FOTOgraphia 258 febbraio 2020

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ANNO XXVII - NUMERO 258 - FEBBRAIO 2020

Storie non raccontate PETER LINDBERGH

Universo Donna PER IL CAMBIAMENTO

SESSANT’ANNI DALLA DOLCE VITA FEBBRAIO 1960... 2020


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prima di cominciare SAVE THE DATE. Lungo il cammino del gioco delle cifre, in questi primi decenni del Duemila, abbiamo incontrato tante e tante combinazioni. Anche quest’anno, tra qualcosa d’altro (anno bisestile), abbiamo il due febbraio che è palindromo rispetto il Duemilaventi: 02-02 - 2020. Qualcuno si cimenta in queste segnalazioni, e noi siamo certamente tra questi. Comunque, non stiamo qui a ricordare cadenze che abbiamo declinato in proprio, ma sottolineiamo combinazioni numeriche di altro spessore, riferite a personaggi della Fotografia più che eccellenti. Tra tutti, segnaliamo oggi Gianni Berengo Gardin, i cui meriti fotografici non debbono essere sottolineati, perché sono noti, riconosciuti e celebrati, non soltanto in Italia, da dove potremmo essere contaminati da un ammissibile orgoglio nazionale. Così che, in certificazione planetaria, va ricordato uno dei più autorevoli riconoscimenti della Fotografia senza confini: Gianni Berengo Gardin, Lifetime Achievement, ai Lucie Award 2018... il più prestigioso, tra quanti assegnati ogni anno, dal 2003 (quando il Lifetime Achievement fu consegnato a Henri Cartier-Bresson). Gianni Berengo Gardin (GBG) è nato il dieci ottobre Millenovecentotrenta (10 - 10 - 30); quindi, in autunno, il prossimo dieci ottobre, compirà novant’anni, più di sessanta dei quali trascorsi a raccontare il Mondo con le sue fotografie.

Lasciamo il Romanticismo ad altri istanti di Vita. Angelo Galantini; su questo numero, a pagina 12 Autentiche “invenzioni”, che hanno illuminato un cammino estremamente fertile e proficuo. Antonio Bordoni; su questo numero, a pagina 20 Per certi versi, anche in Fotografia stiamo assistendo a una positiva e consistente rilettura della Storia, della propria Storia. Dopo scritture al maschile, con moderate escursioni al femminile, è imperativo rileggere senza prevenzioni e collocando il contributo femminile all’interno dell’evoluzione del linguaggio. mFranti; su questo numero, a pagina 9 Non è gara, non c’è competizione, ma. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 38

Copertina Fotografia di scena di Pierluigi Praturlon, dal set del film La dolce vita, di Federico Fellini (e Ennio Flaiano), nelle sale cinematografiche dal 4 febbraio 1960: dunque, Sessanta più sessanta anni trascorsi. Da pagina ventidue, riflettiamo non tanto sul film -in quanto tale-, ma del neologismo creato: Paparazzo

3 Altri tempi (fotografici) ANTONIO BORDONI

Catalogo Voigtländer, del 1938, in evocazione bucolica e pastorale. Se vogliamo, Tempi un poco “oscuri”, durante i quali la presenza femminile alla Fotografia -nello specifico nella sua comunicazione promozionaleera subordinata a tanti e tanti condizionamenti sociali Dopo gli auguri anticipati, una curiosità che ci coinvolge direttamente. Da tempo, per conservare documenti di dimensioni proporzionali, usiamo una scatola da cinquanta fogli di carta sensibile, per stampa bianconero all’ingranditore: Agfa Brovira, gradazione 3, formato 30x40cm. Ha contenuto e trasportato una stampa che, più di venti anni fa, ci regalò Gianni Berengo Gardin, consegnandocela -per l’appunto- in questa scatola. A propria volta, anche lui la utilizzò... in recupero. Stava nel suo studio da tempo, e non sappiamo che uso lui ne facesse. Però, sul coperchio, leggiamo una nota esplicita: «Antonio, ho finito la carta. Ordina la stessa. 10.10.1960, GBG». Come intuibile, si tratta di una annotazione per un assistente, invitato a approvvigionare la camera oscura. Ed è la data che fa la differenza, quantomeno in questa occasione: dieci ottobre Millenovecentosessanta, il giorno in cui Gianni Berengo Gardin compiva trent’anni.

7 Editoriale Riprendendo lo spessore della «marcia del progresso inarrestabile», che sta finalmente concedendo all’universo femminile il proprio valore sociale, ipotizziamo anche un contributo fotografico che non sia soltanto utilitaristico: non solo la fotografia, ma soprattutto la Fotografia. Da Tina Modotti

8 L’altra metà del Cielo In edizione originaria National Geographic (Usa) e in coeva edizione italiana National Geographic Italia, una intensa visione: Donne - Un secolo di cambiamenti, con altri supplementi a tema. In attesa di...

12 Per il cambiamento Edizione speciale del prestigioso mensile British Vogue rivolto alle Forces for Change / Forze per il cambiamento, realizzato con ritratti di quindici personalità influenti sul nostro Mondo. Ultimo servizio fotografico firmato da Peter Lindbergh, prematuramente scomparso


FEBBRAIO 2020

RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA

16 Quei fotocronisti Trasversale al cinema, nelle proprie personalità in sceneggiatura e/o scenografia, l’attenzione per gli attori protagonisti e interpreti fa doverosamente parte dello Spettacolo. Con curiosi incontri fotografici Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

Anno XXVII - numero 258 - 6,50 euro DIRETTORE

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

IMPAGINAZIONE

Maria Marasciuolo

REDAZIONE

Filippo Rebuzzini

19 Con decentramento Non entriamo nel merito della modestia progettuale dell’(ormai) antica Orbitar 21/4x31/4 Wide Angle, ma ne riveliamo l’anima e l’interpretazione di un Tempo Ritrovamento di Alessandro Mariconti

22 Neologismo assoluto Con La dolce vita, di Federico Fellini (e Ennio Flaiano), nasce il più consistente neologismo della Storia contemporanea: Paparazzo. Da personaggio del film a identificazione -spesso negativa- di una categoria. Con l’occasione, ricordo di Tazio Secchiaroli, interprete principale di una Storia della quale andare orgogliosi di Maurizio Rebuzzini

28 Al di sotto di Mosca Outer Moscow è un progetto fotografico dell’attenta Tatiana Bormatova che non racconta solo del soggetto annunciato, ma si svolge come pretesto narrativo di Antonio Bordoni

36 Storie raccontate Pensata e progettata come introspezione espressiva di Peter Lindbergh, all’apice di una carriera fotografica folgorante, alla luce della sua prematura scomparsa, Untold Stories consegna una sorta di testamento in racconto. Autorevole mostra e volume-catalogo

43 Attraverso lo specchio Biografia di Tina Modotti, in veste di graphic novel (della brava Cinzia Ghigliano), Lo specchio di Tina ricostruisce un’esistenza quantomeno avventurosa. Fantastico e coinvolgente linguaggio “a fumetti” di Angelo Galantini

48 Verso Cannes

CORRISPONDENTE Giulio Forti

FOTOGRAFIE Rouge

SEGRETERIA

Maddalena Fasoli

HANNO

COLLABORATO

Alcide Boaretto Antonio Bordoni Tatiana Bormatova mFranti Angelo Galantini Elena Manfrotto Alessandro Mariconti Marco Saielli

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editoriale ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2)

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rasversale a molto, per quanto non a tutto (forse), la Fotografia si offre e propone come fantastico s-punto di partenza, per osservazioni, riflessioni e valutazioni che si estendono ben oltre i propri confini istituzionali e di attinenza specifica. Per quanto non pretendiamo che si prospetti come elemento capace di indurre cambiamenti sociali forti -quantomeno non in un rapporto statico di causa ed effetto immediati-, siamo perfettamente consapevoli del fatto che il suo essere autentico linguaggio (non soltanto visivo) dal Novecento sia in qualche misura sostanziale e concreto. È attraverso la Fotografia (e suoi derivati) che si è affermata una coscienza del Mondo e dei suoi accadimenti, come mai prima nella storia evolutiva dell’Uomo. In questo senso, complice la Fotografia, oggigiorno, si stanno rendendo visibili a tutti molti discorsi di parità ed equilibrio che riguardano un rinnovato modo di osservare e considerare l’universo femminile (era ora!). Per proprio mandato, la Fotografia supporta questo passo con il proprio linguaggio esplicito: su questo stesso numero, segnaliamo due cadenze recenti che rappresentano l’avanguardia di un pensiero da sostenere con tutte le proprie forze. «La marcia del progresso è inarrestabile», afferma perentoriamente l’edizione speciale di National Geographic declinata per e su Women - A Century of Change, con edizione coeva Donne - Un secolo di cambiamenti, di National Geographic Italia. Quindi, British Vogue sottolinea quindici Donne che possono guidare Forze per il cambiamento. Non siamo lontani dal vero, quando appuntiamo che la Fotografia non è soltanto utile (e pratica) per queste visualizzazioni, ma possiede i termini per una propria declinazione in sostegno e apporto e supporto e rinforzo di questo pensiero sovrastante. La marcia al femminile che si è manifestata in centottanta anni di nostra Storia è stata talmente potente ed energica, da aver stabilito princìpi fondamentali nell’evoluzione del linguaggio espressivo, la cui narrazione non sempre ne ha tenuto conto (rileviamolo con amarezza, quasi mai). A questo punto, è fondamentale proiettare in avanti quelle personalità che hanno tracciato solchi indelebili: da cui, ancora, un ulteriore apporto della Fotografia a un cammino che va assolutamente percorso. Personalmente, abbiamo spesso preso le distanze da eccessi fonetici sulla personalità fotografica di Tina Modotti (su questo stesso numero, in biografia graphic novel di Cinzia Ghigliano). Soprattutto, ci siamo tenuti distanti dalla beatificazione acritica della sua Fotografia. Però, distinguo a parte, è oggi imperativo che la Fotografia italiana proietti Tina Modotti oltre i confini del proprio solo ambito “localizzato”. È stata una personalità controversa, singolarmente affascinante, che ha lasciato un segno nella Cultura e nella Vita. Soprattutto se pensiamo ai suoi tempi, ha realizzato cose sorprendenti. Ha avuto una vita avventurosa: densa di mistero, sacrificio, frivolezze, sangue, politica e intrighi. Ha frequentato artisti che hanno scritto la Storia. Lei stessa ne ha compilati dei capitoli. Maurizio Rebuzzini

Per celebrare l’ Informazione fotografica, il 30 giugno 1978, le Poste Italiane hanno emesso un francobollo sul quale è stata riprodotta una fotografia di Tina Modotti: Linee del telefono, Messico, 1925.

Annullo filatelico del giorno di emissione (30 giugno 1978) del francobollo con cui le Poste Italiane hanno celebrato l’ Informazione fotografica. La cartolina illustrata, realizzata da Ippolito Cattaneo di Genova, ai tempi distributore del marchio Leica, accosta una antica Leica Compur a una moderna Leica R3 Electronic, allora di sostanziale attualità tecnica.

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Parliamone di Maurizio Rebuzzini (Franti)

L’ALTRA METÀ DEL CIELO

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Per quanto vorremmo che tutto questo (che stiamo per considerare) accadesse più in fretta, per quanto avremmo desiderato che fosse successo prima di oggi, comunque sia, ciò che sta avvenendo ci piace proprio: da qualche tempo, l’universo femminile viene preso in seria considerazione. Tanto spazio giornalistico è indirizzato in questo senso -e stiamo per rilevare-, molte barriere preconcette si stanno disgregando. Per motivi intuibili (e, forse, ammissibili), il nostro punto di vista privilegia la prima delle due valutazioni, che è poi anche quella più visibile a tutti. Per il resto, ciascuno di noi deve fare i propri conti e stilare le proprie valutazioni, sulla base di esperienze individuali, che maturano nel corso e svolgimento della vita quotidiana. In stretti termini temporali, e anticipando altri crediti, soprattutto fotografici, che andremo a incontrare, è esempio eclatante il numero speciale di National Geographic, dello scorso novembre, in edizione coeva dall’originale statunitense alle tirature nazionali, tra le quali -ovviamente- ci sta anche la testata National Geographic Italia. In questo senso, va rilevato che le edizioni nazionali, che fino a qualche stagione fa sono state declinate con pochi legami in cronaca alla casa madre (rispetto la quale hanno spesso pubblicato servizi giornalistici ripresi dal passato, fosse anche soltanto prossimo), sono oggi allineate in una programmazione contemporanea in attualità di visioni e intenti. Tra parentesi, in qualche misura, questa edizione giornalista fa il paio con l’allineato Forces for CHANGE / Forze per il cambiamento, di British Vogue / Vogue UK, del precedente settembre, del quale riferiamo su questo stesso numero, da pagina 12. Ciò detto, il richiamo Women - A Century of Change, di National Geographic originario (Usa), è stato tradotto letteralmente in Donne - Un secolo di cambiamenti per, da e su National Geographic Italia. Di cosa si tratti è chiaro ed esplicito (nello stesso richiamo): di un’edizione totalmente ri-

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servata al mondo al femminile, dalle sue eccellenze alle sue problematiche ancora persistenti in geografie a cadenza vistosamente maschilista (per esempio, da e con la prima patologa Jane Goodal: «In molti paesi in via di sviluppo, le donne non hanno libertà; è privilegiata l’educazione dei maschi, e viene loro negata la pianificazione familiare», denso e autorevole articolo, introdotto dal sommarietto lampante ed espresso di Qual è, oggi, la sfida più importante per le donne?). Qui e ora, non è il caso di cadenzare la consecuzione degli interventi a tema ospitati e pubblicati su questo numero speciale, avviato dall’Editoriale

In declinazione giornalistica coincidente, lo scorso novembre 2019, l’originario National Geographic statunitense e l’edizione National Geographic Italia hanno realizzato rispettivi numeri coevi di rivista per (rispettivamente): Women - A Century of Change e Donne - Un secolo di cambiamenti. Numero speciale, più che speciale, da non perdere... non solo da collezione, ma storico.

Al punto in cui siamo, di Concita De Gregorio, nell’edizione italiana (da Susan Goldberg, Hearing our Voices / Ascoltare le nostre voci, in quella statunitense). L’invito è rivolto all’avvicinamento e lettura di questa fantastica monografia; l’esortazione è indirizzata alle coscienze di ciascuno di noi. Con una garanzia certa: l’intero apparato giornalistico, dalle parole alle immagini, è di eccellenza e valore. Insomma, storico numero di National Geographic Italia, per quanto ci riguarda da vicino, da non lasciarsi sfuggire. In adattamento dall’origine statunitense alla traduzione italiana, gli argomenti sono sostanzialmente coinci-


Parliamone DALLA PARTE DELLE DONNE (FINALMENTE)

In anticipo su un casellario di edizioni librarie recenti, in una certa misura attinenti, segnaliamo la monografia attuale Women. Un tributo di National Geographic alle donne, a cura di Susan Goldberg, menzionata nel corpo centrale di questo intervento redazionale (White Star, 2019). Allo stesso momento, rileviamo che si sta respirando la fragranza di un vento positivo, che ha innescato una evidente «marcia del progresso, che si afferma come inarrestabile», in interpretazione dal motivo ispiratore e conduttore dell’edizione giornalistica di National Geographic (e National Geographic Italia), dello scorso novembre, soggetto di questo nostro intervento redazionale a commento: Women - A Century of Change e il coincidente Donne - Un secolo di cambiamenti. Due esempi, tra i tanti da censire. ❯ Il diritto di contare, di Margot Lee Shetterly (in Italia, dal 2017), è un documento in forma di romanzo (quasi) che racconta delle tre matematiche afroamericane Katherine G. Johnson, Dorothy Vaugan e Mary Jackson che furono e agirono ai vertici scientifici dei progetti spaziali statunitensi culminati con l’allunaggio di Apollo 11... e oltre [FOTOgraphia, luglio 2019]. Dal romanzo (in originale, Hidden Figures: The Untold Story of the African-American Women Who Helped Win the Space Race / Figure nascoste: la storia non raccontata delle donne afroamericane che hanno contribuito a vincere la corsa allo Spazio) è stato sceneggiato il film Il diritto di contare, di Theodore Melfi, del 2016. Il libro e il film espongono una storia fino a oggi tenuta all’oscuro per due discriminanti/discriminazioni: donne (come oggi sottolineiamo) e afroamericane (che ieri ci insegnarono a definire “nere”, e negli anni Sessanta di svolgimento erano “negre”, e niente di più). Giudizio personale: il libro è spesso lento e sovraccarico di dati storici che distolgono dal cammino principale; il film è brillante, avvincente e interpretato in modo fuori dal comune; tra altri riconoscimenti, tre candidature agli Oscar 2017: Miglior film, Miglior attrice non protagonista (Octavia Spencer, nei panni di Dorothy Vaughan) e Migliore sceneggiatura non originale. ❯ Bauhausmädels. A Tribute to Pioneering Women Artists (a cura di Patrick Rössler; Taschen Verlag, 2019) è esattamente ciò che il titolo anticipa e promette: Ragazze Bauhaus [molto, molto brutto, in italiano]. Un tributo/omaggio alle donne artiste anticipatrici. Nel centenario della rivoluzionaria scuola di arti e mestieri, questo percorso illustrato sposta a lato le considerazioni sulla fondazione del Bauhaus, andando a esplorare e considerare sue ideatrici e promotrici al femminile raramente esaminate (prima di questa profonda riflessione), mai studiate, oppure -nella migliore delle ipotesisostanzialmente sottovalutate. In un clima nel quale l’istituzione arrivava finalmente a offrire nuove opportunità alle donne, lungo la loro strada, queste ottantasette artiste e artigiane hanno dovuto affrontare aspettative irragionevoli della famiglia, l’atteggiamento ambiguo della facoltà e dell’amministrazione, convenzioni sociali antiquate e -in definitiva- la repressione politica del regime nazista.

Women. Un tributo di National Geographic alle donne, a cura di Susan Goldberg; White Star, 2019; 512 pagine 23x30cm, cartonato; 38,00 euro.

Il diritto di contare, di Margot Lee Shetterly; HarperCollins Italia / Tascabili, 2018; 398 pagine 12,6x19,6cm; 9,90 euro.

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (3)

denti, per quanto non sempre necessariamente identici; ogni edizione ha saputo fare bene i conti con il proprio paese e le relative consuetudini di approccio e lettura. Tanto che, va subito segnalata una moderata e legittima differenza tra la copertina statunitense e quella italiana, là dove, nella visualizzazione in alto a destra, è stata inserita l’astronauta italiana Samantha Cristoforetti, eccellenza nazionale. A conti (presto) fatti, ciò che veramente conta, e definisce l’edizione, è quanto sintetizzato in grafica di Sommario, su doppia facciata, là dove una sapiente combinazione di caratteri da stampa in evidenziazione visiva compone un pensiero, anzi il pensiero: «La marcia del progresso è inarrestabile» (in coincidenza con l’identico statunitense). E, in ulteriore convergenza, va registrata anche l’edizione della monografia (soprattutto, fotografica) Women. Un tributo di National Geographic alle donne, a cura di Susan Goldberg, a propria volta allestimento italiano dall’originario statunitense (White Star, 2019; 512 pagine 23x30cm). Ovviamente, non ci illudiamo che tutto sia già perfetto, ma abbiamo fiducia nella «marcia del progresso», sicuramente «inarrestabile». Crediamo fermamente nella parità di diritti e opportunità tra tutti: Donne, Uomini, Diversi. E operiamo in questa visione, nella convinzione che ogni azione personale, se condotta con onestà e determinazione, sia influente sul cammino collettivo, sul percorso condiviso. A differenza, e questo va annotato, non ci allineiamo con alcuna delle adulazioni e cortigianerie della Civiltà dello spettacolo (da e con Guy Debord), che invertono artificiosamente cammini precedenti, introducendo ulteriori stereotipi di maniera, per quanto di segno algebrico opposto. Ovvero, non ci entusiasmiamo per le conduzioni al femminile di programmi televisivi di sport (fino a ieri l’altro territorio interamente maschile e maschilista), né per altre ruffianerie fuori luogo (e tante ne vediamo, in televisione), ma restiamo devoti al princìpio dell’integrità vera e sostanziosa, al di fuori di preconcetti e prevenzioni. Per certi versi, che ci potrebbero essere più prossimi di altro, anche in Fotografia stiamo assistendo a una positiva e consistente rilettura della Storia,

Bauhausmädels. A Tribute to Pioneering Women Artists, a cura di Patrick Rössler; Taschen Verlag, 2019; 480 pagine 17x24cm, cartonato; 30,00 euro.

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Parliamone PERSONALITÀ DELL’ANNO 2019

Alla fine del 1927, il settimanale statunitense Time Magazine avviò la propria segnalazione dell’Uomo dell’anno, per l’appunto Man of the Year. In orgoglio nazionale, il primo fu il giovane trasvolatore dell’Atlantico Charles Lindbergh (1902-1974). Per decadi, l’identificazione è stata in qualche modo esatta, per quanto non corretta politicamente: infatti, le segnalazioni che si sono susseguite hanno sempre indicato Uomini, in quanto uomini -e mai Donne-, spesso addirittura elevati al riconoscimento più di una volta. Altrettanto frequentemente, le indicazioni sono poi risultate imbarazzanti: Adolf Hitler, 1938; Joseph Stalin, 1939 e 1942; magari, il presidente Richard Nixon, 1971 e 1972; Ruhollah Khomeini (l’Ayatollah Khomeini), 1979. Poche e marginali le Donne, spesso subordinate al proprio marito. 1936: Wallis Simpson, la moglie snob di Edward, erede al trono di Inghilterra, che per lei abdicò a favore del fratello Alberto, re Giorgio VI. 1937: Soong Mei-ling, moglie del capo di stato cinese Chiang Kai-shek. 1952: la regina Elizabeth II, nell’anno di sua ascesa al trono. 1975: Donne americane, con scansione di personalità specificate. 1986: Corazon Aquino, patriota e attivista, eletta alla presidenza delle Filippine. 2015: Angela Merkel, cancelliera tedesca. Complici mille circostanze, a partire dalle attribuzioni non-fisiche (dagli Scienziati americani, nel 1960), a fine Novecento, l’identificazione è stata rideclinata in Person of the Year, che evita distinzioni e imbarazzi (attuali). E approdiamo all’attuale Person of the Year 2019: Greta Thunberg (Greta Tintin Eleonora Ernman Thunberg), per la quale non esprimiamo alcuna specifica... The Power of Youth / Il potere della gioventù. E questo esclude e supera tante altre parole superflue.

quantomeno della propria Storia. Capitolo affascinante, capitolo sostanzioso, che merita di essere analizzato e annotato, con approfondimenti di dovere. Dopo scritture al maschile, con moderate escursioni al femminile (Julia Margaret Cameron, Tina Modotti, Dorothea Lange, Ghitta Carell, Margaret Bourke-White, Lisette Model, Berenice Abbott, Gerda Taro, Claude Cahun, Inge Morath Diane Arbus, Lotte Jacobi, Imogen Cunningham, Dora Maar, Ruth Bernhard, Madame Yevonde, Graciela Iturbide, Mary Ellen Mark, Eve Arnold, Martine Franck [speriamo di non averne dimenticata alcuna], oltre le personalità contemporanee), è imperativo rileggere senza prevenzioni e collocando il contributo femminile all’interno dell’evoluzione del linguaggio. Non in conformità di alcuna riprovevole e calunniosa “quota rosa”, ma per l’intensità e valore di contenuti assoluti e inviolabili. Non trasversalità casuali, ma presenze potenti, qualificate e influenti. In parità assoluta. ❖



L’ultimo valzer di Angelo Galantini

PER IL CAMBIAMENTO

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Volente o nolente, una certa ricerca individuale di Romanticismo appartiene al cammino di ciascuno di noi. Con il Romanticismo, esprimiamo sensibilità particolari, che hanno origine in un mondo interiore, che evocano paesaggi suggestivi, che approdano alla dimensione del sogno. Così, è stato inevitabile leggere parole di quanti hanno collegato la prematura scomparsa dell’eccellente fotografo tedesco Peter Lindbergh, lo scorso tre settembre [FOTOgraphia, ottobre 2019 e, ancora, su questo numero, da pagina trentasei], al suo ultimo servizio pubblicato: sul numero di British Vogue, altrove Vogue UK, dello stesso settembre, con lancio dalla copertina. È stato inevitabile (?) che molti si siano espressi in termini di “testamento spirituale”... come se... Ma, attenzione, per quanto profonda nel proprio contenuto, questa coinvolgente e appassionante serie di ritratti, eseguiti magistralmente, è solo una delle tante di Peter Lindbergh; se proprio vogliamo, magari in paradosso, neppure una delle più intense. Soltanto... è la sua ultima. Da cui, l’inevitabilità dell’Assoluto, del punto finale, con tutte le proprie considerazioni aggiunte, supplementari e addizionali appena richiamate. Però, e allo stesso momento, è giusto questo: l’ultimo servizio fotografico consegnato alla Storia (per propria combinazione evidente... del Mondo contemporaneo). Anni fa, nell’estate Millenoventottanta, accadde lo stesso per l’altrettanto prematura e inattesa scomparsa dell’attore Peter Sellers (in curiosa coincidenza di nomi di battesimo; Richard Henry Sellers è mancato il ventiquattro luglio, in prossimità dei cinquantacinque anni). La sua ultima interpretazione, nei panni di Chance (Giardiniere / Gardener), in Oltre il giardino (Being There, di Hal Ashby, del 1979), fu avocata come altrettanto “testamento spirituale”, accentuato dall’immagine simbolo di spalle, incamminato con bombetta, ombrello e valigia. No, non ci siamo: nessun “testamento spirituale”, ma due sostanziali coincidenze tra una Vita vissuta anche

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Copertina di British Vogue / Vogue UK, dello scorso settembre: Forces for CHANGE ( Forze per il cambiamento), con ritratti di Peter Lindbergh: suo ultimo servizio pubblicato, prima della prematura scomparsa, il tre settembre. Prima fila: Adut Akech, Gemma Chan, Greta Thungberg, Jameela Jamil. Seconda fila: Chimamanda Adichie, Adwoa Aboah, [specchio], Jacinda Ardern. Terza fila: Francesca Hayward, Ramla Ali, Christy Turlington, Salma Hayek Pinault. Quarta fila: Sinéad Burke, Jane Fonda, Laverne Cox, Yara Shahidi.

in proprio impegno sociale (Peter Lindbergh) e un personaggio di fantasia (dal romanzo Being There, del 1970, dello scrittore polacco naturalizzato statunitense Jerzy Kosinski, originariamente pubblicato in Italia da Mondadori, nel 1973, con il titolo Presenze, per poi essere rieditato in Oltre il giardino, in corsa sul film, da Feltrinelli, nel 1996, e Minimum Fax, nel 2014, sempre nella traduzione di Vincenzo Mantovani, e sempre con Peter Sellers in copertina, dal film). Dunque, lasciamo il Romanticismo ad altri istanti di Vita, a partire dall’apoteosi pittorica del Viandante sul mare di nebbia (Der Wanderer über dem

Nebelmeer, del 1818 circa), del pittore romantico tedesco Caspar David Friedrich (1774-1840).

APPUNTO, VOGUE UK Come annotato, in nostra osservazione viziata dei ritratti realizzati dal fotografo tedesco Peter Lindbergh, il numero di British Vogue / Vogue UK, dello scorso settembre, si è presentato come edizione speciale, lanciata dalla copertina, Forces for CHANGE, traducibile in Forze per il cambiamento. Si tratta di una cadenza di quindici donne influenti sul nostro Tempo, composte in una combinazione ordinata di sedici tessere: la sedicesima


L’ultimo valzer Comunque, in tempi di duchessa del Sussex, Rachel Meghan Markle ha curato la pubblicazione del numero emblematico di British Vogue, insieme con il caporedattore Edward Enninful: ha acceso le luci della ribalta su quindici donne destinate a rimodellare la società in modo radicale e positivo. Ripetiamo: i ritratti del servizio sono di Peter Lindbergh, che ha interpretato volti di donne della politica, dello sport e dell’arte, che stanno avendo un impatto corroborante sulla vita contemporanea. La selezione delle personalità coinvolte e reclutate è attribuita alla duchessa, che ha iniziato a cooperare con Edward Enninful all’inizio del Duemiladiciannove. «Questi sette mesi sono stati gratificanti. Con Edward Enninful, caporedattore di un mensile estremamente influente sulla società, ci siamo orientati verso la sottolineatura di valori, cause e donne che oggi hanno un forte impatto sul mondo», ha rivelato la duchessa. «Sono convinta che siano evidenti le Forces for Change [Forze per il cambiamento] che abbiamo proposto all’attenzione pubblica». BILDARCHIV PREUSSISCHER KULTURBESITZ (BERLIN)

QUINDICI DONNE

è un emblematico specchio (quando c’è redazione, l’editoria cartacea conferma propri valori e interpellanze di statura nell’ambito della propria comunicazione... in contenuti, non soltanto visivi, sia chiaro). Con non celato orgoglio, tutto britannico (storico e, forse, ancora un poco colonialista), la curatela della autorevole pubblicazione è accreditata a HRH The Duchess of Sussex: sua altezza reale, la duchessa di Sussex, nata Rachel Meghan Markle, dal 19 maggio 2018, moglie del principe Henry, duca di Sussex. Dalla cronaca recente, sappiamo che questi titoli nobiliari sono ormai

storia passata. Clamorosamente, quanto inaspettatamente (?), Henry, principe della famiglia reale britannica, sesto in linea di successione al trono del Regno Unito e dei reami del Commonwealth, ha optato per una vita “reale e non regale”, ovvero borghese. Figlio secondogenito di Charles Philip Arthur George MountbattenWindsor (1948), principe di Galles, e della scomparsa principessa Diana (1961-1997), nonché nipote della regina Elizabeth II (Elizabeth Alexandra Mary; 1926), sta abbandonando la propria casata a favore di una esistenza comune (quanto “comune” è tutto da stabilire).

Lasciamo il Romanticismo ad altri istanti di Vita, a partire dall’apoteosi pittorica del Viandante sul mare di nebbia ( Der Wanderer über dem Nebelmeer, del 1818 circa), del pittore romantico tedesco Caspar David Friedrich (1774-1840).

Eccole qui, le quindici personalità femminili «che oggi hanno un forte impatto sul mondo», nell’ordine nel quale appaiono in copertina di British Vogue / Vogue UK, dello scorso settembre... Forces for CHANGE: ❯ la modella Adut Akech (Adut Akech Bior; 1999), ex rifugiata dal Sud Sudan, eletta modella dell’anno a fine 2019; ❯ l’attrice ed ex modella britannica di origini cinesi Gemma Chan (Evelyn Gemma Chan; 1982), che lavora in campo cinematografico, televisivo e teatrale; socialmente influente. ❯ l’attivista climatica svedese Greta Thunberg (2003), che a sedici anni è uno dei personaggi più giovani tra quanti presi in considerazione; ❯ Jameela Jamil (Jameela Alia Burton-Jamil; 1986), attivista inglese e sostenitrice della positività corporea; ❯ Chimamanda Ngozi Adichie (1977), scrittrice nigeriana; nel 2005, ha vinto il Commonwealth Writers’ Prize / First Best Book, con il libro Purple Hibiscus (in Italia, L’ibisco viola, in edizione Einaudi); nel 2008, in Italia, ha ricevuto il Premio Internazionale Nonino per Metà di un Sole giallo (ancora, Einaudi Editore);

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L’ultimo valzer

❯ la modella e attrice ghanese-inglese Adwoa Aboah (1992), neo-avvocatessa, fondatrice del movimento Gurls Talk, comunità online di discussione e dibattito tra giovani donne; ❯ [dopo lo specchio] il primo ministro neozelandese Jacinda Ardern (Jacinda Kate Laurell Ardern; 1980); ❯ Francesca Hayward (1992), la prima ballerina e attrice del Royal Ballet, di Londra, istituzione prestigiosa; ❯ Ramla Ali, ex rifugiata somala e pugile (e anche modella), attuale campionessa africana dei pesi piuma, prima pugile -maschile o femminile- ad aver vinto una medaglia d’oro internazionale, in rappresentanza della Somalia;

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Pseudo copertine singole di British Vogue / Vogue UK, dello scorso settembre: Adut Akech, Gemma Chan, Greta Thungberg, Jameela Jamil, Chimamanda Adichie, Adwoa Aboah, Jacinda Ardern, Francesca Hayward, Ramla Ali, Christy Turlington, Salma Hayek Pinault, Sinéad Burke, Jane Fonda, Laverne Cox, Yara Shahidi.

❯ Christy Turlington Burns (Christy Nicole Turlington; 1969; moglie del regista-attore Edward Burns), modella statunitense, di padre statunitense e madre salvadoregna, laureata con lode in storia dell’arte alla New York University, influente nella socialità internazionale contemporanea; ❯ Salma Hayek Pinault (Salma “del Carmen” Hayek Jiménez-Pinault; 1966), attrice e modella messicana naturalizzata statunitense, nominata all’Oscar come miglior attrice protagonista, nei panni di Frida Kahlo, per Frida, nel 2003; ❯ Sinéad Burke (1990), scrittrice, accademica, attivista e conduttrice ir-

landese, riconosciuta per il suo discorso al Ted / Technology Entertainment Design sul Perché il design dovrebbe includere tutti; ❯ l’attivista e attrice statunitense Jane Fonda (Jane Seymour Fonda; 1937), che a ottantadue anni è la meno giovane delle quindici (la più anziana); ❯ l’attrice, modella, produttrice televisiva e attivista LGBT statunitense Laverne Cox (Roderick Leverne Cox; 1972), la prima transgender ad apparire sulla copertina di British Vogue; ❯ Yara Shahidi (Yara Sayeh Shahidi; 2000), attrice di sitcom televisive, modella e attivista statunitense. Appunto, per il cambiamento. ❖



Cinema

di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

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Da pagina ventidue, su questo stesso numero, rievochiamo e celebriamo il film La dolce vita, di Federico Fellini (e Ennio Flaiano), nel proprio sessantesimo dalle date di solenne Prima romana e immediata distribuzione nelle sale cinematografiche: rispettivamente, tre e quattro febbraio Millenovecentosessanta; da cui, come sottolineato, Sessanta più sessanta. Per il vero, non ci occupiamo del film in quanto tale, il cui approfondimento spetta di diritto ad altri, ma del suo aver fatto nascere un rilevante neologismo dei nostri tempi: quel paparazzo, che si è imposto come vocabolo (mai tradotto), in tutto il Mondo. Se vogliamo approfondire meglio, in assoluto e (magari) integrazione a quanto già riportato, la figura del paparazzo è declinazione -spesso al negativo/dispregiativo- del fotocronista, professionista che segue lo svolgimento quotidiano dell’esistenza in racconto giornalistico. Cercando il pelo nell’uovo, potremmo arrivare a identificare nel paparazzo il fotografo senza scrupoli che insidia la vita altrui, soprattutto quella dei personaggi pubblici; mentre il fotocronista agisce e opera a uno strato superiore, non condizionato dallo scoop a tutti i costi. Ma sono distinzioni che non approdano al pubblico, rimanendo -casomai- all’interno del circuito degli addetti al lavoro, che hanno anche il compito di analizzare e considerare oltre la superficie a tutti apparente. Quando il fotocronista agisce in momenti annunciati e pubblici, per esempio in registrazione e resoconto di festival cinematografici (con rimando alla relazione da Cannes 2019, di Alcide Boaretto, da pagina quarantotto, ancora su questo numero), è a tutti gli effetti giornalista visivo, guidato da princìpi e regole (alcune non scritte) che ne definiscono e determinano il passo professionale. In questo ambito, quando un avvenimento è «annunciato e pubblico» e fa parte di un programma anticipato, c’è poco di intimo, e tanti fotocronisti cercano di ritagliarsi una propria presenza significativa: utile e necessaria per assol-

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Festival del Cinema di Venezia, anni Sessanta, fotocronisti attorno l’attrice italiana Gina Lollobrigida (presumiamo). Consuete biottica Rolleiflex, con immancabili flash elettronici di dimensioni vistose, e qualcosa di diverso. (Tra l’altro, correttamente esposto rispetto le sotto e sovra esposizioni di contorno) Un fotografo non sta scattando, ma sta caricando un magazzino portapellicola a rullo 6x7cm (presumiamo) per una qualificata e prestigiosa Linhof Technika, in rigorosa interpretazione fotogiornalistica. È giovane, ma perfettamente riconoscibile: è Lino Manfrotto, di Bassano del Grappa, in anni di professionismo fotografico precedenti ciò che tutti ben conosciamo.

[PROBABILMENTE] SERGIO DEL GRANDE / EPOCA (MONDADORI)

QUEI FOTOCRONISTI

vere l’incarico professionale assunto o successivamente proposto. È giocoforza che, nello stesso spazio, agiscano più e più fotografi, tutti alla ricerca dell’immagine adeguata al proprio giornalismo visivo. In questo senso, un caso notevole e sintomatico riguarda un eccelso fotografo statunitense di sport, Neil Leifer, la cui immagine iconica è quella del knock out con il quale Muhammad Ali ha abbattuto Sonny Liston, alla St. Dominic’s Arena, di Lewiston, nel Maine, negli Stati Uniti,

il 25 maggio 1965 [anche copertina della solenne rievocazione Greatest of all Time - A Tribute to Muhammad Ali, a cura di Benedikt Taschen, del 2010, in FOTOgraphia del dicembre 2010 e luglio 2016; in ritratto di Tim Mantoani, per il progetto Behind Photographs, in FOTOgraphia, dell’ottobre 2010]. Oltre tanti altri suoi valori iconici, riguardate questa fotografia in altra luce: bravo Neil Leifer... ma anche fortunato. Si è trovato dalla parte giusta al momento giusto. Altri fotocronisti, piazzati


MARIO DE BIASI / EPOCA (MONDADORI)

Cinema

PAOLO BEGOTTI

Festival del Cinema di Venezia 1956: fotocronisti attorniano una giovane Brigitte Bardot, allora ventiduenne, protagonista del film Et Dieu... créa la femme, di Roger Vadim (in Italia, Piace a troppi). Abbigliamento composto e ordinato dei fotocronisti accreditati per la Prima cinematografica del film a episodi I tre volti, del 1965, al Teatro Nuovo, di Milano: è questa la nostra annotazione.

AGENZIA DUFOTO

Poco consueta Speed Graphic 4x5 pollici tra i fotocronisti che attorniano Anna Magnani.

sul lato opposto del ring, hanno avuto la scena... di spalle, di schiena. Comunque, eccoci qui: quando un avvenimento è «annunciato e pubblico», tanti fotocronisti cercano di ritagliarsi una propria presenza significativa; e, a volte, finiscono nelle inquadrature dei colleghi. Qui e oggi incontriamo alcuni di questi casi, per i quali andiamo a esprimere annotazioni nostre, che si muovono sottotraccia e compongono un mosaico omogeneo: quantomeno tale in

base a quanto stiamo per rilevare, magari rivelandolo a coloro i quali non hanno avuto modo di farci caso, prima. Cominciamo con una fotografia adeguatamente nota, forse celebre (sempre che...): di Mario De Biasi, al Festival del Cinema di Venezia del 1956. La fotografia ritrae una giovane Brigitte Bardot, allora ventiduenne, in Laguna per Et Dieu... créa la femme, di Roger Vadim, che in Italia sarebbe diventato Piace a troppi [?]. Di fronte, un nugolo di fotografi, sui quali c’è

Richiamo storico, dai primi anni Sessanta: pentaprisma accessorio Porroflex (prodotto da Nippon Kogaku / Nikon) sulla biottica Mamiya C (220?) alle spalle di una giovane Stefania Sandrelli.

poco da annotare: consueta marea di Rolleiflex biottica, un’Hasselblad, una Leica, qualcosa d’altro in ordine sparso; ma tutto nella regola. Invece, per una altrettanto giovane Stefania Sandrelli, in fotografia dell’Agenzia Dufoto dei primi anni Sessanta, certamente non ancora ventenne (è nata nel 1946), possiamo soffermarci sui due fotocronisti che le appaiono di spalle, lei con sigaretta tra le dita. In “regola”, la biottica Rolleiflex, sulla sinistra dell’inquadratura; meno consueta, ma non si sa mai, la biottica Mamiya C (220?), di fronte. Non tanto insolita e anomala per se stessa -non ci permetteremmo-, quanto per la presenza del pentaprisma accessorio Porroflex, prodotto nientemeno che da Nippon Kogaku (Nikon!), dalla fine degli anni Cinquanta. Altrettanto inconsueta, la Speed Graphic 4x5 pollici del giornalismo statunitense in una sessione con Anna Magnani, attorniata da immancabili Rolleiflex biottica. Che pensare? Fotografo americano? Fotografo italiano americaneggiante? Altro ancora? Invece, per la Prima cinematografica del film a episodi I tre volti, del 1965, con le regie di Mauro Bolognini, Franco Indovina e Michelangelo Antonioni, al Teatro Nuovo, di Milano, non ci interessano tanto le macchine fotografiche tra le mani dei fotocronisti attorno a Alberto Sordi, sulla scalinata della sala, quanto... il loro abbigliamento composto e ordinato con lo spirito formale della serata. A questo proposito, da pagina quarantotto, in occasione di una considerazione analoga, torniamo sull’argomento. Nel frattempo, segnaliamo che, qualche estate fa, a una conferenza stampa convocata presso il Teatro alla Scala, di Milano, l’operatore Rai era in canottiera e masticava vistosamente un chewing gum. Segno dei Tempi? Chiusura di cammino, in apoteosi. Festival del Cinema di Venezia, fotocronisti accalcati attorno a Gina Lollobrigida (forse). Uno solo non sta scattando, ma caricando il magazzino portapellicola a rullo della propria Linhof Technika. È giovane, ma perfettamente riconoscibile: è Lino Manfrotto, di Bassano del Grappa, in provincia di Vicenza, in anni di professionismo fotografico precedenti ciò che tutti ben conosciamo. Il nostro ricordo e affetto. ❖

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TAU Visual si presenta

Ciao! Probabilmente ci conosci già, ma ci presentiamo ugualmente: l’Associazione Nazionale Fotografi Professionisti TAU Visual è un’associazione di fotografi professionisti che lavora per offrire strumenti concreti di lavoro. L’obiettivo principale dell’Associazione consiste nell’aiutare il fotografo nelle sue necessità professionali di ogni giorno, con consulenza, informazioni, incontri, testi, documentazione e attività gratuite, per risolvere i problemi immediati della professione. Nel medio termine, poi, lavoriamo assieme per elevare la cultura e la preparazione specifica di tutti gli operatori del settore. Ci sforziamo di affrontare i problemi in chiave positiva: più che contrastare gli aspetti negativi, lavoriamo per favorire gli elementi positivi della vita professionale di tutti.

Diventare Socio TAU Visual

Per avere un’idea delle attività dell’Associazione, la cosa migliore sarebbe che tu chiedessi a qualche collega già Socio, in modo da avere un parere diretto, e non una “pubblicità”. Puoi associarti solo se eserciti l’attività fotografica con una corretta e definita configurazione fiscale. Se sei un professionista, puoi presentare domanda partendo da: www.fotografi.org/ammissione.

Un regalo utile per i lettori di

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Come accennavamo, lavoriamo moltissimo per supportare i Soci nella loro attività, ma produciamo anche documentazione utile per il settore fotografico nel proprio complesso. Fra le altre cose, esiste un volumetto di 125 pagine, che raggruppa le risposte ad alcune delle tematiche su cui ci vengono poste domande con maggior frequenza. Se desideri ricevere via email il file in pdf di questo volumetto, è sufficiente che tu ce lo richieda mandando un’email alla casella associazione@fotografi.org, scrivendo nell’oggetto: “FOTOgraphia - Mandatemi il volume in pdf Documentazione TAU Visual per il Fotografo Professionista”. Indice dei contenuti del volume che ti invieremo Copyright diritto d’autore Tesserini, Pass e Permessi di ripresa Menzione del nome dell’autore Esempi di contratti standard Proteggibilità delle idee Tariffe professionali Pubblicabilità del ritratto Compendio documentazione sulla postproduzione fotografica


Trovarobe

di Antonio Bordoni - Ritrovamento di Alessandro Mariconti

CON DECENTRAMENTO Prodotta da Burke & James Inc, di Chicago, Illinois, Stati Uniti, l’affascinante Orbitar 21/4x31/4 Wide Angle è una decentrabile molto semplificata degli anni Sessanta (presumiamo). Per quanto l’obiettivo Schneider Super-Angulon 47mm f/8 sia decentrabile (10mm verso l’alto e il basso), la configurazione non ha nulla da spartire con le raffinatezze del sistema Silvestri.

ALESSANDRO MARICONTI (4)

A

Ancora in compagnia di Alessandro Mariconti e della sua passione per dotazioni fotografiche inconsuete, magari anche artigianali, che accompagna il passo commerciale dell’indirizzo rivolto ad attrezzature usate, antiquarie e da collezione: Photo40, via Foppa 42, 20144 Milano (www.photo40.it). Giusto lo scorso dicembre, abbiamo presentato e commentato una configurazione 6x6cm simil Hasselblad SWC, con grandangolare fisso Super-WKomura 47mm f/6,3, su otturatore centrale Copal 0, proveniente dalla famiglia ottica per il grande formato fotografico a corpi mobili di qualche decade fa, in tempi e con modi dominati dai riferimenti d’obbligo Schneider e Rodenstock (con moderata compagnia di una performante gamma Nikkor, e di dimesse proposte Fuji, Congo e Komura, per l’appunto). Luci della ribalta, oggi, sulla altrettanto grandangolare Orbitar, sempre con obiettivo fisso, questa volta cautamente decentrabile (10mm verso l’alto e altrettanti dieci millimetri verso il basso, con ampio bottone di blocco), Schneider Super-Angulon 47mm f/8, su otturatore centrale Synchro Compur, che ne consente la datazione probabile non oltre gli anni Settanta del Novecento; più verosimilmente ai precedenti anni Sessanta. Magazzino portapellicola a rullo 120 Graflex formato (statunitense) 21/4x31/4 pollici, traducibili in formato reale 5,7x8,2cm (57,15x82,55mm), considerabili prossimi al nominale 6x9cm, di riferimento e richiamo comune. Attenzione: qualcuno potrebbe essere indotto a specificare “meglio” 6x8cm, ma si debbono considerare i tempi di riferimento certi, quando la cadenza dei rulli 120/220 era scandita sui passi 4,5x6cm, 6x6cm, 6x7cm e 6x9cm; le progressioni “panorama” 6x12cm e 6x17cm sono state introdotte successivamente, magari a partire dalle configurazioni Linhof Technorama dagli anni Ottanta, sempre del Novecento; così come l’identificazione 6x8cm è altrettanto prossima, e non remota, ed è attribuibile dall’originaria Fuji GX680 di buona

Sequenza coerente del decentramento verticale dell’obiettivo grandangolare Schneider Super-Angulon 47mm f/8, con cerchio immagine adeguato alla copertura garantita del formato di ripresa 6x9cm della Orbitar Wide Angle: da 10mm verso l’alto a Zero, a 10mm verso il basso. Come considerato, valutato e rilevato, si tratta di una configurazione fotografica sostanzialmente elementare: obiettivo grandangolare, magazzino portapellicola

a rullo 120/220 e corpo macchina squadrato di necessario collegamento. Questa è stata base e sostanza di tante interpretazioni artigianali dei decenni (tra)scorsi. Da qui, soltanto l’italiano Vincenzo Silvestri è riuscito a decollare verso un design meno ovvio, un autentico sistema, una raffinata costruzione di personalità industriale. Comunque, affascinante ritrovamento di Alessandro Mariconti (Photo40)... trovarobe.

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ALESSANDRO MARICONTI

memoria [Fuji GX680 II Professional, in FOTOgraphia, del dicembre 1994; Fuji GX680 III Professional, in FOTO graphia, dell’ottobre 1998]. Altrettanto attenzione: le identificazioni medio formato “sei per tot” centimetri sono sempre prudentemente approssimative. Il lato 6cm non è mai tale, perché l’altezza totale 6cm del rullo 120/220 (appunto) è comprensiva dei bordi perimetrali di trattenimento del film sul piano focale; soltanto i sistemi fotografici per pellicola 70mm a doppia perforazione hanno potuto esporre 6cm di film. Altrettanto, i lati lunghi, quantificati 7cm e 9cm, non sono mai arrivati a tanto, ma si sono “fermati” qualche millimetro prima. Così che ogni sistema fotografico a pellicola a rullo 120/220 e ogni magazzino universale portapellicola è stato definito da dimensioni proprie, sempre diverse da quelle altrui. Tra i tanti, tra tutti, la tedesca Linhof, ai tempi soddisfatta e appagata da una sostanziosa leadership commerciale (poi, smantellata dall’efficacia della modularità diffusa del sistema a banco ottico Sinar, da Schaffhausen, in Svizzera), si estese a identificare “Ideal Format” / Formato ideale il proprio 6x7cm nominale, in dimensioni reali 56x72mm / 21/16x23/4 pollici: nei fatti, esattamente proporzionale al 4x5 pollici e 8x10 pollici (rispettivamente, 10,2x12,4cm e 20,4x25,4cm) delle pellicole piane allora in uso.

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Tornando alla Orbitar individuata e acquisita da Alessandro Mariconti, in attuale soggetto, va registrata la sua produzione accreditata a Burke & James Inc, di Chicago, Illinois, Stati Uniti, con relativa certificazione sulla targhetta di identificazione, sul frontale. Anche e ancora in questo caso è lecito annotare che si tratta di una ulteriore interpretazione della configurazione grandangolare (con decentramento), che il solo Vincenzo Silvestri, di Firenze, è riuscito a far evolvere dall’artigianato (e individualità) a una concreta e tangibile offerta/proposta tecnico-commerciale, estesasi a sistema: dallo Schneider Super-Angulon 47mm f/5,6 fisso, originario, in iperfocale, piuttosto che con elicoide di messa a fuoco, agli obiettivi intercambiabili; dal 6x7cm e 6x9cm di partenza al 4x5 pollici / 10,2x 12,7cm; da-a tanto altro ancora. Burke & James Inc, di Chicago, in Illinois, Stati Uniti [dove ha avuto sede anche la leggendaria L.F. Deardorff & Sons, dal 1923 al 1988], è stato un produttore e importatore di apparecchi fotografici professionali e obiettivi. L’azienda è radicata indietro e indietro, nel Tempo: fu fondata da Henry Burke e David James, nel 1897. Ha progettato e prodotto sistemi scientifici (per esempio, per il rilevamento di impronte digitali), attrezzature per arti grafiche e macchine fotografiche grande formato (e questa attuale Orbitar 6x9cm fa sistema con una analoga configurazione

Per quanto non sia necessario approfondire le prestazioni ottiche e grandangolari dello Schneider Super-Angulon 47mm f/8 della Orbitar 6x9cm, qui in funzione con decentramento verticale, è doveroso sottolineare l’impiego combinato con magazzini portapellicola a rullo 120/220 Graflex (formato reale 57,15x82,55mm).

4x5 pollici, con Schneider Super-Angulon 65mm f/8, su otturatore centrale Compur MX e dorso portapellicola ruotabile di trecentosessanta gradi, ricavato dal sistema a banco ottico Calumet, sempre prodotto a Chicago). È probabile che alcuni di questi siano stati attribuiti a marchi aggiuntivi: certamente, Rexo, Watson e Ingento. Niente da aggiungere sulla Orbitar 21/4x31/4 Wide Angle; soltanto segnaliamo la presenza di ben due slitte porta accessori, una centrata sull’obiettivo -dunque destinata a eventuali mirini esterni di inquadratura, per l’impiego a mano libera, agevolato dall’ampia impugnatura laterale di cuoio -, e l’altra più discosta, magari indirizzata a un flash elettronico d’appoggio. Invece, e d’obbligo, altro ancora da sottolineare su Alessandro Mariconti, che l’ha rintracciata e proiettata a nuova esistenza. Dove stanno il suo valore e la sua intelligenza, in espressione di saggezza? Nel ritrovare testimonianze e certificazioni di un tempo durante il quale la progettualità fotografica ha fatto prezioso tesoro delle potenzialità della costruzione meccanica, a fronte della quale sono state anche realizzate configurazioni pratiche -come questa oggi in passerella- capaci di soddisfare bisogni ed esigenze pratiche. Autentiche “invenzioni”, e tante ce ne sono state, che hanno illuminato un cammino estremamente fertile e proficuo. Ne abbiamo incontrata un’altra. ❖



NEOLOGISMO ASSOLUTO di Maurizio Rebuzzini

Tante e ripetute le retrospettive sulla stagione riferita ai paparazzi... non tutte di qualità sufficiente. Dalla quantità, isoliamo due iniziative lodevoli, entrambe di paternità coincidenti: Paparazzi. Fotografie 1953-1964, in mostra a Palazzo Fortuny, di Venezia, nel 1988; con fotografie di Velio Cioni, Marcello Geppetti, Tazio Secchiaroli, Elio Sorci, Sergio Spinelli, Master Photo e New Roma Press Photo; volume-catalogo Alinari; e Fotologia / 7; Museo di Storia della Fotografia Fratelli Alinari, 1987.

ANCORA, IN ANTICIPO Ciack da La dolce vita, con Federico Fellini e Anita Ekberg.

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Tutta l’improvvisazione riservata alla presenza della Fotografia al Cinema, tra sue sceneggiature e sue scenografie, registra un proprio apice subito rivelato: la

PIERLUIGI PRATURLON

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2)

R

iconosciamolo, ammettendolo, senza inutili false modestie... fuori luogo. Per mille motivi -tutti maturati nel percorso che ci induce a osservare e considerare anche manifestazioni parallele e trasversali della Fotografia-, abbiamo edificato una certa esperienza e (forse) competenza relativamente alla presenza della stessa Fotografia nel Cinema. Se vogliamo considerarla così, questa preparazione non procede da sola, ma è parte consistente di un insieme variamente modulato. Ovvero, è in (buona) compagnia di altre diagonali affrontate e perseguite, a propria volta riferite alla partecipazione della Fotografia -in quanto tale- nei fumetti, in filatelia, in narrativa, nella vita quotidiana... altrove. Però, siamo sinceri e onesti, altre convergenze sono meno affascinanti e condivisibili di quelle del Cinema. Proprio il Cinema, a differenza di altri indirizzi, ha modo di coinvolgere e far partecipare qualsivoglia interlocutore. Al contrario, è molto improbabile la conoscenza comune e partecipata a fumetti, filatelia, narrativa, vita quotidiana, nell’ordine appena enunciato. Di Cinema, possiamo parlare praticamente a tutti; per il resto, sono necessarie preinformazioni selettive e discriminatorie. Se non che, ancora in preambolo sull’intenzione originaria (del sessantesimo dalla Dolce vita, di Federico Fellini, del 1960: dunque, Sessanta più sessanta), per quanto il Cinema possa comporre tratti di un territorio comune e approvato, anche tra coloro i quali hanno in mente la Fotografia... non è proprio così. Infatti, è noto e risaputo: chi sa poco è portato a innalzare quel “minimo” a valore assoluto ed elevato; mentre, chi sa molto è consapevole che quel’“intensità” è parte di un insieme più ampio, vasto ed esteso. È per questo, è anche per questo, che sbocciano e fioriscono presunti esperti, soprattutto in Fotografia, per il cui ambito non sono richiesti né percorsi accademici accreditati, né capacità acquisite sul campo, nel corso di impegni individuali. Tanto, il recipiente Cinema giustifica molto; tanto, il contenitore Fotografia è quantomeno dubbio e incalcolabile. Quantomeno, qui in Italia.


Sessant’anni fa, nel Millenovecentosessanta (dunque, Sessanta più sessanta), con il film La dolce vita, di Federico Fellini, nelle sale dal quattro febbraio, è nato il più consistente neologismo del nostro Tempo. Dal personaggio fotografo Paparazzo, nell’interpretazione di Walter Santesso, all’identificazione di una categoria, di un approccio, di un atteggiamento... spesso, in declinazione negativa e irriverente. A proposito della presenza della Fotografia al Cinema, in sue sceneggiature piuttosto che in sola scenografia, una riflessione aggiuntiva e complementare, che scarta a lato e mette in angolo approssimazioni di contenuto caratteristiche di quanti si esprimono alla luce di proprie evidenti incapacità

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ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2)

PIERLUIGI PRATURLON (2)

Walter Santesso, nei panni di Paparazzo, in una scena epica della Dolce vita, all’Hotel Excelsior, dove ha luogo la conferenza stampa di Sylvia (Anita Ekberg).

In una bibliografia quantitativamente estesa, ma non sempre qualitativamente confortante, selezioniamo due titoli relativi al film La dolce vita, in attuale sessantesimo (Sessanta più sessanta), che si elevano sopra tutti, sia per contenuti, sia per superbo apparato fotografico. Ovviamente, pur mantenendoci nell’intento sovrastante di osservare, piuttosto di giudicare, qui e ora, valutiamo... professionalmente, per quanto ognuno, producendo libri, si mette in condizioni di essere quotato. Distanti per rispettivi anni di edizione, ma coincidenti per sostanza delle illustrazioni (in dimensioni generose): La dolce vita. Il film di Federico Fellini, a cura di Gianfranco Angelucci; testi di Federico Fellini e Gian Luigi Rondi; fotografie di Pierluigi Praturlon; Editalia, 1989; 320 pagine 30,5x27cm / La dolce vita; Logos, 2011; 552 pagine 29x29cm.

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sopravvalutazione di un film che tutti citano, qualcuno ha perfino visto (e, riguardato oggi, a più di cinquant’anni dalla propria attualità, risulta di una noia abissale, rivela stereotipi intollerabili e divulga ancora una sostanziosa miseria intellettuale), nessuno ha approfondito, almeno dal palcoscenico della Fotografia. In effetti, Blow-Up, di Michelangelo Antonioni (altrove, ma raramente, Blowup), del 1966, meriterebbe anche riflessioni approfondite. Se non che, una pletora di pseudo esperti (in Fotografia?) si è sempre limitata alla superficie a tutti apparente, ai contenuti più facili: Nikon F, un poco di Hasselblad 500C e rare escursioni oltre. Addirittura, si registrano pellegrinaggi nei luoghi londinesi del film [per esempio, Guido Tosi, in FOTO graphia, del febbraio 2016]. Ma, attenzione, in Blow-Up, la Fotografia svolge un ruolo fondante: è base narrativa e riflessiva di angosce profonde e presto individuate. Francamente, da tempo facciamo nostro un antico pensiero ben espresso, che definisce il senso della sceneggiatura (ispirata al racconto Le bave del diavolo, di Julio Cortázar, e firmata da Michelangelo Antonioni con Tonino Guerra e Edward Bond): la vicenda del fotografo londinese di moda che crede di aver visto (e fotografato) un omicidio «È una riflessione sull’impossibilità del cinema di “dire il vero” e sui rapporti complessi tra arte e realtà, tra ciò che si vede e ciò che si capisce» (Paolo Mereghetti: Dizionario dei film; Baldini & Castoldi, dal 1993). Per quanto, rivista oggi, questa testimonianza sull’angoscia esistenziale contemporanea abbia perso un molto (tutto?) della propria sottigliezza originaria e ha smarrito per strada tanto altro, rimane il fatto che, nel film, la Fotografia è complemento oggetto che si impone come chiave espositiva e interpretativa. Punto.

SESSANTA PIÙ SESSANTA A tutti gli effetti, La dolce vita, di Federico Fellini, è un film epocale: non tanto per se stesso (come pure lo è... anche), quanto per i propri riflessi sulla società e il costume, del tempo e oltre. In un momento nel quale l’Italia -prima di altri paesi- stava imboccando una propria via in ascesa (per quanto a spirale su se stessa), incamminandosi verso una strada di boom economico -o presunto tale, o così storicizzato, dopo-, e il Pianeta stava per essere travolto dal vento degli anni Sessanta, La dolce vita rifletteva su un certo passato prossimo, in chiave di presente.

Liquidiamo presto ogni ulteriore parallelo possibile e plausibile con il film di Michelangelo Antonioni, appena liquidato, alla luce di due coincidenze non secondarie (la seconda, indotta dal nostro particolare punto di vista, viziato e indirizzato): doppia regia italiana e coincidente sostanziosa presenza della Fotografia. Ancora in comune: entrambi i film raccolgono dalla Vita, per restituirle qualcosa. Ripetiamolo ancora, ribadendolo: Blow-Up registra «l’impossibilità del cinema di “dire il vero” e i rapporti complessi tra arte e realtà, tra ciò che si vede e ciò che si capisce» (ancora con e da Paolo Mereghetti) e ricambia con una semplificazione scenica che ha finito per influenzare tanto brutto cinema. Dunque, alla rappresentazione di Blow-Up va addebitata la linea discriminatoria tra una visione cinematografica della Fotografia precedente e una seguente. In particolare, gli va oggettivamente imputato di aver stabilito i connotati cinematografici del fotografo porno, o -comunque sia- sporcaccione, che estende fino alle estreme conseguenze il modo di vivere interpretato sullo schermo da David Hemmings, senza però la sua intelligenza e senza i suoi dubbi. All’indomani di Blow-Up, dalla metà degli anni Sessanta del Novecento, in un tempo di grandi sommovimenti, ma inquietante interregno espressivo, rari furono i fotografi che apparirono sullo schermo in altre vesti che non quelle del sesso. Molte furono le pellicole al di sotto del limite medio di accettabilità, che giocarono la facile carta del fotografo senza scrupoli e privo di morale: «Il fotoamatore è diventato un maniaco sessuale, un appassionato del coito ripreso con la macchina fotografica», ha presto rilevato Maurizio Porro, su Photo 13, dell’ottobre 1971. Da cui, una fiumana di “robuste oscenità”, censite in FOTOgraphia, dell’aprile 2014.

SOSTANTIVO... IN NEOLOGISMO Anche La dolce vita, di Federico Fellini, si ispira a una certa realtà, per quanto più evidente e palese delle introspezioni di Michelangelo Antonioni. In metafora, descrive la Vita alla luce della ribalta romana di via Veneto, a corollario di una florida stagione degli studi cinematografici frequentati da cast internazionali, soprattutto statunitensi. Anche e altrettanto, il film contraccambia: consegnando il più noto neologismo del Secolo scorso, in proiezione ancora in avanti... “paparazzo”.


Originariamente, Paparazzo è lo sfacciato fotografo del film La dolce vita, nell’interpretazione di Walter Santesso (qualcuno, per errore, combina Paparazzo con un altro dei fotografi presenti nella sceneggiatura/scenografia, e non identificato da alcun nome, interpretato da Enzo Cerusico). Per mille e mille motivi, non necessariamente tutti leciti, il neologismo ha immedesimato una intera categoria, in declinazione negativa. La genesi del nome Paparazzo, di forte personalità fotografica, è affascinante e merita un ritorno specifico e mirato. La fonte è autorevole: Ennio Flaiano, che ha firmato il soggetto di La dolce vita insieme con Federico Fellini (e Tullio Pinelli). Invitato a raccontare come si sia arrivati a delineare il personaggio di Paparazzo, Ennio Flaiano ha compiuto una disamina illuminante, raccolta nella sezione Fogli di via Veneto, in La solitudine del satiro (Rizzoli Editore, 1973; e Adelphi, dal 1996). In annotazioni del giugno 1958, in tempi preparatori del film, girato di lì a poco e arrivato nelle sale cinematografiche nell’inverno 1959-60 (3 febbraio 1960, di solenne Prima, e successivo quattro, di distribuzione nelle sale), Ennio Flaiano scrive: «Una società sguaiata, che esprime la sua fredda voglia di vivere più esibendosi che godendo realmente la vita, merita fotografi petulanti. Via Veneto è invasa da questi fotografi. Nel nostro film ce ne sarà uno, compagno indivisibile del protagonista. Fellini ha ben chiaro in testa il personaggio, ne conosce il modello: un reporter d’agenzia, di cui mi racconta una storia abbastanza atroce. Questo tale era stato mandato al funerale di una personalità rimasta vittima di una sciagura, per fotografare la vedova piangente; ma, per una qualche distrazione, la pellicola aveva preso luce e le fotografie non erano riuscite. Il direttore d’agenzia gli disse: “Arrangiati. Tra due ore portami la vedova piangente o ti licenzio e ti faccio anche causa per danni”. Il nostro reporter si precipitò allora a casa della vedova e la trovò che era appena tornata dal cimitero, ancora in gramaglie, e vagante da una stanza all’altra, istupidita dal dolore e dalla stanchezza. Per farla breve: disse alla vedova che se non riusciva a fotografarla piangente avrebbe perso il posto e quindi la speranza di sposarsi, perché s’era fidanzato da poco. La povera signora voleva cacciarlo: figurarsi che voglia aveva di fare la commedia dopo aver pianto tanto sul serio. Ma qui il fotografo, in ginocchio, a scongiurarla di essere buona, di non rovinarlo, di piangere solo un minuto, magari di fingere!, solo il tempo di fare un’istantanea. Ci riuscì. La povera

vedova, una volta presa al laccio della pietà, si fece fotografare piangente sul letto matrimoniale, sullo scrittoio del marito, nel salotto, in cucina. «Ora dovremmo mettere a questo fotografo un nome esemplare, perché il nome giusto aiuta molto e indica che il personaggio “vivrà”. Queste affinità semantiche tra i personaggi e i loro nomi facevano la disperazione di [Gustave] Flaubert, che ci mise due anni a trovare il nome di Madame Bovary, Emma. Per questo fotografo non sappiamo che inventare: finché, aprendo a caso quell’aureo libretto di George Gissing che si intitola Sulle rive dello Jonio troviamo un nome prestigioso: “Paparazzo”. Il fotografo si chiamerà Paparazzo. Non saprà mai di portare l’onorato nome di un albergatore delle Calabrie, del quale Gissing parla con riconoscenza e con ammirazione. Ma i nomi hanno un loro destino». Da cui: da nome proprio, Paparazzo è diventato nome comune. A ciascuno, il suo... [in anticipazione volontaria, in FOTOgraphia, dello scorso dicembre]. In proseguimento, rileviamo che le note del Grand Tour di George Gissing, al Sud d’Italia, sono più correttamente titolate Sulla riva dello Jonio, al singolare, per quanto alcune edizioni le declinino al plurale, come da citazione di Ennio Flaiano: Sulle rive dello Jonio. In ogni caso, tante e diverse le edizioni (in originale, By the Ionian Sea. Notes of a Ramble in Southern Italy ; 1901 / in titolo completo Sulla riva dello Jonio. Appunti di un viaggio nell’Italia meridionale; prima edizione italiana, 1957). Da qui, il passaggio in questione. Nel tredicesimo capitolo, La cima ventosa, riferendosi al proprio soggiorno a Catanzaro, ospite dell’Albergo Centrale, in corso Mazzini 189, George Gissing scrive: «L’albergo mi offriva poco svago dopo la Concordia di Crotone, ma non mancava di elementi caratteristici. Per esempio, trovai nella mia camera un avviso stampato che faceva appello, in termini molto espressivi, a tutti gli occupanti della stanza. Il proprietario -così stava scritto- aveva saputo, con grandissimo dispiacere, che certi viaggiatori che dormivano sotto il suo tetto avevano l’abitudine di consumare i loro pasti in altri ristoranti. Egli desiderava render noto che tale comportamento non solo feriva i suoi sentimenti personali -tocca il suo morale- ma danneggiava la reputazione del suo albergo. Assicurando tutti che avrebbe fatto del suo meglio per conservare un alto livello di perfezione culinaria, il proprietario concludeva pregando i rispettabili clienti di concedere i loro favori al

ANTONIO BORDONI (2)

Nei panni del giornalista Marcello Rubini, Marcello Mastroianni attorniato da fotocronisti della Dolce vita: Walter Santesso (Paparazzo), Giulio Paradisi, Enzo Cerusico e Enzo Doria.

Il 23 ottobre 1999, l’amministrazione comunale di Catanzaro ha posto una lapide in corso Mazzini 189, che testimonia il fatale incontro tra lo scrittore inglese George Gissing, in Italia per un Grand Tour ( By the Ionian Sea. Notes of a Ramble in Southern Italy / Sulla riva dello Jonio. Appunti di un viaggio nell’Italia meridionale ), e l’albergatore Coriolano Paparazzo, dal quale è nato uno dei più celebri neologismi della nostra epoca.

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TAZIO SECCHIAROLI (1925-1998)

FRANCO PINNA (2)

Universalmente identificato come ispiratore della figura del “fotografo petulante” (e altro) che Federico Fellini ipotizzò per il suo film La dolce vita («compagno indivisibile del protagonista», da Ennio Flaiano), Tazio Secchiaroli è da conteggiare tra gli eccelsi ed eminenti fotografi italiani del Novecento. Tanti i suoi meriti, altrettante le sue tipicità (e qui, e ora, non evochiamo, né richiamiamo, aneddoti gustosi che ci ha raccontati più di venti anni fa... non aggiungono nulla, perché potrebbero essere equivocati). Con Laura Carbonara, da FOTOgraphia, dell’ottobre 1998, in annuncio di scomparsa (ventiquattro luglio, a settantatré anni). «Un lampo di flash, un fotografo che scatta in sella a una Lambretta, mentre il complice, alla guida, si avvicina il più possibile alla scena da riprendere. Questa è l’immagine simbolo del paparazzo, quel personaggio curioso e invadente nato a Roma, in via Veneto, negli anni Cinquanta e battezzato con questo nome dal regista Federico Fellini nella Dolce vita, del 1960. «Alla guida di quella Lambretta, nel lontano 1952, c’è Tazio Secchiaroli, al tempo ancora semplice galoppino, ma destinato a diventare uno degli interpreti più famosi della mondanità romana e internazionale, maestro nell’arte dello “scatta e fuggi”, noto soprattutto per le repentine ritirate, inseguito da un agile e inferocito Walter Chiari, o insultato da Ava Gardner, sorpresa con un asciugamani in vita.

Conteggiata come immagine simbolo di via Veneto, che in seguito ha identificato la figura del paparazzo, la fotografia del 1952 che riprende Tazio Secchiaroli alla guida di una Lambretta, mentre Luciano Mellace scatta con l’immancabile Rolleiflex e flash [a sinistra], è porzione di un fotogramma 6x6cm (ancora, Rolleiflex) [in alto] che fa parte di una serie scattata da Franco Pinna in occasione di un intervento della polizia, a Roma, con fermo di un ragazzo.

«[...] Esauriti gli anni di via Veneto, che all’uscita del film di Federico Fellini erano già avviati alla propria conclusione, Tazio Secchiaroli, fondatore -nel 1955- con Sergio Spinelli dell’agenzia fotogiornalistica Roma Press Photo, lasciò da parte la cronaca per approdare al magico mondo del cinema. Vi entrò come personaggio, come simbolo, ma anche e soprattutto come fotografo di scena, il preferito da Federico Fellini, e ritrattista personale dei grandi divi, Sophia Loren (Sofia), Marcello Mastroianni e Gregory Peck prima di altri. «La sua vita è rimasta sempre divisa tra la ricerca dello scoop, delle fotografie rubate, magari travestendosi da muratore e arrampicandosi sulle travi del soffitto durante le riprese, e il ruolo ufficiale, negli studi di Cinecittà. «Come tutti i paparazzi, Tazio Secchiaroli era odiato e amato: evitato da chi cercava di nascondere relazioni segrete, vizi privati e umane debolezze; ricercato da quanti, momentaneamente lontani

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dalle scene, avevano bisogno di un po’ di pubblicità. Per poi essere allontanato anche da questi, appena raggiunto il proprio scopo. «[...] Va annotato che Tazio Secchiaroli si è sempre battuto contro tutte le accuse [alla propria categoria professionale], in difesa dei colleghi, seppure così diversi dalla storica banda di via Veneto. «Lui è appartenuto a un’altra epoca, agli anni in cui l’inseguimento era per lo più a piedi, o in Lambretta, e i trucchi per aiutare la fortuna avevano lo stesso sapore delle bizzarre genialità dei film di Totò: una bucatina alle gomme della spider, per rallentare la fuga di Walter Chiari e Ava Gardner; le maniche della camicia rimboccate e un po’ di sporco in faccia, per avvicinarsi come tecnico ai set cinematografici; il pranzo su un tavolino apparecchiato in mezzo alla strada, di fronte alla villa del ragionier Casarotti, per rubargli una fotografia. Un’epoca durante la quale anche il fotografo era diverso, più naïf, più paziente, più vicino alla propria preda, soprattutto fisicamente, anche solo per i limiti dell’attrezzatura [...]».


ristorante dell’albergo - si onorava pregare i suoi rispettabili clienti perché vogliano benignarsi il ristorante; e quindi si firmava: Coriolano Paparazzo». Eccolo qui!

DIETRO LE QUINTE Per quanto nel «fotografo petulante che invade via Veneto, compagno indivisibile del protagonista [di La dolce vita (Marcello Mastroianni, nei panni del giornalista Marcello Rubini)], ben chiaro a Fellini», si sia sempre riconosciuta la personalità di Tazio Secchiaroli, grande amico del regista, spesso suo fotografo di scena, per La dolce vita fu scelto Pierluigi Praturlon (1924-1999), professionista acclamato, oltre che dimenticato, nel nostro paese: la voce Wikipedia è in inglese. «Essere fotografo di scena vuol dire seguire tutte le riprese, realizzare le fotografie di tutte le scene che si girano. Questo poteva essere facile, quando si girava in esterni; bastava scattare, ma -siccome la sensibilità delle pellicole non era pari a quelle di oggi [tanto più alle equivalenze dei sensori digitali], quando si girava in interni, con illuminazione artificiale, bisognava -invecechiedere la fotografia a fine scena. Ovviamente, io facevo un po’ più in fretta dei vecchi fotografi, che ci impiegavano un quarto d’ora con treppiedi e panno nero. Io ci mettevo dieci secondi». Così, al registratore di Enzo Fiorenza (per un libro della casa editrice Napoleone, La città del cinema. Produzione e lavoro nel cinema italiano 1930-1970, pubblicato nel 1979), Pierluigi Praturlon ha raccontato i suoi esordi come fotografo di scena. Era il 1949: sul set di Totò imperatore di Capri, di Luigi Comencini, nasceva, in Italia, un mestiere già diffusissimo a Hollywood. Le fotografie di Pierluigi Praturlon diffusero nel mondo l’idea che a Capri i vip facessero il bagno vestiti. Era la prima volta che le fotografie scattate sulla scena (meglio sarebbe dire: fuori scena) venivano utilizzate a scopi giornalistici; infatti, fino ad allora, erano servite soltanto per illustrare cartelloni promozionali e locandine. In realtà, Pierluigi Praturlon si mise subito a fotografare, oltre gli attori in posa, anche tutte le situazioni che potevano creare notizia: una litigata (vera o mimata, era irrilevante), un divo alle prese con il cestino della pausa pranzo, una comparsa buffa. Aggiunse, cioè, quel che gli americani non avevano: l’attualità colta al volo. «Dipendeva anche dal fatto che lavoravano con macchine eccessivamente grandi: la più piccola era una Speed Graphic. Io incominciai subito a usare la Rolleiflex».

A questa velocità di movimento -comune a tutti i suoi colleghi- si deve la rapida trasformazione del fotografo di scena in fotografo d’attualità, altrimenti detto “paparazzo” (dagli anni Sessanta in poi). Ma questa, è un’altra storia, che abbiamo appena rimarcato. Il comun denominatore rimane, ovviamente, il divo e la sua mitizzazione. Pierluigi Praturlon, romano di origine friulana, ha “inventato” fior di stelle. La più famosa è Anita Ekberg, dal set della Dolce vita: facendole lavare i piedi nella fontana di Trevi, nel settembre del 1958, Pierluigi realizzò non solo un buon servizio fotografico, ma fornì anche a Federico Fellini una delle idee-forza per il film. È stato il fotografo preferito di Audrey Hepburn e, lavorando a Hollywood, ha lanciato Raquel Welch (nel 1964). Con Sophia Loren (Sofia!), ha scattato una delle immagini simbolo della storia del cinema: la fotografia della “ciociara” accasciata e piangente nella strada polverosa. È il più famoso dei fotografi di scena, quello che è diventato più “personaggio”, tanto da poter coltivare la leggenda che, a indicarlo (come per molti divi), bastasse il nome di battesimo. Il vero motivo, però, è che Pierluigi ha avuto un cognome difficilissimo da pronunciare, soprattutto per gli stranieri. Per gli addetti ai lavori, i nomi noti (sconosciuti al grande pubblico) sono però numerosi. Oltre ai collaboratori di Pierluigi Praturlon (che nel 1953, dopo aver lavorato con i produttori Carlo Ponti e Goffredo Lombardo, si era messo in proprio), come Bruno Bruni, va ricordato Mimmo Cattarinich, che dal 1954 a oggi non si smentisce come talent scout. Alternando fotografia di scena con fotografie glamour, ha messo a nudo moltissime bellezze. Poi c’è Roberto Biciocchi, fotografo personale di Gina Lollobrigida. Tra i fotografi delle generazioni più vicine ai nostri giorni è da citare Gianfranco Salis [FOTOgraphia, febbraio 2010 e marzo 2016]. Nessuno si lamenti perché in questo rapido elenco, compilato a memoria e puramente esemplificativo, non si trovino “classici” come Paul Ronald o Mario Tursi, o Italo Tonni o Tonino Benetti, per non parlare di Tazio Secchiaroli. Ciascuno di loro ha, nelle proprie fotografie, un frammento di storia del cinema. E, da qui, lasciamo la parola ad altri (presunti) esperti, che si esprimono perché in Fotografia «non sono richiesti né percorsi accademici accreditati, né capacità acquisite sul campo, nel corso di impegni individuali». Per noi, è tutto... forse. ❖

PIERLUIGI PRATURLON

PIERLUIGI PRATURLON

Negli anni Cinquanta, Roma è stata capitale del cinema, e all’aeroporto di Ciampino approda anche Sylvia (Anita Ekberg), la bellissima diva svedese-statunitense, accolta con l’immancabile stereotipo della pizza.

Nel film Crocodile Dundee (in Italia, Mr. Crocodile Dundee ), un aborigeno australiano fa notare alla giornalista statunitense Sue Charlton che non può fotografarlo. A memoria, il dialogo: «Scusa, mi rendo conto... la tua credenza... ti rubo l’anima...». «No! -è la risposta prontaHai il tappo sull’obiettivo». In una delle fotografie di scena del talentuoso Pierluigi Praturlon, sul set di La dolce vita, che il nostro punto di vista viziato eleva spesso a valore assoluto del film (anche in odierna copertina di numero), i fotocronisti che si accalcano sotto la scaletta dell’aereo dal quale sta per scendere la diva e divina Sylvia, interpretata dall’affascinante Anita Ekberg, sono equipaggiati da e con una vasta serie di apparecchi fotografici eterogenei tra loro: tante biottica Rolleiflex, qualche Speed Graphic del fotogiornalismo statunitense dei tempi e almeno tre Leica, di diversa generazione tecnologica. C’è anche una reflex (Rectaflex?), a destra della scaletta, appoggiata al corrimano... con tappo sull’obiettivo.

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Il progetto fotografico Outer Moscow, di Tatiana Bormatova, è realizzato in grotte, naturali e non, della capitale russa. Ma non è solo il soggetto che conta, come sempre, del resto. Oltre l’aspetto documentativo di questa intensa indagine visiva, rivolta alla conoscenza/conoscenza dell’osservatore, si deve prendere in considerazione il soggetto come pretesto dell’autrice del e per il suo narrare per immagini. Non necessariamente ciò che la Fotografia mostra e rivela è quello che vediamo, dobbiamo vedere, possiamo comprendere. Nel rapporto individuale con l’autentico linguaggio visivo del Novecento. Ci piaccia o meno

SYANOVSK GROTTE DI

PARETI DI

TESTA ALLE

POZZO

VERTICALE CON UNA SCALA NOTA COME

“THE CAT’S HOLE”, L’UNICA ENTRATA APERTA NELLE

SYANOVSK... ARTE

MODERNA

AL DI SOTTO DI MOSCA

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di Antonio Bordoni

C

“TOMBA DELL’ASCENSORE”:

UNA FOSSA FINTA A

KISELI...

IRONICO PROMEMORIA DEI PERICOLI DEL SOTTOSUOLO

onsideriamola così. Anche così. Nel proprio insieme e complesso, oltre che attraverso le mille sfaccettature dei propri soggetti e delle proprie intenzioni originarie, la Fotografia è l’autentico linguaggio dal Novecento (non soltanto visivo). Attraverso le sue maglie, è nata e germogliata una consapevolezza sociale del proprio d’intorno, irraggiungibile da altra comunicazione. A questo proposito, però, come spesso sottolineato, non ci associamo al cliché secondo il quale varrebbe mille parole, perché siamo fermamente convinti che ci siano, comunque, parole irraggiungibili dalla Fotografia; in ripetizione doverosa, da altri nostri interventi precedenti: M’illumino d’immenso (Giuseppe Ungaretti); fa voti che ti sia lunga la via, / e colma di vicende e conoscenze (Costantino Kavafis [FOTOgraphia, novembre 2019]); Lettera per chi ha solo rimorsi, da leggere a voce alta / ma a piccoli sorsi (Enzo Jannacci). Ciò valutato, siamo grati a tutti quei fotografi, e sono tanti, che assolvono il proprio impegno professionale aggiungendovi personalità individuali e intenzioni pertinenti, oltre il solo dovuto. Così come, con identico passo, apprezziamo in misura almeno uguale quegli altri fotografi (a volte, sono perfino gli stessi; spesso, lo sono) che agiscono con e verso attinenti progetti visivi, svincolati da mandati ricevuti (e retribuiti).

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COPERTO DA UNO STRISCIONE; GLI SPELEOLOGI USANO MATERIALI SINTETICI CHE NON VENGONO DANNEGGIATI DALL’UMIDITÀ

SAPONE ACCANTO A UN

LAVANDINO DI BOTTIGLIE DI PLASTICA

L’INGRESSO ALLA GROTTA È

È proprio l’insieme di queste tante Fotografie che influisce sulle coscienze; certo, non pretendiamo effetti rapidi e immediati tra causa ed effetto: sarebbe troppo comodo, e se così fosse -grazie alla Fotografia, al Cinema, alla Poesia, alla Letteratura, al Pensiero-, il nostro sarebbe un Mondo pienamente migliore di quello che è e di come si presenta. Ma, per quanto Nulla possa cambiare nulla, Tutto influisce a trasformare tutto. Questo doveroso prologo, applicabile a tanti e tanti progetti della Fotografia in intenzione d’Autore, per introdurre in maniera debita e opportuna una serie fotografica della talentuosa Tatiana Bormatova, fotografa a Mosca, in Russia. Tra formazioni naturali e intervento dell’Uomo, nella capitale russa ci sono antiche cave sotterranee, entro le quali tutto è in pieno svolgimento, di giorno come di notte. Sia i girovaghi, sia speleologi sono particolarmente interessati a queste caverne. La speleologia è lo studio delle grotte presenti in natura, con propria sotto categoria di studio delle cavità sotterranee non utilizzate per gli scopi previsti: ed è soprattutto questo il caso che stiamo per incontrare. Ecco l’origine del coinvolgente progetto fotografico Outer Moscow, di Tatiana Bormatova, rivolto a un fenomeno che non ha eguali in altre parti del Mondo. Nel quattordicesimo secolo, si cominciò a scavare il sottosuolo di Mosca. Questa attività (spontanea? necessaria?) durò fino al (continua a pagina 34)

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GROTTA “CHEKIST”, A SYANOVSK


POSSIBILE RACCOGLIERE L’ACQUA POTABILE

È SALA DI SYANOVSK NOVLENSK SISTEMA DI CONTABILITÀ, NELLE GROTTE DI

VECCHIO

(continua da pagina 31) Diciannovesimo secolo. Durante i tempi governati da Stalin, era severamente vietato l’ingresso nel sottosuolo; ma questo divieto non ha impedito alla gente di avventurarvisi, facendo nascere un fenomeno allungatosi fino agli anni Sessanta. Anche dopo che furono fatti esplodere gli ingressi alle grotte, in una crescente difficoltà di accesso, rimase vivo e palpitante l’interesse per le grotte sotterranee antropogeniche. A partire dagli anni Ottanta, dissolto il Regime, gli speleologi hanno ricominciato a cercare caverne sotterranee, precedentemente vietate in epoca sovietica. L’analisi di vecchie macerie, lo scavo e l’esplorazione di passaggi e le indagini topografiche impongono di rimanere sottoterra, per diversi giorni alla volta. Per questo, nel sottosuolo di Mosca, gli specialisti e gli spereologi hanno realizzato servizi igienici, spazi per dormire, mangiare e raccogliere acqua; hanno anche rafforzato aree inclini al collasso. Testimonianza di molti e molti passaggi, le pareti interne sono coperte di disegni, iscrizioni, manufatti e graffiti: certificazione di tempi vissuti, che hanno fatto nascere autentiche sottoculture. Oggigiorno, indagare le grotte concede un’esperienza appagante, da molteplici punti di vista. Sempre più spesso, il sottosuolo viene visitato da persone in cerca di brivido, gruppi che amano bere e escursionisti non ufficiali. Spesso, molti vanno sottoterra senza conoscere le precauzioni di sicurezza.

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Ciò premesso, nelle grotte sotterranee, i rischi non sono certo pochi; addirittura, è vero l’esatto contrario: ci si potrebbe perdere, o rimanere bloccati sotto un crollo di roccia. Gli speleologi giudicano negativamente i dilettanti che si avventurano senza aderire ai parametri dei tour ufficiali e sicuri. Inoltre, oggi, i ricercatori debbono studiare le caverne sotterranee disturbati da presenze invadenti. Tanto che mantengono segreti i luoghi dove si trovano le grotte scoperte di recente. Le fotografie del progetto Outer Moscow, di Tatiana Bormatova, sono state scattate nell’Oblast’ di Mosca, nelle grotte di Syankovsk e Novlensk e nella cava di Kamkinsk, più nota come Kiseli. Ma non dobbiamo limitare al solo soggetto lo spessore di questa indagine visiva, condotta anche verso la conoscenza/conoscenza dell’osservatore. Infatti, indipendentemente dai luoghi fisici effettivi, si deve prendere in considerazione il soggetto come pretesto dell’autrice Tatiana Bormatova del e per il suo narrare per immagini. Precisamente, non solo luoghi -come pure sono-, ma emozioni: la realtà è una cosa, la sua rappresentazione un’altra. Ciò detto, è necessario rilevare e rivelare la prepotente personalità linguistica della Fotografia, che è raffigurativa per necessità (per forza di cose, deve rivolgersi a un soggetto effettivo, naturale o costruito che sia), e rappresentativa per scelta e volontà: non necessariamente ciò che mostra è quello che vediamo, dobbiamo vedere, possiamo comprendere. Anche nel sottosuolo di Mosca. ❖



© PETER LINDBERGH (COURTESY PETER LINDBERGH, PARIS) / MUSEUM KUNSTPALAST (DÜSSELDORF) © STEFAN RAPPO / MUSEUM KUNSTPALAST (DÜSSELDORF)

Certo, la traduzione letterale orienta in altra direzione, secondo le intenzioni del fotografo tedesco Peter Lindbergh. Ma, alla resa dei conti, complice l’Esistenza, la declinazione si è indirizzata a questo. Mancato appena dopo aver completato un viaggio interiore attraverso la propria Vita professionale, Peter Lindbergh consegna una sorta di testamento in forma di racconto. Untold Stories / Storie non raccontate (in nostra traduzione) si offre e propone in forma di autorevole mostra (ormai, conclusiva), che inizia il proprio avvincente iter espositivo all’autorevole Museum Kunstpalast, di Düsseldorf, in Germania, dal prossimo cinque febbraio (e sarà in Italia, a Napoli, nella primavera 2021). In accompagnamento, una prestigiosa monografia Taschen Verlag in veste di volume-catalogo. E altro, ancora

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STORIE RACCONTATE



© PETER LINDBERGH (COURTESY PETER LINDBERGH, PARIS) / MUSEUM KUNSTPALAST (DÜSSELDORF)

© PETER LINDBERGH (COURTESY PETER LINDBERGH, PARIS) / MUSEUM KUNSTPALAST (DÜSSELDORF)

In queste pagine, declinate in doppio indirizzo (verso il ricordo della figura professionale di Peter Lindbergh, prematuramente mancato lo scorso tre settembre, e in presentazione della mostra, per certi versi antologica, Untold Stories, con accompagnamento di volume-catalogo), abbiamo adottato una cadenza visiva coerente. Partiamo e concludiamo con due ritratti di Peter Lindbergh, realizzati da Stefan Rappo: a pagina trentasei, in ricordo; a pagina quarantuno, in saluto ipotizzato. Quindi, illustriamo dalla mostra e dalla monografia Untold Stories: Querelle Jansen (Parigi, 2012), a pagina trentasette; Karen Elson (Los Angeles, 1997), qui accanto; Linda Evangelista, Michaela Bercu e Kirsten Owen (Pont-à-Mousson, 1988), anche copertina della monografia Peter Lindbergh. Untold Stories, pubblicata da Taschen Verlag, sulla pagina accanto; Uma Thurman (New York, 2016), a pagina quaranta.

di Maurizio Rebuzzini

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA

M

Il fascicolo Vogue Italia for Peter, allegato a Vogue Italia, dello scorso ottobre, è una commossa commemorazione di Peter Lindbergh: special book da collezione.

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ancato lo scorso tre settembre, a settantaquattro anni (oggi, conteggiamo a “soli” settantaquattro anni), il fotografo tedesco Peter Lindbergh lascia un vuoto enorme nel mondo della comunicazione visiva [FOTOgraphia, ottobre 2019]. Pochi come lui, a cavallo del Millennio, hanno interpretato la moda in maniera tanto esemplare, proiettando le proprie creazioni ben oltre l’ambito di origine e partenza. Se per molta fotografia di moda possiamo tranquillamente concludere le considerazioni circoscrivendole al corretto svolgimento del proprio incarico originario -e nulla c’è di male, in questo-, per qualche altra fotografia di moda -poca, per il vero-, è necessario invocare ben altre reputazioni, crediti, riguardi, stime e analisi. Non è gara, non c’è competizione, ma: Gian Paolo Barbieri, Richard Avedon, Paolo Roversi, Martin

Munkácsi, Irving Penn, Cecil Beaton, Patrick Demarchelier... e qualche ritrattista senza tempo. Ovviamente, l’essenza delle identificazioni e approvazioni universali per la figura di Peter Lindbergh si basa sul clamore del suo curriculum professionale, scandito al ritmo di modelle di vertice del nostro istante. Però, per quanto sarebbe sempre appropriato attendere i verdetti della Storia, scévri da influenze in cronaca e contemporaneità, in questo caso, non è necessario prendere tempo, perché qui le condizioni per passare dalla Vita alla Storia ci sono tutte... eccome. Magari, a partire dalla sequenza di tre Calendari Pirelli e mezzo, in edizioni 1996, 2002, 2014 (in compagnia con Helmut Newton e Patrick Demarchelier, per il Cinquantenario) e 2017. In altra cronaca (la nostra?), va segnalato l’ultimo servizio che Peter Lindbergh ha realizzato per British Vogue / Vogue UK, dello scorso settembre, che avrebbe dovuto essere solamente il più recente, se non che...



© PETER LINDBERGH (COURTESY PETER LINDBERGH, PARIS) / MUSEUM KUNSTPALAST (DÜSSELDORF)

In conferma di quanto già commentato lo scorso ottobre, lanciato dalla copertina, Forces for CHANGE -traducibile in Forze per il cambiamento- è cadenzato sul ritmo di quindici donne influenti sul nostro Tempo [a pagina dodici, su questo stesso numero].

IN RICORDO

Peter Lindbergh. Untold Stories; Peter Lindbergh, Felix Krämer, Wim Wenders; Taschen Verlag, 2020; multilingue (inglese, francese e tedesco); 320 pagine 27x36cm, cartonato; 60,00 euro (in copertina: Linda Evangelista, Michaela Bercu e Kirsten Owen; Pont-à-Mousson, 1988). ❯ In mostra presso istituzioni museali, dal cinque febbraio: ● Museum Kunstpalast, di Düsseldorf, Germania (Ehrenhof 4-5; www.kunstpalast.de), dal cinque febbraio al Primo giugno; ● Museum für Kunst und Gewerbe, di Amburgo, Germania (Steintorplatz; www.mkg-hamburg.de), dal venti giugno al Primo novembre; ● Hessisches Landesmuseum, di Darmstadt, in Germania (Friedensplatz 1; www.hlmd.de), dal quattro dicembre al sette marzo (2021); ● Madre - Museo d’Arte Contemporanea Donnaregina, di Napoli (via Settembrini 79; http://www.madrenapoli.it), a marzo-maggio 2021. ❯ Peter Lindbergh (1944-2019) è stato un fotografo che ha lasciato il segno nella Storia della Fotografia, con crediti come quello di realizzare, nell’agosto 1988, la prima copertina di Vogue nella direzione di Anna Wintour (1949), riunendo -per la prima voltagiovani modelle che sarebbero diventate le top degli anni Novanta (Estelle Lefébure, Karen Alexander, Rachel Williams, Linda Evangelista, Tatjana Patitz e Christy Turlington). ❯ Dal 2003, Felix Krämer (1971) è curatore di mostre di rilievo e direttore di autorevoli pubblicazioni di arte moderna. Nel 2013, è stato nominato Cavaliere dell’Ordine delle Arti e delle Lettere (in traduzione). Dopo aver lavorato all’Hamburger Kunsthalle e allo Städel Museum, di Francoforte, dall’ottobre 2017, è direttore generale del Museum Kunstpalast, di Düsseldorf. ❯ Il regista, autore e fotografo Wim Wenders (1945) è uno dei più rilevanti cineasti tedeschi. È noto soprattutto per i film Paris, Texas (1984), Der Himmel über Berlin ( Wings of Desire / Il cielo sopra Berlino; 1987), Pina (2011) e Il sale della terra ( The Salt of the Earth; 2014), documentario su Sebastião Salgado, anche co-regista. Molti artisti sono stati influenzati dalle sue opere, tra questi il caro amico Peter Lindbergh.

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In aggiornamento, due segnalazioni sostanziose, di diversa provenienza, ma -alla fin fine- convergenti sull’evocazione/rievocazione di Peter Lindbergh. In ordine, per sequenza di nostre considerazioni specifiche. A ottobre, Vogue Italia è arrivata in edicola con due fascicoli allegati all’edizione principale e sostanziale. Nulla da commentare sull’allegato Casa Vogue, che rispetta il proprio mandato promesso, nella cadenza altrettanto assicurata dall’editore Condé Nast. Soltanto, e ce la concediamo, una notazione parallela per l’annuncio pubblicitario in quarta di copertina, messo in pagina con la cornice tipica e caratteristica (cimosa?) delle pellicole piane grande formato di stagioni passate: fotografia creditata ad Andrea Ferrari, conferita e concessa a una ipotesi di lastra 4x5 pollici, piuttosto che 8x10 pollici, in queste proporzioni di formato fotografico. Ancora in allegato, e per le nostre attuali considerazioni, il fascicolo Vogue Italia for Peter, realizzato con il fattivo supporto di Pomellato, è commossa e partecipe commemorazione della figura di Peter Lindbergh, in cronaca di prematura scomparsa. Circa testuale in presentazione e lancio (dal web): «Special book da collezione, dedicato al grande fotografo. Oltre a interviste, testimonianze e ricordi inediti di designer, modelle e fashion editor, anche un portfolio di quarantotto pagine con le immagini scattate da Peter Lindbergh per Vogue: gallery per ripercorrere le sue fotografie più iconiche». Da cui, impegno mantenuto, per un fascicolo autenticamente “da collezione”, almeno per coloro i quali, come spesso rileviamo e annotiamo, frequentano la Fotografia con convinzione e responsabilità (dovere?), in


© STEFAN RAPPO / MUSEUM KUNSTPALAST (DÜSSELDORF)

modo che la propria conoscenza arrivi a far parte di un ampio mosaico dalle mille e mille tessere.

QUELLE STORIE Centocinquanta fotografie dai primi anni Ottanta al presente. Questo è il contenuto della personale che Peter Lindbergh ha immaginato per l’allestimento al prestigioso e autorevole Kunstpalast, di Düsseldorf, in Germania (nato a Leszno, in Polonia, il 23 novembre 1944, e vissuto in Germania, Peter Lindbergh, pseudonimo di Peter Brodbeck, è conteggiato fotografo tedesco; è mancato a Parigi, lo scorso tre settembre). Untold Stories, da tradurre in Storie non raccontate -ma, alla resa dei conti, riferite e rivelate-, è la prima mostra in assoluto curata dallo stesso Peter Lindbergh, poco prima della sua prematura scomparsa: una sorta di tela bianca, che ha raccolto l’inventiva e la creatività del celebre e influente fotografo. In totale libertà artistica, ha curato una collezione senza compromessi, che getta una luce inaspettata sulla sua colossale opera fotografica. «Quando ho visto le mie fotografie alle pareti della mostra, per la prima volta, mi sono spaventato, ma anche in senso positivo. È stato travolgente confrontarsi così con quello che sono», ha dichiarato lo stesso Peter Lindbergh, alla fine della scorsa estate, una volta completato l’impianto espositivo. Da qui, è partito un programma espositivo a dir poco imponente, totalmente adeguato alla personalità dell’autore e alla sua influenza sulla cultura e socialità contemporanee. Contiamo Peter Lindbergh. Untold Stories: al Museum Kunstpalast, di Düsseldorf, Germania (Ehrenhof 4-5; www.kunstpalast.de), dal cinque febbraio al Primo giugno; al Museum für Kunst und Gewerbe, di Amburgo, Germania (Steintorplatz; www. mkg-hamburg.de), dal venti giugno al Primo novembre; all’Hessisches Landesmuseum, di Darmstadt, in Germania (Friedensplatz 1; www.hlmd.de), dal quattro

dicembre al sette marzo (2021); al Madre - Museo d’Arte Contemporanea Donnaregina, di Napoli (via Settembrini 79; http://www.madrenapoli.it), a marzomaggio 2021 [evviva, passaggio italiano!].

EDIZIONE LIBRARIA Oltre l’esposizione degli originali fotografici, in allestimento autorevole e coinvolgente, l’impianto di Peter Lindbergh. Untold Stories è stato raccolto in una potente monografia, che l’editore tedesco Taschen Verlag, di Colonia (ancora, lui!), pubblica nella propria collana XL, di dimensioni fisiche generose e confortanti: trecentoventi pagine 27x36cm. Come annotato, famose in tutto il mondo, anche all’esterno degli ambiti specifici di Moda e Fotografia, le immagini di Peter Lindbergh hanno impresso una impronta profonda e durevole nella cultura contemporanea. Nella sequenza organizzata di Untold Stories (mostra e volume), l’autore ripercorre la propria opera e racconta nuove storie, rimanendo fedele al proprio lessico. In immagini emblematiche, molte delle quali inedite, sfida le sue icone e presenta momenti intimi condivisi con personalità che gli sono state vicine negli anni: Nicole Kidman, Uma Thurman, Robin Wright, Jessica Chastain, Jeanne Moreau, Naomi Campbell, Charlotte Rampling... In pagina, centocinquanta fotografie realizzate su incarico di testate prestigiose: Vogue, Harper’s Bazaar, Interview, Rolling Stone, W Magazine e The Wall Street Journal. Quindi, in edizione multilingue (inglese, francese e tedesco), il cammino è presentato da una lunga conversazione tra Peter Lindbergh e Felix Krämer, direttore del Museum Kunstpalast, di Düsseldorf -dove la mostra esordisce il prossimo cinque febbraio-, e da un omaggio dell’amico intimo Wim Wenders, regista di vertice. Di fatto, ne scaturisce un’intima dichiarazione personale di Peter Lindbergh sul proprio lavoro fotografico. E oltre. ❖

Oltre l’attuale Untold Stories, in edizione Taschen Verlag, altre due monografie di Peter Lindbergh: ❯ Peter Lindbergh. Dior; a cura di Martin Harrison; Taschen Verlag, 2019; multilingue (inglese, francese e tedesco); 520 pagine 28x37cm, cartonato, in due volumi in cofanetto; 150,00 euro; ❯ Peter Lindbergh. A Different Vision on Fashion Photography; a cura di Thierry-Maxime Loriot; Taschen Verlag, 2016; multilingue (inglese, francese e tedesco); 472 pagine 23,9x34cm; 60,00 euro.

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DEARDORFF 8X10

POLLICI CON

KODAK WIDE FIELD EKTAR 250mm f/6,3 (FOTOGRAPHIA DI ANTONIO BORDONI)

RITORNO

AL GRANDE FORMATO

Una Ipotesi Un Sogno Un Invito Una Proposta

(graphia@tin.it)


In allegoria da Lewis Carroll (Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò), per quanto/tanto noi possiamo trovare nella narrazione di Cinzia Ghigliano, la cui graphic novel Lo specchio di Tina si propone di interpretare e raccontare Vita e immagini di Tina Modotti. Ottimo passo, ritmo avvincente, contenuti convincenti. In agevole edizione ContrastoBooks, un punto di vista che persuade, una esposizione che coinvolge, una modulazione che commuove. Una volta ancora, ribadiamo: fantastico linguaggio “a fumetti” con il quale fare i propri conti

ATTRAVERSO LO SPECCHIO di Angelo Galantini

A

ffrontando, come stiamo per fare, l’ottima esposizione cadenzata dalla narrazione di Lo specchio di Tina, di Cinzia Ghigliano, che si specifica in Vita e immagini di Tina Modotti, è difficile tornare indietro nel tempo, per stabilire come e quando la graphic novel (il racconto disegnato in forma sostanziosa) sia approdata al soggetto fotografico. Volendo andare a individuare origini, magari non completamente certe, potremmo richiamare, prima di altro, l’affascinante edizione di Le Photographe, ovviamente nata in Francia e Belgio, là dove -per tradizione radicata nel tempo- la bande dessinée è ben considerata. Comunque, a questo proposito, e verso altri richiami e riferimenti specifici, sintetizziamo a parte, in apposito riquadro pubblicato a pagina 46. In ogni caso -a parte precedenti e scartata a lato ogni eventuale storiografia specifica, utile solo per stabilire confini certi di valutazione e considerazione-, l’attuale Lo specchio di Tina, di Cinzia Ghigliano, pubblicato dalle attente e mirate edizioni ContrastoBooks, va considerata solo per se stessa e il proprio indiscusso valore, sia formale (che conta molto), sia di contenuti (che sono obbligatori e imprescindibili). L’autrice Cinzia Garigliano (nata il 14 luglio 1952; e la data, oltre l’anno di prammatica, la specifichiamo in richiamo individuale: dal nostro 14 luglio 1951) è benemerita nell’ambito del fumetto italiano. Ha esordito nel 1976 sul mensile Linus, allora diretto da Oreste del Buono [sul primo numero, dell’aprile 1965, tavola rotonda a tre sul valore della scrittura a fumetti: Oreste del Buono, Elio Vittorini e Umberto Eco; FOTOgraphia, dicembre 2017]; già nel 1978, all’autorevole e qua-

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lificato Lucca Comics & Games, le viene assegnato l’ambìto e prestigioso premio Yellow Kid, come miglior autore italiano [Mickey Dugan, meglio noto come The Yellow Kid, è il protagonista di Hogan’s Alley, una delle prime strisce a fumetti della Storia; a lungo, fino ai primi anni del Duemila, è stata (erroneamente) considerata la prima serie a fumetti]. Quindi, nel 2016, ha vinto il premio Andersen, nella categoria Miglior libro fatto ad arte, per Lei. Vivian Maier, pubblicato da Occhio Acerbo Editore [FOTOgraphia, luglio 2016]. Dunque, l’odierno Lo specchio di Tina, in interpretazione graphic novel, rappresenta un (gradito e autorevole) ritorno dell’autrice Cinzia Ghigliano alla Fotografia, una volta ancora affrontata e raccontata attraverso l’esistenza (e i tormenti?) di una autrice al femminile.

GIÀ, TINA MODOTTI A questo proposito, indipendentemente da nostre opinioni personali riguardo Tina Modotti (Assunta Adelaide Luigia Modotti Mondini; 1896-1942), per la quale separiamo la Fotografia (che conteggiamo almeno modesta) dalla personalità (gigantesca), non ignoriamo come e quanto la sua figura sia affascinate e abbia affascinato molti: se servisse, lo certifica la quantità (non qualità, però) delle tante biografie che sono state compilate. Non entriamo nel merito, e neppure stiliamo alcun casellario (che, peraltro, è incluso nelle Lezioni di Storia della Fotografia, del nostro direttore Maurizio Rebuzzini, docente a contratto alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Brescia; nello specifico: Lezione 08 ). Però, non evitiamo la segnalazione di alcuni degli autori che si sono cimentati, i più accreditati a farlo: Pino Bertelli [anche suo Sguardo su, in FOTOgraphia, del settembre 2001], Pino Cacucci e Vittorio Vidali.

A questo, aggiungiamo l’avvincente edizione di Tina Modotti. Vita, arte e rivoluzione. Lettere a Edward Weston 1922-1931, a cura di Valentina Agostinis; Abscondita, 2008 [riedizione della pubblicazione originaria; Feltrinelli, 1994]; e, anche, Edward Weston: Ritratti al vivo (il rinascimento messicano, l’amore per Tina Modotti, le grandi immagini); Nuova Pratiche Editrice, 1999. Attenzione: per ovvi motivi campanilistici, tutti da biasimare, Tina Modotti è particolarmente celebrata dalla critica fotografica italiana, oltre che dal clima italiano della Fotografia, nel proprio insieme e complesso. Tanto è vero che, chiunque si approcci alla scrittura fotografica esordisce con un testo su di lei: ormai, dopo tante e tante biografie, è esercizio totalmente inutile, superfluo, che nulla aggiunge a quanto già è stato rilevato e rivelato; casomai, si tratta di rimasticazioni. Per chiarezza nostra, osserviamo che, comunque la si veda, Tina Modotti è italiana soltanto di nascita. Altrimenti, è fotografa di altra cultura, sia del tempo sia della geografia. La sua parabola espressiva è totalmente estranea al tragitto italiano, e si richiama e riferisce ad altro, a partire dal suo mentore Edward Weston, che risponde a ben altri parametri culturali. Quindi, l’esperienza politica e il mondo messicano nel quale ha maturato le proprie visioni esistenziali si richiamano a qualcosa che ha nulla a che fare con ogni eventuale “italianità”. Questo va detto, e compreso e considerato. Però, allo stesso momento, più e meglio di tanti altri della Storia, Tina Modotti ha espresso una personalità almeno controversa. È un personaggio affascinante. È un personaggio che ha lasciato traccia. Ha realizzato sogni sorprendenti (una vita eccezionale e fascinosa, tanto che Hollywood, da anni e anni, immagina un film-biografia, ma!). Soprattutto se pensiamo ai tempi, impensabili per una donna.

Precedenti all’attuale Lo specchio di Tina. Vita e immagini di Tina Modotti, di Cinzia Ghigliano (ContrastoBooks). Di Ángel de la Calle, una graphic novel in due volumi, pubblicati da 001 Edizioni, nel 2007 e 2008: Modotti. Una donna del Ventesimo Secolo e Modotti. Una protagonista del secolo breve. Quindi, richiamiamo la tavola di Pino Antonelli dedicata a Tina Modotti, con la quale, nel febbraio 1996, su FOTOgraphia, sono esordite le Storie a strisce.

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Fotografia in graphic novel (selezione redazionale). ❯ Le Photographe (1, 2 e 3), di Emmanuel Guibert, Didier Lefèvre e Frédéric Lemercier; collana Aire Libre, Dupuis, 2003, 2004 e 2005. ❯ Il fotografo (1, 2 e 3), di Emmanuel Guibert, Didier Lefèvre e Frédéric Lemercier; Lizard edizioni, 2004, 2005 e 2007 [ FOTOgraphia, ottobre e dicembre 2004]. ❯ Il fotografo (edizione integrale), di Emmanuel Guibert, Didier Lefèvre e Frédéric Lemercier (in nuova traduzione); prefazione di Adriano Sofri, postfazione di Sergio Cecchini (Medici Senza Frontiere Italia); Coconino Press, 2010 [ FOTOgraphia, giugno 2010]. ❯ Lei. Vivian Maier, di Cinzia Ghigliano; Orecchio Acerbo Editore, 2016 [ FOTOgraphia, luglio 2016].

❯ Cartier-Bresson, Germania 1945; di Jean-David Morvan e Séverine Tréfouël; illustrazioni di Sylvain Savoia; con portfolio finale e un dossier di Thomas Tode; ContrastoBooks, 2017 [ FOTOgraphia, dicembre 2017]. ❯ Robert Capa, Normandia 6 giugno 1944; di Jean-David Morvan; illustrazioni di Dominique Berail; ContrastoBooks, 2017. ❯ McCurry, NY 11 settembre 2001; di Jean-David Morvan; illustrazioni di Jung Gi Kim; Mondadori Comics, 2016. ❯ Il fotografo di Mauthausen, di Salva Rubio, Pedro J. Colombo e Aintzane Landa; Mondadori Comics, 2018 [ FOTOgraphia, febbraio 2019]. ❯ (La fotografia-icona, di Alberto Korda, in complemento) Que viva el Che Guevara, di Marco Rizzo e Lelio Bonaccorso; BeccoGiallo, 2011 [ FOTOgraphia, aprile 2012].

Vita avventurosa: mistero, sacrificio, frivolezze, sangue, politica e intrighi. Ha frequentato artisti che hanno scritto la Storia: il poeta Pablo Neruda la evoca nella sua autobiografia Confesso che ho vissuto, e le ha dedicato un poema alla controversa morte (il 5 gennaio 1942), Tina Modotti ha muerto [in FOTOgraphia, del dicembre 2011, sui settant’anni dalla scomparsa]. Ancora, e in nostro passo, ricordiamo che per celebrare l’Informazione fotografica, il 30 giugno 1978, le Poste Italiane hanno Lo specchio di Tina. Vita e immagini di Tina Modotti, di Cinzia Ghigliano; ContrastoBooks, 2019; 17 tavole, 13 fotografie, 5 fotogrammi; 64 pagine 21x28,5cm, cartonato; 19,90 euro.

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emesso un francobollo sul quale è stata riprodotta una fotografia di Tina Modotti: Linee del telefono; Messico, 1925 [tante le nostre rievocazioni al proposito].

GRAPHIC NOVEL Tornando in attualità, registriamo l’ufficialità dell’edizione ContrastoBooks: Lo specchio di Tina, graphic novel di Cinzia Ghigliano, che «ripercorre la vita di un personaggio decisamente affascinante, affiancato da alcune sue immagini e testimonianze della sua attività». Ancora dalla presentazione ufficiale: «Le tavole e le parole di Cinzia Ghigliano ricostruiscono la storia di questo personaggio, mostrando le molte sfaccettature di una donna istintiva e ribelle, sempre pronta a sperimentare e lanciarsi con coraggio in una nuova avventura, a cambiare strada per poter esprimere le proprie convinzioni, nella lotta politica come nella fotografia, cui si dedicò con passione per denunciare le condizioni di miseria e oppressione degli ultimi. «Lo specchio di Tina presenta anche un portfolio di immagini e un approfondimento biografico. «Tina sposa prima il poeta e pittore Robo (Roubaix de l’Abrie Richey); e, poi, ha una relazione con il fotografo statunitense Edward Weston, che la iniziò alla fotografia, mentre conosce artisti dell’epoca e fa innamorare molti uomini; frequenta Diego Rivera, è amica di Frida Kahlo, conosce Ernest Hemingway e Robert Capa. Il suo fascino di donna libera e indipendente è aumentato ancor di più dall’attivismo politico. Muore in circostanze poco chiare, nel 1942. In questa occasione, Pablo Neruda le dedica una commovente poesia: E passeranno un giorno dalla tua piccola tomba / prima che le rose di ieri appassiscano; / passeranno per vedere quelli di un giorno, domani, / dove stia ardendo il tuo silenzio ». Ancora, Tina Modotti. ❖



Il dovere di Angelo Galantini

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VERSO CANNES

Su questo stesso numero, da pagina 16, attraversiamo una fenomenologia parallela al Cinema, senza dubbio in suo sostegno e vitalità pubblica, dal punto di vista dello Spettacolo indotto dai suoi protagonisti. Ovviamente, sia per statuto nostro, sia per altri motivi (quali, poi?), accendiamo le luci della possibile ribalta sui fotografi, elevandoli a protagonisti della vicenda, che ufficialmente prevede altri soggetti principali: le attrici e l’attore in campo. Da quelle considerazioni, qui e ora, estrapoliamo un elemento sopra tutti, che ci pare intrigante: quello dello scorrere del Tempo, delle consuetudini e, forse, dell’Educazione... da se stessi verso gli altri, verso la situazione entro la quale ci si trova ad agire e operare. Diciamo, Galateo. Ci riferiamo al formalismo dei rapporti che dovrebbe ancora (e sempre!) guidare e presiedere ogni incontro, sia personale (ma potrebbero essere fatti privati), sia professionale. Come sottolineiamo nell’altro intervento redazionale, appena menzionato e qui richiamato, ci sono stati tempi durante i quali la presenza di fotografi-fotocronisti a eventi pubblici, in questo caso del Cinema, presupponeva convenzioni non negoziabili e non discutibili: quantomeno, adeguatezza esteriore in rispetto del Momento. Ora, grazie alla testimonianza di Alcide Boaretto, assiduo frequentatore dei Festival europei del cinema, avviciniamo una realtà per noi confortante: a differenza di altri appuntamenti, anche italiani, oltre le procedure prevedibili di accredito, al Festival de Cannes è richiesto ai fotografi di avvicinarsi al red carpet in abbigliamento adeguato... ovverosia, in abito da sera. Certo, in Costa Azzurra, durante il giorno, solitamente caldo per quanto ventilato, gli incontri all’aperto, al definito Photocall, con i protagonisti della serata di proiezione, non ci sono restrizioni di sorta, a parte un garbo che non serve codificare. Però, sia chiaro, il Marches Rouge serale non ammette deroghe: e così sarà, il prossimo maggio, dal dodici al ventitré, per la Settantatreesima edizione (2020).

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ALCIDE BOARETTO (7)

Il dovere

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Il dovere

ALCIDE BOARETTO (2)

Scorriamo dalla doppia pagina precedente fino a questa, per sottolineare visivamente la disponibilità degli attori verso il pubblico, al Festival de Cannes 2019. Bella Hadid sul red carpet con un abito in tinta coordinata. Antonio Banderas, Elton John e Sylvester Stallone, che interpretano quella parte pubblica di se stessi in aspettativa di pubblico. Idem, per l’accoppiata Quentin Tarantino e Johnny Depp. Leonardo Sbaraglia con fare sorpreso e Araya A. Hargate in concessione. E poi, ancora, Antonio Banderas (con Penelope Cruz), in licenza per i fotografi dall’ufficialità del red carpet. Sylvester Stallone e la propria famiglia (moglie Jennifer Flavin e figlia Sophia Rose).

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Tra tanto, cosa significa tutto questo, visto che qualcosa significa effettivamente? Soprattutto, il rispetto di se stessi, dei propri interlocutori, della situazione avvicinata e delle regole (per quanto, non scritte) del vivere comune. In una parola, magari difficile da capire, qui in Italia, significa anteporre il proprio dovere a eventuali diritti pretesi. Del resto, ancora testimone il talentuoso Alcide Boaretto, con un prezioso contributo di istanti dalla precedente Settantaudesima edizione del Festival de Cannes, che qui proponiamo in forma di “portfolio” (quasi, circa), anche i protagonisti svolgono il proprio dovere! Cioè, in aggiunta a momenti istituzionali della professione, gli attori e i personaggi del Cinema si rendono disponibili al pubblico, sul quale è edificata la propria credibilità. [E, in questo senso, ci dissociamo da quei personaggi del calcio, soprattutto del calcio, che, magari indispettiti da cronache giornalistiche considerate avverse, si chiudono in “silenzio stampa”, ignoranti del fatto che anche la disponibilità pubblica è parte del proprio dovere professionale, che si allunga dalle prestazioni atletiche ai rapporti con i tifosi, componente fondamentale dell’intera filiera]. Scorriamole insieme, queste fotografie di Alcide Boaretto, certificatrici del senso di dovere dei protagonisti del Festival de Cannes, in edizione scorsa 2019. Procediamo in ordine di messa in pagina, a partire dalla doppia facciata precedente. Bella Hadid, che interpreta la propria sfilata sul red carpet con un abito addirittura in tinta coordinata, accordandosi secondo aspettative. Antonio Banderas, Elton John e Sylvester Stallone che, al Photocall, interpretano quella parte pubblica di se stessi in aspettativa di pubblico. Idem, in ulteriore passo popolare, per l’accoppiata Quentin Tarantino e Johnny Depp (che mimano con i propri occhiali, sempre indossati per contratto “testimonial”), Leonardo Sbaraglia con fare sorpreso e Araya A. Hargate in concessione agli altri. E poi, ancora, Antonio Banderas (con Penelope Cruz), in licenza per i fotografi, per il pubblico, dall’ufficialità del red carpet. Per finire, con Sylvester Stallone e la propria famiglia (moglie Jennifer Flavin e figlia Sophia Rose). In interpretazione di dovere. ❖


Dal 1991, i logotipi dei TIPA Awards identificano i migliori prodotti fotografici, video e imaging dell’anno in corso. Da ventinove anni, i qualificati e autorevoli TIPA Awards vengono assegnati in base a qualità , prestazioni e valore, tanto da farne i premi indipendenti della fotografia e dell’imaging dei quali potete fidarvi. In cooperazione con il Camera Journal Press Club of Japan. www.tipa.com



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