine, poi, lavoriamo assieme per elevare la cultura e la preparazione specifica di tutti gli operatori del settore. Ci sforziamo di affrontare i problemi in chiave positiva: più che contrastare gli aspetti negativi, lavoriamo per favorire gli elementi positivi della vita professionale di tutti.

Diventare Socio TAU Visual

Per avere un’idea delle attività dell’Associazione, la cosa migliore sarebbe che tu chiedessi a qualche collega già Socio, in modo da avere un parere diretto, e non una “pubblicità”. Puoi associarti solo se eserciti l’attività fotografica con una corretta e definita configurazione fiscale. Se sei un professionista, puoi presentare domanda partendo da: www.fotografi.org/ammissione.

Un regalo utile per i lettori di

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Come accennavamo, lavoriamo moltissimo per supportare i Soci nella loro attività, ma produciamo anche documentazione utile per il settore fotografico nel proprio complesso. Fra le altre cose, esiste un volumetto di 125 pagine, che raggruppa le risposte ad alcune delle tematiche su cui ci vengono poste domande con maggior frequenza. Se desideri ricevere via email il file in pdf di questo volumetto, è sufficiente che tu ce lo richieda mandando un’email alla casella associazione@fotografi.org, scrivendo nell’oggetto: “FOTOgraphia - Mandatemi il volume in pdf Documentazione TAU Visual per il Fotografo Professionista”. Indice dei contenuti del volume che ti invieremo Copyright diritto d’autore Tesserini, Pass e Permessi di ripresa Menzione del nome dell’autore Esempi di contratti standard Proteggibilità delle idee Tariffe professionali Pubblicabilità del ritratto Compendio documentazione sulla postproduzione fotografica


In celebrazione di Maurizio Rebuzzini

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CRATERI LUNARI...

Sempre alla ricerca (e scoperta) di richiami fotografici che arrivano dall’esterno del proprio ambito (fotografico), richiamiamo oggi tre pionieri abbondanti ai quali l’astronomia ha offerto rilievo. Partiamo da lontano, per precisare esattamente i riferimenti fisici d’obbligo, per poi approdare -infine- al nostro territorio comune e statutario (la Fotografia), affrontato non per nozioni utilitaristiche da spendere subito e in fretta, ma per quel piacere e dovere della conoscenza che dovrebbe fare la differenza per chiunque affronti con passione un qualsiasi argomento. Alla fine, rievocheremo i tre pionieri acclamati della Fotografia (in intenzione della “natura che si fa di sé medesima pittrice”): Joseph Nicéphore Niépce, Louis Jacques Mandé Daguerre e William Henry Fox Talbot (anche in questa occasione, come in molte altre, viene ignorato Hippolyte Bayard: 1801-1887). Aggiungendo loro altre due figure appartenenti alla nostra preistoria... o quasi. Sorprendentemente, ci occupiamo di crateri lunari, che sono quella miriade di crateri di impatto distribuiti su tutta la superficie del nostro satellite naturale. In genere, a ciascuno di loro, l’astronomia terrestre ha abbinato un nome di persona, in dedica e ricordo: soprattutto, di scienziati ed esploratori, cosmonauti e astronauti. Complessivamente, si conteggiano millecinquecentosettantuno crateri denominati (1571) e settemilasessantasei crateri correlati (7066), che si trovano in prossimità di un cratere denominato e che hanno ricevuto una denominazione simile seguita da una, o -più raramente- due lettere latine maiuscole. In eccezione a questa prassi, va segnalato il caso peculiare del cratere Hadley C, che -pur avendo ricevuta una denominazione di cratere correlato- è l’unico cratere a portare tale denominazione. Inoltre, si contano quattordici crateri la cui denominazione è stata poi modificata nel tempo. La nomenclatura lunare è regolata dall’Unione Astronomica Internazionale, che provvede anche a completare con indicazioni di formazioni esogeo-

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Mappa topografica della Luna; localizzazione dei crateri Niépce, Daguerre, Talbot, Abbe e Alhazen. Proiezione equirettangolare; area rappresentata 90° N - 90° S; 180° W - 180° E.


In celebrazione Cratere Niépce: Latitudine 72,2° N; Longitudine 239,85° E; diametro 59,69km. Con correlato cratere Niépce F. Cratere Daguerre: Latitudine 11,91° S; Longitudine 33,61° E; diametro 45,79km. Con correlati crateri Daguerre K, U, X, Y, Z.

Cratere Talbot: Latitudine 2,47° S; Longitudine 85,3° E; diametro 12,36km. Non ha crateri correlati.

Cratere Abbe: Latitudine 57,58° S; Longitudine 174,77° E; diametro 63,98km. Con correlati crateri Abbe H, K, M.

Cratere Alhazen: Latitudine 15,91° N; Longitudine 71,83° E; diametro 34,65km. Con correlati crateri Alhazen A, D.

(pagina accanto) Primo dagherrotipo della Luna (1852): John Adams Whipple.

logiche riconosciute. Mentre altri enti spaziali, a partire dalla statunitense Nasa, all’avanguardia nello studio dello Spazio, perseguono l’analisi dei crateri, degli impatti da asteroidi, che hanno interessato la Terra, sia direttamente sia in relazione con la Luna. A questo proposito, va registrata una avvincente relazione giornalistica (e scientifica) dell’autorevole periodico statunitense Science, dell’autunno Duemiladiciotto. Studiando i risultati di una ricognizione approfondita del Lunar Reconnaissance Orbiter della Nasa è stato possibile ricostruire la storia degli impatti da asteroidi che hanno interessato la Terra. Si è così scoperto che, nel corso degli ultimi duecentonovanta milioni di anni (290 milioni!), il tasso di asteroidi entrati in collisione con la Terra e la Luna è triplicato rispetto a quello del periodo precedente. I ricercatori hanno scoperto che il tasso di formazione dei crateri negli ultimi duecentonovanta milioni di anni è stato da due a tre volte superiore a quello dei settecento milioni di anni precedenti. Ma la sorpresa più grande è arrivata quando gli scienziati hanno confrontato età e numero dei crateri sulla Luna con età e numero di quelli sulla Terra, scoprendo che sono estremamente simili. Una conclusione, questa, che è in conflitto con l’idea, finora data quasi per scontata, che sul nostro pianeta molti antichi crateri fossero ormai scomparsi. Concludiamo, ora con la nomenclatura lunare che fa riferimento a personaggi della Fotografia. Come anticipato, tre sono fondamentali nel nostro cammino, ovverosia alla partenza del nostro percorso, tanto che è a loro che si riferisce sempre la nascita della Fotografia / natura che si fa di sé medesima pittrice. Cratere Niépce (Joseph Nicéphore Niépce: 1765-1833): è un cratere di 59,69km di diametro situato nella parte nord-orientale della faccia nascosta della Luna. Latitudine 72,2° N; Longitudine 239,85° E. Con correlato cratere Niépce F: Latitudine 72,5° N; Longitudine 113,5° W; diametro di 44,0km. Cratere Daguerre (Louis Jacques Mandé Daguerre: 1787-1851): è situato nei pressi del confine settentrionale del Mare Nectaris. A Ovest Nord-Ovest si trova il cratere Mädler, e, più oltre, nella stessa direzione, il

cospicuo cratere Theophilus. A Nord, nel territorio irregolare tra i mari lunari, si trova il cratere Isidorus. Il cratere Daguerre appare completamente ricoperto dalla lava, tanto da mostrarsi appena discernibile nelle immagini da Terra. Il bordo presenta una interruzione verso Sud-Ovest, dando alla formazione quasi l’aspetto di un ferro di cavallo. Il pianoro interno mostra propaggini della raggiera del cratere Mädler. La massima altezza dei resti del bordo è di circa 1,5 km. Latitudine 11,91° S; Longitudine 33,61° E; diametro 45,79km. Con correlati crateri Daguerre K, U, X, Y, Z (Latitudine / Longitudine / diametro: K, 12,2° S / 35,8° E / 5,0km; U, 15,1° S / 35,7° E / 4,0km; X, 14,0° S / 34,5° E / 4,0km; Y, 13,9° S / 35,4° E / 3,0km; Z, 14,9° S / 34,7° E / 4,0km). Cratere Talbot (William Henry Fox Talbot: 1800-1877): è un cratere di 12,36km di diametro situato nella parte sud-orientale della faccia visibile della Luna. Latitudine 2,47° S; Longitudine 85,3° E. Non ha crateri correlati. E con questo esauriamo i pionieri della Fotografia, così come li abbiamo storicizzati, dal 1839 di origine ufficiale. Poi, senza aver minuziosamente ricercato nella lunga lista di millecinquecentosettantuno crateri denominati (1571), ne segnaliamo almeno due altri, in qualche modo e misura ricollegabili alla nostra Storia (e preistoria). Cratere Abbe (Ernst Karl Abbe: 1840-1905): intitolato al fisico, matematico e industriale tedesco, al quale vanno iscritte numerose osservazioni, sperimentazioni e invenzioni (soprattutto) ottiche. Dal nostro punto di vista viziato è legato alla Fotografia dall’associazione con Carl Zeiss, conosciuto nel 1866, nella fondazione della celebre fabbrica, nel 1875. Il cratere lunare è situato nell’emisfero meridionale della faccia nascosta del satellite naturale, poco più a Sud del cratere Hess e a Est del cratere Poincaré. Latitudine 57,58° S; Longitudine 174,77° E; diametro 63,98km. Con correlati crateri Abbe H, K, M (Latitudine / Longitudine / diametro: H, 58,2° S / 177,9° E / 25,0km; K, 59,6° S / 177,3° E / 28,0km; M, 61,6° S / 175,3° E; 29,0km). Cratere Alhazen (adattamento latino dall’originario Abū ’Alī al-Hasan ibn al-Hasan ibn al-Haytham, spesso

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ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (5)

In celebrazione

Gli stessi cinque personaggi storici della Fotografia ai quali sono stati nominati crateri lunari sono stati ricordati anche da e con emissioni filateliche. In selezione tra le tante: Joseph Nicéphore Niépce (1765-1833) in un francobollo della Repubblica del Mali, del 4 luglio 1983, in celebrazione del centocinquantenario dalla scomparsa; Louis Jacques Mandé Daguerre (1787-1851), da una serie di tre soggetti filatelici con i quali, il 6 settembre 1989, Suriname ha celebrato i centocinquanta anni dall’annuncio e presentazione della Fotografia (gli altri due soggetti: Joseph Nicéphore Niépce

semplificato in Iben al-Haithum, oppure solo al-Hasan; 965-1038/1039). Tra gli specialisti e addetti, l’arabo Alhazen è considerato «uno dei personaggi più importanti e influenti della storia della scienza»; addirittura, è conteggiato come «il primo vero scienziato al mondo». Nel campo ottico, che ci è prossimo, oltre che alla base della nostra educazione scolastica (in un’altra Vita, in un altro Tempo), i suoi studi sulle lenti permisero progressi approdati alla produzione dei primi occhiali da vista e di strumenti di visione (dall’estremamente piccolo all’estremamente grande, dal microscopio al telescopio).

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e apparecchio originario per dagherrotipia); William Henry Fox Talbot (1800-1877) in un Booklet inglese, del 12 gennaio 1999, riservato al Millennio appena trascorso, osservato dal punto di vista degli scienziati e inventori; Ernst Karl Abbe (1840-1905) da una serie di tre valori dedicati alla Carl Zeiss Jena (gli altri due soggetti, Carl Zeiss [ FOTOgraphia, settembre 2016, nel bicentenario dalla nascita] e l’edificio della fabbrica); Abū ’Alī al-Hasan ibn al-Hasan ibn al-Haytham (in Iben al-Haithum, oppure al-Hasan; 965-1038/1039) in emissione filatelica del Qatar, del 20 febbraio 1971.

Rimaniamo in ottica, che fu parte della sua indagine scientifica, per certificare il contributo fondamentale del suo trattato in sette volumi Kitāb alManāir (diciamo, Libro dell’ottica), tradotto in latino intorno al 1270 con il titolo De aspectibus, poi pubblicato a Basilea, nel 1572. Da qui, da scienza geometrica, l’ottica diventa scienza fisica. Il trattato intende l’Ottica non come discussione filosofica sulla natura della luce, ma analisi, matematica e sperimentale, delle sue proprietà, specialmente quelle legate alla visione. Quindi, a conseguenza diretta, Alhazen realizzò quella che si deve considerare la prima camera obscura

della quale si ha notizia certa: una stanza buia nella quale la luce entrava da uno spiraglio grande quanto una punta di spillo, proiettando sulla parete l’immagine capovolta di ciò che si trovava all’esterno. Il cratere Alhazen ha un diametro di 34,65km, ed è situato nella parte nord-orientale della faccia visibile della Luna. Latitudine 15,91° N; Longitudine 71,83° E. Con correlati crateri Alhazen A, D (Latitudine / Longitudine / diametro: A, 16,2° N / 74,3° E / 14,0km; D, 19,7° N / 75,2° E / 33,0km). A cosa servono queste nozioni, queste conoscenze? Fate voi. ❖


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