FOTOgraphia 256 novembre 2019

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ANNO XXVI - NUMERO 256 - NOVEMBRE 2019

#EverydayClimateChange È LA NOSTRA TERRA Dal 1839 QUELLA RELAZIONE

ALTIN MANAF e ANDREAS IKONOMU COSÌ IL TEMPO PRESENTE


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prima di cominciare IN VIAGGIO CON ULISSE. Nel linguaggio della metafora, la poesia Itaca, del greco Costantino Kavafis (Konstantinos Petrou Kavafis; 1863-1933), è metafora del Viaggio, inteso verso il Sapere e la Conoscenza. A pagina cinquantuno, riportiamo la traduzione dell’accademico, filologo classico e grecista italiano Filippo Maria Pontani (1913-1983), del 1961, per l’edizione nella collana Lo Specchio, di (Alberto) Mondadori. Qui, a seguire, il testo greco originario. In entrambi i casi, completiamo con QR Code di recitazioni. Allo stesso momento, sempre in questa chiusura, aggiungiamo una recitazione in inglese di sir Sean Connery. Ἰθάκη Σὰ βγεῖς στὸν πηγαιμὸ γιὰ τὴν Ἰθάκη, νὰ εὔχεσαι νἆναι μακρὺς ὁ δρόμος, γεμάτος περιπέτειες, γεμάτος γνώσεις. Τοὺς Λαιστρυγόνας καὶ τοὺς κύκλωπας, τὸν θυμωμένο Ποσειδῶνα μὴ φοβᾶσαι, τέτοια στὸν δρόμο σου ποτέ σου δὲν θὰ βρεῖς, ἂν μέν᾿ ἡ σκέψις σου ὑψηλή, ἂν ἐκλεκτὴ συγκίνησις τὸ πνεῦμα καὶ τὸ σῶμα σου ἀγγίζει. Τοὺς Λαιστρυγόνας καὶ τοὺς κύκλωπας, τὸν ἄγριο Ποσειδῶνα δὲν θὰ συναντήσεις, ἂν δὲν τοὺς κουβανεῖς μὲς στὴν ψυχή σου, ἂν ἡ ψυχή σου δὲν τοὺς στήνει ἐμπρός σου. Νὰ εὔχεσαι νά ῾ναι μακρὺς ὁ δρόμος. Πολλὰ τὰ καλοκαιρινὰ πρωϊὰ νὰ εἶναι ποὺ μὲ τί εὐχαρίστησι, μὲ τί χαρὰ θὰ μπαίνεις σὲ λιμένας πρωτοειδωμένους· νὰ σταματήσεις σ᾿ ἐμπορεῖα Φοινικικά, καὶ τὲς καλὲς πραγμάτειες ν᾿ ἀποκτήσεις, σεντέφια καὶ κοράλλια, κεχριμπάρια κ᾿ ἔβενους, καὶ ἡδονικὰ μυρωδικὰ κάθε λογῆς, ὅσο μπορεῖς πιὸ ἄφθονα ἡδονικὰ μυρωδικά· σὲ πόλεις Αἰγυπτιακὲς πολλὲς νὰ πᾶς, νὰ μάθεις καὶ νὰ μάθεις ἀπ᾿ τοὺς σπουδασμένους. Πάντα στὸ νοῦ σου νἄχεις τὴν Ἰθάκη. Τὸ φθάσιμον ἐκεῖ εἶν᾿ ὁ προορισμός σου. Ἀλλὰ μὴ βιάζεις τὸ ταξεῖδι διόλου. καλλίτερα χρόνια πολλὰ νὰ διαρκέσει· καὶ γέρος πιὰ ν᾿ ἀράξεις στὸ νησί, πλούσιος μὲ ὅσα κέρδισες στὸν δρόμο, μὴ προσδοκώντας πλούτη νὰ σὲ δώσῃ ἡ Ἰθάκη. Ἡ Ἰθάκη σ᾿ ἔδωσε τ᾿ ὡραῖο ταξεῖδι. Χωρὶς αὐτὴν δὲν θἄβγαινες στὸν δρόμο. Ἄλλα δὲν ἔχει νὰ σὲ δώσει πιά. κι ἂν πτωχικὴ τὴν βρῇς, ἡ Ἰθάκη δὲν σὲ γέλασε. Ἔτσι σοφὸς ποὺ ἔγινες, μὲ τόση πεῖρα, ἤδη θὰ τὸ κατάλαβες ἡ Ἰθάκες τί σημαίνουν.

Così il tempo presente. Leonardo da Vinci; su questo numero, a pagina 22 Ciò che l’occhio umano osserva casualmente e incautamente, l’occhio della macchina fotografica osserva con fedeltà implacabile. Berenice Abbott; su questo numero, a pagina 34 Mio padre [...] voleva essere un Uomo libero. Sosteneva che nessun Uomo può possedere la Terra, e che -quindi- non può vendere quello che non possiede. Chief Joseph, su questo numero, a pagina 36 Lettera per chi ha solo rimorsi, da leggere a voce alta / ma a piccoli sorsi. Enzo Jannacci; su questo numero, a pagina 35 Noi non siamo padroni della freschezza dell’aria. Capo Sealth; su questo numero, a pagina 36 Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore... Ci vogliono i riti. Antoine de Saint-Exupéry (in Il Piccolo Principe); su questo numero, a pagina 28

Copertina Richiamo al progetto fotografico Così il tempo presente, dei talentuosi Altin Manaf e Andreas Ikonomu. Senso di una narrazione commossa della comunità monastica che risiede nell’Abbazia di Chiaravalle, al confine sud di Milano. In portfolio, da pagina 22

3 Fotografia nei francobolli Dall’emissione filatelica, in due valori combinati, con la quale la Turchia ha celebrato centocinquanta anni di Fotografia (1839-1989), dettaglio da uno dei due soggetti (in originale 27x41mm). Perché questa visualizzazione? Riveliamolo: da una parte, “omaggio” a Altin Manaf, autrice in portfolio (da pagina ventidue) e in copertina, di origine turca; dall’altra, “accenno” a una visualizzazione schematica, a pagina 44

7 Editoriale In greco, dal film Kavafis, di Yannis Smaragdis, del 1996; musiche / colonna sonora di Vangelis (Evangelos Odysseas Papathanassiou).

In inglese, recitata da sir Sean Connery; ancora, su e con musica di Vangelis (Evangelos Odysseas Papathanassiou).

Per quanto la caratterizzazione Antropocene definisca l’era attuale del Pianeta, nel quale -per la prima volta nella Storia- i cambiamenti geologici sono provocati dall’Uomo e non procurati da sconvolgimenti naturali, dobbiamo ipotizzare qualcosa di analogo anche nei e tra i comportamenti sociali (o asociali): un’Antropocene portatrice di Rivoluzione... villana

8 Relazione originaria Nel centottantesimo, Relazione intorno al dagherrotipo, letta [...] da Macedonio Melloni, il 12 novembre 1839


NOVEMBRE 2019

RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA

18 Percorso di guerra Casellario della presenza della Fotografia (fotografi e macchine fotografiche) in scenografie e sceneggiature a sfondo bellico: nessuna pretesa enciclopedica, ma passo trasversale al soggetto dichiarato e affrontato Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

22 Quel rito della Fotografia Senza altre intenzioni cortigiane, ma con concreta consapevolezza di se stessi, in richiamo dichiarato a un Pensiero di Leonardo da Vinci, due bravi fotografi rivelano anche la vita della comunità monastica che risiede nell’Abbazia di Chiaravalle, alle porte di Milano. Altin Manaf e Andreas Ikonomu svelano la propria anima autoriale. E il proprio Cuore di Maurizio Rebuzzini

30 Questa Terra è la nostra Terra (Rimando alla biografia Questa terra è la mia terra, di Woody Guthrie [Woodrow Wilson Guthrie; 1912-1967], musicista e cantautore folk statunitense) #EverydayClimateChange è un intenso progetto nato da un’idea del fotografo James Whitlow Delano di Lello Piazza (con Marta Cannoni e Livia Corbò)

39 Tira e molla (Rimando al personaggio a fumetti Tiramolla, ideato da Roberto Renzi, nel 1952, alla luce dell’invenzione del silicone, creato graficamente da Giorgio Rebuffi e caratterizzato da Umberto Manfrin; dopo l’esordio nel mensile Cucciolo, l’otto agosto, in propria testata autonoma, per oltre seicento numeri pubblicati) L’aumento del tiraggio al piano focale comporta una caduta di luce direttamente proporzionale alla separazione tra obiettivo e piano immagine. Dal passato (?), calcoli, conteggi, formule e cifre certe di Antonio Bordoni

46 1839... 1989 (e non altro) Rievocazione delle (tante) emissioni filateliche per il centocinquantenario della Fotografia (1839-1989). Per i centottanta anni (1839-2019)... nulla. In assoluto

Anno XXVI - numero 256 - 6,50 euro DIRETTORE

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

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Maria Marasciuolo

REDAZIONE

Filippo Rebuzzini

CORRISPONDENTE Giulio Forti

FOTOGRAFIE Rouge

SEGRETERIA

Maddalena Fasoli

HANNO

COLLABORATO

Antonio Bordoni Marta Cannoni Livia Corbò mFranti Angelo Galantini Costantino Kavafis (Konstantinos Petrou Kavafis) Andreas Ikonomu Altin Manaf Macedonio Melloni www.mat19coscienzadelluomo Lello Piazza Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.com; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 1027671617 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard e PayPal (graphia@tin.it). ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano

Rivista associata a TIPA

51 Itaca Parole di altri: Costantino Kavafis Nella stesura della rivista, a volte, utilizziamo testi e immagini che non sono di nostra proprietà [e per le nostre proprietà valga sempre la precisazione certificata nel colophon burocratico, qui accanto: «È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo)»]. In assoluto, non usiamo mai propietà altrui per altre finalità che la critica e discussione di argomenti e considerazioni. Quindi, nel rispetto del diritto d'autore, testi e immagini altrui vengono riprodotti e presentati ai sensi degli articoli 65 / comma 2, 70 / comma 1bis e 101 / comma 1, della Legge 633/1941 / Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio.

www.tipa.com



editoriale ANTONIO BORDONI

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Ognuno di noi vale cinquanta centesimi di parole?

WWW.MAT2019COSCIENZADELLUOMO.IT

iguratevi se non ce ne siamo accorti. Figuratevi se non ne siamo più che coscienti e consapevoli. L’abbiamo già rilevato in tante occasioni precedenti, via via in e con rispettivi riferimenti leciti e legittimi, e qui ripetiamo, ribadendolo (una volta ancora, una volta di più, non certo per l’ultima volta... speriamo): il Tempo va avanti con o senza di noi. Detta meglio, forse, dobbiamo accettare tutto quanto accade attorno a noi; oppure, e non fa certo lo stesso, dovremmo accettare tutto quanto accade attorno a noi (proprio tutto), fosse anche soltanto in riferimento e richiamo al piccolo-grande mondo di nostra frequentazione e appartenenza: quello che si richiama alla Fotografia, ciascuno per sé, ciascuno con il proprio passo e la propria cadenza. Intorno a noi si manifestano trasformazioni quotidiane sollecitate da inevitabili cambiamenti comportamentali, a propria volta incalzati e guidati da conversioni indotte da mille e mille pressioni. Per esempio, certa accelerazione “tecnologica” ha cambiato radicalmente ogni nostra comunicazione individuale verso l’esterno: nuove opportunità si affacciano sistematicamente, mandando presto in pensione quelle immediatamente precedenti, fossero anche recenti e vicine. Francamente: dopo aver scavalcato lettere e cartoline, l’sms di conio moderno è stato già soppiantato da WhatsApp, Facebook e dintorni (ammesso e non concesso che altra possibilità si sia imposta, nel frattempo); così come, l’email ha ceduto il passo ad altri social. Forse, addirittura, come accennato, dal momento in cui stiamo scrivendo a quello nel quale pubblichiamo (in filiera produttiva di rivista cartacea), altro si è già affacciato alla ribalta, imponendosi in sostituzione. È giusto che sia così, se non che, nella fretta dei nostri giorni (non rapidità di intuizione e azione conseguente, ma fretta senza contenuti) stiamo slittando verso retrogusti amari, tutti indirizzati e condizionati da una diffusa maleducazione. Tra le mille e mille forme di comunicazione oggi a disposizione, anche in Fotografia (soprattutto in Fotografia, per quanto ci è dato di vivere e subire), sempre più spesso vengono scelti quelli di villania e scortesia, dietro i quali molti/troppi nascondono la propria codardia: sms / invece di telefonate (ognuno di noi vale cinquanta centesimi di parole?); WhatsApp / invece di comunicazione. Così che è legittimo a autorevole quanto ha rilevato il fotografo ed educatore svedese Christer Strömholm (1918-2002), quando ha affermato che «Sono i pesci morti che seguono le correnti»: non la “tecnologia”, ma le sue mal interpretazioni. Yuval Noah Harari, storico, saggista e professore universitario israeliano, è esplicito... a questo proposito. Nel suo Sapiens. Da animali a dèi / Breve storia dell’umanità [Bompiani, 2017] certifica un passo fondamentale dell’Evoluzione della specie: «La comparsa di nuovi modi di pensare e di comunicare, nel periodo che va da settantamila a trentamila anni fa, costituisce la Rivoluzione cognitiva». Ora, in Tempi di Antropocene [FOTOgraphia, giugno 2019], anche sociale, oltre che ambientale ed ecologica, è stata avviata una ulteriore Rivoluzione... villana! Maurizio Rebuzzini

Matera, 12 gennaio 2019: speech di presentazione/introduzione della mostra Visitors, di Alberto Dubini, alla Galleria Cine Sud, in avvio del programma Coscienza dell’Uomo, che si è allungato sul corrente Duemiladiciannove. Il relatore sta parlando. E, in prima fila, Rivoluzione... villana!

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1839-2019: centottant’anni di Macedonio Melloni

RELAZIONE ORIGINARIA

Relazione intorno al dagherrotipo, letta alla R. Accademia delle Scienze, nella tornata del 12 novembre 1839, da Macedonio Melloni, uno dei quaranta della Società Italiana delle Scienze, socio corrispondente delle R. Accademie delle Scienze di Napoli e Torino, dell’Istituto di Francia, del-

l’Accademia Imperiale di Russia, della Reale di Berlino, della Società Filomatica di Parigi, della Società di Fisica e Storia Naturale di Ginevra, ecc.

In Napoli, dalla Tipografia di Porcelli, 1839

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Chiarissimi colleghi. In una delle ultime tornate, il sig. Presidente mi consegnava un giornale di Francia contenente una relazione di Arago su quella maravigliosa scoperta del Dagherre che ha destato, or ora, tanto romore in tutto il mondo incivilito, per mezzo della quale si possono ritrarre a chiaroscuro e conservare stabilmente su certe lamine metalliche, le immagini di paesaggi, di statue, di monumenti, ed altri oggetti immobili, mediante la semplice azione della luce; e di codesta relazione, m’invitava ad offerire un sunto all’Accademia. La relazione, maestrevolmente scritta come tutte le produzioni del celebre fisico francese, era diretta a suoi colleghi della camera dei Deputati, ed aveva per iscopo d’indurli ad approvare un progetto del Governo che proponeva, dietro le insinuazioni dello stesso Arago, una pensione annua di diecimila franchi da compartirsi tra Dagherre e Niépce figlio del defunto suo collaboratore, a condizione che il processo con cui si ottenevano questi disegni fosse reso di pubblica ragione. Nell’accettare, rispettosamente come doveva, l’incombenza affidatami dal signor Presidente, mi permisi di fargli osservare che invece di communicare all’Accademia una semplice descrizione delle produzioni Dagherriane, converrebbe assai meglio aspettare la pubblicazione ormai sicura del segreto, affin di renderla nello stesso tempo consapevole, e dell’effetto artistico di questo portentoso ritrovamento, e di tutto quanto spetta alla sua parte storica e scientifica; l’osservazione fu gentilmente accolta ed approvata. Passavano appena alcune settimane, ed il rescritto ministeriale

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adottato da ambe le camere, imponeva al Dagherre il dovere di rivelare alla Francia ed al mondo intero le sue misteriose operazioni: lo che egli fece nel modo il più soddisfacente confidando ogni cosa ad una commissione dell’Istituto la quale espose minutamente il processo per bocca del suo relatore Arago, in una solenne adunanza di quell’illustre corpo Accademico: questo secondo rapporto fù poscia stampato nei principali fogli di Francia, e tradotto in quasi tutti i giornali esteri. Non contento di tanta pubblicità il Dagherre consacrò parecchie sessioni a diffondere la pratica de’ suoi metodi operando in presenza di un numeroso uditorio, e mo-

strando scrupolosamente ogni più minuta avvertenza: egli stampò anche un opuscolo su questa materia, ed indusse alcuni speculatori a riunire in un sol corpo gli oggetti, e le sostanze necessarie all’uopo; ed oggidì si trovano presso i principali ottici di Parigi, ed ormai sparsi per tutta Europa, codesti apparecchi conosciuti sotto il nome di Dagherrotipi. Io avrei voluto soddisfare sollecitamente all’assunto carico; ma la stagione avanzata non mi lasciava la possibilità d’informare l’Accademia di questi fatti innanzi il tempo delle vacanze, e mi vidi costretto a sospendere la mia narrazione sino alla riapertura delle nostre sessioni. Intanto l’arte nuova progrediva ra-

(1) Fotografico, Fotografia, ecc. vocaboli tratti dal greco, e composti di due voci che significano disegnar colla luce.

pidamente. Dagherre era giunto con una rara costanza ed una sagacità impareggiabile e, direi quasi, instintiva, alla scoperta del suo metodo fotografico (1); egli ignorava però la natura intrinseca delle azioni prodotte successivamente sulle lamine metalliche; e i disegni da esso lui ottenuti, quantunque di una precisione e di una delicatezza veramente squisita, erano di tale e tanta, a dir così gelosia, che al più leggier tocco si guastavano; onde conveniva tenerli del continuo racchiusi in apposite custodie guernite di vetri. Ora il dottor Donné ha data una spiegazione del processo dagherriano convalidata da esperienze soddisfacenti; e quel che importa immensamente più, egli è pervenuto durante la serie delle sue investigazioni teoretiche, non solo a fermare stabilmente sul metallo le impressioni mobilissime del Dagherrotipo, ma ad incidervele mediante alcune sostanze che probabilmente corrodono la lamina metallica essendo ridotte allo stato di vapore: laonde, ora si possono produrre su metallo e per la sola azione della luce e di alcuni chimici reagenti, indipendentemente da qualunque soccorso tratto dalle arti del disegno, degli scavi più o meno larghi e profondi totalmente analoghi ai lavori dell’incisione ordinaria, e trarne poscia parecchi esemplari su carta. Il processo del dottor Donné non è ancora conosciuto, ma i risultamenti ne sono certissimi, come apparisce ad evidenza dalle notizie pubblicate nei giornali, e dalle lettere e dagli attestati di persone probe ed istruite le quali asseriscono di aver visto cogli occhi propri i saggi di quelle incisioni presentate all’Istituto di Francia, e presentemente sottoposte all’esame di una commissione speciale.


1839-2019: centottant’anni


1839-2019: centottant’anni Questo preambolo era indispensabile, e per giustificar noi del breve intervallo che abbiam dovuto necessariamente frapporre alla presentazione di questo rapporto, e per mostrare che un tal ritardo, lungi dall’esser riescito nocivo allo scopo, ci ha aperto anzi un campo più vasto, e sempre più degno della vostra attenzione. Il Dagherrotipo congiunto al metodo tipografico del dottor Donné, deve evidentemente spargersi fra ogni classe di scienziati, e persino tra le persone che ignorano anche i primi elementi di fisica: questo prezioso apparecchio esigerebbe dunque una descrizione semplice, e chiara, che ne porgesse la storia, la teorica, e l’esperienza, in un modo intelligibile a tutti - noi l’abbiam tentata - Aggradite almeno l’intenzione, colleghi prestantissimi, e vogliate rammentarvi che non ci siam già gittati spontaneamente ad una impresa superiore alle nostre forze, ma che il dovere ci costringeva ad accettarla. Si produca il maggior bujo possibile in una stanza chiudendone esattamente tutte le aperture, e vi si lasci poscia entrare la luce per un semplice forellino eseguito in una parete sottile, condizioni che s’ottengono facilmente levando una porzione dell’imposta di una finestra, e sostituendovi una lamina metallica pertugiata. Se l’apertura guarda verso la strada o il giardino, si vedran tosto dipingersi sulla parete opposta, e sulla porzione adjacente del soffitto, le immagini delle case, degli alberi, dei passaggieri, e di tutti quegli oggetti esterni le cui irradiazioni giungono liberamente sul foro: queste immagini, che posseggono dimensioni più o men grandi secondo la distanza delle pareti, rappresentano esattamente i corpi ne’ contorni, nelle ombre, nei colori, negli effetti di prospettiva; ma la loro intensità è debole assai, imperfezione facile a togliersi quando s’aumenti l’ampiezza del foro sino a tre, o quattro pollici e vi si adatti una lente biconvessa di cristallo che lo turi esattamente: allora ponendo in vicinanza del foro una lamina di vetro resa semidia-

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fana ed uniformemente scabra sopra una delle sue facce coll’attrito dello smeriglio, e scostandola gradatamente in modo da conservarla sempre verticale e parallela alla sua posizione iniziale, si troverà un certo allontanamento, detto dai fisici distanza focale, ove le immagini assumono il massimo grado di chiarezza e di precisione. Si supponga ora la lente fissa all’estremità di un tubo, il quale s’allarghi alquanto dal lato opposto, e venga chiuso alla distanza focale da un vetro smerigliato, e si avrà un’idea esatta della Camera oscura inventata da G. B. Porta celebre matematico e fisico napoletano che fioriva intorno alla metà del secolo XVII. Varie modificazioni furono successivamente introdotte nella camera oscura del Porta: alcune tendevano a raddrizzare le vedute che nella disposizione originale si dipingono rovesciate, e pel nostro proposito non occorre esaminarle: altre ebbero per iscopo di rendere le immagini sempre più distinte e precise. E veramente, il fuoco o distanza focale è quel tal luogo dello spazio ove tutti i raggi, scagliati da ogni punto dell’oggetto luminoso o illuminato su tutta l’ampiezza della lente, si riuniscono al di là, in virtù delle rifrazioni subite nel loro doppio passaggio dall’aria al vetro, e viceversa. Ora un punto di qualunque corpo, bianco o colorato, manda fuori de’ raggi di diversa natura, ed ognuno di essi si piega o rifrange diversamente: ne segue che il fuoco non potrà essere per tutti situato alla medesima distanza, ma più o meno lontano secondo la loro minore o maggiore refrangibilità; laonde avvi una sconcentrazione, o aberrazione come dicono i fisici, la distanza focale rimane incerta, e l’immagine come orlata di strisce colorate. Una seconda causa della dispersione focale deriva dalla figura sferica delle lenti, che, per concentrare perfettamente nel fuoco la massa di luce proveniente da ogni punto del corpo, dovrebbero avere dimensioni picciolissime rispetto al raggio di curvatura; ed ognun vede che non si potrebbe ridurre ec-

cessivamente l’ampiezza della lente se non a discapito della intensità delle immagini. Ma la scienza teorico-pratica dimostrò, in tempi non molto remoti, come si possa rimediare a queste due aberrazioni, di refrangibilità e di sfericità, componendo la lente con due diverse qualità di vetro, e comunicando alla sua superficie anteriore una forma concava di una data curvatura: queste lenti diconsi acromatiche e periscopiche. È veramente mirabile la nitidezza delle immagini che si ritraggono colla loro applicazione alla camera oscura, e basta contemplare un solo istante questi graziosi fantasmi per sentir tosto sorgere nell’animo un vivo desiderio di renderli stabili, ed utili così all’arte, ed alla scienza: tuttavia, quantunque si cercasse di disegnarli per sovrapposizione sulla carta sino dal primo loro apparire per opera del Porta, un tal metodo non produsse che poco o niun frutto; alcuni pittori se ne servirono bensì per abbozzare le masse principali di certi punti di vista, e ritrarne le varie parti nelle giuste loro proporzioni; ma era d’uopo finir poi questi quadretti coll’arte ordinaria del disegno, essendo quasi impossibile il seguire con esattezza la somma precisione dei contorni, essendo impossibile sopratutto di entrare nelle minutissime loro particolarità senza nuocere immensamente all’effetto della prospettiva. Chi avrebbe creduto pochi mesi fà, che la luce, essere penetrabile, intangibile, imponderabile, privo in somma di tutte le proprietà della materia, avrebbe assunto l’incarico del pittore disegnando propriamente di per sè stessa, e colla più squisita maestria quelle eteree immagini, ch’ella dianzi dipingeva sfuggevoli nella camera oscura, e che l’arte si sforzava invano di arrestare? Eppure questo miracolo si è compiutamente operato fra le mani del nostro Dagherre. Conoscevasi da gran tempo una sostanza bianca la quale conserva il suo candore in un luogo totalmente oscuro, e diventa nera essendo esposta all’azione della luce. Il cambiamento non è istantaneo, ma graduato, e quindi

proporzionale al tempo ed alla energia della irradiazione lucida; e però quando alcune parti di un foglio di carta cosperso di questa sostanza sono percosse da ombre più o meno decise, ed altre ricevono l’azione di un chiarore più o men vivo, si trova, dopo un certo intervallo di tempo, la superficie del foglio sparsa di macchie di varia intensità, le più nere corrispondenti ai punti che han ricevuto la più forte impression luminosa. Questo reagente, o indicatore degli efflussi luminosi, si compone di due corpi semplici, l’argento ed il cloro, uno de’ principii che costituiscono il sal comune. Gli alchimisti lo scopersero verso la metà del secolo XVI e lo dimandarono luna, o argento corneo: ora esso è noto sotto la denominazione più razionale di cloruro d’argento. Le immagini degli oggetti prodotte dalle lenti risultano dal complesso d’ombre e di tinte più o meno fosche, o vivaci: dunque il cloruro d’argento diffuso sopra una data superficie introdotta nel fuoco di una camera oscura, dovrà ricevere nelle varie sue parti delle azioni diverse, da cui risulterà un disegno ombreggiato del corpo la cui immagine si dipinge nel fondo dell’apparecchio. Questa conseguenza, cotanto semplice e diretta, non pare essersi offerta all’ingegno perspicacissimo del Porta che doveva al certo conoscere le proprietà ottiche del cloruro d’argento scoperto un secolo prima; essa passò del pari negletta o inavveduta per centocinquant’anni dopo di lui, e venne finalmente in campo sul principio del nostro secolo per opera di Wedgwood: ma gli esperimenti diretti a tale oggetto da questo chimico, tanto benemerito delle arti ceramiche, riuscirono poco meno che infruttuosi; lo stesso avvenne de’ saggi fatti alcuni anni dopo dal celebre Humphry Davy: per guisa che, a malgrado dei tentativi di questi due illustri filosofi, tutto quanto poteva ottenersi intorno al modo di disegnar colla luce, consisteva in abozzi informi, e fugacissimi, come or ora vedremo. Sorse finalmente colui che doveva trarre dalle fasce l’arte fo-


1839-2019: centottant’anni tografica e porla in istato di giugnere in pochi anni ad una robustissima virilità. Niépce proprietario ed abitante di una terra situata nei dintorni di Châlons sur-Saône, cominciò le sue ricerche sulla fotografia nell’anno 1814, e le continuò col massimo ardore per tutto il rimanente de’ suoi giorni, che cessarono verso la metà del 1833. L’applicazione del cloruro d’argento all’arte fotografica presentava due grandissimi inconvenienti. Siccome le parti percosse dalla luce s’anneriscono, e rimangono più o meno bianche quelle che sono immerse in una maggiore o minore oscurità, così i lumi e le ombre della copia stanno in senso inverso dell’originale. Per lo stesso motivo quando si copre una carta impregnata di cloruro d’argento con una stampa o disegno qualunque, e si espone il doppio foglio alla luce diretta del Sole in modo che i raggi percotano prima sul disegno, si vedono imbrunire le parti sottostanti ai chiari, che ricevono per trasmissione la massima quantità di luce; mentre le porzioni corrispondenti agli scuri, sottratte più o meno all’irradiazione lucida in virtù dell’inchiostro o della matita, si conservano tanto più candide, quant’è maggiore la densità della materia sovrapposta, vale a dire quant’è maggiore l’intensità dell’ombra. Ora ognuno intende, che codesta inversione del chiaroscuro deve in molti casi diminuire, e talora distruggere al tutto, la verità della copia, segnatamente gli effetti di prospettiva - Inoltre, le impressioni una volta prodotte, non è permesso il contemplarle alla luce del giorno, e fa d’uopo tenerle di continuo in un luogo perfettamente bujo: altrimenti, la menoma azione della luce diurna diretta o diffusa, rende in breve ugualmente nere le varie parti del foglio, e fa quindi sparire del tutto ogni traccia di figure. I disegni ottenuti col cloruro d’argento, già difformi per l’inversione del chiaroscuro, sono dunque dilicati, fugacissimi, come dicevamo dianzi, e appena si possono osservare di notte al lume di una lucerna.

Persuaso che questi due inconvenienti, e segnatamente il primo, presentavano un ostacolo insormontabile, Niépce si diede a cercare nuove sostanze colle quali si potessero produrre definitivamente sulla copia i chiari e gli scuri corrispondenti ai lumi ed alle ombre dell’originale; e dopo una lunga serie d’indagini egli pervenne finalmente allo scopo nella seguente maniera. Presa una lastra di rame con sottile doppiatura d’argento perfettamente tersa e pulita, si distenda su di essa, e dal lato dell’argento, uno strato leggiere di bitume di giudea, ben puro e disseccato, sciolto nell’olio di lavanda: Si ponga la lamina così preparata sotto il disegno, e dopo averla tenuta in tale stato alquanto esposta alla luce solare, si liberi dalla carta disegnata, e s’introduca nel petrolio ove si lascerà tuffata per alcuni minuti: si estragga in fine e si lavi una o due volte nell’acqua. La copia del disegno vedrassi allora distintamente impressa sulla lamina, coi lumi e le ombre perfettamente corrispondenti all’originale; ed impressa in modo, da sfidar poscia l’azione ulteriore della luce senza pericolo di esserne cancellata. Ciò che v’ha di più singolare in questo processo, si è che non si scorge la menoma ombra di disegno dopo l’esposizione della lastra all’azione de’ raggi lucidi: l’immagine esiste dunque in uno stato latente sul quadro, sintantochè l’influenza del petrolio non la renda palese. Secondo ogni probabilità questo liquido decompone e scioglie il bitume con una energia più o men grande, secondo la sua esposizione ad una maggiore o minore intensità luminosa: e pertanto l’immagine risulterebbe dal contrasto tra le porzioni corrose e quelle che rimangono intatte. Qualunque sia la natura delle azioni prodotte successivamente sullo strato di bitume sovrapposto alla lamina, egli è certo che Niépce sciolse primo i due gran problemi, d’illuminare i disegni fotografici nel senso dovuto, e di renderli poscia insensibili all’azion della luce. La sua preparazione diede ottimi ri-

sultamenti essendo applicata alla copia delle stampe, degli acquarelli, o di qualunque altre specie di disegno in carta, mediante l’irradiazione diretta del sole; siccome apparisce evidentemente da una Memoria ed alcuni documenti ch’egli presentava nel dicembre dell’anno 1829 alla Società Reale di Londra. Ma quando si trattò della camera oscura, egli non tardò ad accorgersi che il suo reattivo non era sufficientemente sensibile alla debole energia dei raggi che costituiscono le immagini ottenute colle lenti - Infatti dieci o dodici ore almeno sono necessarie per avere l’impressione di queste immagini sulle lastre preparate del Niépce. Ora ognun vede che, durante sì lungo intervallo di tempo, le ombre degli oggetti si spostano notabilmente, per cui il chiaro sovrapponendosi allo scuro in ogni punto della lamina, deve risultarne un disegno confuso - È vero che si potrebbe cessare l’operazione dopo pochi istanti, e ripeterla più giorni di seguito nella medesima ora; ma la menoma nuvoletta, il più leggier velo di nebbia, danno differenze sensibili nelle relazioni delle tinte il cui complesso forma l’aspetto dei corpi: e chi cercasse le sole giornate perfettamente limpide e serene dovrebbe talora dedicare parecchie settimane all’opera; talchè cambiata di troppo, in questo intervallo, la posizione del sole a quella data ora del giorno, la riproduzione delle medesime circostanze riuscirebbe impossibile. Oltre a ciò l’operazione restava spesso incompiuta, o mancava del tutto, per cagioni di cui il Niépce non potè giammai rendersi ragione. Finalmente lo strato bituminoso andava soggetto ad alterarsi alcun poco per le variazioni di temperatura, e sollevandosi più o meno in una infinità di piccole squammette, guastava i disegni ottenuti, o li rendeva di difficile conservazione. Niépce stava pensando ai modi con cui si potevan togliere questi diversi inconvenienti quando gli fù riferito che Dagherre, già noto in Francia e fuori per la sua maestria nell’arte di dipingere le scene teatrali, e per l’invenzione del Diora-

ma, s’era dato egli pure da qualche tempo alle ricerche fotografiche. I due valenti sperimentatori si furono ben tosto conosciuti, e stabilite tra loro strette relazioni di amicizia, decisero di proseguire insieme il lavoro col patto di dividere ugualmente, tanto la fatica e la spesa, quanto il prodotto che poteva ricavarsi dalla felice riuscita delle loro investigazioni. L’epoca in cui eglino presero di comune accordo questa risoluzione è il 14 Dicembre 1829: Niépce moriva pochi anni dopo, e Dagherre, religioso osservatore della propria parola, ammetteva siccome socio de’ suoi progetti fotografici, Isidoro Niépce figlio e successore del defunto; ma questo secondo contratto si riferiva soltanto agl’interessi, e d’allora in poi Dagherre camminò solo nella gloriosa via delle scoperte. Ciò si rileva ad evidenza dall’atto legale stipulato posteriormente tra i due nuovi soci d’impresa, ove è detto: 1.° che Dagherre aveva notabilmente perfezionato il processo di Niépce padre: 2.° ch’egli era riuscito a scoprire un nuovo metodo, per mezzo del quale si ottenevano le immagini degli oggetti sessanta, o ottanta volte più presto di prima. Le cose, di cui dobbiam ora far parola, devono pertanto risguardare interamente i progressi che l’arte fotografica subiva per opera del celebre pittor francese. Noi non gitteremo tempo ad esporre le numerose prove tentate per ben quasi un decennio, l’animo fermo e costante dello sperimentatore, i suoi ingegnosi pensieri, le felici scoperte, ed i successivi miglioramenti; ma passeremo, senz’altri preamboli, a sottoporvi il metodo perfezionato, che l’inventore adopera presentemente. Il fondo del quadro che deve ricevere l’immagine della camera oscura è sempre l’argento saldamente congiunto al rame colla pressione del laminatojo. S’incomincia dunque dal prendere una di queste doppie lastre le cui varie parti, scevre d’ineguaglianze o sinuosità, e perfettamente adeguate in un sol piano, siano ben terse, e levigatissime: e siccome la

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1839-2019: centottant’anni lucentezza dell’argento s’appanna sempre alcun poco per l’esposizione all’aria, convien ravvivarla, al momento dell’operazione, con alcuni fiocchetti di bambagia, i quali s’intridono in una poltiglia d’olio d’olive e di finissima polvere di pomice, o di tripoli, e s’adoperan poscia asciutti ed alquanto cospersi delle stesse polveri: lo strofinìo deve essere condotto prima circolarmente, quindi in direzione rettilinea e trasversale. Fornita questa specie di brunitura, la lamina vien fortemente riscaldata dal lato del rame colla fiamma di una lucerna alcoolica, e quindi posta a contatto di una tavola di marmo che ne abbassa prontamente la temperatura: allora s’imprende di nuovo a ripulirla col cotone e l’acido nitrico diluito in sedici parti d’acqua. Questo secondo stropicciamento è diretto a togliere quelle poche particelle di rame, di ferro, o di materia vegetabile, che potrebbero rimanere tuttora aderenti alla superficie dell’argento. La piastra sgombrata per tal guisa da ogni sostanza eterogenea, e perfettamente forbita, riceve una cornice di metallo, ed è quindi introdotta, col lato dello argento volto in giù, entro una cassettina di legno, nel cui fondo sta riposto un po’ d’iodio e, ad una certa distanza, un finissimo velo che ne abbraccia tutta l’ampiezza a guisa di diaframma. Chiuse le finestre, si abbandona l’esperienza a sè medesima: l’iodio ridotto in vapori dal calor naturale diffuso per l’ambiente attraversa il velo, giugne a contatto della lamina, e vi si ferma in gran parte per l’affinità del metallo, che lo assorbisce e lo converte in uno strato solido, la cui profondità, quantunque affatto insensibile all’occhio, va facendosi gradatamente maggiore: l’operazione deve sospendersi dopo quindici, o venti minuti, o più esattamente, quando l’argento sviluppa una tinta giallognola del tutto analoga al colore dell’oro, nel qualcaso, giusta i calcoli del Dumas, la grossezza della materia sovrapposta all’argento arriva appena ad un milionesimo di millimetro. Estratta la lamina, si fa passare in un secondo recipien-

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te inaccessibile alla menoma quantità di luce; e quindi nell’interno della camera oscura, sostituendola al vetro smerigliato, il quale si è prima situato esattamente nella posizione focale, mediante un apposito meccanismo, che lo avvicina più o meno alla lente, sintantochè si vegga perfettamente distinta l’immagine dell’oggetto. Quì il periodo dell’operazione non può determinarsi esattamente, perché dipendente dalla latitudine, dall’altezza del sole, e dalla trasparenza dell’aria. A Parigi, convien lasciare la lastra esposta all’influenza dell’immagine luminosa quindici, o venti minuti d’inverno e cinque, o sei d’estate: nelle terre più meridionali, e sotto un cielo più chiaro e limpido, questi intervalli di tempo devono essere probabilmente, minori. Per ogni paese, alcune sperienze preliminari divengono dunque indispensabili; esse non presentano tuttavia veruna difficoltà e potranno effettuarsi felicemente persino dalle persone le più ignare dell’arte sperimentale. La lastra si estrae dalla camera oscura rinchiusa nello stesso recipiente, impermeabile alla luce, che aveva servito ad introdurvela, e si ripone sotto una inclinazione di 45° entro un terzo recipiente, il cui fondo è munito di una cavità che contiene un termometro ad asta sporgente ed un chilogrammo circa di mercurio. Sin quì non si scorge la menoma traccia di disegno; la superficie della piastra trovasi ancora coperta, in ogni punto, da uno strato uniforme del medesimo colore. Ma si scaldi il mercurio sino a sessanta gradi, colla fiamma di una lucerna ad alcool, o in qualunque altra maniera - il vapore metallico sviluppato in virtù del calore s’innalza, tocca la lamina, ed ecco apparire in mezzo al campo giallo alcune tinte biancastre le quali formano progressivamente, e come per incanto, la copia esatta dell’immagine dianzi osservata nella camera oscura. In alcuni minuti questa portentosa influenza del vapor mercuriale arriva al suo massimo effetto: si toglie la lastra dal recipiente, e si tuffa prima in una dissoluzione calda di sal marino, o fredda d’iposolfito di

soda; poscia nell’acqua stillata alla temperatura di cinquanta, o sessanta gradi - Ogni traccia di giallo sparisce, e rimane un graziosissimo e delicato disegno a chiaroscuro atto a sopportare l’azione della più viva luce senza subire la menoma alterazione. Dinnanzi ad una serie d’operazioni sì originali e collegate con nessi del tutto estranei a qualunque induzione metodica, la scienza rimase per qualche tempo attonita e silenziosa. Ma le ricerche sperimentali del Dottor Donné somministrarono infine gli elementi necessari ad una chiara intelligenza delle azioni che il vapor d’iodio, la luce, il vapor mercuriale, l’iposolfito di soda, e l’acqua esercitano successivamente sulla lamina metallica. In primo luogo è facile il chiarirsi che lo strato superficiale di materia gialla, formato per l’esposizione della lamina all’iodio ridotto in vapori, risulta da una combinazione di questa sostanza coll’argento, e non già da una semplice deposizione e solidificazione del vapore sulla superficie solida. Difatti si ponga entro una storta di creta, o di porcellana a lunghissimo collo una certa quantità di iodio, se ne turi poscia ermeticamente l’estremità, e riscaldato leggiermente il fondo, si lasci freddare. Rotta la storta verso la sommità si troveranno tutte le parti superiori del collo gremite di minute e brillanti cristallizzazioni d’iodio: pongansi i frantumi in vicinanza del fuoco, e pochi istanti basteranno per far dileguare ogni benchè minima particella di questo corpo. L’iodio è dunque una sostanza sommamente volatile e di facilissima cristallizzazione, vale a dire, una sostanza che appena riscaldata si scioglie in vapori, i quali si depongono poscia con forme regolari, e cristalline sui corpi circostanti al menomo abbassamento di temperatura. Ora, esaminando col microscopio la superficie dello strato giallognolo che copre le lamine preparate del Dagherre, non vi si scopre il menomo indizio di cristalli. Di più, lo strato, tenuto al bujo, si mantiene intatto su queste lamine malgrado la loro esposi-

zione ad un’alta temperatura: la sostanza che lo compone non è dunque l’iodio solidificato e meccanicamente deposto sul metallo, ma sì bene il prodotto della sua chimica unione coll’argento. È noto infatti che l’ioduro ed il cloruro d’argento han pochissima tendenza alla cristallizzazione ed alla volatilizzazione. Trovata la natura dello strato che copre la lamina, vediamo in qual maniera la luce deve modificarlo nelle sperienze del Dagherrotipo. L’iodio è un corpo semplice, o indecomposto, che nelle sue chimiche proprietà ha la massima analogia col cloro. Ora l’analisi ha dimostrato, che il cloruro d’argento si decompone sotto l’azione della luce, perdendo una porzione di cloro; per cui il residuo trovasi costituito di un miscuglio di cloruro, e d’argento in finissima polvere. Una scomposizione totalmente analoga dovrebbe dunque effettuarsi nello strato d’ioduro sotto l’influenza de’ raggi lucidi che formano l’immagine della camera oscura: quindi, lo strato giallognolo perderebbe più o meno della sua naturale consistenza ove la luce percote con isvariata intensità. E ciò viene pienamente convalidato dall’esperienza, poiché avvolgendo intorno alla metà di una lamina dagherriana parecchie doppiature di un pannolino, esponendola poscia per alcuni minuti al Sole, e sciogliendo infine la sua fasciatura al bujo, tutta la porzione libera dello strato giallognolo è mobile, e togliesi facilmente collo stropicciamento delle mani; mentre la parte, che l’opacità dell’involto difendeva dall’azione dei raggi lucidi, non cede punto, e persiste. Presentemente, come si comporterà lo strato, già sottoposto all’azione della camera oscura, quando trovasi a contatto col vapor mercuriale? Ognun sa che l’argento è avidissimo del mercurio: l’attrazione, o affinità chimica, delle due sostanze si manifesterà quindi a traverso l’esilissimo strato d’ioduro; e questo opporrà una resistenza, più o meno efficace, alla riunione dei due metalli, secondo che la


1839-2019: centottant’anni sua coesione avrà subito un crollo, più o men forte, per l’azion decomponente dei raggi lucidi; dunque il mercurio traverserà in maggior copia lo strato d’ioduro nei punti su cui percotevano dianzi le tinte più chiare dell’immagine, e s’unirà tosto coll’argento sottostante; una porzione minore perverrà sulla lamina ne’ luoghi corrispondenti alle mezze tinte; e là, ove stendevansi le ombre decise, l’aderenza, e la coesione dello strato rimanendo intatte, il vapore metallico non potrà aprirsi la via, e la superficie dell’argento non riceverà un sol atomo di mercurio. Rimangono da spiegarsi gli effetti delle immersioni nella soluzione d’iposolfito di soda, e nell’acqua stillata, che non presentano in vero niuna difficoltà a concepirsi, essendo perfettamente nota la gran solubilità de’ solfiti ed iposolfiti nell’acqua, e le doppie decomposizioni de’ ioduri mediante le soluzioni de’ solfiti. Laonde per dar ragione in poche parole del modo con cui le due immersioni agiscono sulla lamina dagherriana, si dirà che il primo liquido scioglie, eleva del tutto lo strato più o meno smosso di ioduro, ed il secondo toglie ogni particella di solfito che potrebbe, per avventura, rimaner aderente alla lamina. Queste dilucidazioni vengono mirabilmente confermate dalle osservazioni dirette; poiché i quadri del Dagherre sottoposti ad un microscopio di grande energia si mostran tutti bianchi, ed interamente coperti di goccioline di mercurio nelle parti che rappresentano i lumi; i globetti si fan più radi nelle mezze tinte; e le ombre son lisce, e prive affatto di codeste escrescenze microscopiche. I disegni ottenuti col Dagherrotipo risulterebbero pertanto dal complesso di alcune porzioni più o meno imbiancate e granite dal mercurio, sul fondo piano, pulito, e lustro dell’argento. Per intendere appieno l’effetto del chiaroscuro in questi disegni basterà por mente al lavoro degli orefici sui vasi ed utensili d’argento i quali «mentre sono solamente bolliti nel bianchimento appariscon tutti candidi come la neve, ma se

in alcune parti si bruniscono, in quelle subito diventano oscuri. Il divenire oscuro non procede da altro che dall’essersi spianata una finissima grana» (1), totalmente analoga alle nostre goccioline di mercurio. Ma quantunque le bruniture si mostrino scure e fosche, deve però esservi un cotal punto di vista ove esse appariranno necessariamente assai più splendide del resto. E veramente, l’oscurità delle superficie terse e levigate procede dalla loro facoltà di riflettere in una sola direzione, e fuori della via ordinaria, quella stessa quantità di luce, che, nel caso delle superficie scabre e chiare, viene sparpagliata in ogni senso, e che arriva pertanto, in qualunque posizione, all’occhio dell’osservatore: quindi ponendosi nella direzione de’ raggi, ripercossi tutti in un fascio, dalle prime superficie, l’occhio dovrà ricevere una porzione di luce maggiore di quella che mandano le seconde. Ora questa inversione, facilissima a verificarsi sulle cose d’argenteria che presentano tratti lucidi in campo bianchito, succede anche nei disegni del Dagherre guardati sotto una certa obbliquità, ove i lumi sembrano foschi, e le ombre risplendono di una viva luce. Si è notato che certe minute particolarità di questi disegni fotografici, visibilissime per gli uomini, appajono spesso poco distinte alle Signore: ciò deriva evidentemente dal vestiario femminile, il quale essendo per lo più composto di stoffe chiare, si riverbera sugli specchietti che formano le ombre, e rende meno spiccante l’effetto de’ lumi: e però la miglior maniera di contemplare le produzioni del Dagherrotipo consisterebbe a disporle in guisa, che le sue parti lucide ripercotessero all’occhio dell’osservatore l’immagine di una superficie fosca, o nera: e l’esperienza ha pienamente confermata la verità di questa deduzione, fondata sulla costituzione speculare delle ombre dagherriane.

Conchiudiamo che le osservazioni microscopiche, l’analogia esistente tra i composti del cloro e dell’iodio, l’azion decomponente della luce sul cloruro d’argento, le attrazioni molecolari, e le leggi della riflessione, concordan tutte a convalidare la teorica del Donné, la quale, se non è peranchè rigorosamente provata dall’analisi, offre però tutti i caratteri di un ottimo raziocinio d’induzione e si mostra ben degna di essere onorevolmente iscritta negli annali della scienza. Ma si ripigli la parte storica del nostro racconto. Quando i pittori, i miniatori, gl’incisori, o qualunque altro maestro o intelligente delle arti del disegno, osservano per la prima volta i quadretti ottenuti col Dagherrotipo, essi rimangono come sbalorditi dalla perfezione di queste pitture naturali, e ammettono tutti, senza eccezione, essere quasi impossibile il figurarsi cosa più leggiadra, e più squisitamente condotta e finita in ogni sua parte. La precisione e la morbidezza de’ contorni, la dolcezza de’ lumi, la trasparenza delle ombre, la soavità delle sfumature, gli effetti di rilievo e di prospettiva, tutte in somma le qualità desiderabili in un disegno a chiaroscuro, vi si trovano congiunte senza nuocersi a vicenda, come avverrebbe immancabilmente nelle opere dell’arte, ove il finito dai particolari non s’acquista che a detrimento dell’effetto totale, la forza, a detrimento della delicatezza, il tondeggiare de’ contorni, a detrimento della loro visibilità, e via dicendo. Le dimensioni de’ corpi vi sono ridotte in miniatura con una esattezza per così dire matematica; e però le proporzioni relative delle varie parti che compongono il quadro vengono rappresentate con una precisione uguale, se non superiore, a quella dei più accurati disegni eseguiti col compasso o col pantografo.

(1) Queste parole, sì direttamente applicabili al nostro scopo, son quelle stesse di cui si valeva l’immortal Galileo, nella prima giornata de’ suoi dialoghi, per mostrare che se vi fossero mari o laghi nella Luna, essi dovrebbero trovarsi nelle macchie, e non già nelle parti lucide del disco, come alcuni lo supponevano.

Per mostrar poi sino a qual segno è spinta l’imitazione nei lavori fotografici del Dagherre, basterà dire che gli oggetti non ben discernibili ad occhio nudo, a cagione della lontananza, rimangono tali anche nella copia, per quanto vengano guardati da vicino. Ma si dirigga sullo sfondo una lente microscopica, e le cose appena indicate e confuse degli ultimi piani appariranno tosto chiare, precise, finite nelle menome loro particolarità, come succede per l’appunto in natura quando si mirano col conocchiale gli oggetti posti sui limiti dell’orizzonte. Tante perfezioni, riunite alla somma facilità e prontezza del metodo, hanno destato un entusiasmo universale. Dappertutto si ripetono le sperienze del Dagherrotipo, ognuno vorrebbe avere tra le mani questo prezioso strumento, ognuno bramerebbe impiegarlo, il più presto possibile, a ritrarre, non solo stampe, disegni, statue, monumenti, ma i quadri ad olio de’ nostri più celebri artisti, i più bei mazzi di fiori, e le vario-pinte farfalle. Invano si disse dell’Arago, dal Gay-Lussac che il Dagherrotipo non poteva servire a copiare gli oggetti colorati; moltissimi sperano tuttavia ottenere sulle lamine dagherriane, se non i vivi e svariati colori che ci presentano la natura ed il genio delle arti, almeno le loro traduzioni esatte in chiaroscuro. Anzi abbiam udito non pochi pittori proporsi di studiare queste copie con gran frutto rispetto alle intensità relative delle tinte, ed ai punti ove devon figurarsi nelle loro composizioni ad olio la massima e la minima illuminazione. Ci duole l’animo di non poter confermarli in codeste lusinghe; ma l’amore della verità ed il nostro assunto ne fanno un dovere di rischiarare, per quanto dipende da noi, le menti illuse, e mettere in evidenza i gravi errori ove potrebbero incorrere coloro, i quali nelle applicazioni fotografiche fossero guidati da false nozioni sulla potenza del metodo Dagherriano. Nò, gli oggetti colorati non possono rappresentarsi esattamente a chiaroscuro sulle lamine del Dagherrotipo; perché le copie riuscireb-

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1839-2019: centottant’anni bero spesso più fosche in quelle parti ove l’originale presenta un colorito più chiaro, e viceversa; di maniera che le ombre ed i lumi essendo spostati, gli effetti di rilievo verrebbero più o meno alterati, e talora compiutamente distrutti. Per rendere ognuno ben capace della verità di questa proposizione, immaginiamo che un osservatore, rinchiuso in una stanza buja, riceva sulla superficie di uno specchio un raggio solare trasmesso da un piccol foro, e lo faccia quindi rimbalzare orizzontalmente: egli è manifesto che l’immagine del foro apparirà bianca e rotonda sul muro opposto. Venga ora un secondo osservatore il quale interponga sul tratto lucido orizzontale, segnato dai corpuscoli vaganti per l’atmosfera, un prisma di vetro, in guisa che il raggio sia costretto a traversare le due facce d’uno de’ suoi angoli: l’immagine del foro si porterà tosto in una posizione più alta o più bassa, secondo che l’angolo del prisma sarà volto all’insù o all’ingiù, e nel tempo medesimo essa cambierà del tutto la propria apparenza, facendosi oltremodo allungata nel senso verticale, e pingendosi de’ più vivi colori, tutti fusi e sfumati per modo che si passa dall’uno all’altro con una gradazione insensibile: laonde le tinte, o colorazioni, vi esistono in numero immenso; ma Newton, al quale la scienza va debitrice di questo spettro, risultante dalla varia rifrazione e separazione degli elementi che compongono un raggio ordinario di luce, vi segnò, per maggior comodo, sette zone trasversali di varia estensione, le quali vennero indicate col colore predominante su ciascheduna di loro. I nomi e l’ordine de’ sette colori sono come segue: violaceo, indaco, turchino, verde, giallo, aranciato, e rosso: il rosso è inferiore quando l’apertura dell’angolo guarda verso l’emisfero situato sull’orizzonte, e superiore nel caso contrario. I fisici preferiscono la prima posizione perché i raggi si trovano allora tanto più elevati quant’è maggiore la loro refrangibilità, e si posson quindi denotare filosoficamente chiamando colori

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superiori il violaceo l’indaco e il turchino; centrali il verde e il giallo; inferiori l’aranciato e il rosso. Tutt’i punti dello spettro brillano di una luce purissima, se non che l’intensità non è manifestamente uguale dappertutto; anzi si trovano per questa parte delle differenze grandissime, poiché il giallo risplende con molta energia, e assai più dell’aranciato e del verde; e questa coppia di colori, più del turchino e del rosso: le parti estreme dell’indaco, e tutta l’estensione del violaceo, sono talmente languide, che si scorgono appena nella più profonda oscurità; le altre tinte, e segnatamente il giallo, l’aranciato, e il verde, sono vivacissime, e vedrebbonsi distintamente quand’anche tutte le finestre dell’ambiente venissero aperte. Ritenute ben presenti alla memoria queste relazioni d’energia tra i colori newtoniani, vediamo con qual efficacia ciaschedun d’essi opera la scomposizione delle sostanze fotografiche. Si pigli un foglio di carta imbevuto di cloruro d’argento, ed applicatolo contro il muro opposto al foro della stanza buja, precisamente ove si dipinge lo spettro newtoniano, facciasi in modo che le sette zone continuino per qualche tempo a percotere sugli stessi punti del foglio; condizione assai facile ad ottenersi fissando il prisma e la carta, e variando, in ragione delle successive posizioni che il sole occupa sull’orizzonte, l’indicazione dello specchio con due movimenti normali di vite, o meglio ancora, adoperando una di quelle macchine, dette eliostati, le quali imprimono al riflettore una rotazione contemporanea e contraria alla rivoluzion diurna del globo terrestre, in guisa che il raggio solare viene costantemente ripercosso nella medesima direzione. Disegnati sulla carta i contorni dello spettro e delle sette sue divisioni, s’abbandoni l’esperienza a se medesima, intercettando di tratto in tratto i raggi per osservare i cambiamenti che ognun d’essi produce sul cloruro d’argento. A poco a poco si vedrà sparire il bianco nello spazio che corre dal violaceo al giallo ed assumere la

solita tinta bruna; laddove il rimanente conserverà immacolato il suo natural candore. Dopo mezz’ora circa l’effetto progressivo sarà compiuto, e quindi inutile ogni ulteriore esposizione. Allora, rimosso il raggio solare, si esamini attentamente il foglio al lume di una candela in tutta quella parte disegnata a contorni e dianzi occupata dallo spettro: l’ultimo limite ove batteva il violaceo sarà nerissimo; di colà il color fosco s’andrà gradatamente sfumando negli spazj corrispondenti al violaceo, all’indaco, al turchino, al verde, sino all’origine dello spazio precedentemente illuminato dal giallo ove la sfumatura diverrà al tutto insensibile. Quanto alle zone ove percoteva il giallo l’aranciato e il rosso, non vi si scorgerà nessun indizio visibile d’annerimento: queste tre specie di raggi non esercitano dunque nessuna influenza sensibile sul cloruro d’argento; gli altri hanno un’azione più o meno energica, ma non già proporzionale alla loro intensità luminosa, poiché il chiarore va crescendo dal violaceo al giallo, mentre l’effetto chimico segue una progressione contraria. Fatti al tutto analoghi si riproducono sull’ioduro d’argento, che è più fortemente smosso e decomposto sul violaceo, e sempre meno, di mano in mano che si progredisce verso il rosso. Laonde una lamina iodurata del Dagherre esposta per qualche tempo alla irradiazione dello spettro solare, e quindi ai vapori di mercurio ed alle solite immersioni nelle soluzioni d’iposolfito di soda e d’acqua stillata, si mostra bianchissima nella parte più fosca, cioè nel violaceo, e diventa gradatamente men candida a misura che s’accosta al giallo, ove percoteva il massimo chiarore: l’aranciato e il rosso, assai più illuminati dell’indaco e del turchino, presentano appena qualche traccia d’imbianchimento. Poste queste nozioni, ognuno potrà dedurne la conseguenza relativa al Dagherrotipo. Gli oggetti pinti a più colori danno nella Camera oscura un’immagine perfettamente simile all’originale, e pertanto composta di varie tinte. Ora,

quantunque le irradiazioni tramandate dai corpi non siano così pure come quelle dello spettro solare, esse posseggono tutte le proprietà dei raggi semplici contenuti nella loro composizione. Quindi i lumi e le ombre, definitivamente impressi sulla lamina preparata, saranno più o meno decisi, non già in ragione della facoltà rischiarante di ogni punto dell’immagine, ma secondo la varia proporzione de’ raggi prismatici superiori o inferiori, che vi stan riuniti. Dunque la copia riprodurrà gli effetti di chiaroscuro dell’originale, in quei casi soltanto, ov’essi derivano da una tinta o colorazione, presso a poco, omogenea in ogni punto del quadro. Stando alle cognizioni sinora acquistate, par certamente improbabilissimo che si giunga ad ottenere la stessa azion chimica dai colori superiori ed inferiori dello spettro solare: tuttavia non intendiamo negare con ciò la possibilità d’imitare un giorno coi processi fotografici il chiaroscuro risultante da varie colorazioni riunite in un sol quadro; e fors’anche, gli stessi colori. Anzi dobbiamo far menzione di alcune ricerche d’Herscell, ed altri sperimentatori, dalle quali parrebbe risultare che il violaceo, il turchino, il verde han prodotto impressioni analoghe, su certe carte preparate; ma codesti sono puri embrioni, e non possiamo per alcun modo antivedere, se sarà dato alla scienza di trovare l’alimento conveniente al loro ulteriore sviluppo. E giacchè l’occasione ci ha indotti a parlare di cose, le quali non hanno immediata relazione sul processo e l’uso presente del Dagherrotipo, gioverà citare i lavori del Signor Talbot, che si occupa da qualche anno, in Inghilterra, di sperienze fotografiche. I suoi disegni, che molti avranno osservati presso il chiarissimo nostro collega Cav. Tenore, si producono immediatamente sulla carta e somigliano assai a quella maniera di pitture d’una sol tinta conosciute sotto il nome di acquarelli alla seppia. La sostanza che riceve l’impronta è il cloruro d’argento, al quale l’autore toglie, con alcuni liquidi, la sua proprietà fotografica subito dopo d’averlo


1839-2019: centottant’anni sottoposto all’influenza de’ raggi lucidi: altri chimici reagenti rendon chiare le parti imbrunite e viceversa; sicchè la copia presenta lo stesso chiaroscuro dell’originale, e si conserva sotto l’azione della luce diurna. Si è già veduto che le preparazioni di cloruro non sono gran fatto sensibili alle irradiazioni dotate di una debole energia: e però le carte del Talbot devono necessariamente rimanere per un tempo assai lungo entro la Camera oscura talché succedendo in questo intervallo un trasporto notabile delle ombre e dei lumi, le copie non possono acquistare quella nitidezza che si ottiene col Dagherrotipo, ove l’esposizione della lamina all’immagine non dura che pochi minuti: difatto i contorni di questi disegni, prodotti per l’azione della camera oscura, sono alquanto incerti e confusi. Le copie delle stampe fatte per sovrapposizione ed esposizione ai raggi solari riescono assai meglio. È poi quasi superfluo il soggiugnere che anche il processo del fisico inglese non vale pei quadri ad olio e per gli oggetti dipinti con vivi e svariati colori. Ma sebbene, al presente, il campo delle applicazioni fotografiche sia circoscritto entro certi limiti, la sua fertilità è però tale, da fornire ottimi ed abbondanti raccolti a chiunque imprenderà a coltivarlo con intelligenza, ed amore. Primieramente, le statue, i bassirilievi, i palazzi, le chiese, ed ogni sorta di monumenti antichi e moderni, si possono ritrarre per opera del Dagherrotipo con tanta perfezione e prontezza da render impotente e vano al confronto, il concorso dell’arte. Arago osserva giustamente, che se l’invenzione di questo mirabile apparecchio avesse preceduto di quarantadue anni l’epoca presente, mentre Napoleone sbarcava in Egitto con numerosi corpi di scienziati ed artisti, si possederebbero oggidì le immagini fedelissime di molti emblemi ed oggetti di antichità che la cupidigia degli Arabi, ed il vandalismo di certi viaggiatori tolsero per sempre alla contemplazione dei dotti. «Parecchi lustri ed intere legioni di disegnatori, dic’egli, sa-

rebbero necessari per copiare le miliaja e millioni di geroglifici che coprono i gran monumenti di Tebe, di Karnak, di Menfi. Col Dagherrotipo, un solo individuo potrebbe condurre a buon termine questo immenso lavoro». Aggiungasi che le ruine esistenti ne’ due emisferi si trovano spesso in luoghi deserti, malsani, circondati da nazioni inospiti che rendono pericolosa, e talvolta impossibile, una lunga permanenza: ed in tali circostanze, ognun vede di quanta importanza divenga un metodo, che permette di copiare, entro cinque o sei minuti, un Monumento vastissimo, pieno zeppo di colonne, d’iscrizioni, di ornati d’ogni genere e d’ogni dimensione, alcuni accessibili, altri nò, conservandoli tutti nelle debite loro proporzioni come se fossero disegnati con le più esatte misure! E dico cinque, o sei minuti, perché sappiamo dallo stesso Dagherre che le sue lamine iodurate e racchiuse entro recipienti impermeabili dalla luce, vi si mantengono parecchie ore, prima e dopo la loro esposizione nella camera oscura, senza niuno scapito delle circostanze favorevoli alla riuscita dell’operazione: cosicchè il viaggiatore potrà rimanere, là innanzi, quel solo brevissimo intervallo di tempo necessario ai diversi punti dell’immagine per esercitare contemporaneamente la magica loro influenza sulla tavola preparata. La prontezza e la facilità di ritrar le cose colla massima precisione, riuscirà indubitatamente utilissima in parecchie operazioni di architettura, di topografia, ed arte nautica, soprattutto quando verrà divulgato il processo di trasportare i disegni su carta trovato dal dottor Donné. Il geologo, a cui sono di tanta importanza il numero, l’ordine, l’inclinazione degli strati de’ monti, le forme, talora svariatissime, delle conchiglie fossili che vi sono contenute, la successione de’ terreni, la configurazione delle rocce, se ne servirà egli pure con gran vantaggio nelle sue esplorazioni scientifiche. Al naturalista gioveranno immensamente i mezzi fotografici a rilevare le figure e le proporzioni

esatte delle varie parti onde si compongono gli esseri organizzati, non tanto dal lato artistico, quanto dal lato anatomico e fisiologico; poiché colle arti del disegno si possono imitare i caratteri esterni, la forma, il portamento, l’espressione, e direi quasi la vitalità di una pianta e di un animale, assai meglio che per mezzo del Dagherrotipo, il quale vuole perfettamente immobile il modello: ma dove trovar un pittore capace di copiare esattamente le seimila diramazioni nervose scoperte da Lyonnet nel baco da seta? È poi tanta la sensibilità delle lamine Dagherriane che ritengono con sufficiente chiarezza le debolissime impressioni dipinte sulla loro superficie dalle immagini degli oggetti ingranditi sotto l’azione del microscopio composto; qualità, come ben si vede, preziosissima per lo studio di quell’immenso numero di esseri che sfuggono alla nostra contemplazione in virtù della loro prodigiosa esiguità. E quì cade in acconcio l’osservare, che l’ingegnosa scoperta del Dagherre tornerà utilissima alle scienze, non solamente col render più facili e precisi i disegni de’ corpi appartenenti ai tre regni della natura, ma col somministrare ai fisici un nuovo mezzo di misurare le irradiazioni chimiche della luce ed indagarne le ignote proprietà. Paragonando insieme le impressioni fotografiche ridotte alla medesima energia colla diversa lontananza, o coi metodi più esatti che la fisica possiede oggidì, si giugnerà, secondo ogni probabilità, a determinare lo splendor relativo che gli astri mandano sulla terra; almeno in quelle circostanze ove l’identità degli elementi che compongono le irradiazioni è manifesta, come pare si debba ammetterlo nel confronto tra il sole e la luna, i cui rapporti d’illuminazione furono sì diversamente valutati dagli astronomi. Gli Accademici di Parigi tentarono di avere i dati necessari alla soluzione del problema mediante il cloruro d’argento; ma questa sostanza esposta per un lungo intervallo di tempo al lume della luna raccolto da una lente d’ampie dimensioni, nell’epoca del

plenilunio e per un cielo purissimo, non soffrì la menoma alterazion di colore; laddove le lastre dagherriane s’imbiancano talmente per l’influenza della luce lunare, che invece di ricorrere alla concentrazione si crede poter giugnere, con alcune precauzioni, a copiare fotograficamente il disco ingrandito della Luna, rilevando per tal guisa l’esattissima configurazione delle varie sue parti, operazione che per essere condotta a termine coi soli mezzi astronomici, richiederebbe tanto lavoro da stancare la pazienza de’ più intrepidi osservatori. Ma per avere una prova evidente della nuova carriera di progresso che il Dagherrotipo apre alle scienze fisiche basterà citare alcune osservazioni dello stesso Dagherre. Nella medesima giornata, e sotto un cielo perfettamente sereno, il sole ad altezze eguali sull’orizzonte non possiede la stessa potenza chimica: le prime immagini antimeridiane si compiono in minor tempo delle ultime immagini pomeridiane, ed il Dagherrotipo opera alquanto più speditamente alle sette o alle otto del mattino, che alle cinque o alle quattro del dopo pranzo. In alcuni casi, non ben definiti sinora, si ottengono immagini più decise per un cielo leggiermente vaporoso, che sotto l’influenza del più bel sereno. Questi fatti sono certamente maravigliosi; ma non tanto contraddittorj ed inconcepibili come in su le prime sembreranno, probabilmente, a molti dei nostri uditori. Ritorniamo col pensiero sull’esperienza, ove un osservatore faceva percotere sopra un foglio di carta clorurata l’immagine dello spettro solare, e ve la teneva immobile durante una mezz’ora circa. Terminata l’esperienza, si trovava il foglio tutto candido nello spazio dianzi occupato dal rosso dall’aranciato e dal giallo, e bruno nel rimanente dello spettro: la tinta bruna, leggierissima nel verde, s’andava sempre più rinforzando accostandosi all’ultimo limite del violaceo, ove acquistava la sua massima energia. Giova soggiungere ora, che il cambiamento sofferto dal cloruro d’argento non finisce già con que-

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1839-2019: centottant’anni sta estremità dello spettro: ma continua nello spazio oscuro, decrescendo per gradi eguali al suo accrescimento; per modo, che l’intera estensione della porzione annerita è per metà sovrapposta ai colori dello spettro, e per metà sporgente dal limite superiore: d’onde la conseguenza, che oltre i raggi lucidi dotati della potenza chimica, l’irradiazione solare contiene una quantità notabile di raggi oscuri, invisibili, capaci essi pure di eccitare le chimiche reazioni. S’immagini che queste irradiazioni chimiche oscure traversino poi copiosamente l’atmosfera in alcune circostanze diverse da quelle che facilitano il passaggio degli efflussi luminosi, e si concepirà come certe ore e certe giornate siano più favorevoli alle operazioni del Dagherrotipo quantunque l’atmosfera conservi la stessa trasparenza, o mostri anche allora una minor permeabilità pei raggi lucidi.

Noi inclineremmo tanto più volentieri ad ammettere questa spiegazione, che una lunga serie d’osservazioni ci ha svelato dei fenomeni dello stesso genere nella parte opposta dello spettro, relativamente alle irradiazioni calorifiche. È ormai noto a tutti che il sal gemma è il solo corpo che trasmetta ugualmente ed immediatamente ogni specie di calor raggiante, e quindi il solo che debba impiegarsi nell’analisi del calor solare. Immaginiamo pertanto uno spettro prodotto con un prisma di questa sostanza, e supponiamo che si vada esplorando col termometro la distribuzione del calore nelle varie sue parti - Introducendo il bulbo dello strumento nello spazio che precede il violaceo, vale a dire, nello spazio occupato dai raggi oscuri capaci d’azion chimica, non si osserverà nessun movimento nell’estremità della colonna fluida, una debole

(1) Per quanto strana possa sembrare questa conseguenza dei fatti osservati, essa non è punto contraria alle proprietà ora conosciute dei corpi relativamente al calorico raggiante. Anzi, siccome l’esperienza ha posto fuor d’ogni dubbio che le irradiazioni calorifiche si trasmettono per via immediata ed istantanea a traverso alcune sostanze opache, laddove altri corpi diafani le intercettano

elevazione si manifesterà tosto che il bulbo entra nella zona violacea: l’effetto calorifico diverrà gradatamente maggiore di mano in mano che si procede verso il rosso, e seguiterà ancora ad aumentare passata l’ultima estremità colorata dello spettro, sino ad una distanza uguale, ed opposta, a quella del verde; per decrescer poscia di bel nuovo ed estinguersi, alquanto più lontano. Laonde, lo spazio riscaldato non è tutto contenuto nello spazio occupato dai colori, ed una certa sua porzione, equivalente alla metà circa dello spettro, sporge dal limite inferiore. E però lo spettro newtoniano presenta oltre il limite rosso un efflusso calorifico oscuro totalmente analogo all’efflusso chimico scevro di luce che si manifesta al di là del limite violaceo. È facile il prevedere che questa irradiazione calorifica oscura non esercita nessuna azione sulle so-

stanze fotografiche: infatti il cloruro si conserva intatto, non solamente nei colori inferiori, ma in tutto lo spazio seguente. Ora, ripetendo l’analisi del calor solare in diversi giorni, sotto un cielo perfettamente limpido e sereno, quando i colori prismatici conservano le stesse precise relazioni d’intensità, si trova che il massimo di temperatura non è sempre nella medesima posizione, ma ora più, ora meno lontano dall’estremità visibile dello spettro. I raggi calorifici privi di luce pervengon dunque talora sulla superficie terrestre in copia più o men grande, secondo lo stato di certe ignote vicende atmosferiche, le quali non esercitano niuna influenza sulla trasmissione de’ raggi lucidi (1). Perché un fenomeno consimile non potrebbe riprodursi relativamente alle irradiazioni oscure dotate della potenza chimica? ❖

compiutamente, ognun vede che il passaggio più o meno abbondante de’ raggi solari per due costituzioni ugualmente limpide e serene dell’atmosfera, non è che un caso particolare di quella medesima legge generale per cui la materia si mostra, talora più, talora meno permeabile dall’uno o dall’altro de’ due agenti, ai quali dobbiamo i fenomeni del calorico e della luce.



Cinema

di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

PERCORSO DI GUERRA

S

Soltanto in casellario, senza eccessivi approfondimenti dei singoli titoli presi in esame per la propria trasversalità fotografica, materia istituzionale di questo appuntamento redazionale mensile. Ovvero, trattiamo di macchine fotografiche e non di vicende narrate, se non per il minimo indispensabile alla definizione dei film, che non sono certamente tutti quelli che dovrebbero/potrebbero essere. Al solito, anticipiamo gli stupidi abituali, che stanno lì/qui a puntualizzare sulla base di una loro (eventuale) modesta conoscenza della materia e che si esprimono soltanto in soddisfacimento della propria stoltezza e non in alcuna forma di possibile dialogo e scambio di opinioni (tanti ne conosciamo, uno sopra tutti). Così, per dissipare ogni dubbio, oltre che per certificare che sappiamo, e, casomai, selezioniamo, conosciamo la Leica tra le mani di Donald Sutherland, nei panni dell’infido Faber, traditore e spia, in La cruna dell’ago (Eye of the Needle), di Richard Marquand, del 1981, sceneggiato dall’omonimo romanzo di Ken Follett. Dunque, avviamo un giro cinematografico attraverso le guerre che hanno insanguinato il mondo, osservandole ancora dal profilo “fotografico”. In Nicaragua, nel 1979 (evocato), Russell Price, reporter da prima linea nei giorni caldi della rivoluzione sandinista (visualizzato da un convincente Nick Nolte), scatta sempre con l’immancabile reflex Nikon F2, completa di motore per l’avanzamento rapido della pellicola dopo lo scatto. Ma, in un frangente sentimentale, quando fotografa Claire che dorme (l’attrice Joanna Cassidy), spunta una Leica M4: fatale in tale situazione di luminosità precaria, della quale il fotografo vuole conservare l’atmosfera; e la stessa Leica M4 nera torna in altri momenti della storia. Siamo in Sotto tiro (Under Fire, regia di Roger Spottiswoode; 1983), film di guerriglia che fa gruppo/genere omogeneo con i coevi, circa, Salvador (di Oliver Stone; 1986), Urla del silenzio (The Killing Fields, di Roland Joffé; 1985) e Un anno vissuto pericolosamente (The Year of Living Dangerously,

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Oltre la propria consistenza cinematografica e sociale, il film Urla del silenzio, di Roland Joffé ( The Killing Fields; 1985), che narra la tragica e terribile vicenda degli stermini, nella Cambogia dei Khmer Rossi di Pol Pot, presenta due fotografi, interpretati da John Malkovich e Julian Sands. Più il protagonista, il giornalista Sydney H. Schanberg (Sam Waterston), i cui reportage sono stati sceneggiati per il film.

di Peter Weir; 1982), rispettivamente ambientati tra le pieghe della guerra civile centro americana (1980), nella Cambogia dei Khmer Rossi (1975) e nell’Indonesia di Sukarno (1965). Il dominio Nikon, incontrastata reflex delle guerre che hanno insanguinato il mondo nei decenni scorsi, e di quelle che ancora perdurano ai nostri giorni (quando è stata affiancata anche da altri marchi), è cinematograficamente sottolineato in tutti questi film, le cui scenografie sono fedeli alle realtà narrate, quantomeno dal punto di vista fotografico (sul resto non abbiamo competenza per esprimerci). Pertanto, reflex Nikon nere per il reporter Alan “Al” Rockoff di Urla del silenzio (l’attore John Malkovich), dove si segnalano anche la Nikon F2 cromata di Sydney H. Schanberg, del The

New York Times (l’attore Sam Waterston, il procuratore Jack McCoy della prolungata serie televisiva Law & Order e spin-off) e una inconsueta Asahi Pentax Spotmatic nera, al collo di Jon Swain (l’attore Julian Sands). [In complemento, ricordiamo la presenza, nel film, del fotogiornalista cambogiano Dith Pran, interpretato da Haing S. Ngor (premio Oscar, attore non protagonista). Sottolineiamo che Dith Pran è il fotogiornalista alle cui immagini si devono le testimonianze più importanti del genocidio perpetrato dai Khmer Rossi in Cambogia. È mancato domenica 30 marzo 2008, all’età di sessantacinque anni. La sua storia è raccontata nel best seller The Death and Life of Dith Pran, del 1980, del giornalista Sydney H. Schanberg -appena evocato-, che ha ispirato il film di


Cinema Roland Joffé, del 1984 (FOTOgraphia, maggio 2008)]. A completamento, oltre l’Oscar appena ricordato, Urla del silenzio ne ha conquistati altri due: per la fotografia e il montaggio. Nikon e tanta cinepresa anche per il fotografo cinese nano Billy Kwan (interpretato da una attrice donna, Linda Hunt), che accompagna il giornalista australiano Guy Hamilton (Mel Gibson) in Un anno vissuto pericolosamente, che, tra l’altro, mette perfettamente in scena la coerente combinazione giornalistica di parola e immagine. Invece, in Salvador, oltre una immancabile Nikon (con dicitura mascherata/occultata), il reporter Richard Boyle (l’attore James Woods) usa una improbabile reflex Canon F-1, che non dovrebbe mai essere stata realmente usata nell’ambito del fotoreportage di guerra di quei tempi. Per inciso, un’altra reflex Canon compare anche tra le mani del dottor Harvey Mandrake di Ogni maledetta domenica (Any Given Sunday; 1999); stesso attore, James Woods, e medesima regia, Oliver Stone: dobbiamo ipotizzare un contratto privato di uno dei due o di entrambi con Canon? Non ci interessa, e soltanto sottolineiamo che un altro fotografo visualizzato in Salvador, John Cassady (interpretato da John Savage), usa reflex Nikon. Ancora Nikon e Vietnam in altre tre occasioni cinematografiche. Uno: è Nikon F nella cruenta battaglia evocata in We Were Soldiers, del regista Randall Wallace (In Italia, con l’orrida aggiunta, in titolo, di Fino all’ultimo uomo; 2002), con il soldato-fotografo Joe Galloway (Barry Pepper), frastornato tra il suo compito istituzionale e la sensazione di dover lasciar perdere la macchina fotografica, per imbracciare un’arma. Due: è ancora Nikon F tra le mani del fotogiornalista che fa capolino in Apocalypse Now (di Francis Ford Coppola; 1979 / Oscar a Vittorio Storaro per la fotografia e a Walter Murch, Mark Berger, Richard Beggs e Nat Boxer per il miglior sonoro), interpretato da Dennis Hopper, attore che -nel proprio privato- ha vantato una consistente personalità di fotografo creativo di buon successo [FOTOgraphia, dicembre 2009]. Tre: è inviolabilmente Nikon F in Full Metal Jacket, di Stanley Kubrick, del 1987, nel quale il soldato-fotografo Joker, o fotografo militare (qual è la differenza?), è interpretato

Guerra in Vietnam: Full Metal Jacket (1987), We Were Soldiers (2002) e Apocalypse Now (1979). Tutto Nikon. (a sinistra) Film di guerriglia che fanno gruppo/genere con Urla del silenzio (pagina accanto): Sotto tiro (1983), Un anno vissuto pericolosamente (1982) e Salvador (1986). (pagina accanto) Il film Urla del silenzio si basa sulla vita del fotogiornalista Dith Pran, mancato nel 2008 [FOTOgraphia, maggio 2008].

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dall’attore Matthew Modine, che nella vita reale è -a propria volta- appassionato di fotografia (alcuni suoi fuori-scena del film sono stati impaginati nella monografia Stanley Kubrick. Una vita per immagini; Rizzoli libri illustrati, 2003 [FOTOgraphia, aprile 2004]). In onore di date e cronologie, una Nikon F motorizzata scandisce i tempi fotogiornalistici che accompagnano il racconto del golpe militare dei colonnelli greci, culminato nel colpo di stato del 21 aprile 1967: Z, l’orgia del potere (Z, di Costa-Gavras; 1969 / Oscar per il miglior film straniero e per il montaggio). La Nikon F è tra le mani del fotoreporter che sostiene e accompagna le indagini del magistrato sull’oscuro assassinio di un deputato: in ordine, gli attori Jacques Perrin, Jean-Louis Trintignant e Yves Montand.

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Per quanto ci riguarda direttamente (pardon!), nel film Z, l’orgia del potere, di Costa-Gavras, il golpe dei colonnelli greci, del 21 aprile 1967, è scandito al ritmo di Nikon F motorizzata... da cui il poster di presentazione e promozione. (dall’alto, in senso orario): da Patton, generale d’acciaio (1970; George C. Scott), Spy Game (2001; Brad Pitt) e L’anno del terrore (1991; Sharon Stone).

Successivamente, al pari di Russell Price / Nick Nolte di Sotto tiro, con il quale abbiamo avviato questo concentrato “percorso di guerra”, anche l’agente della Cia Tom Bishop, che in Libano si nasconde dietro la facciata di fotoreporter inviato, si manifesta con la combinazione di reflex Nikon e apparecchio a telemetro Leica: ci riferiamo a Spy Game, di Tony Scott (2001), e all’attore Brad Pitt, del quale si conosce l’autentica passione fotografica, per sua dichiarazione esplicita spesso esercitata proprio con la Leica a telemetro. Chiudiamo con due ulteriori segnalazioni abbinabili al nostro percorso odierno. Per quanto l’appena incontrato colpo di stato dei colonnelli greci (21 aprile 1967) affianchi l’attuale riferimento principale alla guerra, in quanto tale, il parallelo ulteriore con gli anni di

piombo italiani non è poi troppo fuori posto: interpretata da Sharon Stone, al culmine dei definiti e storicizzati “Anni di piombo”, la fotogiornalista statunitense Alison King fotografa le manifestazioni italiane del 1977-1978 con Nikon F2: in L’anno del terrore, di John Frankenheimer (Year of the Gun; 1991). Infine, come non ricordare la macchina fotografica al collo del generale George S. Patton Jr (interpretato dall’attore George C. Scott, premio Oscar), in propria raffinata borsa-pronto in cuoio (Leica? Contax? altro?): il film è Patton, generale d’acciaio (Patton; 1970), di Franklin J. Schaffner. Da una parte, ci ricolleghiamo al cameo di Donald Sutherland, considerato in avvio. Per altro, chiudiamo in guerra autentica e conclamata, la Seconda mondiale. Percorso di guerra! ❖



QUEL RITO DELLA

«L’acqua che tocchi de’ fiumi è l’ultima di quella che andò e la prima di quella che viene. Così il tempo presente» Leonardo da Vinci (Pensieri, 35 / Tr. 34 v)


FOTOGRAFIA Il progetto fotografico Così il tempo presente, di Altin Manaf e Andreas Ikonomu, è stato svolto in doppio passo convergente e consequenziale: narrativo e documentativo di luoghi, spazi e richiami/riferimenti storici radicati nel Passato; quindi, interpretazione commossa e partecipe del presente, attraverso la vita della comunità monastica che risiede nell’Abbazia di Chiaravalle, al confine sud di Milano. E di queste fotografie ci occupiamo, qui e oggi


di Maurizio Rebuzzini onfessione d’obbligo. Confessione dovuta. La prima volta che abbiamo avvicinato le fotografie del progetto Così il tempo presente, ideato e realizzato da Altin Manaf e Andreas Ikonomu -rispettivamente di origine turca e greca, in Italia da decadi-, la mente ha richiamato un passo dal Vangelo secondo Matteo: 6, 19-21. Eccolo: «Non accumulate per voi tesori sulla Terra, dove tarma e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulate invece per voi tesori in Cielo, dove né tarma né ruggine consumano e dove ladri non scassinano e non rubano. Perché, dove c’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore».

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In un certo modo, nel caso dei due valenti autori, il percorso è inverso, per quanto non opposto: là dove c’è il loro cuore, là c’è anche il loro tesoro. Un tesoro prezioso, non autoreferenziale, né autoconcluso, distribuito a piene mani e con amore. Il passo espressivo di Così il tempo presente, di Altin Manaf e Andreas Ikonomu, scorre e si manifesta con una cadenza quantomeno doppia: da una parte, registriamo la narrazione documentativa di luoghi, spazi e richiami/riferimenti storici; dall’altra, incontriamo l’interpretazione commossa e partecipe del presente, attraverso la vita della comunità che risiede nell’Abbazia di Chiaravalle, complesso monastico cistercense nel Parco agricolo al confine sud di Milano, tra i quartieri Vigentino e Rogoredo. E di queste fotografie ci occupiamo, oggi e qui.


Come tutti i fotografi, artisti che esprimono la propria espressività da centottanta anni esatti (da quel fatidico 1839, nel quale è cominciato tutto [FOTOgraphia, febbraio 2019 e, ancora, su questo numero, da pagina otto e da pagina quarantasei]), anche Altin Manaf e Andreas Ikonomu gestiscono e applicano un linguaggio mirato, stabilito da proprie linee demarcatorie che ne delineano la personalità espressiva. Nello specifico, controllano, fino a dominarlo perfettamente, il lessico peculiare: per far comprendere il proprio racconto indirizzano la composizione, in modo da guidare le emozioni dell’osservatore, preso per mano e accompagnato nel cammino. Detta meglio, forse, i due fotografi individuano punti di vista, selezionano inquadrature e distribuiscono piani di attenzione.

Noi, osservatori di questa loro strabiliante azione, veniamo coinvolti in prima persona, fino a diventarne complici. Domanda d’obbligo: può la fotografia, nella semplicità della propria veste e complessità del proprio linguaggio, arrivare a tanto? Certamente! Soprattutto in questo caso, nel quale l’amore si manifesta in tutta la propria avvolgente ricchezza. Amore della mente, amore del cuore, amore fisico che trasuda da un omaggio visivo che scorre lungo un tragitto consequenziale. A un tempo, l’Abbazia di Chiaravalle -soggetto dichiarato e offerto- è pretesto e fine. A un tempo, il soggetto conta e non conta. A un tempo, la Fotografia svolge il proprio meraviglioso compito: quello di sollecitare il cuore che batte nel petto di ciascuno di noi. (continua a pagina 28)

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(continua da pagina 25) Le atmosfere di Così il tempo presente si basano sull’intuito e l’applicazione “fotografica” degli autori Altin Manaf e Andreas Ikonomu. In prosecuzione ideale, invitano ciascuno di noi a comporre la propria Abbazia... là, dove e come il cuore rivela che l’anima è tutto ciò che noi siamo. Nel momento in cui questo avviene, la Fotografia raggiunge il proprio scopo. Non la natura che si fa di sé medesima pittrice, verso la quale ambivano i pionieri, ma la Vita che si rivela tra le pieghe della propria raffigurazione. Chiusura in citazione, per completare l’incipit originario, altrettanto in riferimento e richiamo. Da Il Piccolo Principe, di Antoine de Saint-Exupéry: «Che bisogna fare?» domandò il piccolo

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principe. / «Bisogna essere molto pazienti», rispose la volpe. «In principio tu ti sederai un po’ lontano da me, così, nell’erba. Io ti guarderò con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino...» / Il piccolo principe ritornò l’indomani. / «Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora», disse la volpe. «Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore... Ci vogliono i riti». Appunto, i riti. ❖



QUESTA TERRA Attribuite al cosmonauta sovietico Jurij Gagarin, primo Uomo nello Spazio, il 12 aprile 1961, almeno due sue rilevazioni in forma di sorpresa entusiastica dovrebbero essere nostre parole d’ordine; dal Cuore, dovrebbero guidare le nostre azioni e intenzioni: «Da quassù, la Terra è bellissima, senza frontiere né confini» e «Girando attorno alla Terra, nella navicella, ho


È LA NOSTRA TERRA visto quanto è bello il nostro Pianeta». Eccoci qui, con #EverydayClimateChange, progetto nato da un’idea del fotografo James Whitlow Delano, nel 2015. È un work-in-progress che si arricchisce costantemente di nuovi contributi, ed è condotto da oltre trenta fotografi provenienti da sei continenti, che lavorano nei sette angoli del Pianeta. Parole dalla mostra


(doppia pagina precedente) Esther Horvath: Oceano Artico, 2015. Il ghiaccio dell’Oceano Artico funziona come un condizionatore per l’intero Pianeta, regolando gli andamenti del clima. Più i ghiacci in questa regione si sciolgono e più le condizioni meteorologiche diventano imprevedibili in tutto il mondo.

James Whitlow Delano: Il fronte della tempesta causata da tre tifoni che hanno investito la megalopoli di Tokyo (Shinjuku, Tokyo, Giappone, 2015). Gli scienziati sostengono che questo genere di gravi eventi climatici saranno più frequenti nell’era del Riscaldamento globale.

di Lello Piazza

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artecipare all’inaugurazione di una mostra rappresenta sempre un rischio. Almeno per me, il rischio è soprattutto la noia [e l’imbarazzo] di sentire per l’ennesima volta un curatore che cerca di sovrastare, con la propria invadenza, il lavoro esposto. Il rischio è anche la delusione che nasce dall’assenza di domande alla fine della dotta presentazione del curatore. Forse, il pubblico è intimorito o, forse (ma spero che non sia così), al pubblico non interessa il lavoro esposto, e frequenta solo per partecipare all’inevitabile buffet. Alle recenti tre mostre che ho presentato, con la preziosa collaborazione di Livia Corbò e Marta Cannoni di Photo Op [riquadro a pagina 34], abbiamo realizzato introduzioni a tre voci. Intanto, per non dare troppa importanza al sottoscritto (a me stesso); poi, perché il lavoro fondamentale è stato svolto da loro, senza la cui preziosa opera e azione le stesse tre mostre non avrebbero potuto essere allestite. Senza di me, certamente sì. Per presentarvi la più recente mostra di Photo Op, qui utilizziamo la quasi fedele trascrizione di quanto è stato considerato da noi tre il giorno dell’inaugurazione dello scorso sei settembre. Perciò, il testo di questo articolo si offre e propone come lodevole pièce teatrale “recitata” da personaggi che scandiscono, uno a uno, uno dopo l’altro, i propri interventi. Comunque, occorre almeno una breve premessa. Dedicata a #EverydayClimateChange, corposo lavoro in itinere sullo stato ambientale del nostro Pianeta, la mostra è stata inaugurata venerdì sei settembre presso il Centro Culturale Giuseppe Verdi, in piazza XXV aprile, a Segrate, in provincia di Milano, nel bell’edificio cilindrico completato, nel 1966, su progetto dagli architetti Michele Achilli e Guido Canella [riquadro a pagina 35].

IN MOSTRA A SEGRATE Peter Mather: Volpe artica in una grotta di ghiaccio nei pressi del Kluane National Park and Reserve (Canada, 2017). Una volpe artica si lecca i baffi dopo un delizioso pasto a base di zampe di caribù. Queste bellissime creature sono spazzini che spesso vivono degli avanzi lasciati dagli orsi polari e dai lupi. Non sono particolarmente veloci e fanno affidamento sul mimetismo per nascondersi da altri predatori, come lupi e volpi rosse. A causa dell’aumento della temperatura nelle regioni a nord del Pianeta, la volpe rossa ha ampliato il raggio di azione di centinaia di chilometri verso nord, minacciando la sopravvivenza della volpe artica.

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Dopo i ringraziamenti di rito al Comune, al sindaco Paolo Micheli e all’assessore Gianluca Poldi, forte sostenitore dell’iniziativa, inizia la presentazione vera e propria. Marta Cannoni. Il progetto si chiama #EverydayClimateChange (hashtag Every day Climate Change, o ECC), ed è nato da un’idea del fotografo James Whitlow Delano, nel 2015. Si tratta di un work-in-progress che si arricchisce costantemente di nuovi contributi, ed è condotto da oltre trenta fotografi provenienti da sei continenti, che lavorano nei sette angoli del Pianeta. James Whitlow Delano (che, mutuando il termine da una autorevole corrente fotografico-culturale europea, mi piacerebbe definire fotografo umanista [Impero. Impressioni dalla Cina, in FOTOgraphia, del settembre 2005] trae ispirazione da #Everyday [riquadro a pagina 34], e consiste nel postare sulla piattaforma Instagram, ogni giorno (every day), immagini che documentino lo stato del Pianeta dal punto di vista climatico e dell’inquinamento ambientale. Il lavoro si arricchisce costantemente. ECC si è anche trasformato in mostra. È stata esposta al Photoville, di New York, al Noorderlicht Photofestival, di Groningen (Olanda), all’Obscura Festival of Photography, di Penang (Malesia), e in altre sedi espositive, tra le quali -in Italia-, a Verona e Orbetello (Grosseto).

Lello Piazza. La mia prima riflessione riguarda il mio primo viaggio su Instagram. Non c’ero mai stato (proprio così). Dopo aver capito di cosa si tratta, apro il feed di #EverydayClimateChange; poi, apro un post, uno dei duemilaottocento sessantuno (2861) del feed. Confesso che la prima riflessione che mi viene in mente è di congratularmi con James Whitlow Delano: ha centotrentanovemila follower (139.000). Certo, non tanti quanti Chiara Ferragni ([di chi si tratta?] tredici milioni), ma centotrentanovemila non sono certo bruscolini. Qui, in metafora, racconto per la milionesima volta l’aneddoto del falco pellegrino, che più trova da mangiare meno mangia. La vicenda si svolge così: il falco piomba dal cielo, a circa trecento chilometri orari, su un branchetto/banchetto di allodole, o piccioni, o storni. Più è numeroso il branchetto, minore è la probabilità che il falco riesca a catturare una preda. La quantità lo confonde, lo rende incerto su cosa acchiappare e, prendo questo, prendo quello, finisce per attraversare il branchetto senza catturare nulla. La morale, la metafora? È che sul feed ci sono talmente tante fotografie che non riesco ad apprezzarne neppure una, come un falco confuso dalla quantità. Aggiungo che, per fortuna, qualcuno ha eseguito per me (e per il pubblico) una selezione di settantasei fotografie, quelle in mostra, e -finalmente- posso capire meglio questo lavoro. Ciononostante, aggiungo che il feed ha un valore fondamentale, perché mette molte intelligenze al lavoro sul problema dell’ambiente. E il risultato può crescere in importanza e qualità ogni giorno. Livia Corbò. Da qui, invito tutti coloro che seguono il mondo delle immagini su Instagram a diventare follower, seguendo il feed ECC. In questo modo, si rimane aggiornati giornalmente sulle ricerche di professionisti che, attraverso le proprie fotografie, accompagnate da didascalie dettagliate, raccontano i fenomeni collegati al cambiamento climatico in tutto il mondo. Per esempio, in questo settembre, Victor Moriyama ha documentato gli incendi a Candeias do Jamari, vicino a Porto Velho, capitale dello Stato di Rondônia, in Brasile, specificando -nelle didascalie delle immagini- che si è trattato di fotografie scattate il mese prima, in agosto. Sullo stesso tema, Marcio Pimenta ha postato ritratti della brigata di pompieri indigeni della tribù degli Xerente, che svolgono un ruolo chiave all’interno dell’Istituto brasiliano dell’ambiente e delle risorse naturali rinnovabili (Instituto Brasileiro do Meio Ambiente e dos Recursos Naturais Renováveis / Ibama). Lello Piazza. La mia seconda riflessione riguarda la Fotografia, musa più multiforme di un camaleonte, che si declina in espressioni infinite. Le immagini in mostra non sono destinate al mercato del collezionismo, non sono opere d’arte. Nessuno se ne appenderebbe una in casa come farebbe con un de Chirico (in riferimento alla Fontana metafisica che c’è appena fuori questo splendido edificio). Qualcuna può anche avere un valore estetico, ma il loro senso è giornalistico. Lo annoto perché in una competizione fotografica che si è imposta al mondo (Sony World Photography Awards, che -per importanza- forse hanno superato anche il World Press Photo) si insiste a definire “artisti” i fotografi.


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Marta Cannoni e Livia Corbò rappresentano il cuore e l’anima di Photo Op. Marta Cannoni si occupa soprattutto di coordinamento e comunicazione di eventi culturali, progetti in ambito artistico e organizzazione di mostre, in Italia e all’estero. Livia Corbò, giornalista, vanta una esperienza decennale di photo editor in diverse testate, arricchita da incarichi in agenzie fotografiche e gallerie e come manager di fotografi. Photo Op, la loro creatura, si dedica alla ricerca e all’incremento di opportunità artistiche, istituzionali e commerciali legate alla Fotografia. Tra gli obiettivi e le attività di Photo Op (www.photoop.it), la creazione di esposizioni personali e collettive che vertano su progetti specifici o diano una visione d’insieme del lavoro di un autore: ufficio stampa, consulenza, redazione di testi, photo editing, ideazione, curatela e ricerca di sedi espositive.

#EVERYDAYCLIMATECHANGE

Da qualche anno l’hashtag “Everyday” sta fiorendo su Instagram. Nel 2012, l’iniziativa è stata lanciata dai fotografi Austin Merrill e Peter DiCampo, con il progetto #EverydayAfrica. Da allora, #EverydayAfrica è diventato un collettivo che riunisce diversi fotografi il cui lavoro mira a decostruire l’immagine negativa che alcuni potrebbero avere nei confronti del Continente. Questa iniziativa ha ispirato a James Whitlow Delano il suo #EverydayClimateChange. Partendo dall’assunto che la Fotografia esprime al meglio la propria portata quando può comunicare significati profondi eternando effetti transitori di fenomeni importanti, EverydayClimateChange presenta prove visive che il cambiamento climatico non si verifica solamente in luoghi lontani ed estremi e regioni remote, ma sta accadendo ovunque, sul Pianeta. Nessun altro medium è in grado di rivelare verità innegabili come una macchina fotografica tra le mani di chi ne comprende il suo alto potenziale visivo e percettivo. Come sosteneva la fotografa statunitense Berenice Abbott [1898-1991; i cui meriti non si limitano alla propria sola azione (in FOTOgraphia, del luglio 2005)], «La fotografia aiuta le persone a vedere» [«Photography helps people to see», in Berenice Abbott: An American Matter; ASMP Bulletin, ottobre 1989; ma anche: «What the human eye observes casually and incuriously, the eye of the camera notes with relentless fidelity» / «Ciò che l’occhio umano osserva casualmente e incautamente, l’occhio della macchina fotografica osserva con fedeltà implacabile»]. Per alcuni, il Cambiamento Climatico (Global Warming / Riscaldamento globale) è un’idea astratta; i gas serra sono invisibili e rendono il fenomeno facile da ignorare, ma non tutti possono permettersi il lusso di trascurarlo. Le ripercussioni sono già evidenti, ne sono un esempio la siccità (comune in molte aree dell’Africa, ma anche in regioni occidentali, come la California, dove, nel 2017, è stato revocato lo stato di emergenza che perdurava da cinque anni), gli incendi boschivi e le alluvioni sempre più frequenti. È solo negli ultimi dieci anni che i media hanno iniziato a trattare diffusamente l’emergenza climatica. Nel 2007, il documentario Una scomoda verità, del politico e ambientalista statunitense Al Gore [Albert Arnold “Al” Gore Jr], ha avuto il merito di richiamare l’attenzione internazionale su questo tema; e nel 2009, a Copenaghen, si è tenuta una prima Conferenza dell’Onu sui cambiamenti climatici. Ma, attenzione, una nicchia della comunità scientifica aveva iniziato a lanciare allarmi in questa direzione già alla fine degli anni Cinquanta. Nel 1957, l’oceanografo statunitense Roger Revelle ipotizzò pubblicamente che nel Ventunesimo secolo (questo nostro!) gli effetti del gas serra avrebbero avuto conseguenze notevoli sul clima globale, preannunciando molte della calamità che hanno colpito il nostro Pianeta negli ultimi decenni. Notando che il clima era già cambiato bruscamente in passato, probabilmente determinando la rovina di intere civiltà, azzardò la previsione che, un giorno, la California del Sud e il Texas si sarebbero trasformati in veri e propri deserti. [E qui, e ancora, rimandiamo alle intuizioni e previsioni analoghe di R. Buckminster Fuller riunite nel suo Manuale operativo per Nave Spaziale Terra, in edizione italiana Il Saggiatore, richiamate in chiusura dell’odierno intervento, in ripresa da quanto già riportato in FOTOgraphia, dello scorso ottobre].

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Nel 1963, si tenne una conferenza cruciale su Le Implicazioni dell’Aumento del Contenuto di Diossido di Carbonio nell’Atmosfera, che -per la prima volta- registrò la partecipazione congiunta di esperti del clima e del diossido di carbonio insieme con studiosi della fauna ittica e di agricoltura. La conclusione è stata una relazione sottoscritta all’unanimità che ha messo in guardia rispetto ai “Cambiamenti (molto probabilmente negativi) a cui la Terra sarebbe andata incontro” se l’utilizzo di combustibili fossili fosse proseguito. Data l’impossibilità, per l’epoca, di avvallare queste teorie con dati accurati, furono considerate più attinenti alla sfera della fantascienza che alla ricerca scientifica. Finalmente, negli anni Ottanta e Novanta, l’evoluzione della tecnologia permise la registrazione dell’esatta quantità di biossido di carbonio (CO2) nell’atmosfera, e si iniziò a credere alla correlazione con l’aumento delle temperature. Nel 2005, la Conferenza di Parigi sui Cambiamenti Climatici ha elevato questa emergenza in primo piano nell’agenda politica internazionale. [Speriamo bene, anche se siamo diffidenti]. Il 20 agosto 2018, la sedicenne Greta Thunberg ha organizzato un’azione di protesta davanti alla sede del parlamento svedese. Quel venerdì mattina, ha manifestato con un cartello che recitava “Skolstrejk för limate” (Sciopero da scuola per il clima [FOTOgraphia, ottobre 2019]). L’azione isolata di questa ragazza ha dato vita al movimento internazionale Fridays for Future, che, in questi mesi, ha registrato la partecipazione di migliaia di persone, alcune giovanissime, in tutto il mondo. Si stima che lo scorso quindici marzo, in centododici paesi del mondo, un milione e quattrocentomila studenti abbiano risposto al suo appello di manifestare [ancora, in FOTOgraphia, dello scorso ottobre]. I fotografi di reportage, avvantaggiati dall’abilità intrinseca nel proprio documentare fatti reali, si sono spesso trovati al passo con l’avanguardia ambientalista della comunità scientifica, più che con il resto dei media. Infatti, già negli anni Novanta, alcuni si sono soffermati sul problema della deforestazione o, come evidenziato in una delle fotografie più datate presenti in mostra, si interrogavano sugli effetti dell’uso massiccio di diserbanti. #EverydayClimateChange propone una visione diversificata del cambiamento climatico. I fotografi-autori aderiscono al progetto da ogni continente e hanno visioni differenti, come eterogenee sono le culture entro le quali si sono formati. #EverydayClimateChange presenta il lavoro di fotografi militanti che condividono una grande varietà di storie, contestualizzando non solo gli effetti delle emissioni dei gas serra sul nostro Pianeta, ma le soluzioni possibili per attenuarne le conseguenze. Se confrontato con il ciclo frenetico delle notizie, il ritmo del cambiamento climatico è apparso lento. L’intenzione di ECC e del suo costante feed su Instagram è mostrare come nessuno sia immune ai suoi effetti. Lo scopo principale è raggiungere un pubblico molto più vasto di quello degli esperti o appassionati di Fotografia, e far emergere un interesse concreto per questo argomento anche al di fuori degli ambienti accademici. #EverydayClimateChange comunica l’emergenza del cambiamento climatico a chi risentirà maggiormente delle relative conseguenze: in altre parole, a tutti noi. Livia Corbò e Marta Cannoni


Ovviamente, non voglio entrare in un dibattito sull’arte. Ma queste immagini non sono “quadri”, queste immagini -diciamo almeno nella loro stragrande maggioranza- non si spiegano da sole. Cioè: non è vero (in generale) che una fotografia valga più di mille parole [e ci sono parole irraggiungibili dalla Fotografia: M’illumino d’immenso (Giuseppe Ungaretti); fa voti che ti sia lunga la via, / e colma di vicende e conoscenze (Costantino Kavafis; su questo stesso numero, a pagina 4 e 51); Lettera per chi ha solo rimorsi, da leggere a voce alta / ma a piccoli sorsi (Enzo Jannacci)]. Queste immagini hanno bisogno di didascalia. Dopo aver letto la didascalia, riguardate la fotografia: capirete sicuramente di più del mondo, perché la didascalia da sola non basterebbe a farvi capire. Ricordate? Uno degli adagi dell’era che precede Internet annota che se leggo ricordo, se sento conosco, se vedo capisco. Comunque, la Fotografia è importante anche se non è “bella” [deve essere “buona”]. A proposito di bellezza, ne approfitto per ringraziare Fujifilm per la qualità delle stampe qui in allestimento scenico, altro elemento decisivo per la forza comunicativa delle immagini [Forma per il Contenuto / Forma del Contenuto]. Livia Corbò. Aggiungo: forse sono importanti anche perché possono contribuire a far sentire ogni visitatore della mostra e follower del feed parte di questo mondo e di quello che sta accadendo. Oltre la conoscenza, le immagini muovono e sollecitano emozioni. Lello Piazza. Prendo spunto da queste parole di Livia [Corbò]: l’importanza delle Emozioni, oltre all’importanza della Conoscenza, per ricordare la mia esperienza con la rivista Airone. Appare a maggio 1981, e mostra al pubblico italiano quanto sia bello il mondo naturale e quanto siano affascinanti le culture umane diverse dalla nostra, evolute (in termini occidentali) o meno; culture che, in redazione, identificavamo come Civiltà degli Altri. Dalle cinquantamila copie del numero Uno, si arriva rapidamente a centocinquantamila. La scoperta della Bellezza del Mondo naturale provoca un boom di iscrizioni al WWF [World Wildlife Fund]. Allora vi propongo questa ipotesi: il mondo naturale non si protegge, non si difende mostrando solo i disastri. Bisogna mostrare anche la Bellezza di quello che stiamo perdendo. Propongo perciò al feed EverydayClimate Change di stimolare i propri fotografi a raccogliere anche testimonianze delle bellezze minacciate del Pianeta. Ricordiamoci i documentari televisivi della BBC condotti dal divulgatore scientifico e naturalista britannico David Attenborough [fratello minore dell’attore e regista Richard], per esempio Planet Earth [2006, in cinque episodi], Blue Planet [2003] e l’incredibile e imperdibile Dynasties [2018]. In questi filmati, il mondo naturale affascina e non produce solo inquietudine. Livia Corbò. Giusto. E ci tengo a sottolineare che, come ha accennato Marta Cannoni in apertura, Every dayclimatechange nasce per sensibilizzare il pubblico verso situazioni critiche non più ignorabili e che lo scopo è proprio quello di far capire che il cambiamento climatico coinvolge tutti, in tutto il mondo. Ma, allo stesso tempo, offre anche documentazione su alcune delle soluzioni che vengono adottate per cercare di arginare gli effetti di tale cambiamento.

Per esempio, la fotografia del Parco eolico di Whitelee, nei pressi di Glasgow, in Scozia, del 2015, il più grande parco eolico terrestre del Regno Unito (secondo, in Europa, solo a Fântânele-Cogealac, in Romania), con duecentoquindici turbine. Oppure, quella di James Whitlow Delano, Un fattorino a Setagaya-ku, del 2017, che documenta il fatto che a Tokyo si consegnano pacchi di piccole e medie dimensioni utilizzando esclusivamente biciclette, ovviamente prive di emissioni di gas serra. In Giappone, la produzione media di anidride carbonica (CO2) è circa equivalente al cinquanta percento delle emissioni di carbonio della media statunitense. In Giappone, attualmente, ci sono molte più biciclette che in Cina, perché i giapponesi non le hanno mai abbandonate come opzione di trasporto percorribile e frequentabile. Oppure, ancora, la fotografia di John Novis, del 2001, che ritrae l’esperto di energia solare Gilles Guidan mentre controlla il funzionamento di quello che, nel 2001, potrebbe essere stato il più grande fornello solare al mondo, a Auroville, nel distretto di Viluppuram dello Stato di Tamil Nadu, in India, nei pressi di Pondicherry: un gigantesco piatto parabolico sul tetto di una cucina comune. Disegnata e progettata dall’architetto Roger Anger, Auroville è una città “sperimentale” creata e fondata, nel 1968, da persone provenienti da cento paesi, ispirate da Mirra Alfassa [1878-1973; nota con il nome di Mère, mistica francese, seguace e compagna spirituale di Sri Aurobindo (1872-1950), filosofo e mistico indiano, considerato dai suoi discepoli un avatar, un’incarnazione dell’Assoluto]. Ideato da Gilles Guidan, l’impianto solare cattura abbastanza energia per generare calore sufficiente a cucinare per duemila persone al giorno. Auroville è stata progettata per promuovere attività come la rigenerazione ambientale, l’agricoltura biologica, l’energia alternativa, il teatro, la musica e l’arte. Lello Piazza. La situazione è gravissima: gli ingordi nemici del Pianeta sono potenti e ben sorretti da certa stampa. Due soli esempi tragici, due titoli dalla prima pagina del quotidiano Libero, entrambi del corrente Duemiladiciannove. Diciotto aprile, a proposito della sedicenne attivista svedese Greta Thunberg: Bergoglio in Vaticano: “Vieni avanti Gretina” / La Rompiballe va dal Papa [FOTOgraphia, ottobre 2019]. E, poco meno di un mese dopo, il sei maggio, a proposito del Global Warming / Riscaldamento globale: Il brivido della realtà / Riscaldamento del Pianeta? Ma se fa freddo [con “sommarietto”, in speculazione dal/sul/con il microclima: «Neve in montagna. E a Milano minima a 5° / Il termometro smentisce i gretini nostrani / E con la scusa della sete nel mondo M5S vuole alzare le tasse sull’acqua»]. La preoccupazione non è solo che questo quotidiano lo pubblicano, è anche che qualcuno lo compera.

CHE LEZIONE! La presentazione della mostra #EverydayClimateChange si conclude con l’assessore Gianluca Poldi, che legge da una lettera inviata, nel 1855, da Capo Sealth, Seathl o See-ahth, altrove Capo Seattle, Capriolo Zoppo, Capo delle tribù dei Duwamish e Suquamish, in risposta al presidente statunitense Franklin Pierce, che chiedeva ai nativi americani di acquistare la loro terra.

Presentiamo un bellissimo edificio, un intervento pubblico realizzato a spese di un piccolo centro urbano -Segrate, alle porte di Milano-, esempio di programmi che oggi nessun ente pubblico sembra più in grado di realizzare. [Se vogliamo anche vederla così, se intendiamo leggere così la “politica” odierna, in ulteriore allineamento all’ Editoriale di questo stesso numero, altro esempio tangibile di Rivoluzione... villana!]. Progettato dagli architetti Michele Achilli (1931) e Guido Canella (1931-2009), è stato completato nel 1966. Come si usava a quei tempi, la struttura è in cemento armato a vista. La piazza dove si affaccia è stata disegnata da un altro importante architetto, Aldo Rossi (1931-1997), che ha anche progettato la splendida Fontana ispirata a Giorgio de Chirico, una sorprendente figura geometrica che completa il complesso architettonico. L’edificio, che si compone di un corpo centrale cilindrico, sul quale s’appoggiano una struttura a forma di ventaglio e un blocco trapezoidale, rappresenta un’opera importante nell’ambito del Razionalismo Italiano. Il corpo cilindrico è occupato dalla biblioteca, mentre la sala dedicata alle mostre, dove sono state esposte le fotografie di #EverydayClimateChange, sta la secondo piano, sopra la stessa biblioteca. Sempre al secondo piano, a lato dell’area per le mostre, è situata l’aula consiliare, dotata di duecento posti. La presentazione della mostra #EverydayClimateChange è avvenuta in questa sala.

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Matilde Gattoni: Due scolare tra le rovine della loro scuola elementare, distrutta dall’erosione costiera (Dzita, Ghana. 2016). Nel 2014, una delle quattro sezioni della Dzita EP/LA Basic School è crollata a causa dell’erosione costiera, costringendo la direzione a unificare più classi per ospitare i suoi seicentosettanta studenti.

(in alto, al centro) J. B. Russell: Esondazione della Senna (Parigi, Francia, 2016). A causa delle forti precipitazioni, nell’estate 2016, il livello della Senna ha superato i sei metri, e il fiume ha rotto gli argini, sia a Parigi, sia in altre aree della Francia. Il Louvre e il Musée d’Orsay sono stati temporaneamente chiusi, la circolazione e i trasporti sono stati interrotti. Sebbene il livello dell’acqua non abbia raggiunto quello della grande inondazione del 1910, ha uguagliato o superato i record registrati durante quelle del 1982 e 2001.

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«Da Washington, il Grande Capo Bianco ci manda a dire che vuole acquistare la nostra terra. Come si possono comprare o vendere il Cielo e il calore della Terra? «L’idea ci sembra strana, noi non siamo padroni della freschezza dell’aria e dello zampillare dell’acqua; come si può chiedere di comprarli da noi? «Per la mia gente, qualsiasi componente di questa terra è sacro. Qualsiasi ago splendente di pino, qualsiasi sponda sabbiosa, qualsiasi nebbia nell’oscurità dei boschi, qualsiasi radura erbosa, qualsiasi insetto ronzante è santo nella memoria del mio popolo. «Sappiamo che l’uomo bianco non comprende il nostro sistema di vita. Per lui, un pezzo di terreno è lo stesso di un altro; la terra è sua nemica, non sua sorella, e quando egli l’ha conquistata, continua per la sua strada. Egli abbandona la tomba del proprio padre e dimentica il diritto di nascita dei suoi figli. «Non vi è alcun posto tranquillo nelle città dell’uomo bianco, nessun luogo ove si possano ascoltare lo stormire delle fronde in primavera o il ronzare delle ali degli insetti. Ma, forse, è perché io sono un selvaggio e non comprendo, mi sembra che il frastuono delle città offenda le orecchie. Quanto vale la vita se un Uomo non può udire di notte il grido del succiacapre o il gracidare delle rane in uno stagno? «Quando i bisonti saranno stati tutti sterminati, i cavalli selvaggi tutti domati, quando gli angoli segreti delle foreste saranno invasi dall’odore di molti uomini, e la vista delle colline sarà oscurata dai fili che parlano, allora l’Uomo si chiederà: dove sono gli alberi e cespugli? Scomparsi! Dov’è l’aquila? Sparita!». [In allineamento, e sulla medesima lunghezza d’onda, da FOTOgraphia, dello scorso ottobre: «Mio padre [...] voleva essere un Uomo libero. Sosteneva che nessun Uomo può possedere la Terra, e che -quindi- non può vendere quello che non possiede» (Chief Joseph, condottiero della tribù dei Nez Percé. Dal discorso di sottomissione pronunciato il 14 gennaio 1879, nella Lincoln Hall, di Washington DC, davanti a un’assemblea di deputati, diplomatici e dignitari)].

D’OBBLIGO: RIBADIRE! [Conclusa la disamina di Lello Piazza (e compagnia) per la presentazione della mostra #EverydayClimate Change, inseriamo la nostra voce al proposito, circa, e concludiamo riprendendo dal nostro numero dello scorso ottobre, a firma Maurizio Rebuzzini, in veste di Franti, con contributi/apporti non rivelabili]. Chi intendesse approfondire una sostanziale e fondamentale filosofia a proposito della Vita sulla Terra, in prospettiva di sopravvivenza dell’Uomo, avvicini il pensiero, le visioni, i sogni e le previsioni di R. Buckminster Fuller (Richard Buckminster Fuller; 18951983: inventore, architetto, designer, filosofo, professore alla Southern Illinois University, scrittore e con-


duttore televisivo statunitense, con personalità allineabile a quella di Leonardo da Vinci... del Ventesimo secolo, e non stiamo scherzando). Soprattutto, si vada a leggere il libro Manuale operativo per Nave Spaziale Terra, pubblicato da Il Saggiatore, la scorsa estate 2018, semplificato in Astronave Terra da coloro i quali sanno di cosa si tratta. L’eclettico genio ha riunito decenni di riflessioni sul futuro dell’Umanità. Messaggi lanciati nello Spazio, progetti avanguardistici, profezie destinate a realizzarsi negli anni a venire, che rispondono a domande sempre più urgenti: come sopravvivremo alle crisi che stanno sopraggiungendo? come risolveremo i problemi più critici, l’inquinamento, la povertà?

Dagli albori della civiltà, i Sapiens hanno dovuto specializzarsi in occupazioni e conoscenze sempre più vaste, dalla scarna illuminazione di una grotta di pochi metri al governo di un regno o di un impero, dalle precarie tecniche di caccia e allevamento a quelle di produzione industriale. Il fascino della conquista ha donato agli abitanti della Terra re, inventori, artisti, mostri, scienziati destinati a possedere un’immaginazione straordinaria e a inseguire sogni e incubi dell’esistenza, mentre miliardi di anonimi individui si sono perfezionati in un ruolo specifico per condurre gli ingranaggi del Pianeta, penalizzato da risorse limitate. Quando hanno scoperto il mare, i Sapiens si sono resi conto di quanto modesti fossero i territori fino ad allora esplorati, e una domanda infinita li ha spinti ad abbandonare il proprio status di pedoni, per conquistare, come Odisseo, nuove forme di paesaggio e sapienza. Molto più tardi, hanno capito che era possibile abitare anche il Cielo, i Pianeti, le Galassie, l’Universo. Davanti a tanta immensità, la sopravvivenza appare più che mai minacciata dall’esiguità delle risorse. A guardarla dallo Spazio, la Terra è una sfera sospesa in mezzo a miliardi di altre. È una piccola nave (astronave?) che solca lo Spazio; l’Umanità è il suo Timoniere. Cosa dobbiamo fare noi, attuali Sapiens, perché questa navicella, oggi in avaria, resista all’inevitabile collasso? R. Buckminster Fuller mette in discussione il concetto millenario di specializzazione, chiede una rivoluzione progettuale e offre consigli sul modo in cui guidare questa nave spaziale verso un futuro sostenibile. Per farlo, afferma, è indispensabile distogliere il nostro sguardo dalla limitatezza del dettaglio e ammirare il mondo nell’immensità del proprio insieme. Attribuite al cosmonauta sovietico Jurij Gagarin, primo Uomo nello Spazio, il 12 aprile 1961: «Girando attorno alla Terra, nella navicella, ho visto quanto è bello il nostro Pianeta» / «Da quassù, la Terra è bellissima, senza frontiere né confini» / «Non vedo nessun Dio quassù». Facciamole nostre. Tutte! ❖

Georgina Goodwin: Amina Suleiman Gas, tra le carcasse del suo bestiame, morto a causa della siccità (Villaggio di Barwako, Somalia centrale, 2017). Quando la siccità ha cominciato a peggiorare, nel novembre 2016, Amina Suleiman Gas ha mandato la maggior parte del bestiame a ovest, con un suo vicino di casa. Barwako era un villaggio di cento nuclei familiari, cui se ne sono aggiunti duecentoquarantacinque arrivati dalle aree circostanti colpiti dalla siccità.

(centro pagina) Ashley Crowther: Mangrovie appena piantate per arginare l’aumento del livello del mare (Kiribati, Oceano Pacifico, 2015). L’arcipelago di Kiribati è una delle località più vulnerabili della Terra: molte isole non raggiungono i tre metri sul livello del mare. Le mangrovie svolgono un ruolo chiave sull’impatto prodotto dal cambiamento climatico. Funzionano come pozzi di assorbimento di anidride carbonica, sono in grado di arginare le onde durante tempeste e cicloni e di creare barriere che limitano l’erosione delle coste e le proteggono filtrando inquinanti, metalli pesanti e sedimenti di scorie: creano oceani più puliti, limpidi e sani.

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Princìpio ottico e fotografico assoluto e inviolabile, esteso a tutti i sistemi e formati di ripresa, senza alcuna soluzione di continuità: l’aumento del tiraggio al piano focale comporta una caduta di luce direttamente proporzionale alla separazione tra obiettivo e piano immagine. A partire da una semplice formula base, la solita, stiliamo una esaustiva quantità e qualità di sintesi tabellari che indicano le opportune correzioni. Questo insieme risulta di impiego pratico soprattutto nella fotografia grande formato (per chi se la ricorda e per coloro i quali la frequentano ancora... noi, tra questi), a partire dalle pellicole piane 4x5 pollici, ma con riferimenti alla ripresa in medio formato su pellicola a rullo 120 e 220, solitamente 6x7cm, 6x8cm e 6x9cm, con appositi magazzini portapellicola (una volta ancora, Ritorno al grande formato). Quindi, in ovvia consecuzione, le stesse considerazioni e valutazioni di riferiscono anche alla macrofotografia in piccolo formato 24x36mm. In tutti i casi, come è doveroso che debba essere, con applicazione possibile e potenziale anche all’acquisizione digitale delle immagini, con dotazioni fisse (apparecchio fotografico e propri accessori dedicati), o con configurazioni derivate da quanto ha sempre accompagnato il grande formato e propri contorni... oggi, in versione digitale pura o con accomodamenti meccanici opportunamente indirizzati

ANTONIO BORDONI

TIRA E MOLLA


di Antonio Bordoni

T Focali 24x36cm e sensori digitali (C)

10mm 12,5mm 15mm 20mm 25mm 30mm 35mm 40mm 50mm 60mm 70mm 80mm 90mm 100mm

1:9 11mm 14mm 17mm 22mm 28mm 33mm 39mm 44mm 56mm 67mm 78mm 89mm 100mm 111mm

1:6 12mm 15mm 18mm 23mm 29mm 35mm 41mm 47mm 58mm 70mm 82mm 93mm 105mm 117mm

Focali grande formato (D)

Ovviamente, questa tabella dell’Allungamento del tiraggio al piano focale può essere usata in senso opposto: per valutare il Rapporto di riproduzione, avendo misurato l’Allontanamento dell’obiettivo dal piano immagine.

empo fa, in (lontani) anni della fotografia chimica e in più recenti richiami aggiornati all’acquisizione digitale di immagini e a una ipotesi coeva di Ritorno al grande formato (meglio detto, di Ritorno ragionato, volontario e consapevole al grande formato), abbiamo riferito l’allungamento del tiraggio al piano focale ai rapporti di riproduzione ravvicinati. In particolare, nel marzo 2017, proponendo rilevazioni macro molto spinte, ci siamo occupati soprattutto delle distanze coniugate (rispettivamente dall’obiettivo al piano focale e dall’obiettivo al soggetto): inviolabilmente legate allo stesso rapporto di riproduzione e all’incremento del fascio luminoso (cerchio immagine) proiettato dall’obiettivo sul piano focale. La condizione ottica/fotografica basilare è semplice e presto riassunta: in proporzione diretta all’incremento del tiraggio tra obiettivo e piano focale, aumenta il diametro del cerchio immagine, e -allo stesso momento-

90mm 100mm 105mm 110mm 120mm 135mm 150mm 180mm 210mm 240mm 270mm 300mm 305mm 355mm 360mm 450mm 480mm 600mm

10cm 11cm 12cm 12cm 13cm 15cm 17cm 20cm 23cm 27cm 30cm 33cm 34cm 39cm 40cm 50cm 53cm 67cm

10cm 12cm 12cm 13cm 14cm 16cm 17cm 21cm 24cm 28cm 31cm 35cm 36cm 41cm 42cm 52cm 56cm 70cm

cresce anche la capacità di copertura dei singoli obiettivi. Tant’è che, con qualsiasi fotogramma o sensore (dal piccolo al medio, al grande formato, in registrazione chimica e in acquisizione digitale di immagini), in macrofotografia, e comunque sia nella fotografia ravvicinata, si possono usare obiettivi di focale sistematicamente corta, che all’infinito non sono adatti alla copertura del formato fotografico considerato. Ancora, e meglio specificato, da FOTOgraphia, del marzo 2017, appena evocata: «In macrofotografia, si cerca di usare obiettivi di focale sistematicamente corta, che -a parità di ingrandimento realizzato- permettono di operare con sistemazioni fotografiche adeguatamente comode. Più corta è la focale, meglio è: perché si riduce il tiraggio tra obiettivo e piano immagine e, a conseguenza, si minimizzano le influenze esterne sulla stabilità complessiva». Oggi e qui, affrontiamo lo stesso argomento da un altro punto di vista, per quantificare l’incremento dell’esposizione in relazione all’aumento del tiraggio tra obiettivo e piano immagine, ovverosia piano focale: con apparecchi grande formato, prima di tutto (sia per ri-

Allungamento del tiraggio al piano focale (A) Riduzione del soggetto inquadrato 1:5 1:4 1:3 1:2,5 1:2 1:1,5 12mm 13mm 13mm 14mm 15mm 17mm 15mm 16mm 17mm 18mm 19mm 21mm 18mm 19mm 20mm 21mm 23mm 25mm 24mm 25mm 27mm 28mm 30mm 33mm 30mm 31mm 33mm 35mm 38mm 42mm 36mm 38mm 40mm 42mm 45mm 50mm 42mm 44mm 47mm 49mm 53mm 58mm 48mm 50mm 53mm 56mm 60mm 67mm 60mm 63mm 67mm 70mm 75mm 83mm 72mm 75mm 80mm 84mm 90mm 100mm 84mm 88mm 93mm 98mm 105mm 117mm 96mm 100mm 107mm 112mm 120mm 133mm 108mm 113mm 120mm 126mm 135mm 150mm 120mm 125mm 133mm 140mm 150mm 167mm 11cm 12cm 13cm 13cm 14cm 16cm 18cm 22cm 25cm 29cm 32cm 36cm 37cm 43cm 43cm 54cm 58cm 72cm

11cm 12cm 13cm 14cm 15cm 17cm 19cm 22cm 26cm 30cm 34cm 37cm 38cm 44cm 45cm 56cm 60cm 75cm

12cm 13cm 14cm 15cm 16cm 18cm 20cm 24cm 28cm 32cm 36cm 40cm 41cm 47cm 48cm 60cm 64cm 80cm

13cm 14cm 15cm 15cm 17cm 19cm 21cm 25cm 29cm 34cm 38cm 42cm 43cm 50cm 50cm 63cm 67cm 84cm

13cm 15cm 16cm 16cm 18cm 20cm 22cm 27cm 31cm 36cm 40cm 45cm 46cm 53cm 54cm 67cm 72cm 90cm

15cm 17cm 17cm 19cm 20cm 22cm 25cm 30cm 35cm 40cm 45cm 50cm 51cm 59cm 60cm 75cm 80cm 100cm

(A) In approssimazione, per valori interi. (B) L’indicazione è sostanzialmente arrotondata; serve come valore orientativo, utile per considerare il campo d’azione entro cui si sta operando. (C) In questa sintesi tabellare, sono riunite sia le focali degli obiettivi macro per forti ingrandimenti (tipo Zeiss Luminar o Leitz/Leica

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presa tradizionale, sia in acquisizione digitale), ma anche in macrofotografia con apparecchi fotografici piccolo e medio formato e nell’acquisizione digitale con sensori solidi di piccole o medie dimensioni.

IN ANTICIPO Come facciamo sempre, quando ci incamminiamo in considerazioni operative e pratiche della fotografia, prima di affrontare l’essenza dell’argomento, è necessaria una precisazione di fondo, senza la quale tutto rischierebbe di perdersi all’interno di un territorio burocraticamente e aridamente tecnico: che non corrisponde al vero, e neppure alle nostre intenzioni sovrastanti. Nel momento in cui riconosciamo che l’applicazione fotografica costituisce di per sé un pertinente e perfetto connubio tra capacità tecniche e intelligenze espressive e creative, dobbiamo essere altresì coscienti della separazione ideologica che divide i due momenti, pur complementari tra loro. La tecnica si può apprendere, oppure insegnare (forse), e successivamente applicare; la creatività non si impara in modo formale, ma si educa nel

corso della vita e dell’esistenza personale e professionale. Per quanto la capacità creativa appartenga all’intimo delle facoltà individuali dei singoli fotografi, la base tecnica è un elemento infrastrutturale comune a tutti. Nel concreto, pur non essendo scienza in senso puro, l’esercizio della fotografia si basa comunque su una sequenza di mediazioni tecniche, la cui conoscenza ha un giusto e pertinente rapporto con i risultati che si possono conseguire. In particolare, tutte le applicazioni della fotografia chimica e dell’acquisizione digitale con apparecchi a corpi mobili -a banco ottico oppure folding, a base ribaltabile- dipendono soprattutto dalle proprietà dell’accomodamento dei piani principali [tante e successive le nostre rilevazioni al proposito]. Il basculaggio (cioè l’inclinazione) dell’obiettivo rispetto al piano immagine serve a orientare la messa a fuoco in modo da ottenere una adeguata distribuzione della profondità di campo (tra tanto altro, in FOTOgraphia, del novembre 2015); mentre la disposizione del piano immagine consente di controllare la resa prospettica del soggetto inquadrato (ancora, in

22cm 25cm 26cm 27cm 30cm 34cm 37cm 45cm 52cm 60cm 67cm 75cm 76cm 89cm 90cm 112cm 120cm 150cm

27cm 30cm 31cm 33cm 36cm 40cm 45cm 54cm 63cm 72cm 81cm 90cm 91cm 106cm 108cm 135cm 144cm 180cm

31cm 35cm 37cm 38cm 42cm 47cm 52cm 63cm 73cm 84cm 94cm 105cm 107cm 124cm 126cm 157cm 168cm 210cm

36cm 40cm 42cm 44cm 48cm 54cm 60cm 72cm 84cm 96cm 108cm 120cm 122cm 142cm 144cm 180cm 192cm 240cm

45cm 50cm 52cm 55cm 60cm 67cm 75cm 90cm 105cm 120cm 135cm 150cm 152cm 177cm 180cm 225cm 240cm 300cm

54cm 60cm 63cm 66cm 72cm 81cm 90cm 108cm 126cm 144cm 162cm 180cm 183cm 213cm 216cm 270cm 288cm 360cm

Scala di allungamento del soffietto, con relativo incremento di esposizione, solidale alla messa a fuoco degli obiettivi 6x7cm Mamiya RZ67 (e anche RB67).

Focali grande formato (D)

18cm 20cm 21cm 22cm 24cm 27cm 30cm 36cm 42cm 48cm 54cm 60cm 61cm 71cm 72cm 90cm 96cm 120cm

5:1 60mm 75mm 90mm 120mm 150mm 180mm 210mm 240mm 300mm 360mm 420mm 480mm 540mm 600mm

Focali 24x36cm e sensori digitali (C)

Rapporto di riproduzione (B) Al naturale Ingrandimento del soggetto inquadrato 1:1 1,5:1 2:1 2,5:1 3:1 4:1 20mm 25mm 30mm 35mm 40mm 50mm 25mm 31mm 38mm 44mm 50mm 63mm 30mm 38mm 45mm 53mm 60mm 75mm 40mm 50mm 60mm 70mm 80mm 100mm 50mm 63mm 75mm 88mm 100mm 125mm 60mm 75mm 90mm 105mm 120mm 150mm 70mm 88mm 105mm 123mm 140mm 175mm 80mm 100mm 120mm 140mm 160mm 200mm 100mm 125mm 150mm 175mm 200mm 250mm 120mm 150mm 180mm 210mm 240mm 300mm 140mm 175mm 210mm 245mm 280mm 350mm 160mm 200mm 240mm 280mm 320mm 400mm 180mm 225mm 270mm 315mm 360mm 450mm 200mm 250mm 300mm 350mm 400mm 500mm

Photar), sia le focali standard, macro e medio tele più comuni. (D) In questa sintesi tabellare, sono riunite le focali degli obiettivi più comuni per fotografia grande formato: a costruzione ottica standard (grandangolare e normale), macro e apocromatica.

41


Incremento dell’esposizione 1,23x 1,44x 1,56x 1,96x 2,25x 2,78x 4,00x 6,25x 9,00x 15,21x 16,00x 25,00x 36,00x

Incremento in stop + 1/3 stop + 1/2 stop + 2/3 stop + 1 stop + 1 1/3 stop + 1 1/2 stop + 2 stop + 2 1/2 stop + 3 stop + 3 2/3 stop + 4 stop + 4 1/2 stop + 5 1/3 stop

Allungamento del tiraggio al piano focale

Rapporto di riproduzione 1:9 1:5 1:4 1:2,5 1:2 1:1,5 1:1 1,5:1 2:1 2,5:1 3:1 4:1 5:1

(B)

Incremento dell’esposizione rispetto alla misurazione esposimetrica all’infinito

10mm 3cm 4cm 4cm 5cm 6cm

12,5mm 4cm 5cm 5cm 6cm 7cm

15mm 5cm 6cm 6cm 7cm 9cm

20mm 6cm 8cm 8cm 10cm 12cm

La formula dell’incremento di esposizione esprime il fattore di moltiplicazione; ovvero: Incremento di esposizione = Allungamento del tiraggio (T) diviso Lunghezza focale (F), tutto al quadrato (in sigla = (T/F)2). Da qui, abbiamo ricavato l’indicazione diretta dell’Aumento dell’esposizione in stop. Per esempio, il fattore 2x indica il raddoppio dell’esposizione, ovvero uno stop in più; il fattore 4x impone di quadruplicare l’esposizione, ovvero due stop in più... e così via.

Incremento dell’esposizione 1,23x 1,44x 1,56x 1,96x 2,25x 2,78x 4,00x 6,25x 9,00x 15,21x 16,00x 25,00x 36,00x

Incremento in stop + 1/3 stop + 1/2 stop + 2/3 stop + 1 stop + 1 1/3 stop + 1 1/2 stop + 2 stop + 2 1/2 stop + 3 stop + 3 2/3 stop + 4 stop + 4 1/2 stop + 5 1/3 stop

Allungamento del tiraggio al piano focale

Rapporto di riproduzione 1:9 1:5 1:4 1:2,5 1:2 1:1,5 1:1 1,5:1 2:1 2,5:1 3:1 4:1 5:1

(B)

Incremento dell’esposizione rispetto alla misurazione esposimetrica all’infinito

90mm 100mm 105mm 110mm 120mm 10cm 11cm 12cm 12cm 13cm 11cm 12cm 13cm 13cm 14cm 11cm 12cm 13cm 13cm 15cm 13cm 14cm 15cm 15cm 17cm 13cm 15cm 16cm 16cm 18cm 15cm 17cm 17cm 17cm 20cm 18cm 20cm 21cm 21cm 24cm 22cm 25cm 26cm 26cm 30cm 27cm 30cm 31cm 31cm 36cm 35cm 39cm 41cm 41cm 47cm 36cm 40cm 42cm 42cm 48cm 45cm 50cm 52cm 52cm 60cm 54cm 60cm 63cm 63cm 72cm

La formula dell’incremento di esposizione esprime il fattore di moltiplicazione; ovvero: Incremento di esposizione = Allungamento del tiraggio (T) diviso Lunghezza focale (F), tutto al quadrato (in sigla = (T/F)2). Da qui, abbiamo ricavato l’indicazione diretta dell’Aumento dell’esposizione in stop. Per esempio, il fattore 2x indica il raddoppio dell’esposizione, ovvero uno stop in più; il fattore 4x impone di quadruplicare l’esposizione, ovvero due stop in più... e così via.

Attenzione (soprattutto oggi, in tempi di automatismi più che diffusi... addirittura, endemici): gli esposimetri TTL (attraverso l’obiettivo) tengono già conto dell’incremento di esposizione all’allungamento del tiraggio.

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richiamo recente, in FOTOgraphia, del dicembre 2016). Dunque, la consapevolezza dei vincoli tecnici che sovrintendono il corretto uso degli apparecchi a corpi mobili è una condizione operativa indispensabile, più che necessaria, per assolvere in modo adeguato i termini lessicali e linguistici della ripresa fotografica professionale: tradizionale su pellicola (ovvero chimica) o in acquisizione digitale delle immagini. Scartata a lato la concezione della creatività asettica e impersonale, ognuno deve valutare la capacità di utilizzare gli strumenti per ciò e quanto possono offrire. Ogni risultato fotografico dipende certamente dal sentimento dell’operatore, che sa concepire inquadrature e allestire composizioni in base alla propria cultura e anima. Ma l’educazione individuale si basa anche sulla competenza di condizioni oggettivamente tecniche. I professionisti possessori, oltreché di apparecchi e

obiettivi, anche delle cognizioni necessarie per adoperarli bene e al meglio, sono fatalmente avvantaggiati. Sapersi muovere con sicurezza tra le condizioni generali del lavoro e le applicazioni eventualmente particolari è un dovere professionale e un diritto personale.

DALLO STILL LIFE... Senza sconfinare nella ripresa fotografica fortemente macro, ovvero dell’inquadratura spinta fino ad alti rapporti di ingrandimento del soggetto (opportunamente trattata in FOTOgraphia, del marzo 2017), oggi ci occupiamo di una condizione operativa che si può manifestare addirittura quotidianamente, senza necessariamente approdare alla ripresa ravvicinata, ma impegnandosi comunque con soggetti di dimensioni contenute. Ovviamente, ci riferiamo alla fotografia di oggetti, cioè di still life, che in sala di posa configura


Lunghezze focali di sistemi fotografici 24x36mm e sensori digitali analoghi (A)

25mm 7cm 10cm 10cm 12cm 15cm

30mm 9cm 12cm 12cm 15cm 18cm

35mm 4cm 4cm 4cm 5cm 5cm 6cm 7cm 9cm 10cm 14cm 14cm 17cm 21cm

40mm 4cm 5cm 5cm 6cm 6cm 7cm 8cm 10cm 12cm 16cm 16cm 20cm 24cm

50mm 6cm 6cm 6cm 7cm 7cm 8cm 10cm 12cm 15cm 20cm 20cm 25cm 30cm

60mm 7cm 7cm 8cm 8cm 9cm 10cm 12cm 15cm 18cm 23cm 24cm 30cm 36cm

70mm 8cm 8cm 9cm 10cm 11cm 12cm 14cm 17cm 21cm 27cm 28cm 35cm 42cm

80mm 9cm 10cm 10cm 11cm 12cm 13cm 16cm 20cm 24cm 31cm 32cm 40cm 48cm

90mm 10m 11cm 11cm 13cm 14cm 15cm 18cm 22cm 27cm 35cm 36cm 45cm 54cm

100mm 11cm 12cm 13cm 14cm 15cm 17cm 20cm 25cm 30cm 39cm 40cm 50cm 60cm

(A) In questa sintesi tabellare, sono riunite sia le focali degli obiettivi macro per forti ingrandimenti (tipo Zeiss Luminar o Leitz/Leica Photar), sia le focali standard, macro e medio tele più comuni. (B) In approssimazione, per valori interi.

Lunghezze focali per / di fotografia grande formato (dal 4x5 pollici all’8x10 pollici) (A)

135mm 15cm 16cm 17cm 19cm 20cm 22cm 27cm 34cm 40cm 52cm 54cm 67cm 81cm

150mm 17cm 18cm 19cm 21cm 22cm 25cm 30cm 37cm 45cm 58cm 60cm 75cm 90cm

180mm 20cm 22cm 23cm 25cm 27cm 30cm 36cm 45cm 54cm 70cm 72cm 90cm 108cm

210mm 23cm 25cm 26cm 29cm 31cm 35cm 42cm 52cm 63cm 82cm 84cm 105cm 126cm

240mm 27cm 29cm 30cm 34cm 36cm 40cm 48cm 60cm 72cm 94cm 96cm 120cm 144cm

270mm 30cm 32cm 34cm 38cm 40cm 45cm 54cm 67cm 81cm 105cm 108cm 135cm 162cm

300mm 33cm 36cm 37cm 42cm 45cm 50cm 60cm 75cm 90cm 117cm 120cm 150cm 180cm

305mm 34cm 37cm 38cm 43cm 46cm 51cm 61cm 76cm 91cm 119cm 122cm 152cm 183cm

355mm 39cm 43cm 44cm 50cm 53cm 59cm 71cm 89cm 106cm 138cm 142cm 177cm 213cm

360mm 40cm 43cm 45cm 50cm 54cm 60cm 72cm 90cm 108cm 140cm 144cm 180cm 216cm

450mm 50cm 54cm 56cm 63cm 67cm 75cm 90cm 112cm 135cm 175cm 180cm 225cm 270cm

480mm 53cm 58cm 60cm 67cm 72cm 80cm 96cm 120cm 144cm 187cm 192cm 240cm 288cm

600mm 67cm 72cm 75cm 84cm 90cm 100cm 120cm 150cm 180cm 234cm 240cm 300cm 360cm

(A) In questa sintesi tabellare, sono riunite sia le focali degli obiettivi più comuni per fotografia grande formato: a costruzione ottica standard (grandangolare e normale), macro e apocromatica. (B) In approssimazione, per valori interi.

condizioni tecniche particolari e, allo stesso tempo, codificabili (e, poi, non si dimentichino le questioni fondamentali relative all’illuminazione del soggetto). La questione è semplice. Soprattutto in fotografia chimica, si deve infatti tenere conto che componendo sul grande formato (dal 4x5 pollici in su), ma anche in medio 6x7cm o 6x9cm mediante appositi magazzini portapellicola dedicati (oppure con dorsi digitali a scansione, a propria volta ad ampia area), di fatto si opera all’interno di rapporti di riproduzione limitati. I soggetti della sala di posa sono sempre qualificati da dimensioni assai prossime a quelle del fotogramma/sensore in esposizione. A conseguenza, intervengono una serie di fattori tecnici che vanno presi in considerazione. Con ordine. Uno: a distanze di messa a fuoco prossime, ovvero significativamente inferiori al teorico “infinito”, aumenta il diametro del cerchio immagine prodotto dall’obiettivo.

Due: l’incremento sistematico del cerchio immagine comporta una copertura fotografica adeguatamente maggiorata, con relative considerazioni sia sulla possibilità di esporre fotogrammi di dimensioni analogamente più grandi, sia sulla facoltà di disporre di più agevoli movimenti di decentramento e/o basculaggio. Tre: il tiraggio al piano focale superiore a quello dell’accomodamento all’infinito comporta, poi, una sensibile e quantificabile perdita di luminosità al piano focale, da compensare con un adeguato e prevedibile incremento di esposizione (Schema 1, a pagina 44).

A partire dalla formula base [Incremento di esposizione = Allungamento del tiraggio (T) diviso Lunghezza focale (F), tutto al quadrato / in sigla = (T/F)2], si possono calcolare gli incrementi di esposizione per ogni altro allungamento e per tutte le focali.

IMMAGINE AMPLIFICATA Dell’aumento del cerchio immagine ci siamo già occupati (appunto, nel numero del marzo 2017, già citato). Qui ricordiamo che il calcolo dell’incremento della proiezione al piano immagine non è difficile né,

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Schema1. Visualizzazione del concetto di perdita di luminosità nella proiezione sul piano immagine distanziato dall’obiettivo, per la messa a fuoco di soggetti prossimi, più vicini dell’infinito. All’allungamento del tiraggio (quantificato nella tabella pubblicata a pagina 40), deve corrispondere un analogo incremento dell’esposizione: come sintetizzato nelle tabelle pubblicate nella doppia pagina 42-43.

Sul mercato della fotografia grande formato (ormai, in quello dell’usato), si trovano numerosi obiettivi standard e macro delle famiglie ottiche Nikon, Rodenstock e Schneider... soprattutto. Nikon: Nikkor-W, Nikkor-M, Nikkor-AM ED. Rodenstock: Apo-Sironar-N, Apo-Sironar-S, Apo-Macro-Sironar, Apo-Ronar, Apo-Sironar Digital, Apo-Macro-Sironar Digital. Schneider: Apo-Symmar, Super-Symmar XL, Makro-Symmar, Digitar, Makro Digitar.

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tantomeno, proibitivo. Per quanto possa tornare utile nella pratica quotidiana, sintetizziamo ancora le condizioni geometriche, che riguardano anche gli obiettivi di corta focale dedicati ai sensori digitali di piccole dimensioni per apparecchi a corpi mobili 4x5 pollici o 6x7/6x8/6x9cm (quali sono gli Schneider Digitar e Makro Digitar e i Rodenstock Apo-Sironar Digital e Apo-Macro-Sironar Digital). In percentuale, l’incremento del diametro del cerchio immagine nominale degli obiettivi in relazione all’aumento del tiraggio è pari alla scala di riproduzione moltiplicata per cento. Esempio: al rapporto di riproduzione 1:3, proprio di un soggetto ridotto di tre volte sul piano focale, si ha un valore decimale di 0,33 (cioè 1:3 = 0,33 periodico), da cui si ottiene la quantificazione percentuale del trentatré percento. In termini concreti, i 231mm e 220mm di diametro dei cerchi immagine del Rodenstock Apo-Sironar-S 150mm f/5,6 e dello Schneider Apo-Symmar 150mm f/5,6 diventano rispettivamente 308mm e 293mm al rapporto di riproduzione 1:3. Per il rapporto di riproduzione 1:2, il fattore di moltiplicazione è cinquanta percento e così via. Come abbiamo ricordato in apertura: in proporzione diretta all’incremento del diametro del cerchio immagine, cresce anche la capacità di copertura dei singoli obiettivi. L’elasticità della combinazione tra dimensioni del fotogramma e lunghezza focale si traduce anche nella maggiore libertà di allestimento del set. Per successive progressioni, al rapporto di riproduzione 1:1, cioè al naturale, il diametro del cerchio immagine è doppio di quello all’infinito: infatti è moltiplicato per il suo cento percento.

TIRAGGIO AL PIANO IMMAGINE Come abbiamo ricordato, il tiraggio al piano focale, che si rende necessario nella fotografia a breve distanza, comporta una corrispondente perdita di luminosità della proiezione, che -dunque- impone un conseguente adattamento dei valori dell’esposizione (ancora, Schema 1, qui sopra): come ben certifica anche l’opportuna scala solidale all’allungamento del soffietto di messa a fuoco delle medio formato in ultima generazione realizzata Mamiya RB67 ProSD e Mamiya RZ67 Professional II, derivate da una lunga storia, avviata con la genìa biottica a obiettivi intercambiabili (a pagina 41). Anche se otticamente è riferita alla costruzione simmetrica, la formula generale va adeguatamente bene per tutti gli obiettivi fotografici, e per quelli grande formato in particolare. L’incremento di esposizione è pari al tiraggio tra obiettivo e piano immagine diviso la lun-

ghezza focale, tutto al quadrato. In sintesi = (T/F)2, dove con “T” si intende -appunto- il tiraggio al piano focale (o piano immagine), e con “F” la lunghezza focale dell’obiettivo in uso. Attenzione: applicando la formula, si ottiene il fattore di moltiplicazione dell’esposizione, che nelle nostre tabelle pubblicate a pagina 42-43 è stato trasformato anche in f/stop. Per intenderci, il fattore 2x impone l’apertura di uno stop, il fattore 4x di due stop, l’8x di tre stop, il 16x di quattro stop... e così via. In assenza di altre indicazioni, la misurazione del tiraggio va effettuata dalla piastra portaobiettivo, che per il solito coincide con il piano nodale dello stesso (obiettivo), al vetro smerigliato, la cui posizione è riportata in esterno in alcuni dorsi grande formato. La misurazione può non essere rigorosa: sono concesse moderate approssimazioni, proprio perché nell’esercizio quotidiano della professione si declina una materia fotografica adeguatamente scartata a lato rispetto ogni intendimento rigorosamente ottico e scientifico. Tanto è vero che, in mancanza di strumenti adeguati (righello, metro flessibile o quant’altro), ci si può arrangiare con intelligenza e spirito di adattamento. Si considerino le alle già citate tabelle di pagina 42-43, nelle quali l’allungamento al piano focale è stato riferito sia al rapporto di riproduzione, sia all’incremento di esposizione. Quando il tiraggio è il doppio della focale, ovvero quando si fotografa con rapporto di riproduzione 1:1 (al naturale), si deve aumentare l’esposizione di due stop rispetto la misurazione con esposimetro esterno (attenzione: le letture TTL attraverso l’obiettivo già conteggiano la luce che raggiunge effettivamente il piano focale). Uno stop in più è invece necessario quando si è prossimi al rapporto di riproduzione 1:2,5, ovvero quando il tiraggio è circa il quaranta percento in più della lunghezza focale. A conseguenza, gli altri incrementi probabili della fotografia in sala di posa si collocano attorno e all’interno di questi valori base. Con il sistema definibile “spannometrico”, si può minimizzare la mancanza di strumenti adeguati. Il tiraggio si misura “a spanne” (una spanna equivale a 22cm, che diventano 42cm, 62cm e 82cm al sistematico raddoppio, che tiene conto dell’accavallamento naturale tra il pollice e il mignolo della mano che misura), e l’incremento di esposizione si regola a stima, partendo dai due stop al raddoppio e dello stop a metà circa. Insomma, con raziocinio si può sempre sapere in che ordine di valori si sta agendo, e non si può sbagliare oltre il terzo di diaframma. Ed è tutto qui. ❖



Centocinquant’anni (nel 1989) di Maurizio Rebuzzini (Franti)

1839...1989 (E NON ALTRO)

C

Cerca e ricerca. Scopri e archivia. Accantona e costruisci. Questi, e altri ancora, sono i concetti (ideali?) che ispirano la documentazione storica degli elementi che compongono il vasto contenitore della socialità e del costume fotografico, ulteriore e parallelo alla lunga e nobile vicenda della affascinante evoluzione del linguaggio estetico, dell’espressione della comunicazione visiva e della tecnologia applicata... anche. Straordinaria presenza culturale del Ventesimo e Ventunesimo secolo, durante i quali ha affermato -e sta ancora affermando- i propri ruoli e le proprie peculiarità, la Fotografia è parte integrante del nostro mondo, che non sempre le riconosce, però, adeguata personalità; quantomeno, dove occuparsi di Fotografia è ancora considerata attività settoriale e non complessiva (soprattutto in Italia!). Altro discorso, che porterebbe lontano, e che -quindi- lasciamo a tempi e spazi adeguati. Più tranquillamente e serenamente, componiamo qui un altro capitolo di quella affascinante storia parallela, tratteggiata da attestazioni che celebrano (hanno celebrato) la Fotografia in altri e da altri ambiti. Come annotato in tante occasioni, a questa precedenti, sia per quantità, sia per qualità, la presenza della Fotografia in manifestazioni esterne è sostanzialmente significativa: dal cinema alla narrativa, alla filatelia, al fumetto... a tanto altro, ancora. In genere, per accorgersi di questo, occorre volontà mirata, occhio attento, predisposizione e voglia di spendere denari propri a favore di qualcosa (la Fotografia, per l’appunto) dalla quale ri-

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Centocinquanta anni di Fotografia (1839-1989): Turchia. In due valori, del 17 ottobre 1989, qui su busta filatelica con annullo del primo giorno di emissione.

Centocinquanta anni di Fotografia (1839-1989): Finlandia. Emissione del 6 febbraio 1989, in stilizzazione... stereotipata.

Foglio Souvenir messicano, del 9 dicembre 2000: commemorativo di Cento anni di Fotografia, altrimenti conteggiato tra i soggetti della serie Messico dal Ventesimo secolo al Terzo millennio / arte, oppure nell’accertamento 2000, New Millennium / Photography. Tra gli autori celebrati, Manuel Álvarez Bravo e Tina Modotti.


Centocinquant’anni (nel 1989)

ceviamo (dovremmo ricevere) reddito, per quanto sempre in misura minore: e sappiamo bene di essere soli in questo cammino, che altri “colleghi” frequentano a volo alto e in totale egoismo di intenti ed esecuzione. A seguire, «cerca e ricerca; scopri e archivia; accantona e costruisci», ci dovrà pur essere chi, da istituzioni pubbliche o altro, arrivi a mettere ordine e disciplina in tanto accattivante materiale raccolto e incasellato, che, personalmente, noi proponiamo all’attenzione generale in forma (quantomeno) disordinata. Forse.

CENTOTTANTA ANNI

Centocinquanta anni di Fotografia (1839-1989): Guyana, del 15 aprile 1989. Emissione filatelica? Per mille motivi, novecentonovantanove dei quali solo nostri, consideriamo questi due francobolli nel casellario delle celebrazioni filateliche del nostro centocinquantenario. Ovviamente, non siamo così sprovveduti; siamo consapevoli che si tratta unicamente di una sovrastampa tipografica su francobolli preesistenti, con conseguente aggiornamento di tariffa postale.

Nel corrente Duemiladiciannove, avremmo potuto (dovuto!) celebrare il centottantesimo anniversario della Fotografia, datando dalle giornate originarie del 1839 durante le quali tutto è cominciato. Individualmente, lo scorso febbraio, abbiamo relazionato sulla sequenza di momenti che hanno scandito i giorni e mesi avviati dalla relazione sull’invenzione del dagherrotipo, svolta dall’accademico François Jean Dominique Arago, matematico, astronomo e fisico, ma soprattutto influente uomo politico della Francia del primo Ottocento. Il 7 gennaio 1839, all’Académie des Sciences di Parigi, Louis Jacques Mandé Daguerre ottenne il crisma ufficiale della sua invenzione. Così che, datiamo la nascita della fotografia (in forma di dagherrotipo) da quel lunedì d’inverno -nell’anno del cinquantenario della Rivoluzione del 1789-, al quale seguì, sette mesi dopo, la presentazione del suc-

Centocinquanta anni di Fotografia (1839-1989): Australia. Quattro valori per pionieri e figure di spicco della fotografia australiana, in emissione del 13 maggio 1991. Su cartoline postali personalizzate: Wolfgang Georg Sievers (1913-2007), Max Dupain (Maxwell Spencer Dupain; 1911-1999), Harold Cazneaux (1878-1953) e Olive Cotton (1911-2003).

(a sinistra, centro pagina) Centocinquanta anni di Fotografia (1839-1989): Uruguay. Centocinquantesimo della “Prima fotografia realizzata a Río de la Plata / 1840-1990”.

cessivo diciannove agosto. Comunque: 1839-2019 fanno centottanta anni (e ora, e qui, lasciamo perdere i sofismi, anche nostri, che riconoscono a William Henry Fox Talbot meriti più sostanziosi e approfondiscono l’idea -ancora, nostra!- secondo la quale la “fotografia” sarebbe stata latente in quel Tempo e per il Pensiero sociale allora coerente). Bene: un’opportunità per parlare e discutere sulla Fotografia, che avrebbe potuto essere colta... e non è stata raccolta. Nulla è stato fatto da nessuno, quantomeno qui in Italia: né istituzioni, né organizzazioni di settore, né altri se ne sono occupati. Addirittura, il programma Coscienza dell’Uomo, in cartellone a Matera, lungo tutto l’anno, al quale abbiamo offerto il nostro contributo (stante risultanze palesi ed evidenti, contributo sgradito), è riuscito a combinare nulla. Ma non è grave tanto quanto stiamo per riferire. Sentite questa. Due potenti e autorevoli associazioni di categoria, AIF Associazione Italiana Foto-Digital Imaging, che riunisce distributori nazionali (e produttori), e Ascofoto, «l’associazione dei negozianti e professionisti del settore fotografico», hanno organizzato un convegno di grande rilievo e spessore: Foto Retail. Il mondo Imaging incontra il Canale specializzato. Rivolto e indirizzato soprattutto ai negozianti (retail), si svolge di lunedì, giorno di chiusura, o mezza chiusura, del commercio al dettaglio (soprattutto nell’area nord del paese): undici settembre. Per curiosa concomitanza, e favorevole

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opportunità (?), martedì dodici ricorre il centottantesimo anniversario dalla Relazione di Macedonio Melloni, primo rapporto/resoconto ufficiale e pubblico italiano sull’invenzione della Fotografia [su questo numero, da pagina 8]. Abbiamo proposto di inserire due parole per celebrare e commemorare la coincidenza, alla quale noi dobbiamo molto... forse tutto. Siamo in attesa di risposta, che certamente non verrà [su questo numero, a pagina 7, in conclusione di Editoriale]. Nel frattempo, e in parallelo, per i dieci anni della Freccia Rossa, sono mesi che Trenitalia sottolinea e vanta, e immaginiamoci alle date certificate di fine novembre / inizio dicembre. A onor del vero, va ricordato qualcuno che, per propria buona volontà e ammirabile attenzione, si è ricordato del centottantesimo anniversario della Fotografia. Prima di tutto, segnaliamo Voghera Fotografia 2019, seconda edizione di un accattivante «incontro nazionale dedicato alla fotografia d’autore, organizzato e promosso da Spazio 53 - Visual Imaging, in collaborazione con l’Assessorato alla Cultura del Comune di Voghera». Per doveroso senso di appartenenza di uno degli organizzatori (Arnaldo Calanca), in uno dei suoi quattro fine settimana d’autunno, da sabato quattordici settembre a domenica sei ottobre, il Festival ha inserito un avvincente e convincente speech a tema: Ma che Storia è mai questa? - Storielle dalla Fotografia... nel suo centottantesimo (1839-2019).

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Centocinquanta anni di Fotografia (1839-1989): Canada. In attesa di poter catalogare con certezza quanto le poste canadesi hanno cadenzato sul centocinquantenario, documentiamo l’annullo filatelico del 23 giugno 1989 su una busta personalizzata e affrancata con i quattro francobolli della serie originaria dedicata a pionieri della fotografia nazionale: William Notman (1826-1891), W. Hanson Boorne (1859-1945), Alexander Henderson (1831-1913) e Jules-Ernest Livernois (1851-1933).

Quindi, replica programmata, per quanto in misura ridotta, a contorno delle manifestazioni per l’ottantesimo anniversario della Società Fotografica Novarese (Sfn), fondata nel 1939 [nel Centenario!], il cui scopo statutario prevede la promozione e diffusione della cultura fotografica amatoriale dal punto di vista tecnico ed estetico. Per il resto, silenzio colpevole da altre componenti della filiera, soprattutto da quelle commerciali, che evocano a parole e non mantengono mai. Infatti, da e con Enzo Jannacci: «Come gli aeroplani che si parlano tra di loro / e discutono e non si dicono mai niente / come gli aeroplani, / come gli aeroplani che son sempre rimasti al suolo / perché non li hanno mai aggiustati decentemente. / Come te che fai schifo e non lo sai / mentre inneschi il mercato globale / al posto dell’altruismo / per l’umiliazione della mia gente» (in Come gli aeroplani, con Paolo Jannacci; nell’album Come gli aeroplani, del 2001).

CENTOCINQUANTA / 1 (pagina accanto, in alto) Centocinquanta anni di Fotografia (1839-1989): Brasile. Sul francobollo emesso il 14 agosto 1989, si evocano i pionieri Niépce, Daguerre, Fox Talbot e Bayard. E, ancora, Antoine Hércules Romuald Florence (1804-1879), brasiliano d’adozione.

Nel canonico 1989, durante il quale furono allestite numerose iniziative storico-retrospettive in celebrazione del centocinquantenario della Fotografia, conteggiato dal 1839 di origine ufficiale, si sono registrate anche sostanziose iniziative filateliche. Consistentemente, questo insieme, a un tempo quantitativo quanto qualitativo, conferma quello spirito del tributo esterno alla Fotografia che completa (oppure, potrebbe completare) i racconti storici e le rievocazioni

a tema; ribadiamo, materia di istituzioni ufficiali che dovrebbero dedicare propri ordinamenti alla Fotografia. Accompagnati da una affrancatura francese per il centenario 1839-1939 (orgoglio nazionale; emissione del 24 aprile 1939, in un tempo nel quale ben altri erano i pensieri che attraversavano l’Europa e il Mondo: ombre di guerra, che maturarono di lì a breve), otto di questi francobolli per il centocinquantenario della Fotografia hanno illustrato il nostro intervento redazionale in sintesi dell’attuale centottantesimo anniversario, pubblicato lo scorso febbraio. Prima di presentare altri soggetti che completano il casellario, ricordiamo quegli otto in origine di nostra celebrazione, in ordine di loro messa in pagina: ❯ emissione della Repubblica Popolare Cinese, del 15 ottobre 1989; peraltro, l’unica ad aver sottolineato -nel proprio soggetto- il simbolo ufficiale che fu coniato per l’occasione, nel quale la fatidica data/cifra “150” simula un apparecchio fotografico, in questo caso portato all’altezza dell’occhio; ❯ tre soggetti filatelici con i quali, il 6 settembre 1989, Suriname ha celebrato i centocinquanta anni dall’annuncio e presentazione della Fotografia: apparecchio per dagherrotipia, Joseph Nicéphore Niépce e Louis Jacques Mandé Daguerre; ❯ per la propria emissione filatelica celebrativa, del 29 agosto 1989, la Bulgaria ha ricordato l’esperienza fotografica di Nadar (Gaspard-Félix Tour-


Centocinquant’anni (nel 1989)

nachon) dal pallone aerostatico, riproponendo la celebre litografia ironica di Honoré Daumier, del 1862, nella quale il fotografo parigino «eleva la Fotografia all’altezza dell’arte» [nostra finalizzazione nel “numero nero” Vogliamo parlarne?, dell’aprile 2011]; in abbinamento, una visione della Cattedrale di Aleksandär Nevski, nella capitale Sofia, con dirigibile in volo; ❯ due i soggetti filatelici polacchi per i centocinquanta anni della Fotografia, emessi il 27 novembre 1989; nel febbraio 2019, in nostra memoria dei centottanta anni (1839-2019), in illustrazione, il valore di quaranta złoty, che riprende una evidenza fotografica, con apparecchio e treppiedi, per ricordare l’autorevole fotografo polacco Maksymilian Strasz (1804-1885); l’altro, allora non visualizzato, è oggi inserito nell’odierna passerella. Da ses-

santa złoty, sintetizza l’iride delle lamelle del diaframma al centro di un occhio fisiologico stilizzato (analogo/identico al logotipo della rete televisiva statunitense Cbs Television); ❯ la celebrazione filatelica sovietica, con emissione del 24 maggio 1989, riconduce al concetto (e valore!) di negativo/positivo. Se vogliamo vederla così, in individualità di pensiero nostro... magari forzato, potremmo ipotizzare una presa di distanza dalla nascita ufficiale in forma di dagherrotipo (in copia unica, su sottile e delicata lamina d’argento esposta in ripresa), a favore del processo calotipico di William Henry Fox Talbot, per l’appunto con negativo dal quale ricavare copie positive in quantità ufficialmente illimitata, che -a tutti gli effetti- deve essere considerato come l’effettivamente originario della Fotografia, come l’abbia-

Centocinquanta anni di Fotografia (1839-1989): Polonia. Annullo filatelico dei due francobolli dedicati, emessi il 27 novembre 1989. Uno dei due soggetti, dedicato al fotografo Maksymilian Strasz (1804-1885), è stato visualizzato in FOTOgraphia, dello scorso febbraio. Centocinquanta anni di Fotografia (1839-1989): Austria. Non emissioni filateliche, ma annulli dedicati: ne conosciamo due... e qui certifichiamo (13 e 19 agosto 1989).

mo sempre intesa e come continuiamo a considerarla e interpretarla, ancora oggi, quando il file digitale ha sostituito il negativo chimico; ❯ sostanzialmente anonima, oltre che generica, la celebrazione del centocinquantenario della Fotografia in emissione filatelica della Repubblica di Nauru, del 19 novembre 1989. In identificazione geografica, precisiamo che si tratta di un piccolo stato insulare dell’Oceania della Micronesia (filatelicamente acclamata, la Micronesia, per una sua emissione con Leica originaria [tante e ripetute le nostre evocazioni al proposito; qui non è il caso di ribadire]), con diecimila abitanti.

CENTOCINQUANTA / 2 Oltre questi primi otto esempi, da qui, altri francobolli celebrativi dei centocinquanta anni di Fotografia (1839-1989).

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Centocinquant’anni (nel 1989)

Anzitutto, in casellario, richiamiamo le emissioni filateliche singole, o quasi, distribuite nel mondo; in alfabetico: ❯ Brasile, del 14 agosto 1989, con evocazione dei pionieri Niépce, Daguerre, Fox Talbot e Bayard, ai quali si aggiunge il francese Antoine Hércules Romuald Florence (1804-1879), emigrato in Brasile, del quale -recentemente- sono stati ritrovati studi originari della natura che si fa di sé medesima pittrice (da tornare sull’argomento); ❯ Finlandia, del 6 febbraio 1989; ❯ Guyana, del 15 aprile 1989 (?); ❯ due valori turchi, del 17 ottobre 1989; ❯ e Ungheria, del 15 giugno 1989. Dalle emissioni filateliche singole, o quasi (Turchia in due valori), approdiamo a celebrazioni più articolate del centocinquantenario della Fotografia (18391989). Anzitutto, richiamiamo il controverso caso delle poste canadesi, che è (ci appare) estremamente complesso, tanto da richiedere approfondimenti qualificati (da parte di chi? quando? con che mezzi? e perché, poi, farlo?), che possano fare luce sulle innumerevoli emissioni filateliche che richiamano il centocinquantenario, riferendolo alla fotografia canadese, raccolte in una successione (disordinata?) di fogli Souvenir da tre a cinque valori ciascuno. Dal 22 marzo 2013, di origine (forse) certa, ne sono stati realizzati una mezza dozzina. È probabile, ma non certo, che l’ultimo sia stato pubblicato nel 2017, ma, poi, sono state realizzate ulteriori raccolte in miscellanea. In ogni caso, mai la Fotografia attraverso pro-

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Centocinquanta anni di Fotografia (1839-1989): Bermuda. Sei immagini storiche in annullo filatelico dell’11 maggio 1989.

(a destra) Centocinquanta anni di Fotografia (1839-1989): Ungheria. Ancora uno stereotipo di maniera, del 15 giugno 1989.

(in alto, a sinistra) Centocinquanta anni di Fotografia (1839-1989): Nazioni Unite. Busta personalizzata International Photographic Council, con logotipo ufficiale dei centocinquant’anni, affrancata il 17 marzo 1989 (con francobollo “Fujifilm” certificato).

(in alto, a destra) Centocinquanta anni di Fotografia (1839-1989): Svezia. Tre valori emessi il 6 ottobre 1989: richiami a simbologie schematizzate.

prie simbologie di richiamo, ma sempre e soltanto fotografie attribuite ad autori storici, perfino contemporanei. Insomma: da ristudiare con attenzione e dedizione, magari le nostre di sempre. Sicuramente, andando a interpellare le Poste canadesi. Quindi, concludiamo con casi da trattare a sé, ciascuno per sé, in ordine di esposizione logica (forse). L’Austria non ha emesso alcun francobollo per il nostro centocinquantenario, ma ha realizzato annulli dedicati (siamo a conoscenza di due, rispettivamente datati 13 e 19 agosto 1989). Analogo è il caso delle Nazioni Unite, attraverso una busta personalizzata International Photographic Council, con logotipo ufficiale (quello utilizzato anche dalla Cina [FOTOgraphia, febbraio 2019]) e francobollo raffigurante il palazzo dell’Onu, a New York, specificato da fotografia 6x17cm Fujifilm. Il Booklet svedese di tre valori, emesso il 6 ottobre 1990, richiama simbologie fotografiche schematizzate. Il 12 settembre 1991, l’Uruguay ha celebrato il centocinquantesimo della “Prima fotografia realizzata a Río de la Plata / 1840-1990”. [A proposito, scartate a lato ipotesi prive di riscontro e speculazioni, va accettata come prima fotografia italiana, in forma di dagherrotipo (processo originario), la raffigurazione della Gran Madre di Dio, a Torino, oggi conservata nell’archivio storico della Gam (Galleria Civica d’Arte Moderna, di Torino), attribuita a Enrico Federico Jest e realiz-

zata l’8 ottobre 1839, agli albori della stessa Fotografia (annunciata il sette gennaio e presentata il successivo diciannove agosto, a Parigi). Come anticipato, sappiamo bene di altre opinioni al proposito -nessuna delle quali solidamente verificata-, ma, allo stesso momento, conosciamo anche lo stato dello studio storico della Fotografia, in Italia, mortificato da condizioni istituzionali quantomeno incerte e grottesche. Per cui, consideriamo appropriata l’accoglienza di un dato certo, per quanto probabilmente non rispondente all’attribuzione accreditata. Niente di più, né diverso]. Quindi, in chiusura, al pari del Canada, anche Bermuda e Australia hanno onorato e glorificato la fotografia nazionale: quattro autori moderni per l’Australia, il 13 maggio 1991; sei immagini storiche, l’11 maggio 1989, per Bermuda. In aggiunta, merita considerazione il foglio Souvenir messicano del 9 dicembre 2000, celebrativo e commemorativo di Cento anni di Fotografia, altrimenti identificabile tra i soggetti della serie Messico dal Ventesimo secolo al Terzo millennio / arte, oppure nell’accertamento 2000, New Millennium / Photography: in ogni caso, supporto di 130x220mm con cinque francobolli singoli e altri cinque collegati. Non si menziona il centocinquantenario, oggi soggetto, ma si certificano le presenze di autori celebrati, tra i quali Manuel Álvarez Bravo e Tina Modotti. Basta! ❖


Parole di altri a cura di Franti

Itaca Se per Itaca volgi il tuo viaggio, fa voti che ti sia lunga la via, e colma di vicende e conoscenze. Non temere i Lestrìgoni e i Ciclopi o Posidone incollerito: mai troverai tali mostri per la via, se resta il tuo pensiero alto, e squisita è l’emozione che ti tocca il cuore e il corpo. Né Lestrìgoni o Ciclopi né Posidone asprigno incontrerai, se non li rechi dentro, nel tuo cuore, se non li drizza il cuore innanzi a te. Fa voti che ti sia lunga la via, E siano tanti i mattini d’estate che ti vedano entrare (e con che gioia allegra) in porti sconosciuti prima. Fa scalo negli empori dei Fenici per acquistare bella mercanzia, madrepore e coralli, ebani e ambre, voluttuosi aromi d’ogni sorta, quanti più puoi voluttuosi aromi. Rècati in molte città dell’Egitto, a imparare imparare dai sapienti. Itaca tieni sempre nella mente. La tua sorte ti segna quell’approdo. Ma non precipitare il tuo viaggio. Meglio che duri molti anni, che vecchio tu finalmente attracchi all’isoletta, ricco di quanto guadagnasti in via, senza aspettare che ti dia ricchezze. Itaca t’ha dato il bel viaggio. Senza di lei non ti mettevi in via. Nulla ha da darti più. E se la trovi povera, Itaca non t’ha illuso. Reduce così saggio, così esperto, avrai capito che vuol dire un’Itaca. Costantino Kavafis (Konstantinos Petrou Kavafis; 1863-1933) nella traduzione dell’accademico, filologo classico e grecista italiano Filippo Maria Pontani (1913-1983), del 1961, per l’edizione nella collana Lo Specchio, di (Alberto) Mondadori

Con voce che si esprime in metafora, la poesia Itaca (’Ιθάκη, Ithaki, in greco), scritta nel 1911, configura l’origine, la ragione e -allo stesso momentola meta del Viaggio attraverso la Vita. In adattamento attuale, da e con l’incipit a Alla Photokina e ritorno, di Maurizio Rebuzzini, del 2008: «Qualsiasi viaggio nella Vita, se non fosse intrapreso per Ragioni umane e con Comprensione e Amore, sarebbe un viaggio assolutamente inutile. Parlo sempre di qualcosa che vale la pena ricordare, dal momento che la Tecnologia trasforma in Realtà antichi Sogni. La fonte della tecnologia applicata è quella stessa fonte che alimenta la Vita e l’evoluzione dell’Esistenza». Dunque, e nel tangibile, Viaggio equiparabile a quello di Ulisse, che ognuno compie nel tragitto della Vita. Come Ulisse verso Itaca, anche l’Uomo è in accordo e sintonia con... se stesso (?).

Konstantinos Petrou Kavafis (Costantino Kavafis) suggerisce un passo, un ritmo, una cadenza; addirittura, sollecita verso un Viaggio ricco di esperienze, messaggero di conoscenze. Nessuna fretta (casomai qualche rapidità, di pensiero e comprensione), verso un approdo equilibrato e saggio, e non prematuro. Infatti, non è necessariamente la meta che conta, bensì il Viaggio. Con i dovuti distinguo e la necessaria intelligenza di considerazione e applicazione, in e con la Fotografia, non importa tanto il Come, quanto il Perché; ancora: in e con la Fotografia, il Viaggio è sorgente di ricchezze morali (che, a volte, si convertono in prosperità materiali... perché no?). Ovviamente, occorre rilevare che “Itaca” è metafora del Sapere e della Conoscenza. In QR Code, in italiano, in altra traduzione, con la voce di Carlo Stanzani, dal film Il mandolino del capitano Corelli, di John Madden, del 2001.



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