FOTOgraphia 254 settembre 2019

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Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano

ANNO XXVI - NUMERO 254 - SETTEMBRE 2019

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Karl Bulla RUSSIA DI UN TEMPO

Venticinque anni UN QUARTO DI SECOLO

TIZIANA E GIANNI BALDIZZONE TRASMETTERE LA CONOSCENZA


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prima di cominciare UN PASSO INDIETRO, UNO IN AVANTI. A proposito delle testimonianze giornalistiche dell’Hasselblad sulla Luna, delle quali ci siamo occupati lo scorso luglio, in cinquantenario dall’allunaggio di Apollo 11 (20 luglio 1969), torniamo con una ulteriore citazione, che non ha trovato posto nella nostra relazione appositamente compilata. Sulla copertina di National Geographic del luglio 1971, in lancio visivo della presentazione e commento della missione Apollo 14 (gli astronauti Alan Bartlett Shepard Jr e Edgar “Ed” Dean Mitchell, in allunaggio il cinque febbraio), si intravede Alan Shepard al lavoro sul suolo lunare, accanto una installazione di rilevamento scientifico, con l’immancabile Hasselblad 500EL/70 ancorata alla tuta.

Non esistono colpevoli, perché tutti siamo solo vittime. mFranti; su questo numero, a pagina 8 Avete una idea di quanto sia stato lungo il processo che ha portato agli animali che abbiamo oggi sulla Terra? E quanto sia breve il tempo per sterminarli? Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 7 Come è noto, nessuno vede i quattro quinti dell’iceberg nascosti sott’acqua. Anche il sommerso può essere avvincente e bellissimo. Lello Piazza; su questo numero, a pagina 32 New York è la «città di guglie e alberi maestri», di Walt Whitman. È la «musica incantatrice» che il pittore John Marin finì per udire: squilli d’arrogante superbia. Angelo Galantini; su questo numero, a pagina 45 Ovunque, non abbiamo mai visto una foresta, ma notato gli alberi, puntualmente collocati in propri spazi della nostra memoria. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 10

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2)

E tanto ci basta. Antonio Bordoni; su questo numero, a pagina 15 Quindi, in attualità temporale, in allineamento editoriale con la pubblicazione originaria statunitense, l’edizione italiana di National Geographic, dello scorso luglio, si è conformata alle celebrazioni del cinquantenario 1969-2019 con un proprio colto intervento giornalistico. In copertina, la visione della Terra che sorge dalla Luna, così come l’ha fotografata l’equipaggio di Apollo 11 (e, poi, hanno ripetuto tutte le missioni spaziali statunitensi; oltre la paternità originaria di Apollo 8 [FOTOgraphia, febbraio 2019]). Il fotogramma 6x6cm su pellicola 70mm a doppia perforazione, con scorrimento verticale nel magazzino Hasselblad, sottintende una inquadratura rovesciata (e perché mai?), oppure è reimpostazione a uso/finalità grafica? Non importa.

Copertina Dal consistente progetto fotografico Transmissions, di Tiziana e Gianni Baldizzone, in mostra a Torino dal prossimo trenta ottobre. In Burkina Faso, Yacouba Bondé, scultore di maschere Bwaba, con un discepolo. È uno dei momenti del passaggio di un sapere da una persona all’altra. Da pagina 26

3 Altri tempi (fotografici) Annuncio pubblicitario Wellington (altrove, “La sovrana delle carte fotografiche”; in distribuzione A. Capitani), con richiamo a un concorso a premi. Febbraio 1927

7 Editoriale Clerici vagantes / chierici vaganti. Per quanto...

8 Un quarto di secolo In considerazioni e conteggi temporali basati sul cammino della nostra Vita redazionale e giornalistica, i tanti cambiamenti intervenuti in questi venticinque anni

12 Due più due fa quattro Altro richiamo dallo scorso luglio: Sophia Loren legge su un quotidiano dell’impresa spaziale di Jurij Gagarin (12 aprile 1961; primo Uomo nello Spazio).

Il numero di agosto di Vogue Italia è stato distribuito con quattro copertine, tra le quali scegliere: proposizione di due modelle di vertice nella moda di anni fa (Claudia Schiffer e Stephanie Seymour). Con precedenti di Antonio Bordoni


SETTEMBRE 2019

RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA

17 In evoluzione... forse Richiamo alle saghe cinematografiche del Pianeta delle scimmie, in allungo sugli animali che hanno anticipato le missioni spaziali sovietiche (cagnetta Laika) e statunitensi (scimpanzé Enos) Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

Anno XXVI - numero 254 - 6,50 euro DIRETTORE

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

IMPAGINAZIONE

Maria Marasciuolo

REDAZIONE

Filippo Rebuzzini

20 Una calda estate Dopo il cinquantenario dall’allunaggio di Apollo 11 (20 luglio 1969), celebrato lo scorso luglio, altri due cinquantenari statunitensi, dall’agosto Sessantanove: il Festival di Woodstock (quindici-diciotto) e l’assassinio dell’attrice Sharon Tate (otto-nove). Da cui, considerazioni di costume e società, e valutazioni di giornalismo italiano... di un tempo che non c’è più di Maurizio Rebuzzini

26 Trasmettere

CORRISPONDENTE Giulio Forti

FOTOGRAFIE Rouge

SEGRETERIA

Maddalena Fasoli

HANNO

COLLABORATO

Tiziana e Gianni Baldizzone Antonio Bordoni Rinaldo Capra mFranti Angelo Galantini Stefano Pasqualetti Lello Piazza

Consistente e autorevole progetto fotografico di Tiziana e Gianni Baldizzone. Oltre sette anni di lavoro sul campo, più di duecento maestri e allievi, per visualizzare il passaggio del sapere. In mostra di Lello Piazza

Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.com; graphia@tin.it.

35 Dalla Russia di un tempo

● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano.

Grazie a ricerche approfondite e volontà ferree, soprattutto italiane, è stato recuperato un archivio fotografico di grande valore, sia per la nostra Storia, sia per la Storia del Mondo. Epopea di Karl Bulla e dei figli Aleksandr e Viktor, in avvio di Novecento di Rinaldo Capra

42 Ancora New York La monografia New York. Architectural Time, del bravo Stefano Pasqualetti, individua e sottolinea la cifra distintiva della rappresentazione della città nei particolari e dettagli della sua architettura urbana. Immagini che rimandano Tempo assoluto a una città che tempo sembra non averne. In edizione Electa di Angelo Galantini

48 Attorno al 42 (?) Diamo i numeri: considerazioni matematiche attorno un numero che è anche considerato emblematico (ma sarà poi vero?). Quindi, un fantastico 42 dal baseball

Nella stesura della rivista, a volte, utilizziamo testi e immagini che non sono di nostra proprietà [e per le nostre proprietà valga sempre la precisazione certificata nel colophon burocratico, qui accanto: «È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo)»]. In assoluto, non usiamo mai propietà altrui per altre finalità che la critica e discussione di argomenti e considerazioni. Quindi, nel rispetto del diritto d'autore, testi e immagini altrui vengono riprodotti e presentati ai sensi degli articoli 65 / comma 2, 70 / comma 1bis e 101 / comma 1, della Legge 633/1941 / Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio.

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Rivista associata a TIPA

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Attrezzature fotografiche usate e da collezionismo Specializzato in apparecchi e obiettivi grande formato

di Alessandro Mariconti

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editoriale C

ome affrontare, al giorno d’oggi, l’eventuale dibattito sulla Fotografia, per qualsivoglia dei suoi aspetti linguistici, di contenuto e influenza sullo svolgimento delle Esistenze? Difficile dirlo, ancora più difficile farlo, in considerazione che, per mille cause ed effetti, lo slittamento verso l’autoreferenzialità è stata elevata stile di Vita [da e con l’Editoriale dello scorso maggio: metro di misura]. Ovvero, a troppi fotografi interessa solo la propria azione e non intendono verificarsi con nulla e nessuno. Ancora, per altrettante mille cause ed effetti, sta venendo sempre meno il piacere (e necessità) di conoscenza del proprio Mondo, dalla sua storia (non in senso nozionistico) alle sue problematiche conseguenti. Per non parlare, poi, di quell’eccesso e abuso di mostre, festival e pubblicazioni completamente privi di senso compiuto. La Fotografia non è certo Una. Il contenitore prevede e presuppone infiniti indirizzi, a monte di un’unica intenzione: quella di comunicare emozioni, sentimenti, valori. Allo stesso momento e tempo, neppure la Scrittura è Una, neppure l’Arte è Una, neppure la vita è solo Una... e Propria. Esistenze singole si incontrano e interagiscono, per quanto ci riguarda attraverso la Fotografia, a partire dalla Fotografia, approdando alla Fotografia. Da cui, un nostro pensiero, spesso richiamato, e qui, una volta ancora, una di più, per quanto non certo l’ultima. Pur avendo tutti noi opinioni proprie, e diverse, su ciò che è degno di Memoria, sappiamo che se possiamo rubare un soffio alla Vita, magari con una fotografia, altrettanto ne possiamo creare uno tutto nostro... magari con una fotografia. Ragionamenti e Pensieri fanno ugualmente parte del Percorso: da parte nostra, fermo restante l’assoluto di osservare, piuttosto che giudicare, e pensare, invece di credere, non ci lasciamo condizionare da climi contrari e avversi, non ci rassegniamo, e proseguiamo nel nostro Cammino di clerici vagantes / chierici vaganti [su questo stesso numero, da pagina otto]. Inviolabilmente, consideriamo la Fotografia fantastico e privilegiato s-punto di riflessione, e prendiamo le distanze da coloro i quali (e sono sempre di più... fotografi e operatori della fotografia) sono approdati a una Fotografia in punto d’arrivo: il proprio. Altrettanto inviolabilmente, ammiriamo quei pensieri e quelle azioni capaci di declinare la Fotografia come... lessico che rivela alla gente ciò che merita di essere visto, non soltanto guardato, e non compreso: per esempio, Anthropocene, del canadese Edward Burtynsky [in FOTOgraphia, di giugno e luglio 2019]. Come affrontare, al giorno d’oggi, questa autentica e irrinunciabile necessità di capire, condividere, approfondire e, perché no, sapere? Come farlo? Come poterlo fare? Impossibile rispondere. Non c’è risposta certa e matematica. Ma ci sono spiriti indomiti che non indietreggiano. Avete una idea di quanto sia stato lungo il processo che ha portato agli animali che abbiamo oggi sulla Terra? E quanto sia breve il tempo per sterminarli? Prendiamoci il Tempo che ci occorre per andare avanti, non tornare indietro. Maurizio Rebuzzini

Siamo diversi, in qualche modo e/o misura? Probabilmente, sì [su questo stesso numero, da pagina 8]. Eccoci qui: (26 aprile 1945) Affissione stradale di «Assunzione dei poteri / da parte del Comitato di Liberazione Nazionale della Lombardia / per volontà ed azione di popolo». Tra le firme, Arturo Cannetta, per il Partito d’Azione: «Averlo incontrato in una mattina di ottobre, nel 1968, ha fatto la differenza nella nostra vita».

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Parliamone di Maurizio Rebuzzini (Franti)

UN QUARTO DI SECOLO

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Lo scorso marzo-aprile, in un numero dalla doppia numerazione 249-250, determinato/causato da condizioni esistenziali sovrastanti, abbiamo comunque celebrato i venticinque anni di edizione, che -per il vero- avrebbero meritato di non arrivare in quel momento particolare, ma avrebbero dovuto conquistare una celebrazione autonoma... per mille motivi, tutti leciti (forse), scanditi invece dal primo cedimento temporale della nostra Vita redazionale e giornalistica. Poco male, soprattutto rispetto tante altre incombenze esistenziali dei nostri tormentati giorni, e ce ne siamo fatti una ragione. Una qualche ragione... per quanto! Ancora e anche qui, dopo averlo fatto dove e quando e per quanto di dovere, siamo profondamente grati a quanti hanno testimoniato per e con noi; li ricordiamo, in ordine di pubblicazione: Ferdinando Scianna (Sono figlio del secolo scorso), Grazia Neri (in intervista di Lello Piazza), Beppe Bolchi (Considerazioni sulle riviste cartacee), Giovanni Gastel (Parlare e ragionare di fotografia), Lello Piazza (La Fotografia si intreccia con la Vita), Gigliola Foschi (Frantifotographia e una storia “Al Femminile”), Alberto Meomartini (Rebuzzini, la Tate Gallery e Matisse), Giuliana Scimé (in intervista di Filippo Rebuzzini), Settimio Benedusi (Fotografia: documento o arte; scritto a diciassette anni), Michele Smargiassi (Ci vogliono certezze nella vita), Giulio Forti (Elogio della carta per i 25 di FOTOgraphia), Roberto Colombo (Inciampare nella carta e nella cultura), Mariateresa Cerretelli (Parole su carta e scrittura di luce), Leonello Bertolucci (Sinestesia, spalanca le tue braccia), [Heinrich Böll ( Aneddoto con effetto deprimente sulla morale del lavoro)], Roberto Tomesani (... Non leggere questo trafiletto) e Pino Bertelli (Sulla fotografia di carta o sulla carta della fotografia!).

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Oggi, a distanza di settimane, mesi, da quelle parole, è doverosa una ulteriore precisazione. Legittimamente (?), nessuno di quei testi ha affrontato un tema discriminante e trasversale ai venticinque anni trascorsi dall’avvio di FOTOgraphia, nel maggio 1994 (per tanti versi, mille anni fa); del resto, per educazione, quella che spesso viene meno al nostro vivere sociale, italiano soprattutto, non è mai adeguato chiedere “come sia successo” al funerale della ragazza morta a casino (soltanto, sono doverose le condoglianze, senza ulteriori approfondimenti. Per cui, qui e ora, riteniamo doveroso considerare quanto è cambiato in questi venticinque anni (lunghi e complessi).

GIÀ... UN QUARTO Venticinque anni! Che assumono altro spessore e quantità, se e quando li si esprime come “quarto di secolo”. Da e con Zucchero Kandinsky (in originale, Sugar Kane Kowalczyk), interpretata da Marilyn Monroe, in A qualcuno piace caldo, film di Billy Wilder, del 1959: «Lo sai che compio venticinque anni, a giugno? È un quarto di secolo! Ti dà da pensare!». «A cosa?», risponde un imbambolato e sorpreso Tony Curtis, nei panni di Josephine (al “femminile” del sassofonista Joe). Un quarto di secolo! Limitandoci all’impegno redazionale, sono stati proprio tanti. Contenuti a parte, che appartengono al cammino e percorso di ognuno di noi (a ciascuno, i propri), per quanto riguarda la forma, l’evoluzione tecnologica in dimensione digitale ha comportato tante e tali semplificazioni di mestiere quotidiano da lasciare allibiti. In senso positivo (?), annotiamo che se ciò non fosse accaduto, la flessione tragica del commercio fotografico, con ricaduta sull’impoverimento pubblicitario (fonte indispensabile), non sarebbe stata affrontabile, né so-

stenibile [comunque, le due condizioni sono tanto legate e conseguenti, che una ha determinato l’altra, e viceversa: se non fosse sopraggiunta una rivoluzione digitale, estesa a tutto il vivere quotidiano, non ci sarebbe stata flessione commerciale]. Detta chiaramente, al giorno d’oggi, non potremmo pubblicare se dovessimo spendere i soldi che venticinque anni fa (neppure in aggiornamento monetario, ma proprio e solo in valore assoluto) servivano per la trasformazione litografica. Azzerati i costi per gli impianti fotolitografici, per la composizione dei testi (per il vero, già risolta al nostro avvio), per la preparazione delle lastre... oggi possiamo agire con economie infrastrutturali contenute, adeguate alle ridotte risorse pubblicitarie che si ricavano. Allo stesso tempo, si è drasticamente trasformata (in bene?) la produzione quotidiana, che oggi può accedere all’ausilio della Rete, con tutte le informazioni che è capace di distribuire. Certo, bisogna avere sempre chiarezza del proprio professionismo e relativo svolgimento, così come si deve saper distinguere tra le tante/troppe fonti a disposizione... però, diavolo, quale praticità è poter fare a meno di tutte le enciclopedie e i manuali che, venticinque anni fa, occupavano metri e metri della nostra libreria (che, comunque, sono stati liberati per ospitare sempre e comunque carta: soprattutto, monografie illustrate, saggi e riviste). Però, come tutto nel Mondo, queste semplificazioni operative si portano appresso un retrogusto amaro: quello di favorire e sostenere l’incapacità individuale. Ovvero, nello scompiglio secondo il quale si confonde la proprietà dei mezzi di produzione (computer, software, macchine fotografiche...) con la capacità di usarli, è inevitabile che la qualità venga sistematicamente meno. Diciamocelo, guardandoci attorno, sfogliando

riviste e libri ormai prodotti a ritmo serrato: il professionismo (che abbiamo conosciuto e frequentato, nello specifico editoriale) è ormai svanito. Sono venuti meno redattori, e le messe in pagina ne risentono; sono scomparsi gli uffici stampa, e prevale solo lo spettacolo; si sono estinti i fotografi coscienti e consapevoli, e il lessico relativo sta sfumando; (almeno qui da noi, nel nostro paese) l’apparenza sovrasta la sostanza, e tutti ne paghiamo il prezzo. Del resto, come già osservato per altri riferimenti, altrettanto alti e sostanziali, non esistono veri colpevoli, perché tutti -in fondosiamo solo vittime.

FOTOGRAFI... OGGI In ripresa di rilevazione: si sono estinti i fotografi coscienti e consapevoli, e il lessico relativo sta sfumando. Fino a venticinque anni fa, circa, chi -come noi- si occupava di Fotografia, lo faceva in un clima entro il quale il dibattito e l’approfondimento erano materia quotidiana, oltre che appassionati, coinvolgenti e arricchenti. Tanto per quantificare, in anni ancora antecedenti, le riviste di settore svolgevano un ruolo determinante, sia in forma di pensiero (testate a questo indirizzate: volente o nolente, Popular Photography Italiana e Photo 13, per tanti versi eredi di esperienze ancora precedenti... Ferrania, e dintorni), sia in approfondimento tecnico-commerciale (con la direzione di Giulio Forti, poi editore e direttore di Reflex / Fotografia Reflex, il mensile Fotografare raggiunse le centomila copie di vendita, che nessuna testata fotografica odierna riesce a sfiorare in un anno di edizione: tanto da influenzare le scelte commerciali del pubblico consumatore). Ma, ancora venticinque anni fa, tutti noi condividevamo letture e riflessioni, nel bene, come nel contestabile: tanto per dire, da Walter


Parliamone Benjamin (L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica; in Italia, dal 1966) a Roland Barthes (La camera chiara; dal 1980), da Beaumont Newhall (L’immagine latente. Storia dell’invenzione della fotografia; del 1968) a Susan Sontag (Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società; dal 1977), al capace Helmut Gernsheim, al quale dobbiamo il ritrovamento della prima eliografia di Joseph Nicéphore Niépce, della finestra di Gras (soprattutto, per la sua Storia della fotografia, a quattro mani con la moglie Alison, pubblicata da Frassinelli, nel 1966), a Gisèle Freund (Fotografia e società; dal 1974), a Franco Vaccari (Fotografia e inconscio tecnologico; dal 1994), a Vilém Flusser (Per una filosofia della fotografia; del 1987, per Agorà Editrice), a Bertold Brecht (L’Abicí della guerra; dal 1972 [FOTOgraphia, giugno 2012]), a Ugo Mulas (La fotografia; dal 1973), a Guy Debord (La società dello spettacolo; dal 1968)... ad altri compagni di strada, condivisi e comuni a tutti noi (di allora). Oggi, no: oggi non si condivide nulla, non soltanto molto, a parte i Like dei social, che hanno creato nuovi mostri, nuovi freak, autentici fenomeni da baraccone. Perché oggi, rileviamolo, attraverso la complicità e connivenza della Rete, che tanto guarda ma nulla vede, anche qualche “fotografo”, anche tanti “fotografi”, anche troppi “fotografi”, cercano soltanto coloro che danno loro ragione, in accondiscendenza (previo bloccare le eventuali opinioni sgradite). Diversamente, venticinque anni fa, ancora, si sognava l’assenza di confini, la voglia di andare oltre (come fece, negli anni Quaranta, Edwin H. Land con la fotografia a sviluppo immediato: lui, scienziato sostanzialmente estraneo alla materia, che però, poi, avrebbe onorato con propri atteggiamenti, fino alla realizzazione di una Collezione d’amore e partecipazione). Non c’era tanto la professione, quanto il mestiere, in una distinzione gerarchica che dà valore al secondo concetto, rispetto al primo. Non c’erano ordini di pensiero preco-

struiti, o -almeno- molti di noi non ne avevano (noi stessi, tra questi; con ulteriore richiamo a Steve Jobs, da molti stoltamente beatificato all’indomani della sua prematura scomparsa, nell’ottobre 2011: che non pensò al computer per se stesso, ma per tutti).

SE STESSI... E BASTA Oggi, paroline personali, autoreferenzialità e contorni guidano il nostro quotidiano, anche solo quello fotografico: dopo averlo menzionato lo scorso maggio, in allungo sull’Editoriale, una volta ancora, sempre a proposito, richiamiamo qui il definito Effetto Dunning-Kruger, elaborato dagli autorevoli psicologi David Dunning e Justin Kruger, della prestigiosa Cornell University, di Ithaca, nello stato di New York. Così è identificata una distorsione cognitiva a causa della quale individui poco esperti in un campo [anche in quello fotografico, per quanto ci interessa oggi, venticinque anni dopo il nostro avvio, in tempi floridi e promettenti] tendono a sopravvalutare le proprie abilità autovalutandosi, a torto, esperti in quel campo. Come corollario di questa teoria, spesso gli incompetenti si dimostrano estremamente supponenti. Questa distorsione viene attribuita all’incapacità metacognitiva, da parte di chi non è esperto in una materia, di riconoscere i propri limiti ed errori. Il possesso di una reale competenza, al contrario, può produrre la distorsione inversa, con un’affievolita percezione della propria competenza e una diminuzione della fiducia in se stessi, poiché gli individui competenti sarebbero portati a vedere negli altri un grado di comprensione equivalente al proprio. Testuale da David Dunning e Justin Kruger: «L’errore di valutazione dell’incompetente deriva da un giudizio errato sul proprio conto, mentre quello di chi è altamente competente deriva da un equivoco sul conto degli altri». [Quarantacinque anni fa, nel 1974, elaborammo una metafora, che -in qualche modo- è anticipatoria dell’Effetto Dunning-

Kruger, appena presentato, per quanto riferita al solo nostro mondo fotografico: «Attorno a noi -rilevammo allora-, si manifestano almeno tre curiose personalità: c’è chi crede di saper fotografare, chi di saper scrivere di fotografia e chi è certo di saper andare a cavallo»... «Ahimè -concludemmo- solo il cavallo protesta». In alternativa, ancora un’altra metafora di allora: «La fotografia italiana, certa fotografia italiana, si presenta come la diligenza di Ombre rosse (il film di John Ford, del 1939), un microcosmo di anime perdute: una prostituta cacciata dalla “lega della moralità”, un dottore alcolizzato, un contabile scappato con i soldi della cassa, uno sceriffo in cerca di identità». Comunque, in ulteriore conclusione: «I critici sono gli indiani, che sulla diligenza vogliono salire»]. Ahinoi, sono cambiati anche i vicini, i compagni di strada: coloro i quali, più di altri, hanno condiviso con noi sogni e speranze di fine anni Sessanta. Dietro la facciata del proprio lavoro, ma mai mestiere, in tanti/troppi hanno aderito alla superficialità della società dello spettacolo... e i risultati li subiamo tutti noi. Ricordiamo che c’è stato un tempo durante il quale, poco più che ventenni, nella prima metà degli anni Settanta del Novecento, abbiamo avuto la fortuna di camminare accanto a pittori di grande valore e eccezionale profondità. Ufficiosamente, riproducevamo le loro opere, ad uso di cataloghi e dintorni; ufficialmente, con alcuni di loro, abbiamo condiviso nottate a giocare a carte (soprattutto, King e Whist, figli illegittimi di altri richiami spettacolari). Ebbene, abbiamo sempre avuto la netta sensazione che Gianfranco Ferroni (19272001), Renzo Vespignani (19242001), Enzo Vicentini (1921-2011), Chicca Gambaro (Maria Antonietta; 1929-1981), Sandro Luporini (1930; poi, anche paroliere, con Giorgio Gaber, del suo Teatro Concerto, esordito nel 1970 con Il signor G; noi ci siamo inseriti a partire da Far finta di essere sani, nel 1973)... abbiamo sempre avuto la netta sensazione che nessuno di loro fosse ignorante della

profondità e storia del proprio agire artistico. Oggi, dobbiamo affermare il contrario per troppi “fotografi” dei nostri giorni, che pensano soltanto a se stessi e ai propri dintorni ristretti (seguìti quotidianamente attraverso le gesta raccontate in Facebook e dintorni/contorni). Eccoci qui: venticinque anni, un quarto di secolo. È cambiata soprattutto la geografia dei frequentatori della Fotografia, o presunti tali... popolino di mostre da parrocchia (e parrocchietta di frequentazione) e libri improbabili, ormai alla portata tecnologica-commerciale-finanziaria di ciascuno di noi. Allora, perché molti si sono persi per strada? Perché altri, salendo sulla diligenza, non l’hanno fatto che per e con autoreferenzialità di basso profilo? Perché noi ipotizziamo di non esserci persi, e di continuare quel cammino avviato un quarto di secolo fa, nonostante attorno a noi tutto sia cambiato (in peggio)? Perché rimaniamo fedeli a princìpi, pur disposti a modificare qualche passo? Perché insistiamo nel nostro intenderci clerici vagantes (o clerici vagi, ovvero “chierici vaganti”), con relativa e coincidente partecipazione e interpretazione di condizioni sociali, valori culturali e fisionomia morale? Forse, per una qualche nostra diversità; una di quelle che arricchiscono / possono arricchire la Vita di coloro i quali ne arrivano a contatto.

DIVERSITÀ... Siamo diversi, in qualche modo e/o misura? Probabilmente, sì. E qui sono doverosi ritorni individuali a tempi passati e trapassati... ben oltre il quarto di secolo qui evocato e preso a campione. Allora: confessiamo di non aver studiato un solo minuto della nostra vita, sia scolastica sia successiva. Invece, abbiamo letto e visto per quanto, di volta in volta, necessario al nostro avvicinamento agli argomenti affrontati. In un rush finale, che ci avrebbe portati al diploma tecnico in Ottica (già... perito ottico, che non ha nulla da spartire con la Fotografia, sia detto per inciso), abbiamo ottenuto considerevoli risultati scolastici: ricor-

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Parliamone diamo pagelle con Dieci in italiano e storia; Nove in matematica e ottica; Otto in disegno ottico. Ma, non studiavamo mai (e non è questo l’atteggiamento che suggeriamo; sia chiaro, studiare è un diritto/dovere irrinunciabile): magari, la nostra ipotizzata diversità ci ha sempre consentito di frazionare le informazioni, di individuare e collocare elementi dall’insieme, senza mai incorrere in sovraccarico, nobilmente identificata come Sindrome di Stendhal (affezione psicosomatica che provoca tachicardia, capogiri, vertigini, confusione e allucinazioni in soggetti messi al cospetto di opere d’arte di straordinaria bellezza, specialmente se sono compresse in spazi limitati). Ancora in tempi recenti, rincontrando per caso un compagno di scuola del tempo, a distanza di trent’anni dai fatti, siamo stati rimproverati perché noi ottenevamo risultati “facendo nulla” (ma è tutto relativo), a dispetto di chi non li otteneva, studiando molto: diversità? Anche visitando edizioni dopo edizioni della Photokina, con relazioni giornalistiche puntuali, dal 1974 di nostro esordio, abbiamo notato differenze rispetto i colleghi giornalisti, affaticati dalle quantità. Alla Photokina, non abbiamo mai visto una foresta, ma notato gli alberi, puntualmente collocati in propri spazi della nostra memoria. Diversità, dunque, o folgorazione personale? Forse, entrambe, considerato che non ci sentiamo mai con la gente che ci sta attorno, ma soltanto tra la gente che frequentiamo: da cui, un nostro benefico viver solitario assai proficuo per la mente (nostra). Dal risvolto di copertina di Alla Photokina e ritorno, considerazioni raccolte in volume nel 2008, all’indomani di una edizione particolare della fiera tecnico-commercialemerceologica di Colonia, in Germania [nota]: «Oltre i debiti di riconoscenza, che dove è stato opportuno farlo ho certificato a [...], non dimentico Arturo Cannetta. Averlo incontrato in una mattina di ottobre, nel 1968, ha fatto la differenza nella mia vita». Chi è, chi

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26 aprile 1945. Affissione stradale di «Assunzione dei poteri / da parte del Comitato di Liberazione Nazionale della Lombardia / per volontà ed azione di popolo». Tra le firme, Arturo Cannetta, per il Partito d’Azione: «Averlo incontrato in una mattina di ottobre, nel 1968, ha fatto la differenza nella mia vita».

è stato per noi, Arturo Cannetta, professore di italiano e storia nel triennio di specializzazione (Ottica) all’Istituto Tecnico Industriale Statale Galileo Galilei, di Milano? Tutto, non soltanto molto!

INCONTRO... All’indomani del diploma, nell’estate 1971, abbiamo cominciato a frequentarci in privato (quanto fu difficile dargli del “tu”, come richiesto). Negli anni scolastici, non parlò mai di se stesso. Poi, ne scoprimmo delle belle. Arturo Cannetta è stato membro attivo e di vertice del prestigioso Partito d’Azione,

negli anni del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (partigiani), sia nel periodo clandestino sia dopo la Liberazione. Lasciata la politica all’indomani della fine della Seconda guerra mondiale, fu lettore presso l’editore Einaudi (lettore è colui il quale legge i manoscritti e ne valuta l’eventualità di pubblicazione): anni nei quali frequentò Cesare Pavese, Elio Vittorini, Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Ludovico Geymonat, Felice Balbo, Antonio Giolitti, Micha Kamenetzki (Ugo Stille), Giulio Bollati, Natalia Ginzburg, Fernanda Pivano, Italo Calvino...

Nota. Ancora in quarta di copertina, la stessa edizione di Alla Photokina e ritorno, del 2008, ha recitato anche: «Qualsiasi viaggio nella vita, se non fosse intrapreso per ragioni umane e con comprensione e amore, sarebbe un viaggio assolutamente inutile. Parlo sempre di qualcosa che vale la pena ricordare, dal momento che la tecnologia trasforma in realtà antichi sogni. La fonte della tecnologia applicata (anche fotografica) è quella stessa fonte che alimenta la vita e l’evoluzione dell’esistenza».

Diversità, dunque, o folgorazione personale? Alla Fotografia, siamo arrivati nell’autunno 1972: per caso (venendo a conoscenza di una possibilità di collaborazione redazionale) e per inganno (vantando conoscenze e capacità che non avevamo di certo; ma, in quei tempi, si poteva farlo). Partiti da anni nei quali la Fotografia era mito per molti, da una classe scolastica nella quale, su sedici che eravamo, quindici ipotizzavano per se stessi un impegno fotografico (e uno solo, no: immaginatevi chi?), ci siamo arrivati senza premeditazione alcuna. Ma assecondando il mestiere e l’etica e la morale. Una volta ancora, una di più, mai una di troppo, da e con Harry G. Frankfurt, professore emerito di filosofia morale all’Università di Princeton, Stati Uniti: «Nei tempi antichi, artisti e artigiani non si concedevano scorciatoie. Lavoravano con attenzione, e curavano ogni aspetto della loro opera. Prendevano in considerazione ogni parte del prodotto, e ciascuna era progettata e realizzata esattamente come avrebbe dovuto. Non allentavano la loro attenta autodisciplina nemmeno riguardo ad aspetti che di norma non sarebbero stati visibili. Anche se nessuno si sarebbe mai accorto di tali imperfezioni, loro dovevano rispondere alla propria coscienza. Perciò, non si nascondeva lo sporco sotto il tappeto». In questi decenni molto è cambiato, trasformandosi (è inevitabile, e forse perfino salutare: il Tempo va avanti, con o senza di noi). Negli ultimi venticinque anni, ai quali ci riferiamo in nostra edizione giornalistica, ancora di più. Abbiamo avvicinato e perso oggetti e tempi: fax, modem, floppy disk, Tamagotchi, Commodore 64, musicassette, CD, Dvd, Vhs... Per la prima volta nella storia dell’Umanità, dell’evoluzione del Sapiens, siamo stati la generazione trasversale che ha assistito alla nascita e morte di qualcosa. Da un quarto di secolo, in Fotografia abbiamo perso molto di più: il Dovere, l’Anima e l’Amore, per lasciare il posto a NoiStessi. Ne è valsa la pena? ❖



A scelta di Antonio Bordoni

DUE PIÙ DUE FA QUATTRO

A

Al solito, per spirito museale/archivista e per gusto storico/cronologico, siamo tra coloro i quali tendono ad accertare ordini temporali che definiscano i fenomeni che via via si incontrano lungo il proprio cammino, inquadrandoli in confini certi e avvii altrettanto assodati: nel nostro caso, in fragile equilibrio tra la Fotografia in quanto tale (e nei propri mille aspetti) e la relazione attorno la Fotografia, in quanto accadimenti trasversali in forma di segni... qualsiasi cosa questo significhi per ciascuno di noi. Così, incrociando una interpretazione giornalistica del numero di agosto (2019) del mensile Vogue Italia, della quale stiamo per commentare la combinazione in quattro copertine differenti, ma simili e coerenti, a scelta del pubblico, non possiamo fare a meno di stabilire confini certi e partenze accertate. Per quanto ne sappiamo, e ricordiamo, il primo caso incontrato risale al gennaio 1997, all’indomani della rielezione di Bill Clinton a presidente degli Stati Uniti (vicepresidente Al Gore / Albert Arnold “Al” Gore Jr), con suffragio del precedente novembre 1996. In quel gennaio, l’autorevole e prestigioso mensile George, edito da John F. Kennedy Jr (solitamente identificato come John John), figlio del presidente ucciso a Dallas, nel 1963, successivamente morto in un incidente aereo (16 luglio 1999), andò in distribuzione con due copertine tra le quali scegliere la preferita [FOTOgraphia, marzo 1997]. A ciascuno, la propria: quella che celebra la vittoria elettorale di Bill Clinton (William Jefferson “Bill” Clinton) e quella che si rammarica per la sconfitta del repubblicano Bob Dole (Robert Joseph Dole), in relative interpretazioni della modella tedesca Claudia Schiffer (prima, sorridente e nuda; quindi, piangente e in toni ombrosi). Oltre a questo, per dovere di cronaca, va registrato che l’intervento giornalistico sull’affermazione elettorale di Bill Clinton è firmato dal prestigioso Norman Mailer, i cui competenti testi accompagnano oggi anche tre eccellenti edizioni Taschen Verlag: MoonFire: The Epic Journey of Apollo 11, presen-

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tato e commentato ancora lo scorso luglio, Norman Mailer. JFK. Superman Comes to the Supermarket [FOTO graphia, giugno 2017] e Norman Mailer / Bert Stern: Marilyn Monroe [FOTO graphia, febbraio 2012]. Da quel (lontano) gennaio di ventidue anni fa (mille anni fa?), altre iniziative redazionali e giornalistiche hanno ripetuto l’opzione della copertina multipla. Prima di approdare all’attualità di Vogue Italia, dello scorso agosto, inviolabile argomento odierno, censiamo questa fenomenologia, per quanto ci è dato di averla incontrata.

PRECEDENTI Per il vero, la nostra storiografia, che parte dalla doppia copertina a scelta di George, del gennaio 1997, non sarebbe proprio esatta al cento percento. Infatti, già nell’ottobre 1995, il mensile francese Photo scompose su quattro copertine “diverse” la propria tiratura di centocinquantamila copie. In ricordo e memoria di Robert Doi-

Nel gennaio 1997, il mensile George realizzò due copertine: celebrazione della vittoria elettorale di Bill Clinton e rammarico per la sconfitta del repubblicano Bob Dole.

Quattro copertine di Elle Italia, del dicembre 2017, celebrative dei propri primi trent’anni di edizione, in un numero speciale “Le belle modelle di Elle”.


A scelta Vogue Italia, agosto 2019: in quattro copertine coerenti tra loro. Due più due, con le modelle (del passato) Claudia Schiffer e Stephanie Seymour, in atteggiamento fotografico da autoscatto: rispettivamente, «Claudia by Claudia» e «Stephanie by Stephanie».

Il 10 aprile 1908, in tempo e clima di elezioni politiche, il Magazine del Corriere della Sera ha proposto una scelta individuale tra quattro leader, in quel tempo di spicco nella politica nazionale: Silvio Berlusconi, Walter Veltroni, Pier Ferdinando Casini e Fausto Bertinotti, ormai dimenticati dalla Cronaca e, forse, persino dalla Storia.

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sneau, scomparso il precedente aprile 1994, a ottantadue anni, fu realizzata una autentica impresa editoriale, per l’appunto Special Robert Doisneau. Ribadiamo, quattro copertine diverse... non nella tiratura litografica, ma nell’accompagnamento su ciascuna di una preziosa stampa bianconero 18,8x12,8cm su carta fotografica Ilford Multigrade IV, incollata al centro della messa in pagina; in questo ordine: Bebop en cave (1951), L’information scolaire (1956) [anche soggetto del francobollo riservato a Robert Doisneau dall’emissione filatelica francese del 10 luglio 1999, riservata a sei fotografi identificati come Les œuvres des grands photographes], Mademoiselle Anita (1951) e Concert Mayol (1949). E ricordiamo l’edizione di Photo Italia, del marzo 1998: tre copertine con stampe fotografiche di André Kertész su carta Agfa Multicontrast Premium. A seguire, nel novembre 2001, due copertine abbinate/scomposte sottolinearono il tema portante del mensile GQ, Bionda o bruna? in alternativa a Bruna o bionda?, con relativi e rispettivi strilli di richiamo alternati: «Pamela Anderson o Monica Bellucci: dimmi che donna ti piace e ti dirò chi sei...» / «Monica Bellucci o Pamela Anderson: dimmi che donna ti piace e ti dirò chi sei...». In “Numero speciale / Due copertine per due tipi di maschio”... alla faccia di tanti altri discorsi, di tanto altro garbo, di tanta altra correttezza di pensiero! Analogamente, tre mesi dopo, Class, del gennaio 2002, replica la doppia copertina in richiamo maschilista, questa volta in scomposizione tra «Rosse» e «Brune», con accompagnamento, “In regalo”, del “Calendario più erotico del 2002... Le ragazze della porta accanto”. In ripetizione di concetto, appena espresso, alla faccia di tanti altri discorsi, di tanto altro garbo, di tanta altra correttezza di pensiero! (Attenzione: per qualche stagione, negli anni antecedenti il Duemiladieci, il mensile Max è arrivato in edicola sempre in doppia copertina: a scelta, al maschile e femminile, ma lasciamo perdere]. Da qui, in ordine temporale, slittiamo su una certa politica nazionale di qualche stagione fa, neppure poi tante, magari poi tante/troppe. In anticipo programmato sulle elezioni politiche, con equilibri di personaggi e partiti che oggi possono anche far sorridere, il 10 aprile 1908, Magazine, l’allora allegato setti-

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A scelta pertine di Vogue Italia, di agosto, per le altrettanto quattro copertine di Elle Italia, dello scorso dicembre 2017, celebrative dei propri primi trent’anni di edizione, in un numero speciale intitolato a “Le belle modelle di Elle”, rima facile, ma efficace.

VOGUE ITALIA

manale al quotidiano Corriere della Sera (nato Sette, evolutosi in Magazine, per l’appunto, e poi/oggi tornato all’identificazione originaria), propose una scelta individuale tra quattro leader, in quel tempo di spicco nella politica nazionale [FOTOgraphia, maggio 2008]: Silvio Berlusconi, Walter Veltroni, Pier Ferdinando Casini e Fausto Bertinotti, ormai dimenticati dalla Cronaca. Comunque, ai tempi, a parità di contenuti interni, ognuno ha così potuto allinearsi con il candidato vicino alle proprie posizioni e convinzioni politiche. Per tanti versi, iniziativa lodevole del settimanale, che, una volta ancora, ha sottolineato la propria attenzione verso la combinazione di parole (giornalistiche) e immagini (fotogiornalistiche), in comunione di intenti. Con datazione certificatoria all’estate 2013, l’edizione cartacea del magazine Bigshot360 (probabilmente la prima della sua edizione, nata online... e, forse, l’unica in distribuzione) ha presentato sette versioni, in altrettante sette interpretazioni facciali della modella Ana, il cui sguardo accattivante ha scandito i giorni della settimana, rigorosamente in inglese (e, all’interno, i testi sono bilingue, con anche l’italiano): lunedì, martedì, mercoledì, giovedì, venerdì, sabato e domenica. Come propria intenzione, i contenuti redazionali sono acquiescenti e indulgenti della società dello spettacolo, in visione dalla moda al design, dall’arredamento all’arte, dalla fotografia al lusso. Il tutto, indirizzato a una utenza giovane (e ignorante?). Ultima segnalazione, in anticipo sulla promessa attualità delle quattro co-

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Ancora prima di riconoscere l’edizione in quattro copertine diverse, ma coerenti una con l’altra, del numero dello scorso agosto di Vogue Italia, il primo elemento che ha attratto la nostra attenzione, più viziata che mirata, è il passo “fotografico” dell’inquadratura, della composizione, un per l’altra connessa a una situazione comprensiva di richiami espliciti: sempre e comunque, il cavo pneumatico per lo scatto a distanza e la presenza di apparecchio fotografico, vuoi in primo piano, vuoi sullo sfondo, ma sempre anche soggetto, non soltanto complemento oggetto. L’azione è esplicita: luci della ribalta per e su due modelle ai vertici della moda di qualche stagione fa. Nello specifico, la tedesca Claudia Schiffer, alla soglia dei suoi cinquant’anni (è nata il 25 agosto 1970), e la californiana Stephanie Seymour, all’alba dei suoi altrettanti cinquant’anni (è nata il 23 luglio 1968). In entrambi i casi, è proposto quello che viene presentato come autoscatto, rispettivamente nei termini di «Claudia by Claudia» e «Stephanie by Stephanie», ognuno in doppia versione, ognuno con certificazione in copertina e richiamo esterno, sulla confezione cellophanata della rivista. Quindi, per non lasciare nessuno all’asciutto, nel caso in cui si acquista una sola delle quattro copie a disposizione, la copertina è realizzata in foldout a quattro facciate, con la ripetizione delle tre che accompagnano quella principale, esterna. All’interno, poi, due ampi servizi moda, firmati da Collier Schorr, fotografo, e Vanessa Reid, styling, con le due modelle... che non possiamo certo definire “attempate” [richiamo dovuto al servizio con il quale, nell’agosto 2008, il settimanale francese Paris Match celebrò la fisicità dell’attrice statunitense Sharon Stone, per i propri cinquant’anni, con fotografie di Alix Malka, copertina e otto pagine interne; FOTO graphia, dell’ottobre 2008]. Otto pagine con e per Claudia Schiffer e altrettante otto con Stephanie Seymour. Da cui, nostre ulteriori annotazioni “viziate”.


A scelta Ottobre 1995. Il mensile francese Photo scompose su quattro copertine la propria tiratura di centocinquantamila copie in ricordo e memoria di Robert Doisneau, scomparso nell’aprile 1994, a ottantadue anni. Quattro copertine diverse... non nella tiratura litografica, ma nell’inserimento su ciascuna di una stampa bianconero 18,8x12,8cm su carta fotografica Ilford Multigrade IV, incollata al centro della messa in pagina.

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Stesso passo, o quasi, in doppia copertina. GQ (novembre 2001): “Bionda o bruna?”, in alternativa a “Bruna o bionda?”. Tre mesi dopo, Class (gennaio 2002) replica in richiamo maschilista, questa volta tra “Rosse o Brune”.

(pagina accanto) Nell’estate 2013, l’edizione cartacea del magazine Bigshot360 ha presentato sette versioni, in altrettante sette interpretazioni facciali della modella Ana, il cui sguardo ha scandito i giorni della settimana.

Il servizio con Claudia Schiffer include due pose comprensive della presenza del fotografo: riflesso in un piccolo specchio quadrato, incluso in una ampia inquadratura orizzontale, e in autoritratto allo specchio, elemento principale della composizione, assieme alla modella. Quello con Stephanie Seymour è ad alto tasso “fotografico”, in forma di complemento oggetto: la modella con Leica digitale a telemetro su treppiedi (due pose); ancora, il fotografo riflesso in un piccolo specchio quadrato, incluso in una ampia inquadratura orizzontale, autoritratto del fotografo, allo specchio, con la modella (tre pose, due delle quali “in azione”), e, ancora, doppia posa da un ampio specchio al soffitto, una con Leica e l’altra con Nikon, alla maniera di (diciamolo) Gio Barto / Narcissus... nudo a parte [FOTOgraphia, giugno 2016, con lancio dalla copertina]. Da qui, e in conclusione, anticipiamo una domanda probabile. Sì, le quattro copertine di questa particolare edizione di Vogue Italia, che riprende e rivitalizza due top model delle stagioni passate (ammesso e non concesso che la certificazione di top model / società dello spettacolo abbia un qualche senso e motivo di essere), possono non essere autoscatti. Certamente, non lo sono: ma non ci interessa, e accettiamo la certificazione ufficiale, coscienti di accogliere un concetto fotografico in condivisione di intenti. Del resto, lo stesso abbiamo già espresso undici anni fa, nel maggio 2008, in presentazione e commento della monografia Do it yourself, del fotografo tedesco Uwe Ommer: in quel caso, modelle nude che si sarebbero (?) fotografate da sé, con l’immancabile scatto pneumatico collegato all’otturatore. Nota parallela, nota di costume, nota viziata: in quarta di copertina di queste quattro edizioni di Vogue Italia, di agosto (che poi è una soltanto, in quattro versioni di copertina), l’annuncio pubblicitario Giorgio Armani è stato realizzato con la modella Kate Moss, altrettanto protagonista di stagioni passate (oggi, ha quarantacinque anni). Significa nulla o poco. Ma, diamine, è una di quelle coincidenze (Claudia Schiffer, Stephanie Seymour, Kate Moss) che rivelano che la vita possa avere un qualche senso. E tanto ci basta. ❖

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Cinema

di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

IN EVOLUZIONE... FORSE

S

Sono tante e policrome le annotazioni che lo scorso luglio hanno composto la nostra celebrazione del cinquantesimo anniversario dall’allunaggio di Apollo 11 (20 luglio 1969), approfittando di questo per rilevare altro: soprattutto, la Fotografia come... linguaggio e rivelazione del Mondo e della Vita. Tra le tante, riprendiamo l’impiego di animali, per prudenza (ovvia?) lanciati nello spazio in anticipo rispetto equipaggi umani. Mitica è la cagnetta Laika, che i sovietici lanciarono il 3 novembre 1957 (Sputnik 2). In contraltare, per gli americani è leggendario lo scimpanzé Enos, la cui missione Mercury-Atlas 5, del 29

novembre 1961, fu (modesta) risposta all’impresa del cosmonauta Jurij Gagarin del precedente dodici 12 aprile 1961: primo Uomo nello Spazio. La differenza tra cane e scimpanzé è evidente, considerato che ai primati si possono impartire istruzioni in base alle quali si ipotizzano anche azioni e reazioni in qualche misura “ragionevoli”. Da cui, dobbiamo giusto tenere conto di un certo margine di interazione con lo stesso Uomo (comunque, tra primati e Sapiens, c’è una differenza nei rispettivi DNA del solo tre percento: ma questo tre percento dà vita a Mozart, Einstein... Jack lo squartatore).

Prima / dopo il cosmonauta sovietico Jurij Gagarin, in orbita terrestre il 12 aprile 1961, con la navicella Vostok 1 / Oriente 1, primo Uomo nello Spazio, sia i sovietici, sia gli americani hanno lanciato in orbita animali. Leggendaria è la cagnetta Laika (3 novembre 1957), famoso lo scimpanzé Enos (29 novembre 1961).

Da questo, ne deriva la saga cinematografica del Pianeta delle scimmie, esordita con l’originale Il pianeta delle scimmie, di Franklin J. Schaffner, del 1968, sceneggiato dall’omonimo romanzo dello scrittore francese Pierre Boulle, del 1963. E, poi, registriamo i sequel L’altra faccia del pianeta delle scimmie, del 1970, Fuga dal pianeta delle scimmie, del 1971, 1999: conquista della Terra, del 1972, e Anno 2670 ultimo atto, del 1973. Quindi, dal 1974, si registra la serie televisiva Il pianeta delle scimmie; e, dal 1975, una ulteriore serie televisiva in animazione Return to the Planet of the Apes.

EVOLUZIONE... INVOLUZIONE (?)

ANTONIO BORDONI

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA

Sulla copertina di National Geographic Magazine dell’ottobre 1978 è illustrato un gorilla che impugna una reflex Olympus OM-2. L’immagine è rovescia, perché il gorilla si è fotografato allo specchio. Questa fotografia fa parte di un lungo servizio che l’autorevole periodico -ai tempi più autorevole di oggi, quantomeno dal punto di vista del seguito di pubblico, che allora superava abbondantemente i dodici milioni di copie mensili (solo in abbonamento)- ha riservato alle facoltà intellettive dei gorilla, per le quali sono certificati esperimenti condotti negli Stati Uniti. La fotografia, tra questi. Allo stesso momento, per completare l’argomento, segnaliamo la visualizzazione dell’evoluzione della specie dello Zoo di Zurigo, in Svizzera: dalla Scimmia all’Homo sapiens, che si presenta con la macchina fotografica al collo. Simbolo di evoluzione? Oppure è questo il leggendario “fotoamatore evoluto”, del quale sentiamo spesso parlare, e non condividiamo affatto la definizione (alla quale preferiamo “fotografo non professionista”: ne abbiamo dibattuto in tante occasioni). Chi e quale è, il “fotoamatore evoluto”? Quello che -rispetto al “non evoluto” e ad altri primatiha il pollice opponibile?... oggi più che mai necessario per agire sulle tastiere degli smartphone?

Oggettivamente provocatoria, la copertina di National Geographic, dell’ottobre 1978, starebbe anche a sottolineare che la presunta semplificazione dei mezzi fotografici avrebbe abbattuto la discriminazione sui risultati (ma non è vero!). Per quanto un gorilla ammaestrato possa anche usare una macchina fotografica, producendo qualcosa di plausibile (oggi, ancora di più), tra l’apparenza dell’immagine e la sostanza del linguaggio la differenza è ancora netta: riconoscibile, visibile e chiara... in quel tre percento di distinzione tra i rispettivi DNA. Quindi, nello Zoo di Zurigo, in Svizzera, sintesi dell’evoluzione della specie porta dalla Scimmia all’Uomo-fotografo.

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Cinema Da Il pianeta delle scimmie, di Franklin J. Schaffner, del 1968: fotoricordo dei gorilla, dopo una battuta di caccia, con le prede ai propri piedi. Si riconosce perfettamente il volet in plastica dello châssis Fidelity: leggerezza scenografica.

Nel primo film, originario, fu folgorante la trovata finale, con le rovine della Statua della libertà affondate nell’oceano, rivelatrici del ritorno alla Terra dell’equipaggio spaziale, dopo un viaggio interstellare di millenni (fino alla data terrestre del 25 novembre 3978). A conclusione di tutto, la scoperta di non essere su un curioso pianeta dall’evoluzione invertita, dall’Uomo alla Scimmia, ma di essere di nuovo sulla Terra, dove un’apocalisse nucleare ha cancellato l’Uomo, lasciando il dominio a scimmie progredite, che considerano l’Uomo sopravvissuto animale primitivo da cacciare e sterminare. Dopo un lustro, nel 2001, il regista Tim Burton rielabora una propria versione/interpretazione adattata dal romanzo originario di ispirazione: Planet of the Apes - Il pianeta delle scimmie. Altri dieci anni, per dare avvio a una ulteriore saga congruente, in forma di prequel, con limitati balzi temporali, tutti in cronaca dei nostri giorni, durante i quali l’inversione è causata dall’Uomo

in quanto tale, non da una apocalisse nucleare: L’alba del pianeta delle scimmie, del 2011, Apes Revolution - Il pianeta delle scimmie, del 2014, e The War - Il pianeta delle scimmie, del 2017 (il primo film è stato diretto da Rupert Wyatt; gli altri due da Matt Reeves). Da qui, il nostro dovere “fotografico”, per quanto marginale. Nell’originario Il pianeta delle scimmie, del 1968, dopo una battuta di caccia durante la quale hanno massacrato molti umani, e ne hanno catturati altrettanti, i gorilla-guerrieri si scattano una fotoricordo, con le prede ai piedi. Apparecchio grande formato su treppiedi, flash al magnesio e châssis 4x5 pollici. Osservazione da addetti: giusto lo châssis, con proprio volet ben visibile e riconoscibile, è una stonatura scenografica che non ci voleva, che scade di tono. Chi lo conosce (noi, tra tutti), ha subito identificato il volet in plastica dello châssis Fidelity, che ha scandito le stagioni della fotografia grande formato. Niente d’altro. ❖



Il Festival di Woodstock, una delle leggende della musica rock, oltre che della socialità degli anni Sessanta, si è svolto da venerdì 15 a lunedì 18 agosto 1969: cinquanta anni fa (per fortuna, questo agosto 2019, non si è riusciti a ripetere... in celebrazione inutile). Dal concerto, sono nati anche un film-documentario e un triplo album musicale. Si calcola che le quattro giornate abbiano coinvolto quattrocentomila giovani (conteggio ufficiale), e qualcuno si allarga a un milione di partecipanti.

di Maurizio Rebuzzini

R

ichiamo dovuto. Lo scorso numero di luglio, abbiamo commemorato e celebrato il cinquantenario dall’allunaggio di Apollo 11, la missione spaziale statunitense che ha portato il primo Uomo sulla Luna (Sapiens), il 20 luglio 1969. A dire il vero, con questa occasione, siamo andati convenientemente di traverso: con deviazioni consapevoli e volontarie, di fatto, abbiamo sottolineato non tanto l’accaduto, per quanto epocale, ma la sua restituzione fotografica, in modo da rimarcare -evidenziandola- la condizione della Fotografia come... interpretazione e spiegazione: la Vita attraverso il racconto che ne fa la Fotografia. Ora, in toni più lievi, rimaniamo nella calda estate (statunitense, diamine) di cinquant’anni fa, per rievocare altri due accadimenti sostanziosi e sostanziali, che hanno infiammato quelle lontane giornate. Per il cinquantenario del leggendario, mitico e iconico concerto di Woodstock (quindici-diciotto agosto), rimaniamo con note a volo alto; invece, il cinquantenario dall’assassinio dell’attrice Sharon Tate, ad opera della famigerata Famiglia di Charles Manson (notte tre l’otto e il nove agosto), offre l’opportunità di soffermarsi sul

concetto e valori di “giornalismo”, utili e proficui soprattutto oggi, soprattutto in Italia, dove e quando il giornalismo sta slittando verso il basso, venendo meno alla propria ragion d’essere... diciamola così.

WOODSTOCK: SOCIETÀ Cinquanta anni fa, da venerdì 15 a lunedì 18 agosto 1969, quello che sarebbe passato alla Storia, non soltanto del costume, come il Festival di Woodstock sancì l’apice della diffusione della cultura hippy, che richiamò a Bethel, piccola città rurale nello Stato di New York, quattrocentomila giovani. Coinvolti dalla sollecitazione a Three Days of Peace and Music, tre giorni di pace e musica, di fatto, i partecipanti -pubblico e musicisti sul palco- decretarono anche la fine di un’epoca e un mondo. A conti fatti, il Festival di Woodstock fu anche l’ultima grande manifestazione del movimento statunitense, che si era cementato nei colossali raduni contro la guerra in Vietnam e per l’abrogazione della segregazione razziale. Non soltanto per inevitabile sentenza di calendario, quell’agosto 1969 scrisse la parola “Fine” al lungo e differenziato cammino degli anni Sessanta, che in tutto il mondo ha avuto espressioni proprie, ma anche coincidenti e allineate tra loro.


UNA CALDA ESTATE Dopo il cinquantenario dell’allunaggio di Apollo 11, del 20 luglio 1969, primo (e secondo) Uomo sulla Luna, al quale abbiamo dedicato lo scorso numero di luglio, in modo da poter riflettere sulla Fotografia come..., altri due cinquantenari statunitensi della stessa estate. Per quanto proiettato (magari) oltre, il Festival di Woodstock si esaurisce in se stesso. A completa differenza, almeno per quanto noi intendiamo la riflessione sulla Fotografia, l’assassinio della giovane attrice Sharon Tate ci è congeniale per considerare il giornalismo


Il terreno del concerto formava una conca naturale digradante verso lo stagno Filippini. Il palco del Festival di Woodstock fu costruito alla base del rilievo, con lo stagno sullo sfondo. Lo stagno sarebbe diventato luogo molto amato dai partecipanti, che vi avrebbero fatto il bagno nudi.

(pagina accanto, al centro) Francobollo emesso dalle Poste degli Stati Uniti, il 17 settembre 1999: dal foglio Souvenir degli anni Sessanta, della serie di dieci decadi Celebrate the Century. Sul retro, sono ricordati i valori e termini del celebre raduno musicale.

Ovviamente, non ignoriamo che Woodstock è il nome che Charles Schulz ha dato al primo degli uccellini che hanno spesso accompagnato le riflessioni del bracchetto Snoopy, sulle strisce dei celebri Peanuts.

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La Storia lo racconta: originariamente, Woodstock era stato ideato come un festival di provincia, e propagandato come tale, con mezzi modesti. Inaspettatamente, richiamò e accolse almeno quattrocentomila giovani, e ci sono fonti accreditate che ne conteggiano addirittura un milione. Nei tre/quattro giorni, sul palco si sono alternati trentadue musicisti e gruppi, tra i più noti di allora; le esibizioni sforarono oltre i tre giorni preventivati, da venerdì quindici a domenica diciassette agosto, e slittarono sul successivo lunedì diciotto. Il Festival di Woodstock, del quale oggi celebriamo il cinquantesimo anniversario, con tutto ciò che si è letteralmente stravolto in queste decadi, non soltanto sul piano musicale, ma su quello del costume e dei sogni, fu organizzato da John Roberts, Joel Rosenman, Michael Lang e Artie Kornfeld. Alla fine del 1968, i primi due pubblicarono un annuncio sui quotidiani The New York Times e Wall Street Journal: «Uomini giovani, con capitale illimitato, cercano interessanti opportunità, legali, di investimento e proposte d’affari». Furono contattati da Lang e Kornfeld, che proposero di realizzare uno studio di registrazione a Woodstock, villaggio nella Contea di Ulster, nello Stato di New York, luogo dall’atmosfera ritirata e tranquilla. Presto, però, immaginarono di realizzare un progetto più ambizioso, appunto un festival musicale e artistico. La location a Bethel, nella Contea di Sullivan, a sessantanove chilometri a sud-ovest di Woodstock fu scelta per quanto poteva rivelarsi opportuna allo svolgimento.

Il terreno affittato formava una conca naturale digradante verso lo stagno Filippini, a nord. Il palco fu costruito alla base del rilievo, con lo stagno sullo sfondo, che sarebbe diventato luogo molto amato dai partecipanti, che vi avrebbero fatto il bagno nudi. Pragmatica realtà a parte, raccolta anche in album musicale triplo e in un film (Warner Bros; regia di Michael Wadleigh), al Festival di Woodstock si è soliti riferire una grande carica simbolica, che si è ingigantita negli anni a seguire, che ha sollecitato analoghi raduni (celebri quelli sull’isola inglese di White, al largo di Southampton, nel canale della Manica; soltanto nazionali quelli italiani, organizzati e svolti dal periodico Re Nudo, dell’inizio degli anni Settanta). Comunque, e indipendentemente da ogni dettaglio, o forse a forza di ogni dettaglio, Woodstock è stato uno degli eventi più significativi della storia del rock, che ha inciso anche nel costume e nella socialità.

SHARON TATE: GIORNALISMO Ci perdonino i diretti interessati, ciascuno in proprio coinvolgimento autonomo, se l’assassinio dell’attrice Sharon Tate, moglie del regista Roman Polański, con passaggio italiano a Verona, all’inizio degli anni Sessanta, ci interessa unicamente per una nostra attuale finalizzazione voluta e mirata. E neppure ci interessa, quantomeno qui e ora, la trasposizione cinematografica del controverso regista Quentin Tarantino, C’era una volta a Hollywood (in originale Once upon a time...


QUEGLI ANNI SESSANTA

in Hollywood ), presentata al Festival di Cannes, la scorsa primavera, con Margot Robbie nei panni dell’attrice prematuramente scomparsa. Soltanto, per dovere di cronaca, riassumiamo i fatti, prima di approdare al nostro intento. Con il marito Roman Polański a Londra, la sera dell’8 agosto 1969, Sharon Tate, di ventisei anni, incinta e a sole due settimane dal parto, invitò nella sua villa di Hollywood due amiche, l’attrice Joanna Pettet e Barbara Lewis. Quindi, in serata, andò a cena nel ristorante El Coyote, con gli amici Jay Sebring, Wojciech Frykowski e Abigail Folger; rientrarono verso le dieci e mezza. Durante la notte, nella villa irruppero membri della setta Charles Manson’s Family, che massacrarono tutti i presenti; nella stessa notte, avevano massacrato altre famiglie di Los Angeles. Al processo, Susan Atkins, detta “Sadie”, di ventuno anni, madre di un bambino di due, una delle adepte di Charles Manson, raccontò che Sharon Tate aveva implorato per la sua vita: «Lasciami vivere ancora due settimane», disse; «Per favore, ti chiedo solo qualche giorno. Ti prego, lasciami vivere ancora due settimane»... per poter partorire il proprio figlio (dal tredici agosto di cinquanta anni fa, Paul Richard Polański è sepolto tra le sue braccia, nell’Holy Cross Cemetery, a Culver City, in California). «Non ne potevo più di sentirla implorare -ha raccontato la ragazza-, così le ho detto: senti, tu stai per morire, e io per te non provo nessuna pietà... Ero strafatta di acido». La pugnala

ANTONIO BORDONI (2) / ARCHIVIO FOTOGRAPHIA

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA

Confezionata alla maniera delle carte fotografiche del passato (?), lungo una scala di valori plausibile (a ciascuno, la propria), Blinds & Shutters è una monografia illustrata epocale. Non ha certo avuto il peso, riscontro e seguito del Festival di Woodstock, del quale celebriamo il cinquantesimo, ma su un altro piano, meno universale e più di nicchia, è stata addirittura più importante. Illuminante, addirittura. Presentata alla Buchmesse di Francoforte, del 1990, dall’editore inglese Genesis Publications, in una edizione originaria a tiratura limitata, è stata una autentica folgorazione. Il fotografo autore Michael Cooper ha rivelato i termini di un mondo (soprattutto musicale), un’epoca (gli anni Sessanta) e un luogo (Londra e contorni), che hanno segnato i decenni a seguire: volente o nolente, molto di quello che viviamo ancora oggi dipende da quel tempo, fraintendimenti e furberie comprese (tra le quali furberie, consideriamo molti compagni di strada di allora, che oggigiorno stanno ai vertici di compromesse aziende berlusconiane e simili, o coltivano il sogno di approdarci). A seguire, Blinds & Shutters è stata realizzata in altre edizioni, soprattutto più abbordabili, che ne hanno diffuso i contenuti: sempre e comunque con indirizzo inevitabilmente elitario. Consistentemente quotata sul mercato bibliografico (dove si trova a valori variabili tra mille e cinquemila euro/dollari), la confezione originaria, in un box a imitazione della carta fotografica, in rigorosa combinazione nero-giallo caldo (ai tempi identificativa di Kodak, oggi chissà?), con sottolineatura della perforazione della pellicola 35mm, è materia da cultori: la monografia è di trecentosessantotto pagine (368) 26x37cm; con seicento intense immagini... rappresentative di un Tempo e Luogo. Ribadiamo: con le sue fotografie, Michael Cooper ha raccontato un mondo. Non aggiungiamo altro, invitando a una più che proficua ricerca in Rete. Fatto salvo che... il punto di vista sia in qualche misura condivisibile.

La raffinata confezione di Blinds & Shutters, di Michael Cooper, in edizione Genesis Publications, avvincente racconto degli anni Sessanta, a partire dalla musica londinese, originariamente pubblicato nel 1990, comprende un box esterno a foggia di confezione di carta fotografica del passato (?). Per i contenuti, invitiamo a una ricerca personale in Rete.

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ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2)

Copertina di L’Europeo, dell’11 settembre 1969, a un mese dall’assassinio dell’attrice Sharon Tate. Ne riferisce lo scrittore Truman Capote, in una lezione di giornalismo che ha sempre qualificato il settimanale illustrato Rizzoli (e il suo impeccabile fotogiornalismo).

Numero Uno del periodico statunitense Prison Life, del gennaio 1991. Copertina d’obbligo (?) per Charles Manson, ispiratore della strage nella villa di Sharon Tate (8-9 agosto 1969).

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sedici volte, poi prende uno straccio, lo intinge di sangue e scrive sulla porta la parola «pig», maiale. Prima di quella notte, Susan Atkins e gli altri assassini non avevano mai incontrato Sharon Tate, né le altre vittime. Non sapevano nemmeno chi fossero. Senza approdare alle indagini della polizia di Los Angeles, che, in assenza di alcun movente, ci mise tre mesi per arrivare alla banda di Charles Manson, con successiva condanna a morte commutata in ergastolo [Charles Manson è morto il 19 novembre 2017, a ottantatré anni], dopo che la Corte Suprema dello Stato della California abolì la legge sulla pena di morte, il settimanale italiano L’Europeo fu tempestivamente in edicola, con data 11 settembre 1969, con un ampio intervento, in forma di intervista, firmato dallo scrittore Truman Capote, lanciato dalla copertina (nella quale, ancora, appare un ulteriore ritorno sull’allunaggio di Apollo 11: in esclusiva, «Il nostro viaggio sulla Luna», testimonianza degli astronauti della missione spaziale). A nostro modo di vedere, cosa rappresenta questo, cosa significa? Esplicito: rivela un’attenzione giornalistica del settimanale, allora edito da Rizzoli, che ha poca compagnia nel giornalismo italiano, e nessuna in quello odierno. Certo, per chi sa di chi stiamo parlando, la direzione di Tommaso Giglio, al pari di quella di quanti l’hanno preceduto e seguìto al timone di comando, è già per se stessa autorevole e garante (a partire dal fondatore e primo direttore Arrigo Benedetti). Ma non basta a certificare quanto e quale giornalismo è stato espresso

dalla testata; e fotogiornalismo, con Ferdinando Scianna, Gianfranco Moroldo [FOTOgraphia, aprile 1996], Piero Raffaelli, Evaristo Fusar, Giancolombo, Duilio Pallottelli, Stefano Archetti [FOTOgraphia, giugno 1996], Tazio Secchiaroli, Marcello Geppetti, Uliano Lucas, Gianni Roghi, Enzo Luceri, Maurizio Bizziccari e Hannes Schick, tra staff, inviati e collaboratori assidui. Insomma, con parole e immagini, il settimanale si è distinto all’interno del giornalismo e fotogiornalismo del nostro paese. In tempi recenti, raccolte periodiche e monografiche di testi e fotografie hanno rinverdito i suoi antichi fasti; tra le tante, richiamiamo ancora quella dedicata ai Grandi reportages, che presentammo e commentammo nel febbraio 2004. Ma c’è altra testimonianza, ancora, che sottolinea spessori e valore dell’Europeo, e del suo giornalismo che non c’è più. Pensiamo all’inchiesta di Tommaso Besozzi sulla morte/uccisione del bandito Giuliano, in Sicilia. Il titolo del suo primo servizio, a poche ore dai fatti, nel 1950, è illuminante (anche di un istinto giornalistico): Di sicuro c’è solo che è morto smentisce in poche battute la versione ufficiale dei Carabinieri; quindi, sarà lui a ricostruire il complotto ordito dal braccio destro Gaspare Pisciotta (che morirà in carcere, avvelenato con una tazza di caffè) e le connivenze tra mafia e apparati dello Stato. A tutti gli effetti, quella lontana inchiesta giornalistica di Tommaso Besozzi è «una pietra miliare del giornalismo investigativo italiano (da e con Ferruccio De Bortoli). Settanta anni fa, circa, o mille? ❖



– Addio – disse la volpe. – Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi. – L’essenziale è invisibile agli occhi – ripeté il piccolo principe, per ricordarselo. – È il tempo che tu hai perso per la tua rosa che ha reso la tua rosa così importante. – È il tempo che ho perso per la mia rosa... – disse il piccolo principe per ricordarselo. Antoine de Saint-Exupéry ( Il piccolo principe)

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di Lello Piazza (e Tiziana e Gianni Baldizzone)

C

onfessione dovuta. Per la prima volta in sessant’anni mi trovo in imbarazzo a parlare di Fotografia. Dismessi da tempo i furori giovanili, quando parlare voleva dire emettere sentenze, superata la fase professionale nella quale, come direttore della fotografia di un mensile, continuavo a emettere sentenze, ho raggiunto, credo di aver raggiunto, la pace culturale. Ciononostante, il bello non è diventato brutto, né il brutto è diventato bello, non sono stato vittima dell’incantesimo delle streghe (Fair is foul, and foul is fair: Shakespeare, Macbeth).


TRASMETTERE Il consistente e autorevole progetto fotografico Transmissions, di Tiziana e Gianni Baldizzone, è il risultato di oltre sette anni di lavoro sul campo, in Europa, in Asia, in Africa; dell’incontro con oltre duecento maestri e allievi di varie nazionalità: artigiani, maestri d’arte, i cosiddetti tesori umani viventi del Giappone, artisti celebri o sconosciuti. In mostra, a Torino. Il sapere...

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India: la polacca Monica Peconek con Sherif Khan, maestro di Kalarippayattu, archetipo di tutte le arti marziali. (in alto) Giappone: il maestro Shoroku Sekine, eminente attore di Nō, durante una lezione di canto Utai a una signora della “Tokyo bene”. (in alto, al centro) Milano, Civica Scuola di Liuteria: laboratorio di strumenti ad arco. (al centro) Myanmar: collocazione di lacca su una porta.

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Perciò, continuo a pronunciare giudizi. Ma con Tiziana e Gianni Baldizzone mi trovo disarmato. Nel loro lavoro non esiste il bello o il brutto, ma solo il sublime. È un sublime speciale, un sublime unico. Li conosco dal 1986, quando ci incontrammo per la prima volta in redazione. Ecco come ricordano l’incontro: «Di ritorno dal Ghuizhou [provincia montuosa nel Sudovest della Cina, una zona ancora poco accessibile], presentiamo ad Airone quello che pensavamo fosse un buon servizio sui Dong e sull’indaco. Ci erano volute dieci telefonate e una buona ora di attesa in redazione per riuscire a presentare le fotografie a Lello [Piazza]. Ma fummo respinti a casa con una domanda (di Lello): dov’è la storia? Da quella domanda comincia la nostra vera carriera di fotografi. Da allora, dov’è la storia? diventa il nostro mantra: prima, durante e dopo ogni lavoro. Nella ricerca del soggetto, nel lavoro sul campo, nella elaborazione e nell’editing delle fotografie». Da allora, hanno fotografato in modo meraviglioso senza il mio aiuto, senza l’aiuto e i consigli di nessuno. Al contrario di altri grandi fotografi dello staff o collabo-

ratori fissi di una testata, che lavoravano on assignement, su commissione, spese e rischi a carico del giornale, Tiziana e Gianni Baldizzone hanno sempre lavorato mossi dalle proprie idee e dai propri interessi, e non da quelli di qualche direttore, rischiando del loro, realizzando storie e poi andando per redazioni a proporle. Avevano un tesoro dentro di sé, una rosa. Hanno cominciato a curarla e, da allora, la rosa è diventata la cosa più importante, non solo per se stessi, come vaticinava la volpe, ma per la cultura della Fotografia e la cultura della conoscenza degli Uomini. Scrivo queste righe per presentare la mostra Transmissions people-to-people, che si aprirà a Torino, il trenta ottobre prossimo e rimarrà aperta fino al 30 agosto 2020, presso il Museo nazionale del Risorgimento italiano, al civico otto di piazza Carlo Alberto. L’allestimento non è una prima mondiale. In anticipo temporale, a lavoro non ancora ultimato, una parte di questo lavoro è già stata presentata, nella primavera di quattro anni fa, alla Pinacoteca di Brera, di Milano, in occasione delle Giornate Europee dei Mestieri d’Arte 2014.


A seguire, altre due importanti presentazioni, nel 2016. La prima a Tokyo, nel quartiere di Ginza, alla Chanel Nexus Hall, lo spazio espositivo nella sede della nota casa di moda parigina fondata dalla mitica Coco Chanel, dove presentano due mostre di fotografia l’anno e organizzano concerti riservati a giovani talenti. Nexus viene dal latino nectere, collegare, connettere un significato, che evoca il titolo del lavoro, Transmissions, trasmettere. La seconda presentazione avviene presso la Galerie Joseph, nel Marais parigino, uno spazio espositivo che si sta specializzando sempre più nella fotografia. A questo punto, non proseguirò con una esegesi critica di Transmissions, soffermandomi sullo stile, sull’uso del colore e delle luci, sullo sfuocato sì, sfuocato no. Ho sempre pensato che osservazioni su questi aspetti del lavoro fotografico competano solo al pubblico, al suo sguardo, al suo gusto, alla sua cultura. Mi interessa infinitamente di più scoprire/rivelare cosa sta dietro al risultato. E, credetemi, dietro ogni lavoro straordinario come questo, c’è una storia altrettanto straordinaria. Sono gli stessi autori che la raccontano a me e a voi.

Non vi racconteremo di come ci siamo incontrati in Madagascar, nel 1977 [Tiziana aveva al collo una Bencini Comet 2, regalo del nonno pittore, per la Cresima; invece, Gianni esibiva le sue Nikon]. Né vi racconteremo che, quando ci siamo fidanzati, Gianni non mi ha regalato un banale anello con brillante, ma una Nikkormat con un tele 135mm. Veniamo invece subito a Transmissions, che segna un cambiamento del nostro lavoro. Il tema è difficile, intellettuale; ma l’argomento è di attualità. Nel 2011, nessuno parlava di trasmissione della conoscenza e dell’esperienza, ma i mestieri della mano cominciavano a essere rivalutati, a venir visti come mestieri che potevano fornire una buona qualità della Vita. Il lavoro sulla trasmissione del sapere e sul rapporto maestro-allievo è stato il più impegnativo. Soprattutto per quanto riguarda l’instaurazione di rapporti personali necessari per fotografare il momento del passaggio di un sapere da una persona all’altra. Dovevamo essere informati, accettati, in sintonia coi soggetti e, ancora, essere ignorati/dimenticati durante gli scatti.

Francia: Severina Lartigue (nipote del celebre fotografo), creatrice di fiori di seta, e sua figlia Amy, studentessa d’arte. (in alto) Francia, Théàtre National de Strasbourg: Zaina Yalioua e Juliette Bieleck, due giovani attrici del programma 1er Acte, con Marc Proulx, professore di recitazione corporale e mascherata.

(doppia pagina precedente) Burkina Faso: Yacouba Bondé, scultore di maschere Bwaba, con un suo discepolo. Mali: Aboubakar Fofana, calligrafo, creatore d’indaco e textile designer.

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(in basso) Francia, Manufacture nationale de Sèvres: atelier di smaltatura porcellana (Estelle Guénego e Michel Roué). (al centro) Mongolia: Suchbataar, l’arciere (cinque volte campione nazionale) e imprenditore che fabbrica archi da competizione secondo una ricetta del Dodicesimo secolo. Mongolia: Tolga, otto anni, impara da un vicino di iurta, grande allevatore di cavalli da corsa, a torcere il cuoio per fabbricare le redini dei cavalli.

Abbiamo preparato una sceneggiatura (la storia, che sta a cuore a Lello), e preparato accuratamente il lavoro, immaginandoci i problemi che avremmo incontrato sul campo. Per esempio, sapevamo che lo shooting sarebbe avvenuto in situazioni di illuminazione difficili, quasi sempre in interni, con le luci ambiente più varie. Perciò, escluso il flash, Transmissions ha segnato per noi anche una svolta tecnologica, imponendoci l’acquisizione digitale di immagini. Infatti, questo è il primo nostro lavoro tutto in digitale. Per esempio, alla Civica Scuola di Liuteria di Milano, nel laboratorio regnava la confusione. Si trattava di una vecchia aula di una altrettanto vecchia scuola, con insipide pareti gialline e cavi elettrici che pendevano dovunque, dal soffitto, disturbando le inquadrature. Un disordine disarmonico di cose e persone, sulle quali i neon gettavano una luce sinistra e verdastra. Abbiamo spento tutte le luci, tranne quelle a incandescenza da tavolo: il laboratorio ha assunto l’aspetto di una vecchia bottega, nella quale volti e legni riflettevano una bella luce calda.

Transmissions è il risultato di oltre sette anni di lavoro sul campo, in Europa, in Asia, in Africa; dell’incontro con oltre duecento maestri e allievi di varie nazionalità: artigiani, maestri d’arte, i cosiddetti tesori umani viventi del Giappone, artisti celebri o sconosciuti. Ci siamo concentrati su una quarantina di arti e mestieri: dalla porcellana di Sèvres, in Francia, alla carta giapponese; dalla liuteria al teatro del Nō; dall’arte del ferro battuto a quella dei ricami di alta moda; dall’indaco all’incenso; dall’arte dei giardini ai ventagli e ai vetri di Murano; dagli argenti della manifattura Puiforcat, fondata a Parigi, nel 1820, a... Spesso, gli spazi non erano solo male illuminati, ma anche angusti. Ci sono stati problemi di segretezza sulle creazioni o lavorazioni, come negli atelier delle imprese del lusso (gli argenti di Puiforcat, le scarpe John Lobb, l’alta orologeria di Vacheron Constantin). O come nel laboratorio del maestro milanese del ricamo d’alta moda Pino Grasso, nel quale le creazioni in lavorazione non erano fotografabili, perché prototipi di Gucci o Dolce & Gabbana.


Siamo passati da modesti (ma abili) artigiani, come il vasaio birmano Ula Shwè, che teneva d’occhio ogni nostro spostamento, pensando sempre di doverci aiutare in qualche modo, e che si scusava in continuazione per il disordine del proprio atelier -nel quale non c’era nulla che stridesse!-, a star del mestiere, abituate a essere fotografate e riprese, e con le quali -fino a quando non siamo entrati “in confidenza”- è stato duro cogliere un’espressione o un gesto spontaneo con l’allievo. Alla fine, con (quasi) tutti siamo riusciti a stabilire l’empatia necessaria. La chiave è stata il rapporto umano personale. Trent’anni di fotografia, condividendo il tempo, praticando quella che noi due chiamiamo fotografia partecipe, ci hanno spianato la strada. Da qualche anno, Transmissions si autogenera: le idee e le proposte ci arrivano ormai quasi spontaneamente. Le persone fotografate restano coinvolte, si appassionano al nostro lavoro, collaborano, propongono, ne parlano con altri, che a propria volta ci contattano: si è instaurata una catena di trasmissione.

Riprendo la parola, rilevando un aspetto dei gusti del pubblico e, di conseguenza, dei temi seguìti dai fotografi, che può sfuggire. A partire dalla fine degli anni Ottanta, i lettori dei grandi mensili, come lo statunitense National Geographic, il tedesco Geo, il francese Geo France, Airone, illustrati da fotografi famosi, sembrano mostrare un progressivo disinteresse su quei temi che noi in redazione chiamavamo Civiltà degli Altri, cioè i servizi antropologici. Per Tiziana e Gianni Baldizzone, invece, questi temi sono fonte di ispirazione e motore di vita. L’Uomo, la sua Cultura e il suo Ambiente orientano il loro lavoro fotografico e li conducono, da oltre trent’anni, a condividere il quotidiano e a testimoniarne le culture di popolazioni che vivono ai margini del mondo che conosciamo. Il loro concetto di Fotografia obbedisce a un’etica che si riassume in due parole: capire e condividere. E il loro impegno ha successo. Lo dimostrano gli articoli pubblicati e i libri, che elenco in un riquadro a parte [a pagina 33], dove mi limito, per gli articoli, a ciò che è apparso su Airone. Sono, per esempio, gli

(al centro, in basso) Giappone: il maestro Michishige Udaka, unico scultore di maschere a essere anche attore di teatro Nō (maschera Ko Omote). (in basso) Svizzera, manifattura Vacheron Constantin: Atelier Grands Complications. Francia: il vestito di quercia, frutto della trasmissione tra due diplomate dell’EnsAD (École nationale supérieure des arts décoratifs, di Parigi) -Elodie Leprunnec, designer, e Charlotte-, due giovani falegnami Compagnon du Devoir e Melissa Sicre, ballerina classica.


Myanmar,: lezione in classe all’Università di Masoe Yein, la più eccelsa accademia monastica del paese; è frequentata da oltre quattromila studenti (tremila dei quali, interni nel monastero). Si insegnano lingue antiche e testi buddisti, ma anche scienze, storia e materie contemporanee. Gli studenti sono monaci o laici, e tutti devono seguire le regola monastica finché frequentano l’università. Chi non si tiene in pari con gli esami è espulso e non più riammesso.

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unici fotogiornalisti italiani (anche se la definizione fotogiornalisti è riduttiva, perché sono anche eccellenti antropologi) a cui è stata dedicata una grande mostra, con gigantografie enormi, sulle cancellate del Jardin du Luxembourg (in italiano, Giardini del Lussemburgo), uno dei più grandi parchi cittadini di Parigi, sede del Senato. La mostra era intitolata Esprit nomade, nomades des déserts de sable, d’herbe, de neige (Spirito nomade, nomadi dei deserti di sabbia, di erba e di neve) [FOTOgraphia, giugno 2010]. Eppure, nei templi e nelle parrocchie della Fotografia italiana, nelle gallerie più note, nell’inchiostro dei critici più accreditati, nella scelta dei candidati a entrare nella collana dei prestigiosi calendari Epson, i nomi di Tiziana e Gianni Baldizzone compaiono molto raramente. Do di nuovo la parola a loro, per farci raccontare l’esperienza della mostra di Parigi. È rilevante quello che raccontano... soprattutto per i non addetti ai lavori. Il pubblico visita una mostra, come fosse tutto lì, una serie di fotografie. Al massimo, si immagina l’autore o gli autori nell’atto della ripresa. Ma questo è solo la

punta di un iceberg. Come è noto, nessuno vede i quattro quinti dell’iceberg nascosti sott’acqua. Anche il sommerso può essere avvincente e bellissimo. A lavoro in corso sui nomadi, nel 2006, proviamo a presentarci al Senato di Francia. Le mostre proposte fino ad allora alle cancellate del celebre Jardin du Luxembourg erano state tutte di rinomati fotografi francesi (per nascita o di adozione): Yann Arthus-Bertrand, Reza [Reza Deghati], Éric Valli, Kevin Kling... Superiamo l’esame della “ricevibilità teorica e di contenuti”: la prima domanda che ci viene posta è «Perché il Senato di Francia dovrebbe approvare una mostra sui nomadi?» Risposta: perché noi proponiamo una mostra sullo spirito dei nomadi, che affronta e svolge temi di ecologia e valori che sono comuni a tutti gli esseri umani, non solo ai nomadi. E, dunque, si tratta di un tema del quale un organismo rappresentativo può farsi portatore, tanto più che è un tema sovranazionale. Segue la preparazione del dossier di candidatura, da sottoporre alla commissione del Senato, con ot-


BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Tiziana e Gianni Baldizzone in Airone Nel Tibet dei briganti gentiluomini (marzo 1993). Filo da torcere / tweed (aprile 1997). Pescatori con i baffi / Pesca con la lontra in India (febbraio 1998). Brahmaputra tre nomi, tre paesi, tre fedi (agosto 1998). Le ultime streghe / Tibet (marzo 1999). Le Università del deserto / Mauritania: Ouadane, Chinguetti, Tichitt, Oualata (giugno 2001). Tempi d’oro / Tra i Minangkabau di Sumatra dove il potere è donna (agosto 2001). Nishi / Popolazione dello stato indiano dell’Arunachal Pradesh (ottobre 2001). Divine essenze / Gelsomino in India (giugno 2002). Spiriti in maschera / Maschere degli Bwa, Africa, Burkina Faso (luglio 2002). Le signore delle spezie / Cannella o Cinnamomo (ottobre 2002). L’amore è una matassa / Le donne Miao (novembre 2002). Gli ultimi menestrelli / Rajasthan: i Bhopa (settembre 2003). Tiziana e Gianni Baldizzone in monografia L’Inde des Tribus Oubliées; Editions du Chêne, 1993; 232 pagine 26,5x35cm. La Main qui parle; Editions Phébus, 2002; 160 pagine 25x31cm. Visages; Editions Phébus, 2005; 156 pagine 25x31cm. Tibet, d’oubli et de mémoire; Editions Phébus, 2007; 156 pagine 25x31cm. Caravanes de bambous; Editions du Seuil, 2004; 272 pagine 28x35cm. Sur la route du sel et du savoir; Editions du Seuil, 2005; 192 pagine 25x30cm. Noces; Flammarion, 2001; 224 pagine 25x32cm. Brahmapoutre. Légendes du Fleuve; Editions Olizane, 1998; 240 pagine 25x32cm. I Segni del Corpo; 5 Continents Editions, 2006; 160 pagine 24x24,5cm. Siddharta, il principe che divenne Buddha; Edizioni White Star, 2008, vincitore dell’ITB Book Award 2009; 348 pagine 29x33,5cm. Esprit Nomade, nomades des déserts de sable,d’herbe, de neige; Editions de La Martiniére, 2010; 232 pagine 27x27cm. Spirito Nomade, Gallucci Editore, 2010; 232 pagine 27x27cm. Les Enfants nomades des déserts de sable, d’herbe de neige; La Martinière Jeunesse, 2010; 72 pagine 24,5x24,5cm. Ragazzi dei deserti, crescere in armonia con la natura; Gallucci Editore, 2010; 72 pagine 24,5x24,5cm. Transmissions; Editions du Chêne, 2015; 352 pagine 29x25cm.

tanta fotografie proposte, la sinopsi del lavoro e altre specifiche formali richieste. La programmazione era già completa per i quattro anni a venire, quindi “correvamo” per una mostra nel 2010/2011. Nel 2007, quando presentiamo il dossier, sappiamo che ci sono già cinquanta progetti in corsa per le quattro mostre del biennio 2010/2011. A fine 2008, dopo le preselezioni, siamo rimasti in otto, tra cui nomi eccellenti come Olivier Föllmi e Yann Arthus-Bertrand. Ci prepariamo a una risposta negativa. Invece, a febbraio 2009, arriva la notizia che siamo stati selezionati per la mostra della primavera 2010. Le nostre immagini rimarranno quattro mesi sulle cancellate del Jardin du Luxembourg, a Parigi. Gioia immensa, ma non è finita. Spetta a noi trovare gli sponsor che sostengano le spese. Comincia una frenetica maratona, per trovare i finanziamenti per la copertura di un budget molto pesante, imposto dalle dimensioni degli ingrandimenti e dalle caratteristiche tecniche delle fotografie (esposte all’aperto) e dell’allestimento, da un servizio di

guardia obbligatorio, dalle coperture assicurative. In un anno, contattiamo oltre cento enti e aziende di varia tipologia; impariamo i mille e uno modi che tutti hanno per dirci di “no”, viviamo sull’otto volante, passando dalla speranza alla delusione. Alla fine, ce l’abbiamo fatta. La mostra è un successo, e, subito dopo, viene presentata nel Principato di Monaco, a Torino e in altre città della Francia. Chiudo, ricordando che FOTOgraphia ha dedicato una storia di copertina, Italiani a Parigi, a Tiziana e Gianni Baldizzone, nel giugno 2010, e li ha menzionati nella rubrica Ici bla bla, del maggio 2010. È tutto... forse. ❖ Tiziana e Gianni Baldizzone: Transmissions people-to-people; a cura di Tiziana Bonomo; curatore del progetto Alain Lardet. Museo nazionale del Risorgimento italiano, piazza Carlo Alberto 8, 10123 Torino (011-5621147; www.museorisorgimentotorino.it, info@museorisorgimentotorino.it). Dal 30 ottobre al 30 agosto 2020; martedì-domenica, 10,00-18,00. ❯ Tiziana & Gianni Baldizzone: Transmissions; Editions du Chêne, 2015; in francese; 352 pagine 29x25cm, cartonato; 50,00 euro.

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un negozio di terroni* per terroni** In un paese ed epoca in cui la forma apparente ha sostituito il contenuto, perché non agire per sovvertire questa tragica condizione, per tornare alla parola che sia se stessa, e sia densa di significati propri? Perché non considerare che il rispetto è valore concreto, da frequentare e perseguire? Perché non agire nella convinzione che etica e morale siano ancora qualità e doti, insieme con garbo, eleganza e grazia? Una volta ancora, una volta di più, non certo per l’ultima volta: vogliamo parlarne?

* Terróne (sostantivo maschile / terróna, al femminile). Derivazione da “terra”; probabilmente, tratto da denominazioni di zone meridionali, quali “Terra di Lavoro” (in Campania), “Terra di Bari” e “Terra d’Otranto” (in Puglia). Appellativo dato, con intonazione spregiativa (talvolta anche scherzosa), dagli abitanti dell’Italia settentrionale a quelli dell’Italia meridionale [Enciclopedia Treccani ]. Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato in tono dispregiativo (talvolta in tono scherzoso, a seconda del contesto) per designare un abitante dell'Italia meridionale. Ha diverse varianti piuttosto diffuse e riconoscibili nelle lingue locali: terún, terù, teron, tarùn, tarù (lombardo); terún (ligure); terù, terún, tarún (piemontese); tarùn, taroch, terón (veneto, friulano); teròch, tarón (emiliano-romagnolo); terón, terró (marchigiano); teróne, taròne in altri idiomi dell'Italia settentrionale, mentre rimane terrone in toscano e romanesco [Wikipedia ].

** L'espressione politicamente corretto (traduzione letterale dell'inglese politically correct) designa una linea di opinione e un atteggiamento sociale di attenzione al rispetto generale, soprattutto nel rifuggire l'offesa verso determinate categorie di persone. Qualsiasi idea o condotta in deroga più o meno aperta a tale indirizzo appare, quindi, per contro, politicamente scorretta (politically incorrect ). L'opinione, comunque espressa, che voglia aspirare alla correttezza politica dovrà perciò apparire chiaramente libera, nella forma e nella sostanza, da ogni tipo di pregiudizio razziale, etnico, religioso, di genere, di età, di orientamento sessuale, o relativo a disabilità fisiche o psichiche della persona [Wikipedia ].


di Rinaldo Capra

K

arl Karlovič Bulla: chi era costui? Eppure... eppure una pubblicità di fine Ottocento recitava così: «L’esperto fotografo-illustratore Karl Bulla realizza fotografie per riviste illustrate di attualità. Ritrae qualsiasi cosa di cui si presenti necessità, ovunque, senza lasciarsi intimorire né dal luogo né dall’ambiente, di giorno così come in qualsiasi momento della sera, con illuminazione artificiale». In aggiunta, per quello che può valere (non Vangelo, ma -quantomeno- traccia plausibile), dopo dati identificativi ufficiali, Wikipedia (l’enciclopedia libera in Rete, da acquisire con qualche riserva, ma accettare nella propria onestà intellettuale) certifica che «è spesso definito il “padre del reportage fotografico russo”». Per nostro cammino, rimaniamo all’annuncio lapidario e indicativo, per i propri tempi così promettente, che era indirizzato a un vasto pubblico, dalle pagine di una delle riviste pietroburghesi più autorevoli dallo stesso Karl

Karlovič Bulla (1853 [altre fonti, 1855]-1929) che, insieme con i due figli Aleksandr e Viktor (1883-1938), era famoso a Pietroburgo, e ha lasciato un patrimonio fotografico sorprendente per dimensioni e unicità: una vera e propria cronaca della fine del Diciannovesimo secolo e dei primi decenni del Ventesimo. Nonostante queste premesse, il suo nome, quello dei suoi figli e del suo studio, l’Atelier Karl Bulla, sono stati derubricati per decenni dalla Storia della Fotografia, proprio per la complessità degli eventi storici che hanno determinato la sua incredibile vicenda umana e quella dei suoi figli, Aleksandr e Viktor, con tratti tragici ed emblematici. Quest’uomo, Karl Bulla, ha attraversato la Storia, l’affermarsi della modernità della rivoluzione industriale e, da fotografo, ha accettato e raccontato i cambiamenti che si stavano producendo nel mondo, le nuove relazioni con Spazio e Tempo, dovute all’avanzare del capitalismo moderno e dal suo metodo di produzione, con lo strumento più affidabile e moderno dell’epoca: la Fotografia.

DALLA RUSSIA DI UN TEMPO Merito di ricerche e ferree volontà, tutte certificate nel testo, il patrimonio di una autorevole genìa fotografica russa a cavallo del Novecento è stato salvato e recuperato, per comporre i tratti di quello che va inteso come «inizio di un lungo viaggio di conoscenza e consapevolezza». Dal capostipite Karl Bulla, attraverso i figli Aleksandr e Viktor, uno sguardo intenso sulla Russia in procinto di dare vita all’Unione Sovietica. E tanto altro, ancora

Purtroppo penalizzate da stampe fotografiche imperfette, formalmente caratterizzate da contrasti eccessivi e scarsa nitidezza, due raffigurazioni di Karl Bulla, fotografo russo recentemente rivalutato e riconsiderato (1853-1929). A sinistra, nel suo Atelier con apparecchi fotografici e attrezzatura da studio in parata. In alto, con apparecchio fotografico reflex grande formato portatile (?): Mentor? Graflex? Ensign? Ernemann? altro ancora?

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San Pietroburgo, 1917: scontri tra manifestanti ed esercito, all’alba della Rivoluzione d’Ottobre.

1917: schieramento di volontari dell’Armata Rossa, truppe fondamentali per la Rivoluzione d’Ottobre.

Lo scrittore, filosofo, educatore e attivista sociale russo Lev Tolstoj (Lev Nikolàevič Tolstòj; 1828-1910), nella sua tenuta di campagna, nel 1906 circa.

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Già... sin dal 1839, di nascita, la Fotografia diviene l’immediato simbolo della modernità, sconvolge completamente il funzionamento dell’immagine: rimpiazza il lavoro manuale con la macchina e il mestiere dell’artista con la tecnologia. La rapida diffusione della Fotografia in tutto il mondo fu il segno dell’ansia di modernità di tutte le nazioni occidentali e della strategia capitalista di allargare i confini della rivoluzione industriale nel più breve tempo possibile, per creare nuovi mercati (globalizzazione, diciamo oggi); per questo, i tratti dell’attività fotografica hanno un comun denominatore in tutto il mondo: ritratto e paesaggio, come specchio perfetto della realtà. I pittori e gli scultori, sollevati dalla necessità di un contatto con il reale, possono darsi all’astrazione totale; i fotografi si dedicano al ritratto in studio, denso di elementi simbolici del pittorialismo, e alla fotografia d’architettura, per celebrare la società aristocratica e borghese. San Pietroburgo è perfettamente simile alle altre capitali europee, e il suo movimento fotografico è omogeneo al resto d’Europa. La nuova maniera di “ritrarre la vita” entrò immediatamente a far parte degli usi cittadini. Nel giro di pochi anni, secondo quanto riferisce il quotidiano Le notizie di Pietroburgo [in traduzione], in città si contavano già nove dagherrotipisti. Tra questi, Karl Bulla occupa una posizione particolare. Il suo Atelier iniziò la propria attività nel più classico dei modi: ritrattistica in posa e campagne promozionali per aziende che aprivano le proprie filiali in città, come quelle del signor Singer, del signor Renault e delle automobili Vittoria. Nel 1886, Karl Bulla ottiene il permesso di fotografare “fuori atelier”, divenendo così uno dei primi fotogiornalisti della città e ottenendo riconoscimenti in patria e internazionali. Fu nominato fotografo ufficiale dello Zar di Russia, del re d’Italia, della Biblioteca imperiale, della Società imperiale dei pompieri russi, della Croce Rossa Russa. Ricevette numerose onorificenze di prestigio professionale; tra le quali: la medaglia d’oro alla mostra franco-prussiana del 1899, l’ordine di Romania del 1900, l’ordine di Persia del 1901, la medaglia bulgara del 1902, l’ordine italiano del 1903, la medaglia d’oro del Ministero delle Finanze del 1903. Straordinaria parabola di scalata sociale, seppur in una società chiusa e retriva, come quella zarista. Karl Bulla, ragazzo avventuroso, fuggì da Leobschütz, in Prussia orientale, e dalla famiglia, a dodici anni, per tentare la fortuna. Arrivato a San Pietroburgo, inizia a lavorare come fattorino della ditta Dupant (Dupont?), che vendeva materiale chimico e fotografico. Ben presto, diviene responsabile dell’handmaking delle lastre [in tempi nei quali, l’emulsione sensibile andava stesa a mano, in assenza di processi industriali, che sarebbero arrivati di lì a qualche anno]. A vent’anni, apre una propria fabbrica di “lastre di gelatina secca momentanea”, vendendo in tutto l’impero russo [industria, questa, coeva e parallela alla statunitense The Eastman Dry Plate and Film Co, di George Eastman, dalla quale, nel 1988, sarebbe nata la Eastman Kodak Company, sulla base dell’originaria Box Kodak; tra le nostre successive rievocazioni, in tempi e modi via via opportuni: FOTOgraphia, del giugno 2004, novembre 2012 e novembre 2017].


Nel 1875, Karl Bulla avvia il suo primo studio, divenendo in breve tempo il fotografo alla moda per i ritratti di intellettuali, aristocratici, artisti e borghesi facoltosi. Nel 1886, ricevuto il permesso di fotografare in esterno -come già rilevato-, oltre alla fotografia di studio (nel frattempo, svolta anche in altri due studi a Pietroburgo, sul Canale Santa Caterina, l’attuale Canale Griboedov o Kanal Griboedova, e sulla Prospettiva Nevskji), è sempre più coinvolto nella vita cittadina, ne tiene la cronaca e documenta l’architettura. Reportage di grande valore, al punto che la ricostruzione dei palazzi di San Pietroburgo (divenuta, poi, Leningrado, e ora tornata alla sua identificazione originaria), distrutti dai nazisti, viene eseguita sulla base delle fotografie di Karl Bulla. Inoltre, il ministero delle Poste permise l’uso di cartoline, aumentando significativamente la richiesta di fotografie. Come prometteva il suo annuncio pubblicitario, evocato in incipit, Karl Bulla ha fotografato tutto: la vita della famiglia dello Zar e le assemblee dell’intellighenzia anti-governativa, stelle del luogo e lavoratori manuali, palazzi e ostelli per i senzatetto e persino feste gay. Karl Bulla faceva parte del comitato di redazione di molte riviste, tra le quali la popolare Niva. Questa fase del suo lavoro è particolarmente significativa: il ritratto in studio di ispirazione pittorialista viene sempre meno, mentre si afferma una coscienza e consapevolezza del gesto fotografico, della decontestualizzazione del soggetto per una prassi di fotografia diretta, rinunciando a tutti riferimenti simbolici, ai fondali dipinti e tutti gli orpelli propri e caratteristici del pittorialismo. In alcuni ritratti e reportage del primo Novecento, c’è la forza della Straight Photography di Edward Steichen e Alfred Stieglitz, manifesto russo del nuovo canone estetico: memorabile il ritratto del venditore di giornali, per taglio di luce, inquadratura di singolare drammaticità (1905; August Sander riproporrà lo stilema), e l’essenziale ritratto di profilo, su fondo candido, della prima ballerina Matil’da Feliksovna Kšesinskaja, del 1900. Di Karl Bulla, il professor Grigory Michaylovich Chudakov, docente di Fotografia all’Università di Mosca, scrive: «Sembrerebbe che un fotografo, viziato dalla dimestichezza con il bel mondo, non dovesse lasciarsi attrarre dalle glorie del reporter, dalla collaborazione con la stampa illustrata nazionale ed estera, avida di documentazioni fotografiche. Invece, Karl Bulla riusciva a trovarsi con il suo obiettivo ai balli dell’alta società così come nelle mense di lavoro, ai mercati e alle competizioni sportive, a fotografare le inondazioni e gli incendi, gli scioperi e i combattimenti nelle strade durante la prima rivoluzione russa, i frequentatori dei circoli aristocratici e i pezzenti dei dormitori della capitale. La fama e il prestigio gli vennero dai ritratti e dai reportage, i cui eroi erano il colore della Russia del tempo, la sua gloria, la sua dignità. È sufficiente ricordare nomi come Tolstoj, Gor’kij, Šaljapin, Andrieieva, Riepin, Stasov». Nel 1916, passò la gestione dell’Atelier ai figli Aleksandr e Viktor, e si trasferì a Ösel Island (Saaremaa), in Estonia, dove continuerà a fotografare fino alla morte, nel 1929, producendo immagini etnografiche locali. Viktor Bulla, che aveva studiato all’Istituto britannico di San Pietroburgo e in Germania, fu un notevole reporter di per sé, autore di fotografie e testi sulla guerra

Retro (in verso) delle carte de visite e delle altre lavorazioni fotografiche con montaggio su cartoncino-supporto (formato Margherita) dell’atelier di Karl Bulla [Карл Булла]. Attualmente, a San Pietroburgo, è ancora attivo uno studio fotografico a lui richiamato: Prospettiva Nevskji 54, quarto piano. Questo studio si accompagna con un Museo. A due passi, in Malaya Sadovaya Ulitsa, c’è una statua in bronzo a grandezza naturale.

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San Pietroburgo, 1913: accademia d’arte femminile.

San Pietroburgo, 1917: fabbrica metalmeccanica Vulkan, per la produzione di proiettili.

San Pietroburgo, 1914: telefoniste in servizio nella centrale della città.

(prossima pagina) Venditore di giornali [nel testo, l’inquadratura di singolare drammaticità e il taglio di luce vengono commentati come anticipatori dell’Uomo del Ventesimo secolo, di August Sander].

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russo-giapponese (8 febbraio 1904 - 5 settembre 1905) e della Prima guerra mondiale. Anche Alexander fotografa la Prima guerra mondiale, ma poi si dedicherà soprattutto al giornalismo, realizzando considerevoli interviste a intellettuali e artisti. Successivamente, Viktor Bulla realizzò fotografie della Rivoluzione d’ottobre (novembre 1917) e della Guerra civile russa (1917-1922); fu nominato capo fotografo del Soviet di Leningrado. Particolarmente celebre e considerata è l’immagine della repressione della dimostrazione del luglio 1917 da parte delle forze del governo provvisorio. Il regista Sergej Michajlovič Ėjzenštejn si servì proprio della fotografia nella ricostruzione dei moti di piazza delle “giornate di luglio” che compaiono nel film Ottobre, del 1928. Fu ritrattista ufficiale di Lenin (Vladimir Il’ic Ul’janov) e dei suoi collaboratori. Nel 1928, l’Atelier partecipò alla mostra Dieci anni di fotografia sovietica, ricevendo consensi unanimi di critica e pubblico. Nel 1935, Viktor Bulla, figlio di Karl, donò all’Archivio di Stato del Distretto di Leningrado oltre centomila negativi delle fotografie di Karl Bulla (132.683). Nonostante l’incredibile lavoro fotografico e l’appartenenza al Soviet, le purghe staliniste colpirono in modo spietato tutta la famiglia Bulla, travolgendola nel dramma sovietico di quei tragici e controversi anni. Nel 1938, Viktor fu arrestato e fucilato; l’archivio di famiglia fu sequestrato come “prova materiale del tradimento della rivoluzione” e parzialmente distrutto. Le lastre che si salvarono furono abbandonate in luoghi impenetrabili e ne fu vietata la pubblicazione e citazione degli autori. Questo immenso patrimonio venne cancellato dalla Storia e cadde nell’oblio più fitto. Anche Alexandr fu arrestato e mandato ai lavori forzati sul Canale Mar Bianco-Mar Baltico; tornò dopo cinque anni e mori poco dopo. Jurij, figlio di Viktor, mori a Stalingrado durante l’assedio tedesco nella Seconda guerra mondiale. Drammatica storia di una dinastia di fotografi, dei quali non si è saputo nulla fino alla riabilitazione di Viktor Bulla, che ha attraversato l’epoca della modernità e della rivoluzione industriale pagandone il prezzo in prima persona e subendone tutte le atrocità e contraddizioni. Ancora dal professor Chudakov, già incontrato, che, a proposito dei figli di Karl, ha scritto, in tempi non sospetti: «I figli di Karl Bulla, Aleksandr e Viktor, furono degni continuatori delle tradizioni familiari nel campo del reportage. Appartengono a loro le imprese fotografiche della guerra russo-giapponese e della Prima guerra mondiale, della rivoluzione di febbraio e della Grande Rivoluzione d’ottobre. Viktor Bulla divenne uno dei più quotati ritrattisti di Lenin. «Il grande pubblico è stato privato di gran parte della produzione di questa dinastia di fotografi, rimasta occultata negli archivi e nota finora solo a una ristretta cerchia di specialisti. È giunto il tempo di dedicare cataloghi, monografie e album all’opera dei più abili fotografi di Russia, cronisti della vita di un ampio strato sociale in un momento storico di rottura». Solo nel 2017, nell’ambito del centenario della rivoluzione bolscevica, il nome e il lavoro dell’Atelier Bulla è riemerso e diventato di pubblico dominio; le loro fo-


LA PAROLA A...

Incontro Giuliana Berengan e Massimo Roncarà, fondatori dell’Atelier Il Passaggio, di Ferrara, nella sede dell’Associazione Aref, di Brescia, che ha ospitato una mostra delle fotografie di Karl Bulla nel centenario della Rivoluzione d’ottobre del 1917. Massimo Roncarà è il classico omone romagnolo, cappello a tese larghe e abbigliamento impeccabilmente retrò, con la nota esotica di una camicia coreana, che lui però afferma essere uguale a quella di suo nonno. Il Toscano che spunta eternamente dalla bocca è obbligatorio, come il tabarro in inverno. Giuliana Berengan è piccina vicino a lui, ma sprizza la vitalità di una suffragetta del primo Novecento, si veste di conseguenza e, con la sua lunga treccia nera, è l’animatrice culturale e aristocratica dell’Atelier Il Passaggio. Per entrambi, l’eleganza è sovrana, così come la sensibilità culturale e umanistica sconfinata. La prima domanda è ovvia. Come avete fatto ad acquisire più di cento fotografie di Karl Bulla e figli, autori russi che sono riemersi giusto per questo anniversario dopo tanti anni di oblio? Risponde Massimo Roncarà: «L’avventura delle fotografie di Karl Bulla ha avuto inizio nel 1989 da un incontro, apparentemente fortuito, avvenuto nella libreria Spazio Libri, di Ferrara, con Angela Pulvirenti, manager commerciale a Mosca, e Andrej Losjuk, docente di letteratura russa all’Ateneo moscovita. Volevamo capire le potenzialità intellettuale e artistica di quella che, di lì a poco, non sarebbe più stata l’Unione Sovietica. Volevamo andare alla scoperta di un patrimonio culturale e artistico che immaginavamo ben più ricco di quello ufficiale e stereotipato che conoscevamo». Quindi, siete stati guidati dalla curiosità? Risponde Giuliana Berengan: «Sì, curiosità e la romantica fantasia di creare un nostro “piccolo osservatorio” moscovita, di iniziare la raccolta di materiali relativi ad avvenimenti e personaggi della letteratura, dell’arte, della musica, del teatro pressoché sconosciuti in Italia». Massimo Roncarà. «Sì, perché le vicende politiche dell’agosto 1991 avevano cambiato lo stato delle cose e fortificato l’esigenza di conoscere, spingendoci anche sull’impervio terreno della storia precedente la Rivoluzione d’ottobre». Certo. Ma, come siete arrivati alla fotografia di Bulla, visto che le purghe staliniste li avevano cancellati dalla Storia? Massimo Roncarà s’illumina: «Il primo risultato della collaborazione tra l’Atelier Il Passaggio, di Ferrara, e il suo gemello di Mosca, nell’ex Unione Sovietica, è stato l’incontro con Valerij Nikiforov, direttore dell’Union Photocenter Association, di Mosca, che aveva allestito una piccola mostra in omaggio a Karl Bulla. Si trattava di materiali riprodotti da lastre originali conservate in gran parte nell’archivio del pronipote di Karl Bulla. Potevamo contribuire alla riscoperta di un patrimonio di valore, dando risonanza a un’iniziativa coraggiosa». Giuliana Berengan chiosa: «E, poi, c’era il fascino di accedere a un archivio “di famiglia”, con la possibilità di avere notizie dai discendenti dei Bulla e, ancora, il desiderio di lanciare una campagna di sensibilizzazione per la salvaguardia della memoria storica dell’ex Unione Sovietica, con tutte le sue contraddizioni». Ma non sarà stato semplice, intendo anche dal punto di vista materiale? Massimo Roncarà: «Contatti e collaborazione non sono stati difficili e, per una fatale catena di impegno intellettuale, si sono aperte altre strade che hanno reso possibile il primo risultato: l’allestimento di Verona [1992]». Sì, ma le stampe? Come le hai recuperate, dove sono state realizzate? Giuliana Berengan: «Dai Massimo, racconta: è stata un’avventura fortunosa e divertente, lo sai e ti piace tanto riviverla». Massimo Roncarà, con sorriso seducente: «Vero. È stato divertente, problematico e, a volte, da agente segreto. Per dire, le lastre erano gestite e stampate da un funzionario dell’Archivio di Stato, ogni volta diverso; se eri fortunato, la stampa era di qualità, altrimenti ti dovevi beccare quello che arrivava. Rocambolesco il reperimento di carta sensibile e chimici; per averli, a volte, non bastava neppure “ungere i cardini giusti” o far pesare l’autorità del professor Chudakov e del dottor Nz’kiforov, e allora non si stampava. Così, abbiamo portato noi i prodotti a Mosca, passando frontiere, facendoci aiutare da amici». Aggiunge Giuliana Berengan, e conclude: «Caro amico, se è vero che le immagini catturano e conservano qualcosa dello spirito di ciò che viene fotografato, crediamo che queste fotografie possano dare un piccolo contributo per far rivivere un passato che non abbiamo il diritto di dimenticare e ci auguriamo che questo sia solo l’inizio di un lungo viaggio di conoscenza e consapevolezza». Intervista raccolta da Rinaldo Capra

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tografie sono state esposte in mostre allestite e presentate in tutto il mondo. Ma la strada è stata lunga e incerta, iniziata anni prima, nei Settanta. Solo grazie all’ostinata ricerca e al paziente lavoro del professor Grigory Michaylovich Chudakov e del dottor Nz’kiforov, ora possiamo vedere queste immagini. Il fortunato incontro con Giuliana Berengan e Massimo Roncarà, dell’Atelier Il Passaggio, di Ferrara, e la loro acquisizione di un centinaio di stampe, burocraticamente stampate dai funzionari russi dei fondi fotografici, tornati disponibili dalla disgregazione dell’Unione Sovietica, ha permesso di realizzare una prima mostra italiana, a Verona, nel 1992, intitolata Cronache inedite della Russia di inizio secolo, con la pubblicazione di uno stimolante catalogo [48 pagine 21x24cm; Spazio Libri Editori]. I fondi di provenienza sono stati principalmente tre: l’archivio del Photocenter di Mosca (Associazione dei fotoreporter sovietici), l’Archivio di Stato, di San Pietroburgo, e l’archivio privato della famiglia Kaminskij, pronipoti di Karl Bulla, sempre di San Pietroburgo. Sul retro -“in verso” si dice nel codice museale-, le fotografie riportano timbri e attestazioni che ne identificano la provenienza e ne certificano la data di ripresa. A volte, le dimensioni delle stampe sono inconsuete, perché -per la penuria di materiali sensibili- i fogli di dimensioni superiori venivano ritagliati per ottimizzarne la resa formale. Alcune stampe sono di pregevole qualità di camera oscura e su supporti baritati di pregio; altre meno, ma tutte di inestimabile valore storico. A quel punto, l’archivio era riemerso in tutta la propria importanza, ma si dovrà aspettare fino al 2003 per allestire una mostra significativa a San Pietroburgo, con l’occasione della celebrazione dei trecento anni di fondazione della città, coincidenti con il centocinquantesimo compleanno di Karl Bulla. Poi, di nuovo il buio e il disinteresse del modo accademico e fotografico, fino al nuovo recupero, anche mercantile, in occasione delle mostre sulla rivoluzione bolscevica (1917-2017), nel cui allestimento si sono ammirate molte fotografie dei Bulla, purtroppo -a volte- senza la menzione degli autori. Tuttavia, queste fotografie si sono ostinatamente riproposte per quel che sono: in quanto tali, hanno raccontato, certificato, rilevato e rivelato la realtà di un periodo storico che ci appartiene, e che tuttora ci condiziona. Insomma, hanno perfettamente assolto al proprio ruolo storico, culturale e politico: hanno raccontato i conflitti e le tragedie dell’affermarsi della rivoluzione industriale e l’evolversi della società russa nel tentativo di costruire un mondo diverso, nel senso di migliore (?). Annota Giuliana Berengan, dell’Atelier Il Passaggio, di Ferrara, ostinata e tetragona artefice, con Massimo Roncarà, di questo recupero nel catalogo della mostra di Verona, del 1992 (già richiamata): «Se è vero che le immagini catturano e conservano qualcosa dello spirito di ciò che viene fotografato, crediamo che anche queste fotografie [in libro] possano dare un piccolo contributo per far rivivere un passato che non abbiamo il diritto di dimenticare e ci auguriamo che questo sia solo l’inizio di un lungo viaggio di conoscenza e consapevolezza». Ecco, ora sappiamo chi erano i fotografi russi Karl, Alexandr e Viktor Bulla. ❖

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Il Galateo overo De’ costumi, di Giovanni Battista Della Casa, è disponibile in formato Pdf, scaricabile da diversi indirizzi web


New York. Architectural Time, fotografie di Stefano Pasqualetti; Mondadori Electa, 2019; 128 pagine 24,5x31cm, cartonato; 30,00 euro.

di Angelo Galantini

NOBILI PRECEDENTI Come accennato, una segnalazione bibliografica ragionata su New York potrebbe allungarsi verso l’infinito. Tra titoli e volumi di carattere più commerciale e turistico, che vanno considerati

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11,30 AM TREES AND BUILDINGS

A

ssolutamente vero. Più di altre città, spesso capitali delle proprie nazioni (Parigi, Londra e Tokyo, in particolare), New York City, che non è capitale politica degli Stati Uniti, ma è sicuramente la città più nota e visitata dell’intero paese, è assolutamente fotogenica. Molti sono i fotografi che l’hanno affrontata, ciascuno con proprio punto di vista autonomo e competente, tanto che si è in grado di compilare un cospicuo casellario bibliografico, al quale, oggi, si aggiunge un titolo ancora, di autore italiano: New York. Architectural Time, del pisano, Stefano Pasqualetti, laureato in architettura all’Università di Ferrara, trasferitosi a Manhattan, dopo una prima esperienza professionale a Milano. Il suo è un passo fotografico lieve e partecipe, in garbato equilibrio tra una formazione professionale indirizzata e un coinvolgimento visivo emozionato. Da cui, una meritata constatazione dell’autorevole direttore d’orchestra Gianandrea Noseda: «Questo libro di fotografia è un invito a sorprendersi e sognare, mostrandoci che i sogni e le sorprese sono possibili, sempre». Ma prima di avvicinare queste fotografie, raccolte in monografia da Mondadori Electa, con testi in inglese (volente o nolente, la distribuzione internazionale è più redditizia di quella solo nazionale... ahinoi), è opportuno un lungo prologo in indirizzo fotogenico, che contestualizzi l’attuale New York. Architectural Time, di Stefano Pasqualetti, in una sfera fotografica della quale entra a far parte. Più avanti, approdiamo a queste fotografie, ma ora è opportuno avviare un percorso/cammino che ne motivi la personalità in comunione di intenti con quanti hanno fotografato New York, città per se stessa e inviolabile richiamo sociale, culturale e di costume [e rimandiamo all’intervento Fotografare la città, di Grazia Neri, in FOTOgraphia, del luglio 2000].


In raffinata edizione Mondadori Electa, New York. Architectural Time, di Stefano Pasqualetti, è una monografia affascinante e coinvolgente. L’autore individua la cifra distintiva della rappresentazione della città nei particolari e dettagli della sua architettura urbana, oltre la fotogenia originaria. Racconto fotografico per il quale la città risulta immersa in un silenzio rivelatore. Le immagini rimandano Tempo assoluto a una città che tempo sembra non averne mai

ANCORA NEW YORK


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9,30 PM THE JUILLIARD SCHOOL

4,30 PM NEW YORK TIMES BUILDING

4,30 PM GUGGENHEIM MUSEUM


altrove e altrimenti [in rimando, a FOTOgraphia, del luglio 2010: Fotografia turistica], e autentiche perle di reportage e documentazione sociale, i titoli si sprecano: molti libri sono robaccia, ne siamo consapevoli, sono da buttare; altri -identificabili e identificati- sono invece preziosi; qualcuno è addirittura fondamentale. Senza fare torto a nessuno, è obbligatoria la menzione d’avvio con lo straordinario New York, di William Klein, in titolo completo Life is Good and Good for You in New York ), che nel 1956 cambiò il ritmo e il senso del modo di fare reportage [ne abbiamo scritto in occasione della riproposizione dell’edizione libraria New York 1954.55, curata da un pool di editori europei, tra i quali l’italiano Peliti Associati: FOTOgraphia, febbraio 1997). Allo stesso modo, non si possono, né vogliono, dimenticare altre memorabili documentazioni e straordinari reportage, e altrettanto indimenticabili omaggi cinematografici (sopra tutti, il delicato e poetico Manhattan, di Woody Allen). Dunque, obbligatoriamente: New York, di Reinhart Wolf, del 1980 (edizione italiana del 1986 [nostra più recente considerazione, sul numero di luglio 2017]); New York Vertical, di Horst Hamann, del 1996 (edizione originaria 22x50cm, accompagnata da una tiratura speciale di novantanove copie numerate e firmate e da un portfolio di otto immagini 60x30cm; più edizioni successive in formato ridotto 16x33cm e 10x25cm); Naked City, di Weegee, del 1945, straordinaria e cinica cronaca nera della città; Changing New York, di Berenice Abbott (ripubblicato nel 1997 a cura del Museum of the City of New York, che ha ordinato e riproposto le fotografie scattate nella seconda metà degli anni Trenta nell’ambito del WPA Project municipale), e sua interpretazione New York Changing - Revisiting Berenice Abbott’s New York, di Douglas Levere, del 2004 [FOTOgraphia, luglio 2005]; e, poi, New York - 100th Street, di Bruce Davidson, in più recente edizione 2003, originariamente pubblicato dal prestigioso mensile svizzero Du, nel marzo 1969. A tutto questo, che non è certo tutto, ci mancherebbe altro, si aggiunge anche la monografia Immaginare New York (edizione italiana 5 Continents Editions, del 2009), realizzata con fotografie dalla Collezione del MoMA, a cura di Sarah Hermanson Meister, che accompagna la mostra dei relativi originali: in Italia, all’autorevole Mart, di Rovereto (Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto), nell’estate-autunno 2009 [FOTOgraphia, settembre 2009]. A tutti gli effetti, una delle selezioni fotografiche più affascinanti tra quante realizzate negli ultimi anni.

5,30 PM OCULUS

FOTOGENIA, PER L’APPUNTO Prima di essere impaginata in volumi a tema, New York è comunque fotogenica per se stessa. Addirittura, la sua geografia è endemica nella mente di tutti noi, cresciuti ed educati anche con la letteratura statunitense moderna (John Dos Passos e dintorni) e con il cinema contemporaneo. Tanto è vero che è lecito pensare e affermare che, come siamo soliti ipotizzare, “la prima volta che sono stato a New York... c’ero già stato”. New York è uno spettacolo che i poeti hanno descritto con entusiasmo partecipe. È la «città di guglie e alberi maestri», di Walt Whitman. È l’assembramento di grattacieli che Henry James ha visto spuntare «come da uno stravagante puntaspilli troppo affollato». È la «musica incantatrice» che il pittore John Marin finì per udire: squilli d’arrogante superbia. A New York, bisogna imparare di nuovo a vedere, non soltanto guardare. Le tradizionali visioni europee qui servono a poco, o a niente addirittura; il filosofo Jean-Paul Sartre ha osservato che «New York è una città da presbiti: si può mettere a fuoco soltanto all’infinito». La vita di New York e i suoi edifici spesso traggono la propria bellezza dall’effetto complessivo, dal modo

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BRYANT PARK IN

1,00 PM REFLECTION 11,30 PM SNOW 42ND STREET ON

7,30 PM MIRRORED

in cui catturano l’occhio lungo il corso d’una Avenue, da qualche volontaria accentuazione dei dettagli [percepiti da Stefano Pasqualetti, nella e con la sua New York. Architectural Time], da qualche smagliatura nella griglia infinita delle strade. A proposito di New York, Le Corbusier (Charles-Édouard Jeanneret-Gris) ha scritto che «Qui il grattacielo non è un elemento urbanistico, bensì una barriera all’azzurro, una raffica di fuochi d’artificio, un pennacchio sull’acconciatura di nomi definitivamente consacrati nel Gotha del denaro. Dall’asettico ufficio al cinquantaseiesimo piano, si può contemplare l’immenso festival notturno di New York, nemmeno lontanamente immaginabile per chi non l’ha visto. È mineralogia titanica, infinita stratificazione prismatica di fiumi di luce: in verticale, in profondità, in saette violente come le linee del diagramma delle temperature al capezzale d’un malato. Diamanti, innumerevoli diamanti... New York di fronte a Manhattan, pietra rosa nell’azzurro d’un cielo marino; New York, di notte, come una gioielleria illuminata». E sarebbero possibili tanti altri richiami.

MONOGRAFIA... FINALMENTE In ripetizione (d’obbligo), la monografia New York. Architectural Time, di Stefano Pasqualetti, presenta e offre un passo fotografico lieve e partecipe, in garbato equilibrio tra una formazione professionale indirizzata e un coinvolgimento visivo emozionato.

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Più approfonditamente che in altre occasioni di identico riferimento, va rilevato che queste fotografie possono anche rivelare qualcosa del soggetto dichiarato e proposto -New York, per l’appunto-, ma, soprattutto palesano molto di più del loro autore, il suo mondo intimo. Comunque, queste fotografie, come tutte, del resto, valgono sempre per qualcosa che ognuno di noi (osservatore) trova in se stesso, al loro avvicinamento e incontro. Forte e sostenuto dalla propria formazione professionale, l’attento e scrupoloso Stefano Pasqualetti individua la cifra distintiva della rappresentazione di New York nei particolari e dettagli della sua architettura urbana. Ne consegue un racconto fotografico per il quale la città, senza presenze fisiche, risulta immersa in un silenzio rivelatore. In ritmo visivo coerente, le pagine della monografia restituiscono sembianze di momenti, dettagli e sensazioni che spesso sfuggono all’osservazione distratta: per l’appunto, vedere, oltre il solo guardare. Le immagini rimandano Tempo assoluto a una città che tempo sembra non averne. Racconto fotografico efficace e coinvolgente, New York. Architectural Time evoca di come le luci e le superfici delle architetture possano creare uno scenario in continuo movimento. Organizzate da mezzanotte alla mezzanotte successiva, in un camminare per la città, le immagini rappresentano una passeggiata architettonica attraverso i colori e le stagioni di New York. Oltre la sua fotogenia congenita. ❖


RITORNO

SINAR NORMA 4X5

POLLICI

(FOTOGRAPHIA DI ANTONIO BORDONI)

AL GRANDE FORMATO

Una Ipotesi Un Sogno Un Invito Una Proposta (graphia@tin.it)


Diamo i numeri di Lello Piazza

ATTORNO AL 42 (?)

O

Ogni giorno, vedo la newsletter dal sito statunitense https://www. quora.com/. Dall’11 maggio 2017, c’è anche la versione italiana https://it.quora.com. Ci si può iscrivere, è gratuito. Sono suggerite risposte a un sacco di domande, la maggior parte riguardano la Matematica, poi la Fisica e anche, meno frequentemente, la Fotografia... comunque, presente. Sulla Fotografia, alcune riguardano quello che si può imparare su Internet (What are the best online resources for learning photography?; What are the basic rule of photography?; What are some tips on night photography?; How can I build a simple and effective photography portfolio website?); altre hanno per tema la professione (What is the future of photography and professional photographers?; Can anyone earn through photography?), o le diverse definizioni di Fotografia (What is the difference between Candid Photography and Street Photography?). Poi, ci sono quelle di natura filosofica (Why do I love photography so much, ever look through a camera?; Is photography a crime? Is photography a waste of time?; Is photography meant only for the rich?; Is street photography unethical?). Infine, domande senza senso, che riguardano le più belle fotografie mai scattate (What are some examples of best photography, ever?; What is the best photograph ever?; What’s the best picture you have ever seen?). Insomma, ci sono risposte per tutti. Comunque, le domande/risposte che mi intrigano di più, riguardano, però, la Matematica. Vi proporrò, tra breve, l’ultima che ho letto, circa a metà agosto, che, partendo dal numero 42, illustra una proprietà dei numeri primi. I numeri primi (il loro elenco comincia così: 2, 3, 5, 7, 11, 13, 17, …) sono quei numeri interi positivi che sono divisibili in modo esatto,

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solo per “1” e per se stessi. Su questi numeri si sono dimostrati molti teoremi; per esempio, che i numeri primi sono infiniti, come i numeri interi; lo dimostrò per primo Euclide (IV e III secolo aC), più di duemila anni fa, ma ci sono altre dimostrazioni più recenti. E ci sono anche molti problemi aperti. La congettura di Goldbach, espressa nel 1742, è tra le più famose: afferma che ogni numero pari maggiore di “2” può essere espresso come somma di due numeri primi, che possono anche essere uguali; per esempio, 4 = 2+2, 6 = 3+3, 8 = 5+3, 10 = 5+5, …, che i matematici non riescono a dimostrare da più di trecento anni. Insomma, quello dei numeri interi è un mondo molto più affascinante della Settimana Enigmistica. Ed è strano che i numeri interi rappresentino elementi di base del pensiero. Contare è una delle manifestazioni più primitive della capacità di pensare dell’Homo sapiens, tanto primitiva che anche molte specie animali (per esempio, le scimmie antropomorfe, i delfini, alcune specie di uccelli, come i piccioni) sanno contare, almeno in modo rudimentale, sapendo arrivare a una aritmetica dove ci sono solo 1, 2, 3, 4, tanti, che arriva a contare veramente fino a “4” oggetti, e dopo “4” c’è solo “tanti”. Quindi, possiamo concludere che l’aritmetica è esistita prima che l’Uomo facesse la sua apparizione sulla Terra. E nonostante questa sua primitività contenga molti dei problemi più difficili da risolvere e le verità più intriganti. Cito, fra tutti, il risultato probabilmente più importante della Matematica e del pensiero logico-deduttivo: il teorema di incompletezza, che Kurt Gödel (1906-1978) ha dimostrato nel 1931. Dice sostanzialmente che in Matematica esistono proposizioni indecidibili: nessun ragionamento logico deduttivo può dimostrare che siano vere o false! La vicenda è un po’ più

complessa di così, ma l’ho lasciata volutamente nella sua forma più spiazzante (chi vuole approfondire può vedere a https://it.wikipedia. org/wiki/Teoremi_di_incompletezza _di_Gödel). Ma torniamo al 42. La domanda di Quora chiedeva «Perché il 42 è così importante per i matematici?». La risposta, un po’ sarcastica, diceva che il 42 è importante perché

Potete immaginarvi qualcosa di più mostruoso? Sottolineiamo che il sarcasmo sta nel fatto che il 42 non svolge nessun ruolo essenziale. Infatti, valgono anche le seguenti formule, dove il 42 non compare:

Senza che colui che rispondeva alla domanda lo specificasse, il risultato discende da un teorema dimostrato nel 1876 da Leopold Kronecker (1823-1891)

che era partito da Leonhard Euler (Eulero; 1707-1783)

Non è questa la sede per entrare nei dettagli di questi risultati. Mi limito a concludere che il risultato di Eulero viene utilizzato per dimostrare che i primi sono infiniti. Infatti, se fossero finiti, il prodotto

conterrebbe solo un numero finito di fattori; quindi, sarebbe un numero molto grande, ma finito. Ma per il risultato di Eulero questo prodotto è uguale a

quindi, i primi non possono che essere infiniti. Per concludere, il 42 non è un numero particolarmente importante per i matematici. Ci siamo chiesti: come sarà venuta in mente al membro di Quora che ha posto la domanda, l’idea di interessarsi al 42? Potrebbe aver letto l’intrigante e appassionante Guida galattica per gli autostoppisti. Il ciclo completo, di Douglas Adams, [844 pagine, Mondadori, 2016; collana Oscar Absolute]. Il nostro numero è infatti la risposta che Pensiero Profondo, “Il secondo più grande computer dell’Universo del Tempo e dello Spazio”, al lavoro da sette milioni e mezzo di anni, è finalmente pronto a dare alla Domanda Fondamentale sulla Vita...! L’Universo...! E Tutto Quanto...! «C’è davvero una risposta?» sussurrò Phouchg [Phouchg e Loonquawl sono gli unici discendenti dei due programmatori che hanno creato Pensiero Profondo, settantacinquemila generazioni umane fa]. «C’è davvero una risposta» confermò Pensiero Profondo. «A Tutto? Alla Domanda Fondamentale sulla Vita, l’Universo e Tutto Quanto?». «Sì». [...] «E sei pronto a darci la Risposta?» domandò ansioso Loonquawl. «Sì». «Adesso?». «Adesso» confermò Pensiero Profondo. I due si umettarono le labbra. «Anche se penso che non vi piacerà» precisò Pensiero Profondo. «Non importa!» esclamò Phouchg. «Dobbiamo saperla! Adesso!».


Diamo i numeri

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2)

42: PER SEMPRE SOLO LUI

A integrazione della Matematica presentata e commentata dall’autorevole (a farlo) Lello Piazza, in doverosa sintesi, riprendiamo dal nostro numero del giugno 2017, per incontrare un 42 effettivamente discriminante e discriminatorio. Per comprendere ciò che stiamo per raccontare, bisogna immergersi in climi sociali diversi dai nostri attuali, entro i quali, oggigiorno, diamo per scontate tutte le condizioni acquisite. Tanto che le sceneggiature cinematografiche e televisive (statunitensi) sono ormai popolate di personaggi e protagonisti afroamericani, assenti nei film e telefilm (oggi serie) del passato. Dunque, sia chiaro e consapevole: molto di quanto caratterizza il presente è conquista sociale sostanziosamente recente. Per cui, eccoci qui, con una rievocazione dal mondo dello sport (statunitense), in chiave sociale. Come anticipato, parliamo di baseball. Forse. All’indomani della Seconda guerra mondiale, durante la quale, tra le fila dell’esercito statunitense, l’apporto di soldati afroamericani fu consistente, nel quotidiano della nazione persistevano segregazioni odiose. Anche lo sport applicava separazioni nette e distinte: allora, la massima divisione del baseball professionistico statunitense, la Major League Baseball, era riservata a giocatori bianchi. Gli afroamericani potevano militare soltanto in squadre loro riservate, che giocavano in altri campionati, riconosciuti nel contenitore di una infamante Negro League, attivi fino a tutto il 1958, con estensione ufficiosa fino al 1966. Nel 1947, le squadre delle due League erano sedici, ciascuna composta da una rosa di venticinque giocatori: al via, si presentarono quattrocento giocatori. Per la prima volta, non tutti furono “bianchi”, perché il quindici aprile, di inizio di campionato, i Brooklyn Dodgers (oggi Los Angeles Dodgers) schierarono il primo giocatore afroamericano della storia del baseball. Nella partita di esordio contro i Boston Braves, al mitico Ebbets Field, di Brooklyn, in prima base, fu schierato il ventottenne Jack Roosevelt Robinson (Jackie Robinson, nel quotidiano; 1919-1972), dal quale si conteggia l’abbattimento dell’insostenibile barriera sociale (Jackie Robinson è stato conteggiato tra le cento personalità più importanti del Ventesimo secolo, in una retrovisione di Time Magazine, del 1999 [FOTOgraphia, dicembre 1999: edizione speciale Salviamo il salvabile di fine secolo/millennio]). Non entriamo in altri meriti, ma raccontiamo una storia di sport. La storia è questa, e si basa sul ritiro del numero di casacca di quei giocatori che hanno segnato capitoli fondamentali nel corso degli eventi di ogni squadra di baseball. Jackie Robinson è stato il numero Quarantadue (42) dei Brooklyn Dodgers, dal suo esordio del 15 aprile 1947 fino all’ultima partita del campionato 1956, terminato il dieci ottobre. Per l’eccezionalità della sua personalità, il 4 giugno 1972, quattro mesi prima della sua prematura scomparsa, il ventiquattro ottobre, a cinquantatré anni, i Dodgers hanno ritirato il numero 42. Quindi, ancora, nel cinquantesimo anniversario del suo esordio, e in suo onore, il 14 aprile 1997, lo stesso numero 42 è stato ritirato da tutte le squadre della Major League Baseball statunitense. Ma non è ancora tutto: dal 2004, ogni anno, il quindici aprile, il baseball statunitense celebra il Jackie Robinson Day: tutti i giocatori, di tutte le squadre, giocano con il numero 42. 42 (in Italia, 42 - La vera storia di una leggenda americana) è un film di Brian Helgeland, del 2013, con l’attore Chadwick Boseman nella parte di Jackie Robinson: sceneggiatura del suo primo campionato.

Jackie Robinson Day: dal 2004, in ricordo dell’esordio del primo giocatore di baseball afroamericano, Jackie Robinson, il quindici aprile, tutti i giocatori, di tutti i campionati, giocano con il numero 42 sulla casacca. Numero identificativo di Jackie Robinson, dopo essere stato ritirato dalla sua squadra, attualmente Los Angeles Dodgers, ai suoi tempi Brooklyn Dodgers, in sua celebrazione, il 42 è stato successivamente ritirato anche dalla Lega del baseball statunitense.

15 aprile 2017, nel settantesimo anniversario dell’esordio di Jackie Robinson: scenografia al Dodger Stadium, di Los Angeles.

15 aprile 2017: i Los Angeles Dodgers schierati prima della partita (militano nella West Division della National League). 15 aprile 2017: gli Yankees scendono in campo, al nuovo Yankee Stadium, di New York (militano nella East Division dell’American League).

Francobollo statunitense commemorativo di Jackie Robinson (2 agosto 1982), della serie, distribuita nel tempo, di Black Heritage (Patrimonio nero / Eredità nera). Quindi, il gesto atletico caratteristico di Jackie Robinson [icona dello sport] torna in una emissione filatelica del 18 febbraio 1999, nel foglio Souvenir degli anni Quaranta, uno dei dieci celebrativi delle decadi del Novecento.

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Diamo i numeri «Adesso?» chiese Pensiero Profondo. «Sì! Adesso...». «Va bene» disse il Computer, e tacque. I due uomini si misero a giocherellare con le dita. La tensione era insopportabile. «Non vi piacerà davvero» insistette dopo un attimo Pensiero Profondo. «Diccela!». «La Risposta alla Domanda fondamentale...». «Sì...?». «Sulla Vita, l’Universo e Tutto Quanto...» disse Pensiero Profondo. «Sì...?». «È...» disse Pensiero Profondo, e fece una pausa. «Sì...?». «È...». «Sì...???». «Quarantadue» disse Pensiero Profondo, con infinita calma e solennità.

Su Wikipedia, che è eccellente per la Matematica (soprattutto quella in lingua inglese), a proposito del 42, si trovano un sacco di altre suggestioni. Manca, però, quella considerevole che potete leggere nel riquadro pubblicato sulla precedente pagina 49, che racconta di una stella del baseball statunitense, Jack Roosevelt Robinson (Jackie; 1919-1972), il primo afroamericano nella Major League, dal 15 aprile 1947, all’Ebbets Field, di Brooklyn (New York City), davanti a oltre ventitremila spettatori. Attenzione, nel riquadro in rimando si cita un film relativo alla vicenda di Jackie Robinson. Con l’occasione, ricordiamo la capacità del cinema statunitense di raccontare sul filo dello sport. Da cui, rimandiamo anche a L’uomo dei sogni, di Phil Alden Robinson, del 1989: la Vita e l’essere figlio, con pretesto di baseball. ❖


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