FOTOgraphia 252 giugno 2019

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Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano

ANNO XXVI - NUMERO 252 - GIUGNO 2019

Edward Burtynsky ANTHROPOCENE

1979-2019 TRE GIORNI A GIUGNO

GIOVANNI CABASSI L’ALBERO


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prima di cominciare IN QUESTO TEMPO. Una volta ancora, una volta di più, probabilmente non per l’ultima volta, riveliamo qualcosa di noi, del nostro intendere, non tanto la rivista (il cui valore equivale al proverbiale due di picche, con briscola a fiori), quanto il rapporto istituzionale con gli altri: ovviamente, nello specifico di rispetto di coloro verso i quali si indirizzano le nostre intenzioni, in questo ambito fotografico [da e con Grazia Neri, fondatrice e per quarant’anni titolare dell’omonima agenzia fotografica, riferimento privilegiato del cammino di tanti di noi, nella riflessione (biografia?) La mia fotografia, pubblicato nel 2013 da Feltrinelli (FOTOgraphia, giugno 2013): «Chi fa lettura di portfolio non è un critico, ma un insegnante occasionale: deve anche dare informazioni»]. Come spesso annotato, e richiamato, nulla di quanto pubblicato in queste pagine è casuale, sia nel proprio contenuto, sia per l’inevitabile forma, sia per trasversalità, collegamenti e intrecci evocati. Certo, non è richiesto che tutto questo venga individuato da coloro che non ne possiedono la chiave di lettura, ma sarebbe auspicabile che chi affronta la fotografia con concentrazione promessa e vantata si accorgesse che «nulla di quanto pubblicato in queste pagine è casuale». Ma, ahinoi, così non è: tanto è vero che, ancora in tempi recenti, c’è stato chi, bramoso di pubblicazione, non ha capito che l’insieme degli argomenti qui presentati, numero dopo numero, risponde a una coerenza di intenti, divergente da ogni altro egoismo ed egocentrismo di intenzione. Così che per questo numero riveliamo pubblicamente una trasversalità alla quale abbiamo risposto (dopo di che, la risposta può essere gradita o meno, condivisa o meno... ma non importa). Pensiamo al Tempo, in proprie molteplici accezioni. Eccoci qui, almeno tre Tempi, e altri potrebbero essercene. C’è un Tempo privato, intimo, ma condivisibile: Tre giorni a giugno, da pagina diciassette, con cadenza da negativi trentacinque millimetri archiviati in sequenza di date, da mercoledì tredici a giovedì quattordici, a sabato sedici (1979) [ci piace ricordare qui momenti per tutte le cose che allora non sapevamo]. C’è un Tempo sovrastante: Infamie dell’Uomo, con tutte le tante conseguenze prevedibili e sottolineate, da pagina ventiquattro, con richiamo al Tempo della Vita... alle ere dell’Esistenza. C’è un Tempo tecnico-commerciale, per il quale consideriamo il sistema Canon Eos R, Mirrorless full-frame, da pagina quattordici: la pianificazione dell’obsolescenza, che fa girare il mondo (per quanto ci riguarda, a partire dal mercato fotografico). Dunque, Fotografia come s-punto privilegiato di osservazione. Del resto, «I nostri palazzi a te sembrano molto piccoli, ma a noi, che siamo piccoli, sembrano molto grandi» (da e con Dr. Seuss / Theodor Seuss Geisel; 1904-1991). mFranti

Tutti gli scemi finiscono in politica o in fotografia. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 47 Ci avete ignorato in passato e continuerete a farlo. Siete rimasti senza scuse e noi siamo rimasti senza più tempo. Noi siamo qui per farvi sapere che il cambiamento sta arrivando, che vi piaccia o no. Greta Thunberg; su questo numero, a pagina 31 Sono certo, oltre che consapevole, che ci possano essere ancora frammenti di grazia, qui e là, per chi li sa cogliere. Io, tra questi? Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 19 Con gli Orridi naturali, con Bruegel e, a volte, con i film dell’orrore, si può facilmente convivere. Con le fotografie del Ruanda e con la fotografia di Massimo Sestini menzionata in apertura è più difficile. Lello Piazza; su questo numero, a pagina 30 La magia della fotografia e il meraviglioso che contiene non ha alcun valore, se non è il viatico di una visione libertaria dell’esistenza, anche là dove comporti sofferenze quali la prigionia, la tortura e l’eccidio. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 49

Copertina Mentre il portfolio sintetizzato dalla accreditata serie L’Albero. Genealogia recente di una Famiglia milanese, dell’autorevole Giovanni Cabassi, che riflette sulla dinastia alla quale appartiene, da pagina trentotto, si concentra unicamente sulla cadenza di ritratti, il richiamo d’avvio riprende una delle piante (Albero) che introducono i capitoli dell’allestimento scenico e della coeva monografia (a diffusione indirizzata): La Savina Marittima aggrappata alla sabbia sopra a Es Calò. Si distende tessendo una ragnatela di radici che corrono in superficie, diventa statua attorcigliata dal soffiare incessante del vento

3 Altri tempi (fotografici) Dettaglio da una cartolina appartenente a una serie di dieci soggetti, disegnati da Klaus Buttner per la tedesca dell’Est Praktica, nel 1989

7 Editoriale Spiegare l’Uomo all’Uomo, e ogni Uomo a se stesso

8 In metafora Accostamento individuato valutato e sottolineato tra L’Albero. Genealogia recente di una Famiglia milanese, di Giovanni Cabassi (da pagina 38), e Fiori della mia vita, di Gian Paolo Barbieri [da FOTOgraphia, settembre 2017] di Angelo Galantini


GIUGNO 2019

RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA

11 Freccia a destra

Anno XXVI - numero 252 - 6,50 euro

Siparietto fotografico dal film Il sorpasso, di Dino Risi, del 1962, una delle pietre miliari del cinema italiano Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

DIRETTORE

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

IMPAGINAZIONE

Maria Marasciuolo

14 Già... a sistema Accompagnato da obiettivi di sostanza, un ulteriore corpo macchina Canon Eos RP, successivo all’originaria Canon Eos R, di avvio, scandisce i termini di autentico sistema Mirrorless full-frame. Sul mercato fotografico

REDAZIONE

Filippo Rebuzzini

CORRISPONDENTE Giulio Forti

FOTOGRAFIE Rouge

SEGRETERIA

Maddalena Fasoli

17 Tre giorni a giugno Nel quarantesimo (1979-2019), una curiosa successione di negativi trentacinque millimetri scandisce passi esistenziali (in fotografia): dal primo incontro con Tosh Komamura e Jin Yamaguchi al Concerto per Demetrio Stratos, a Venezia ’79 la fotografia

24 Infamie dell’Uomo Non soltanto mostra e allestimento di fotografie coinvolgenti. Oltre la superficie apparente, senso e valore dell’indagine visiva realizzata dal canadese Edward Burtynsky: Anthropocene, al Mast, di Bologna di Lello Piazza

32 Sacre scritture Con volontario scarto di significato, in esagerazione fonetica (sacre?), casellario ragionato di manuali tecnici compilati da eminenti fotografi professionisti, italiani e non. Approfondita ricerca retrospettiva che rivela i connotati di un Tempo che non dovremmo dimenticare, né contribuire a dimenticare di Antonio Bordoni

38 L’Albero In allineamento con un elemento naturale, il progetto L’Albero. Genealogia recente di una Famiglia milanese, di Giovanni Cabassi, assolve e risolve esattamente quello che il titolo anticipa e promette. In selezione dal totale, ritratti e personalità dei relativi protagonisti di Maurizio Rebuzzini

47 Francisco Boix

HANNO

COLLABORATO

Pino Bertelli Antonio Bordoni Giovanni Cabassi Martino Cabassi mFranti Angelo Galantini Tiziana Perria Lello Piazza Franco Sergio Rebosio Emilio Tremolada Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.com; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 1027671617 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard e PayPal (graphia@tin.it). ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano

Rivista associata a TIPA

Sguardi sull’iconografia dell’orrore di Mauthausen di Pino Bertelli Nella stesura della rivista, a volte, utilizziamo testi e immagini che non sono di nostra proprietà [e per le nostre proprietà valga sempre la precisazione certificata nel colophon burocratico, qui accanto: «È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo)»]. In assoluto, non usiamo mai propietà altrui per altre finalità che la critica e discussione di argomenti e considerazioni. Quindi, nel rispetto del diritto d'autore, testi e immagini altrui vengono riprodotti e presentati ai sensi degli articoli 65 / comma 2, 70 / comma 1bis e 101 / comma 1, della Legge 633/1941 / Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio.

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Attrezzature fotografiche usate e da collezionismo Specializzato in apparecchi e obiettivi grande formato

di Alessandro Mariconti

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niversità Cattolica del Sacro Cuore (sede di Brescia), Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di Storia della Fotografia. Docente a contratto: Maurizio Rebuzzini. Dunque, come si può raccontare questa Storia in un ambito nel quale la Fotografia è complemento oggetto, e non soggetto? Presto detto: non deve essere autoreferenziale, non deve essere astratta e teorica (come, peraltro, mai dovrebbe esserlo), ma contestualizzata nel percorso accademico di richiamo e riferimento. Soprattutto, e a differenza di molti (tutti?), nessun giudizio lapidario sul passato, alla luce dei valori e concetti del presente. In breve e in assoluto: come e quanto la Fotografia ha influito / influisce sulla vita e la società. Quindi, in sovramercato, il Corso è definito e delineato dalle stesse linee conduttrici della nostra Vita, peraltro svolta nel solo e unico carico e legame fotografico. Quindi, da queste pagine al Corso e a tutto d’altro, giorno per giorno: osservare, piuttosto di giudicare e, in coerenza, pensare invece di credere. Ora: perché questa introduzione? Risposta facile: per motivare, senza peraltro giustificare, un passo fotografico che consideriamo fondante e determinante. Soprattutto a partire dall’obbligo di non valutare mai con una unità di misura sfalsata [per tanti versi, dall’Editoriale dello scorso maggio]; ovvero, mai sentenziare su autori e movimenti a partire da ciò che oggi intendiamo come corretto (attenzione: a parte tante altre considerazioni, ci si ricordi che c’è stato un mondo pre-Sessantotto e noi viviamo in uno post-Sessantotto; oltre tante smancerie di comodo -tipo la marmellata che venne più buona nel Sessantotto: cazzata senza giustificazione-, il Sessantotto ha comunque stabilito un prima e un dopo in termini sociali); ovvero, mai bollare il passato per quanto intendiamo al presente (per esempio, Edward Steichen, autore spesso conteggiato come “borghese e insensibile” -in unità di misura inadeguata- è stato colui che ha rilevato come «Missione della fotografia è spiegare l’Uomo all’Uomo, e ogni Uomo a se stesso»). Magistralmente, oggi, su questo numero della rivista, come in ogni nostra edizione, c’è una Fotografia che è presa in considerazione proprio per questo. A proposito del progetto Anthropocene, del canadese Edward Burtynsky, in allestimento scenico al Mast, di Bologna, che Lello Piazza presenta e commenta, da pagina ventiquattro, non ci limitiamo alle fotografie in quanto tali e asettiche, per quanto di valore e spessore formale (ciascuna per sé e ognuna nell’ambito del progetto), ma sul senso e intenzione con cui la stessa Fotografia è utilizzata e proposta come straordinario s-punto di riflessione e osservazione. Ora e qui, non la tiriamo ulteriormente in lungo (e largo). Soltanto, riveliamo come, dalla rivista all’Università, dagli incontri pubblici al chiacchierio sull’argomento, da-a senza alcuna soluzione di continuità, non intendiamo mai, e proprio mai, considerare la Fotografia per quanto appare e si rivela sulla sua superficie apparente, ma per ciò che definisce la sua cadenza visiva. Missione della Fotografia. Maurizio Rebuzzini

FONDAZIONE MAST

editoriale

Per quanto le fotografie di Edward Burtynsky riunite e allestite della imponente e suggestiva mostra Anthropocene, al Mast, di Bologna (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia), fino al prossimo ventidue settembre, possano essere avvicinate in quanto tali -fotografie-, ciò che ne stabilisce il valore e senso, non solo formale, è il loro contenuto, oltre la superficie a tutti apparente: in ottimo allestimento scenico (in alto), come in impeccabile messa in pagina del volume catalogo (150 illustrazioni; 256 pagine 17x23,5cm; 25,00 euro). Ovvero, non fotografie da avvicinare e apprezzare, dove e quando e per quanto ciascuno intenda farlo, per se stesse, ma invito verso la considerazione dell’argomento affrontato e proposto. Per tanti versi, è anche questo il senso della nostra rivista: non soltanto fotografie formalmente accattivanti, ma proprie indicazioni e sollecitazioni alla riflessione individuale

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Collegamento ideale di Angelo Galantini

D

Da pagina trentotto, su questo stesso numero, presentiamo un portfolio di ritratti eseguiti dal bravo e concentrato Giovanni Cabassi, che -nello specifico e per lo specifico-, ringraziando le Hasselblad rigenerate (da Marco e Giorgio Gualazzi, di GM Fotomeccanica), rivela che «gli hanno tenuto compagnia, facendogli riscoprire la gioia del fotografare in pellicola e riportando alla luce gestualità, atmosfere e suoni della mia memoria, sopiti dalla fotografia digitale». Così dicendo, a integrazione di un allestimento scenico in mostra e di una monografia coincidente, per quanto in edizione privata, il fotografo palesa e certifica uno di quei rapporti intimi che implica la stessa azione del fotografare, quantomeno per qualcuno di noi. Così che, l’ammirevole progetto L’Albero. Genealogia recente di una Famiglia milanese interpreta magistralmente la propria origine interiore, che, in forma di ritratti consequenziali ognuno agli altri, scandisce il passo di una famiglia milanese (come promesso in titolo: Cabassi), tracciando i termini visivi di un intenso Albero genealogico, conteggiato dai capostipiti Giuseppe Cabassi (1929-1992) e Laura Mastracchi Manes (6 aprile 1940), i cui otto figli, con lo stesso Giovanni primogenito (10 luglio 1957), hanno avviato una genìa fedele al princìpio (biblico?) secondo il quale bisogna crescere e moltiplicarsi. In mostra e nella monografia coeva, la genealogia dei ritratti è via via introdotta da alberi, a propria volta fotografati da Giovanni Cabassi con l’intenzione esplicita e dichiarata di visualizzare una combinazione ideale con i volti, con i propri familiari. E anche questo è quanto osservato e riferito in ambito redazionale di portfolio di immagini. In approfondimento, in collegamento ideale, in richiamo di intenzioni e contenuti, qui e ora, sollecitiamo un parallelo, perfino recente, con un’altra meditazione intima, altrettanto declinata con combinazione voluta tra ritratti (nello specifico dalla memoria) e natura. Lo facciamo consapevoli di non svolgere alcuna intenzione pretestuosamente “critica”, perché siamo convinti di non essere sufficientemente amorali, per

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IN METAFORA L’Albero. Genealogia recente di una Famiglia milanese; racconto per immagini di Giovanni Cabassi; progetto grafico di Martino Cabassi. Tiratura in cento copie numerate; 2018; 290 pagine 29,5x30cm, cartonato.

La Savina Marittima aggrappata alla sabbia sopra a Es Calò. Si distende tessendo una ragnatela di radici che corrono in superficie, diventa statua attorcigliata dal soffiare incessante del vento.

L’Ulivo vecchio di centinaia d’anni. Attorno a un muretto a secco getto le mie radici, mi appoggio ai sassi, divento tutt’uno col lavoro dell’Uomo.


Collegamento ideale Fiori della mia vita, di Gian Paolo Barbieri; poesie di Branislav Jankic; introduzione di Annalena Amthor; Silvana Editoriale, 2017; 108 pagine 27,5x35cm, cartonato; 90,00 euro [in due tempi coerenti, in FOTOgraphia, del settembre 2017; quindi, nella bibliografia di Gian Paolo Barbieri, si segnala anche Flowers, del 2016].

considerarci e conteggiarci critici della fotografia: semplicemente, osserviamo vicende, incontriamo immagini, riflettiamo su tutto questo. E adesso, lo stiamo per fare... una volta ancora. La corrispondenza e la similitudine che indichiamo è tra questo L’Albero. Genealogia recente di una Famiglia milanese, di Giovanni Cabassi, e Fiori della mia vita, attraverso il quale Gian Paolo Barbieri ha ricordato, celebrandoli, un incontro e una intimità esistenziale prematuramente e tragicamente interrotti dalla Vita [in FOTOgraphia, del settembre 2017; quindi, nella bibliografia di Gian Paolo Barbieri, si segnala anche il titolo Flowers, del 2016, ma è altra vicenda]. In un caso, la genealogia familiare è allineata a piante, ad alberi; nell’altro, la memoria di Evar, scomparso troppo giovane, è evocata con fiori. Se ce lo consentite, il parallelo è addirittura evidente, è visibile e indiscutibile, soprattutto per quanto impegna due fotografi oltre i tempi e modi dell’assolvimento professionale, per declinare un’immagine che nasce dal cuore e che nello stesso cuore si alimenta, per fuoriuscire con lievità, commozione e trasporto, che, una volta arrivati a noi osservatori, diventano coinvolgimento. Del resto, e qui completiamo, la metafora della natura come cadenza di esistenze non nasce certo con la Fotografia -per quanto abbia espresso valori sommi nella coabitazione dei due titoli che stiamo allineando-, ma è endemica nel DNA umano ed espressivo. Tra tanto altro, richiamiamo il breve e celebre componimento di Giuseppe Ungaretti, intitolato Soldati, incluso nella raccolta Allegria di naufragi, del 1919, composta nel luglio 1918 (in momenti tragici di Grande guerra / Prima guerra mondiale): Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie [senza approfondire, perché non è nostra materia plausibile, pregnante similitudine/metafora, che equipara i soldati alle foglie autunnali, simboleggiando la precarietà dell’esistenza umana durante la guerra]. Oppure, con Confucio: «Mi chiedi perché compro riso e fiori? Compro il riso per vivere e i fiori per avere una ragione per cui vivere». Rientrando con la fotografia dell’anima, eccoli qui, i Fiori della mia vita, di Gian Paolo Barbieri. Ed eccolo qui, L’Albero, di Giovanni Cabassi: «Albero: l’esplosione lentissima di un seme» (Bruno Munari). ❖

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Cinema

di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

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FRECCIA A DESTRA

Senza alcuna ombra di dubbio, film italiano del 1962, in tempi nei quali le sceneggiature, i dialoghi e l’essere cinema hanno avuto un qualche senso (oggi, molto meno), a ragione, Il sorpasso, di Dino Risi, è considerato come il capolavoro del regista. A tutti gli effetti, compone uno degli affreschi cinematografici più rappresentativi di una certa socialità italiana: tempi di benessere (vero o presupposto che fosse), miracolo economico e facilonerie di contorno. Alla stregua della direzione del film, le interpretazioni di Vittorio Gassman, nei panni dell’irruente Bruno Cortona, guascone in stereotipo (o archetipo?), e Jean-Louis Trintignant, in quelli del timido Roberto Mariani, sono a dir poco magistrali, tanto da essere conteggiate, a propria volta tra le più significative delle rispettive carriere. In contraltare, altra protagonista del film, ovverosia dell’Italia del benessere e del boom economico, è la Lancia Aurelia B24 Convertibile chiara (spider), pericolosamente guidata da Bruno Cortona / Vittorio Gassman (azzurra, di colore; soltanto chiara, nella scenografia bianconero). La trama di Il sorpasso è essenziale; quindi, quello che effettivamente conta è lo svolgimento sceneggiato (magari, a partire dalla calamita “Sii prudente. A casa ti aspetto io” sul cruscotto dell’auto, con accompagnamento di ritratto di una fidanzata ipotizzata). Comunque, rievochiamola per dovere di chiarezza; poi, a conclusione, l’inevitabile siparietto fotografico che motiva, e forse giustifica, le nostre note in questo contenitore di riflessioni e annotazioni sulla materia. In una Roma deserta, come poteva accadere in quei lontani anni, la mattina di Ferragosto (1962), il quarantaduenne Bruno Cortona, vigoroso ma nullafacente e cialtrone -come già rilevato-, amante della guida sportiva e delle belle donne, al volante della sua Lancia Aurelia B24 Convertibile vaga alla ricerca di un pacchetto di sigarette e un telefono pubblico. Lo accoglie in casa Roberto Mariani, studente di legge rimasto in città per preparare gli esami. Dopo la telefonata, Bruno chie-

Considerato il capolavoro del regista italiano Dino Risi, il film Il sorpasso, del 1962, è uno spaccato di una certa socialità del tempo: benessere (vero o presupposto che fosse), miracolo economico e facilonerie di contorno. Eccellenti le interpretazioni di Vittorio Gassman, nei panni del guascone Bruno Cortona, e Jean-Louis Trintignant, in quelli del timido Roberto Mariani. Annotazione sociale e di costume, sempre dei tempi: sul cruscotto della Lancia Aurelia B24 Convertibile azzurra, la calamita “Sii prudente. A casa ti aspetto io”.

de a Roberto di fargli compagnia in quella giornata festiva. Sulla spinta dell’esuberanza e invadenza dell’estroverso Bruno, i due intraprendono un viaggio in auto lungo la via Aurelia, a velocità sostenuta, che li porta in Toscana, a Castiglioncello, raggiungendo mete occasionali, sempre più distanti. Durante il viaggio verso il nord e il mare, fanno anche visita ad alcuni parenti di Roberto, prima, e alla figlia e all’exmoglie di Bruno, poi. Il giovane Roberto è più volte sul punto di abbandonare Bruno, ma sia il caso, sia una certa inconfessabile attrazione, mascherata da arrendevolezza, tiene unita l’assortita coppia di amici occasionali, che per il timido e introverso Roberto compone anche i tratti di un percorso di iniziazione alla

vita. Nel corso del viaggio, a seguito di infinite sollecitazioni esistenziali, ha modo di riflettere su se stesso: di fatto, si allontana dai miti e dai timori adolescenziali e inizia una rilettura delle proprie relazioni familiari, dell’amore e dei rapporti sociali, sino alla tragica conclusione, che si materializza durante l’ennesimo sorpasso avventato (da cui, il titolo). L’auto si scontra con un camion e precipita in un burrone. Bruno si getta fuori dall’auto, riuscendo così a salvarsi; mentre Roberto perde la vita. Agli agenti intervenuti, Bruno confessa di non conoscere neppure il cognome del suo passeggero. Metafora di quegli anni? Probabilmente, sì. Come molto cinema italiano del tempo, anche questa sceneggiatura raccoglie dalla Vita per commen-

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Cinema

tarla, visualizzarla e, perché no?, individuarne contraddizioni e consecuzioni... in forma di commedia (questa di Dino Risi, formalmente più amara di altre, ma egualmente chiarificatrice delle intenzioni sottotraccia). E questo è il film, ribadiamo una delle perle della cinematografia italiana di tutti i tempi. Per quanto ci riguarda direttamente, e in misura e intenzione utilitaristiche (alla nostra materia istituzionale), la presenza della fotografia in scenografia è sostanzialmente marginale e di complemento. Ma sufficiente alla nostra rilevazione e segnalazione indotta dal nostro modo di intendere come e quanto la fotografia partecipi alla nostra vita quotidiana, anche attraverso il cinema (e la televisione, e la narrativa, e il fumetto, e la filatelia, e...).

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Su una spiaggia toscana (a Castiglioncello?), tra sfaccendati e imprenditori in socialità di quei primi anni Sessanta, la cui lunga ombra si è proiettata sull’Italia onesta dei decenni a seguire, una giovane fotografa le bravate d’agosto con una imprevedibile Canonflex R2000. Perché imprevedibile: risposta facile. Perché nel reale, dal quale il film ha ispirato la propria sceneggiatura, non erano certo anni di reflex, ma di compatte e macchine fotografiche popolari altrimenti indirizzate. In questo senso, come spesso sottolineato, soprattutto da questo spazio redazionale mirato e indirizzato, sceneggiature e scenografie di altri paesi, a partire (ahinoi) dagli Stati Uniti, sono molto più attente alla combinazione temporale degli elementi com-

Il siparietto fotografico del film Il sorpasso si consuma su una spiaggia toscana (a Castiglioncello?), con giochi da spiaggia dei giovani del tempo fotografati da Lilli Cortona (altrove, Lilly), interpretata dall’allora diciassettenne Catherine Spaak. Quindi, la Canonflex R2000 passa tra le mani di Vittorio Gassman (Bruno Cortona).

plementari, quali può essere ed è una macchina fotografica. Francamente: una reflex di tanto spessore, Canonflex R2000, è totalmente fuori luogo nella vicenda, tra le mani di Lilli Cortona (altrove, Lilly), figlia adolescente di Bruno / Vittorio Gassman, interpretata da una giovane Catherine Spaak (e, poi, la stessa Canonflex R2000 passa tra le mani di Vittorio Gassman: capitolo ulteriore... attori con macchine fotografiche). Infatti, come annotato, quelli erano tempi di ben altre dotazioni fotografiche, di ben altra socialità, altrettanto fotografica. A differenza, l’autorevole e imperiosa Canonflex R2000, sul mercato dal 1960 (successiva all’originaria con tempo di otturazione limite di 1/1000 di secondo; qui, si approda a 1/2000 di secondo), è ben diversa da apparecchi fotografici “popolari”: pentaprisma intercambiabile con schermo di messa a fuoco standard con stigmometro; innesto a baionetta R degli obiettivi intercambiabili, successivo alla vite 39x1 (M39) dei precedenti apparecchi Canon a telemetro, in eredità Leica, anticipatore degli FL (1964) e FD (1971), immediatamente successivi (comunque, identico collare di serraggio, per il recupero di eventuali giochi meccanici); raffinato accoppiamento tra corpo macchina e obiettivo (l’otturatore è comandato dal movimento dello specchio, con il suo ritorno in posizione di riposo che attiva la riapertura del diaframma); pulsante di scatto morbido, in quanto estraneo al comando dell’otturatore; reflex commercializzata con una sostanziosa linea di obiettivi intercambiabili Super-Canomatic (R 50mm f/1,8, del 1959), R 100mm f/2, del settembre 1959, R 35mm f/2,5, dell’agosto 1960, R 58mm f/1,2, del febbraio 1962, R 85mm f/1,8, dell’ottobre 1961 e R 135mm f/2,5 , del febbraio 1960, tutti integrativi degli originari Canon R non automatici, derivati dal precedente sistema ottico per telemetro: 135mm f/3,5, del maggio 1959, 85mm f/1,9, del gennaio 1960, e 100mm f/3,5, del marzo 1961. Comunque, e a conclusione, la Canonflex R2000 è provvista di serie di esposimetro interno, ma munita di una slitta sulla calotta, accanto all’obiettivo, per poter innestare un esposimetro esterno, dotato di diffusore opalino rimovibile per lettura incidente. Niente d’altro. Forse. ❖



Mercato di Antonio Bordoni

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GIÀ... A SISTEMA

Annunciato a Colonia, in Germania, in occasione della scorsa Photokina [FOTOgraphia, novembre 2018], il sistema fotografico Canon Eos R si conferma autenticamente tale: con immediato arrivo di un altro corpo macchina di dimensioni contenute e agevole leggerezza, Eos RP, sempre e comunque Mirrorless full-frame, e la compagnia anticipata di sei obiettivi, che saranno disponibili nel corso del corrente Duemiladiciannove. Così che -ecco il punto- è proprio questo il passo cadenzato, oltre l’originaria coppia di adattatori per utilizzare anche obiettivi EF dal sistema reflex tradizionale: versatilità di inquadrature e interpretazioni fotografiche in dipendenza di un’ampia scelta ottica. In sintesi, i conti sono presto fatti. Con ordine. All’insegna di Capture the Future, il sistema Mirrorless full-frame Canon, caratterizzato da un innesto degli obiettivi intercambiabili di dimensioni generose (qui sta un valore tecnico da sottolineare), è esordito con il corpo macchina Canon Eos R di riferimento e quattro obiettivi di partenza: due focali fisse ad alta luminosità re-

Canon RF 85mm f/1,2L USM DS: con Defocus Smoothing, per distribuzione volontaria della messa a fuoco e relativa sfocatura dei piani.

(pagina accanto, in alto) Canon RF 24-240mm f/4-5,6 IS USM, con potente escursione focale 10x. Canon RF 70-200mm f/2,8L IS USM, di alto valore ottico, zoom con apertura fissa f/2,8 (come 15-35mm e 24-70mm).

Nato con l’originaria Canon Eos R, l’innovativo sistema fotografico Mirrorless full-frame, che si propone come Capture the Future, è autenticamente tale: sistema. Insieme con una sostanziosa gamma di obiettivi, tra già disponibili e annunciati per quest’anno, il secondo corpo macchina Canon Eos RP propone un sensore Cmos da 26,2 Megapixel, processore Digic 8 e versatilità in ripresa e/o gestione delle immagini acquisite: fotografiche e video.

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lativa RF 35mm f/1,8 Macro IS STM e RF 50mm f/1,2L USM, e due zoom di egregia escursione da grandangolare a tele RF 24-105mm f/4L IS USM e RF 28-70mm f/2L USM (più i Mount Adapter EF-Eos R e Control Ring Mount Adapter EF-Eos R, appena menzionati). A questo punto, quindi, un ulteriore corpo macchina si affaccia alla ribalta (Eos RP con sensore Cmos full-frame da 26,2 Megapixel, processore Digic 8 e tante versatilità in ripresa e/o gestione delle immagini acquisite, sia fotografiche sia video), subito accompagnato da un potente zoom 10x RF 24-

240mm f/4-5,6 IS USM, di dimensioni sostanziosamente ridotte. A seguire, nel corso dell’anno, come appena accennato, altri cinque obiettivi andranno a scandire opportunità ottiche adeguatamente cadenzate. Anticipiamo in cadenza focale, che non corrisponde ad alcuna sequenza temporale di disponibilità commerciale. Simili tra loro, ma diversi nell’impiego, si registrano due medio tele luminosi, rispettivamente RF 85mm f/1,2L USM e RF 85mm f/1,2L USM DS: il primo dei due è un obiettivo otticamente standard; il secondo, con specifica “DS” nella propria sigla identificativa, si offre

(da sinistra) Canon RF 85mm f/1,2L USM, medio tele ad alta luminosità relativa. Canon RF 24-70mm f/2,8L IS USM, zoom con apertura fissa f/2,8 (come 15-35mm e 70-200mm). Canon RF 15-35mm f/2,8L IS USM, zoom grandangolare con apertura fissa f/2,8 (come 24-70mm e 70-200mm).

e propone come Defocus Smoothing (per l’appunto, DS in acronimo), ovvero distribuzione della messa a fuoco per primi piani perfettamente nitidi su fondi a sfocatura controllata (al solito, è promesso un avvincente effetto bokeh). A questo punto, tre zoom con confortevoli escursioni focali adeguate a molteplici applicazioni fotografiche e video, con apertura fissa f/2,8: tutto grandangolare RF 15-35mm f/2,8L IS USM, standard RF 24-70mm f/2,8L IS USM e tutto tele RF 70-200mm f/2,8L IS USM. (Canon Italia, Strada Padana Superiore 2/b, 20063 Cernusco sul ❖ Naviglio MI; www.canon.it).

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TRE GIORNI A GIUGNO

EMILIO TREMOLADA

MAURIZIO REBUZZINI (2)

Giugno 1979. Tre giorni, nella sequenza di date di mercoledì tredici, giovedì quattordici e sabato sedici. Con accavallamento di soggetti, tra un raccoglitore di negativi trentacinque millimetri e il successivo (e precedente): mercoledì tredici, primo incontro con Tosh Komamura e Jin Yamaguchi, rispettivamente titolare della produzione giapponese Horseman, che allora stava evolvendosi dalle folding originarie al banco ottico, e suo fedele braccio destro; giovedì quattordici, concerto per Demetrio Stratos, all’Arena Civica di Milano; sabato sedici, inaugurazione dell’autorevole programma espositivo Venezia ’79 la fotografia. Tra ricordo e riflessioni

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(pagina precedente, in ordine orario) Tre giorni a giugno (1979): mercoledì tredici, primo incontro con Tosh Komamura e Jin Yamaguchi, della giapponese Horseman; giovedì quattordici, concerto per Demetrio Stratos; sabato sedici, inaugurazione di Venezia ’79 la Fotografia, in Fondamenta delle Zattere, uno degli spazi espositivi occupati dal consistente programma di venticinque mostre [Maurizio Rebuzzini con Asahi Pentax Spotmatic F, altrove definita SP F, e Leica M2].

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di Maurizio Rebuzzini

N

essuna nostalgia. Forse, e malauguratamente, qualche rimpianto... speriamo non troppi. Soprattutto oggi, in clima sociale confuso, con anagrafe sfavorevole, torno spesso indietro nel Tempo, mi affido ai ricordi. Molti di questi sono sollecitati e incoraggiati dall’archivio di fotografie scattate e conservate con attenzione, sia in forma di negativi (precedenti l’era dell’acquisizione digitale di immagini), sia nella concretezza cartacea di stampe. Tra i due formati -negativi e stampe-, la differenza è sostanziosa: le copie sono ordinate per soggetto e/o progetto; i negativi sono in sequenza cronologica, anno dopo anno, rullo dopo rullo, lastra dopo lastra, divisi tra piccolo, medio e grande formato. Avvicinatomi a negativi del passato (remoto), per una ricerca personale e intima, ho avuto tra le mani una consecuzione curiosa del giugno 1979, esattamente quaranta anni fa. Negativi 35mm, in tempi di Leica M2 e Asahi Pentax Spotmatic, durante un’altra vita, in momenti nei quali non avrei saputo, né potuto immaginare, lo svolgimento del Tempo: per il quale, comunque, è necessaria una chiave interpretativa attuale. Confesso di non aver mai seguìto alcuna strategia esistenziale (tipo coltivazione di conoscenze e amicizie che avrebbero potuto rivelarsi utili nel cammino), ma di aver sempre vissuto “alla giornata” e rispettando il mandato perseguito (verso i referenti di dovere), nel conforto di incontri e rapporti franchi e sinceri, lontani da qualsivoglia interpretazione utilitaristica, sia del momento, sia in proiezione futuribile (e non è certo un vanto, ma soltanto una constatazione; per quanto, ormai, amara).

Giugno 1979... tre giorni a giugno (anche in attuale titolo). Tre giorni, nella sequenza di date di mercoledì tredici, giovedì quattordici e sabato sedici. Con accavallamento di soggetti, tra un raccoglitore di negativi trentacinque millimetri e il successivo (e precedente): mercoledì tredici, primo incontro con Tosh Komamura e Jin Yamaguchi, rispettivamente titolare della produzione giapponese Horseman, e suo fedele braccio destro; giovedì quattordici, concerto per Demetrio Stratos, all’Arena Civica di Milano; sabato sedici, inaugurazione dell’autorevole programma Venezia ’79 la fotografia. Parliamone. Sono qui, in moderato anticipo sul giugno Millenovecentosettantanove di riferimento, nel quarantesimo, con i negativi tra le mani. Attraverso la finestra, guardo il cielo di un azzurro puro, nel quale fluttua una nuvoletta bianco smagliante. Penso che, a volte, mi rincresce di non ritrovare più certe sensazioni delle quali conservo un ricordo malinconico (ma non nostalgico): un refolo di vento intiepidito dal sole sulla guancia, i giochi di luce tra le foglie o lo scricchiolio della ghiaia sotto i passi della gente, e -perfino- il sapore della polvere. Qui, e ora, il miracolo si realizza. Mentre osservo questi negativi. Mi sento parte dell’Esistenza. Nulla di quanto mi sta intorno mi sfugge. Sono pensieri lucidi. Mentre osservo questi negativi, penso che spesso, nella Vita, si presentano opportunità da cogliere. Non so se ho colto le mie, probabilmente no, certamente no, ma questo lo si capisce in altra età (questa attuale?), quando ci si volta a osservare la Vita trascorsa. Comunque, mi rimane la sensazione e speranza che una ulteriore possibilità sia ancora là fuori, ad aspettarmi. Mi auguro di aver ancora modo e tempo per


JIN YAMAGUCHI I negativi del tredici giugno di quaranta anni fa (1979), mercoledì pomeriggio, sono insignificanti, e vanno considerati unicamente per il senso e valore di quell’incontro, nell’ufficio di Gianni Baumberger, importatore della linea di apparecchi fotografici Horseman, con l’identificazione aziendale GiBi. Certo, è un ricordo piacevole, sia per le conoscenze appena avvicinate, sia per la (allora) intensa frequentazione dello stesso Gianni Baumberger, figura predominante della distribuzione fotografica del tempo (anche reflex 35mm Topcon e Mamiya, filtri e accessori Kenko, ingranditori Krokus e apparecchi fotografici cinesi). Però, le pose sono a dir bene modeste: persone attorno a un tavolo e niente di diverso. Nel flusso dei ricordi, mi basta rievocare questo primo incontro con Tosh Komamura, primo di tanti altri che si sono rincorsi negli anni a seguire, e con Jin Yamaguchi, che ci ha lasciati, prematuramente, all’inizio del 2010. Tanto che la prima Photokina, di Colonia -tra i molti nostri appuntamenti susseguenti-, senza di lui fu quella del settembre 2010. Da cui, il nostro ricordo [in FOTO graphia, del novembre 2010]: «Per decenni, Jin Yamaguchi è stato il braccio destro di Tosh Komamura, produttore giapponese di apparecchi grande formato a banco ottico e folding con il marchio Horseman. Amico sincero, amico vero, del tipo che non si incontra spesso nella vita, Jin è mancato lo scorso sette febbraio. In genere, da tempo, le nostre Photokina cominciavano con

il nostro incontro, il giorno prima dell’apertura dei padiglioni, con gli stand ancora in allestimento. Scambio di saluti e doni. Quest’anno, no. In un certo modo, è stata una Photokina diversa, anche amara, nel suo ricordo: qui in una testimonianza dal Sicof 1985, accanto un banco ottico Horseman. Altri tempi, altro spirito, altre vite, altre esistenze. Le nostre, sopra tutte».

IL CONCERTO Quarant’anni fa, il 14 giugno 1979, all’Arena Civica di Milano, fu organizzato un concerto per raccogliere fondi a sostegno delle terapie mediche per curare Demetrio Stratos (Efstràtios Dimitrìu, cantante, polistrumentista e musicologo greco naturalizzato italiano, conosciuto per essere stato il frontman delle band I Ribelli e Area, residente nelle vicinanze della nostra redazione / noi... ragazzi della via Gluck). Per una beffa del destino, la leucemia dirompente che aveva colpito il cantante ebbe il sopravvento poche ore prima. Così, quel concerto, storicizzato Il Concerto, si trasformò in omaggio. Centomila spettatori: questo è il conteggio ufficiale degli spettatori. La cifra tonda di centomila spettatori è forse ottimista, data anche la capienza non tanto estesa del luogo; in tutti i casi, è indicativa: soprattutto dell’affetto e passione che allora, quaranta anni fa (mille anni fa?), potevano coinvolgere in progetti, come questo, che non si limitavano alla propria ufficialità, che evitavano la società dello spettacolo, per alludere ad altro, lasciando intendere impegni personali a tutto tondo. In quella lontana stagione, più lontana di quanto possano misurare i quarant’anni trascorsi (1979-2019), a partire da pretesti originari, come la musica -in questo caso specifico-, si approdava sempre ad altro di più: soprat-

Il 14 giugno 1979, all’Arena Civica di Milano, fu organizzato un concerto di cantautori per raccogliere fondi a sostegno delle terapie mediche per curare Demetrio Stratos, polistrumentista e musicologo greco naturalizzato italiano. Per una beffa del destino, la leucemia dirompente che aveva colpito il cantante ebbe il sopravvento poche ore prima. Così, quel concerto, che per molti è Il Concerto, si trasformò in omaggio. Dal palco già montato, e in attesa degli esecutori della serata, cadenza di immagini che registrano ciò che sta accadendo in attesa del Concerto. Nel quarantesimo anniversario (1979-2019), proponiamo letture individuali di fotografie che non si limitano al solo soggetto, ma rivelano anche qualcosa d’altro. A ciascuno, il proprio.

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sfruttare il vero schiaffo esistenziale che potrebbe fare una qualsivoglia differenza. Sono certo, oltre che consapevole, che ci possano essere ancora frammenti di grazia, qui e là, per chi li sa cogliere. Io, tra questi?

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(pagina accanto, colonna esterna, dall’alto) Emilio Tremolada e Maurizio Rebuzzini [con Leica M2] alla mostra di Robert Capa. Il noto critico, storico e collezionista tedesco Fritz Gruber (1908-2005), al quale si deve anche la Sezione Culturale della Photokina, in visita a Venezia ’79 la Fotografia. Accostamento (provocatorio) alla mostra di Tina Modotti.

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TIZIANA PERRIA

l’attuale riproposizione fotografica rivela altro oltre il proprio soggetto esplicito. In pratica, svela una delle caratteristiche fondanti e discriminanti della stessa Fotografia, e ancora la maiuscola è consapevole e volontaria. Quando osservo le fotografie che ho scattato, che riprendo in mano anche a distanza di tempo, e in occasioni successive, fino a studiarle a fondo, spesso approdo a una conclusione inviolabile. Molte volte, queste fotografie non si limitano al solo soggetto, ma mi rivelano qualcosa di me. Individuano momenti della mia vita, che sottolineano.

VENEZIA ’79 Curiosamente, all’indomani del Concerto di giovedì quattordici giugno, la fotografia italiana registrò un suo appuntamento epocale: sabato sedici fu inaugurato il denso programma di Venezia ’79 la Fotografia, rimasto in cartellone fino al successivo sedici settembre: altro quarantennale (1979-2019). Dopo aver puntualizzato che Venezia ’79 la Fotografia, nel cui programma fu coinvolto personalmente, per placare gli animi più bollenti del tempo, ne stiamo per riferire, fu «una operazione finalmente sostenuta da un organismo pubblico, l’Assessorato alla Cultura del Comune», il noto critico e storico Italo Zannier esagerò un poco. Addirittura, conteggiò che «Per la fotografia fu il più grande evento mondiale del secolo». Conosco troppo bene Italo Zannier, per non riconoscere in queste parole un intendimento adeguatamente paradossale, quasi provocatorio: con indirizzo al mondo degli addetti. Certo, non ho dubbi in proposito, ancora oggi, come non ne ho avuti quaranta anni fa, in cronaca. Effettivamente, Venezia ’79 la Fotografia, in cartellone dal diciassette giugno, con solenni inaugurazioni sabato sedici, al successivo sedici settembre, fu un avvincente e convincente concentrato, che diede impulso a un vibrante discorso espositivo e museale della stessa fotografia, attivando «le prime esposizioni storiche, con un intento esaustivo d’indagine filologica, sulla fotografia italiana dell’Ottocento e sulla fotografia pittorica, tra Firenze e Venezia; uno studio fondamentale, che aprì a successive integrazioni e correzioni», sempre da e con Italo Zannier. Certamente, fu un programma che tracciò linee basilari di analisi e proposizione espositiva, che disvelarono come osservare e proporre al pubblico efficaci visioni d’autore, movimenti e generi della fotografia che attraversa i decenni e scavalca i secoli. Tanto che -già all’epoca- mi dissociai dalle prese di posizione tignose di personaggi importuni e capricciosi (tanti furono), che contestarono a piene mani la manifestazione, soprattutto colpevole di essere assolutamente e inviolabilmente americanocentrica (peccato soltanto veniale, se e quando si attiva l’intelligenza, piuttosto che l’inutile risentimento). Infatti, fu coordinata e realizzata dall’International Center of Photography, di New York (altresì titolare di alcune delle mostre del programma), efficace e potente macchina da guerra, a quel tempo diretta da Cornell Capa, che l’aveva fondata nel 1974, in ideale prosecuzione dell’International Fund for Concerned Photography, che aveva creato nel precedente 1966, in memoria del fratello Robert. Per la cronaca (di oggi), oltre tante altre proprie mis-

EMILIO TREMOLADA

tutto a un coinvolgimento sociale che oggi ci permette di considerare quella di allora come la “meglio gioventù” (con Pier Paolo Pasolini). Io ero presente a quel Concerto. In un tempo nel quale molti osservavano attraverso la lente esplicativa della fotografia, ciascuno a proprio modo, sono stato coinvolto oltre la semplice presenza fisica. Partecipai, osservando e registrando con la fotografia -appunto-, straordinaria chiave interpretativa di un momento, anche soltanto mio personale, che non è certo passato invano, ma ha lasciato tracce indelebili in ognuno di noi: e per me stesso, ne sono più che consapevole e convinto. Ricordo i pensieri di quel giovedì mattina, prima di sapere che il concerto della sera si sarebbe trasformato in omaggio, a poche ore dalla scomparsa di Demetrio Stratos, la cui forte personalità musicale avrebbe fatto convergere all’Arena Civica di Milano una qualificata quantità e qualità di cantautori e pubblico. Sono ancora vive le riflessioni di allora, che non avevano alcuna intenzione di indirizzarmi alla documentazione del concerto in quanto tale, ma mi proiettarono altrimenti: mi affascinavano il senso del luogo e della partecipazione. Così, arrivai all’Arena Civica di buonora, in sostanzioso anticipo sul programma, fissato dalle otto di sera. Per le mie intenzioni, avevo con me una reflex Asahi Pentax Spotmatic, qualche obiettivo, e un treppiedi. Dal palco già montato, e in attesa degli esecutori della serata, inquadrai il prato antistante e gli spalti sul fondo, con l’inconfondibile arco di ingresso (inconfondibile almeno per i milanesi; io sono milanese). Senza mai verificare cosa accadesse all’interno dell’inquadratura fissa, dalle cinque del pomeriggio, per un’ora abbondante, ho realizzato una sequenza cadenzata di immagini che registrarono soltanto ciò che stava accadendo in attesa del Concerto (oggi, si direbbe time-lapse). In archivio, ho recuperato quattro buste di negativi bianconero, ognuno di trentasei pose identiche nell’inquadratura e composizione, che scandiscono un proprio ritmo, quasi musicale. Non è tanto significativa la registrazione dello scorrere del tempo, con lo spazio riservato al pubblico che man mano va riempiendosi, prima sul prato e poi verso gli spalti. Ancora oggi, è affascinante e avvincente il passaggio casuale di persone, l’andirivieni senza meta o scopo (?), il vuoto che rimane tale a lungo, il senso dell’euforia ed entusiasmo. Quindi, nello scorrere successivo dei decenni, che ci portano a osservare indietro di quaranta anni esatti, potremmo anche e ancora aggiungere l’azione del Tempo, che ha convertito la cronaca originaria (seppure consapevolmente interpretata) in documentazione e memoria nel futuro (ovvero, presente). Posture, modi, abbigliamenti e tanto altro ancora di un’epoca che è certamente più distante da oggi di quanto non possano misurarlo i quaranta anni trascorsi. Dalla lunga sequenza, che si estende in quasi centocinquanta scatti, oggi isoliamo alcuni fotogrammi, che presentiamo in queste pagine. La lettura che proponiamo è almeno doppia. Da una parte, come abbiamo rilevato fino a questo punto, registriamo la cadenza fotografica così come l’abbiamo appena raccontata. Dall’altra, e tra le righe, andiamo a leggere anche al di là della superficie apparente dell’immagine. Curiosamente,

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(pagina accanto, colonna centrale) Interesse pubblico per la proposta, in forma di provocazione, di Emilio Tremolada, per l’occasione in chiave TremolDada, di far sprofondare Venezia nella propria Laguna: in occasione dell’inaugurazione di Venezia ’79 la Fotografia, sabato 16 giugno 1979. Anche Rosellina Burri Bischof, già vedova di Werner Bischof e allora moglie di René Burri, poi mancata nel gennaio 1986, si interessò a questa proposta/provocazione.


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MAURIZIO REBUZZINI

Ombre in Fondamenta delle Zattere. Da sinistra, Emilio Tremolada (TremolDada), Tiziana Perria e Maurizio Rebuzzini, in autoritratto.

Dal catalogo di Venezia ’79 la Fotografia (Electa Editrice; 404 pagine 22x24cm): «Le schede bio-bibliografiche delle mostre si devono a Italo Zannier e Vittorio Sgarbi, ad esclusione [...]». Non dovremmo essere lontani dal vero, quando ipotizziamo che si possa trattare della prima uscita pubblica di Vittorio Sgarbi, all’indomani della laurea in Filosofia, con specializzazione in Storia dell’arte.

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sioni, tutte di statura elevata, nessuna paragonabile alle approssimazioni che viviamo giorno per giorno, qui nel nostro paese, l’Icp produce, organizza e veicola straordinarie esposizioni fotografiche, d’autore o collettive, che vengono esportate in tutto il mondo (www.icp.org). In ricordo del passato, rileviamo che in ordine con quel tempo, anche confuso, della fine dei Settanta, ognuno disse la propria, sempre e solo al negativo e accampando per lo più rilevazioni almeno pretestuose: la fiera di chi era stato escluso (magari, legittimamente). A diretta conseguenza, il cartello originario dell’Icp fu integrato soprattutto da e con una sezione nazionale aggiunta, per l’appunto Venezia ’79 la Fotografia - Fotografia italiana contemporanea, a cura di Italo Zannier (eccoci!) e catalogo autonomo, approfondito rispetto la (relativa) presenza in quello complessivo. Comunque, rileviamo con rammarico che entrambi i cataloghi sono penalizzati da riproduzioni litografiche di bassa qualità formale (e, per conseguenza, espressiva?): rispettivamente, cinquantasei e quattrocentoquattro pagine 22x24cm; Electa Editrice. Così, assente dal percorso principale allestito dall’Icp, fatto salvo modeste presenze casualmente distribuite qui e là, la fotografia italiana del secondo Novecento rientrò per la porta di servizio nell’imponente manifestazione internazionale. Tra personali e collettive di genere e/o movimento, tra storia e attualità, Venezia ’79 la Fotografia si distribuì su venticinque mostre, inclusa la sezione della Fotografia italiana contemporanea, alla quale abbiamo appena accennato. Gli allestimenti impegnarono sostanziosi spazi espositivi di Venezia, offrendo, anche in catalogo, un panorama sostanzialmente esaustivo della storia della fotografia mondiale, dall’Ottocento al contemporaneo.

Catalogo qui tra le mani (dalla nostra commovente biblioteca personale), torniamo con il ricordo a quei giorni, fantastici ed emozionanti, e riusciamo ancora a rabbrividire; con immutato piacere. Forse con piacere ancora superiore a quello dell’estate del 1979, quaranta anni fa. Fatta salva la sostanziale e sostanziosa differenza tra l’osservazione dal vivo delle stampe originarie, in impeccabili allestimenti scenici, e la loro riproduzione litografica, la commozione non si è per nulla sopita. E lasciamo perdere l’elenco delle esposizioni allestite. In chiusura, confermiamo l’opinione di Italo Zannier, già evocata. Sì, c’è motivo per affermare che Venezia ’79 la Fotografia «fu il più grande evento mondiale del secolo». Forse, l’assoluto “il più grande” è eccessivo e miope; probabilmente, “secolo” è troppo; però, non è sbagliato ipotizzare “un grande evento mondiale”. Pur con i molteplici distinguo che ciascuno di noi può introdurre, non possiamo non attribuire un valore sovrastante al programma allora coordinato dall’International Center of Photography, che non solo «diede impulso a un vibrante discorso espositivo e museale della stessa fotografia» (autocitazione dalle prime righe di questo lungo intervento redazionale), ma fu addirittura didattico. Ancora in autocitazione: «tracciò linee basilari di analisi e proposizione espositiva, che disvelarono come osservare e proporre al pubblico efficaci visioni d’autore, movimenti e generi della fotografia che attraversa i decenni e scavalca i secoli». Da questa straordinaria lezione di quaranta anni fa, in consecuzione di negativi nostri privati, possiamo conteggiare ciò che si è successivamente fatto in Italia per analizzare e presentare la fotografia, da quella in attualità temporale a quella storica. Poco o tanto che sia stato fatto. ❖



Cave di marmo di Carrara: Cava di Canalgrande #2; Carrara, Italia, 2016.

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di Lello Piazza osa sono le ere. Perché comincio parlando di ere, se questo articolo riguarda una mostra fotografica? Faccio un unico esempio, che penso possa essere didascalico. Come potrei spiegare la bellezza e l’importanza della fotografia Migranti al largo della Libia, di Massimo Sestini (7 giugno 2014, secondo premio in General News Singles al World Press Photo 2015, per immagini riprese nel 2014 [FOTOgraphia, aprile e giugno 2015]), a qualcuno che non sa che esiste il problema delle migrazioni? Dunque, comincio dalle ere. La Terra ha circa quattro virgola sei miliardi di anni. Non crediamo ai Creazionisti della Terra giovane, che stimano che la sua età sia compresa tra i seimila e i diecimila anni. Non crediamo neppure ai Creazionisti della Terra vecchia, che sostengono che i sei giorni della Creazione non vadano intesi come giorni di ventiquattro ore, ma che indichino periodi più lunghi, secoli, millenni. Crediamo, invece, ai quattro miliardi di anni abbondanti, per il cui studio i geologi hanno ritenuto

C

opportuno dividere questa lunghissima età (se riferita alla vita dell’Uomo) in periodi chiamati ere. L’Era Quaternaria è quella più recente, quella attuale, che è detta anche neozoica (cioè della vita nuova). Vita nuova rispetto alle vite precedenti, come le vite dei dinosauri e di altre specie estinte; vita nuova perché gli organismi viventi che caratterizzano il neozoico sono quelli che vivono ancora oggi. L’Era Quaternaria (iniziata due virgola cinque milioni di anni fa) viene divisa in due periodi: Pleistocene (da due virgola cinque milioni di anni a dodicimila anni fa) e Olocene (da dodicimila anni fa a oggi). Le ere sono associate a grandi cambiamenti che hanno coinvolto la Terra. Per esempio, l’Era Quaternaria è caratterizzata dalla apparizione della catena alpino-himalayana e dall’alternarsi delle grandi glaciazioni, che sono state la causa dell’alzarsi e abbassarsi del livello dei mari e della attuale distribuzione degli esseri viventi sul pianeta. Nell’Era Quaternaria, si è avuta la comparsa del genere Homo (circa due milioni e mezzo di anni fa), del quale fa parte il sapiens (trecentomila anni fa), cioè la nostra specie. (continua a pagina 29)


NICHOLAS METIVIER GALLERY, TORONTO E

© EDWARD BURTYNSKY / COURTESY ADMIRA PHOTOGRAPHY, MILANO

INFAMIE DELL’UOMO Il neologismo Antropocene indica un periodo attuale: durante il quale, sul pianeta, sono avvenuti cambiamenti provocati dall’Uomo e non da un meteorite o dalla eruzione di centinaia di vulcani. Anthropocene è una avvincente e convincente mostra allestita al Mast, di Bologna, sulla base di un intenso progetto fotografico del canadese Edward Burtynsky. Presentiamo e commentiamo, richiamando altresì l’accorato appello dell’attivista svedese Greta Thunberg, quindicenne che indica la strada da seguire. Ammesso e non concesso che...

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ANTHROPOCENE AL MAST: ALLESTIMENTO SCENICO

il grande, storico rogo di più di cento tonnellate di zanne di elefante e di corna di rinoceronte (valore stimato: centocinquanta milioni di dollari) confiscate ai bracconieri, in Kenya e Sudan, ordinato dal presidente keniota Uhuru Muigai Kenyatta, nel 2016. E, infine, c’è anche, proiettato in continuo nell’Auditorium, il premiato film Anthropocene: The Human Epoch (Antropocene: l’Epoca Umana), codiretto dai tre artisti, terzo capitolo di una trilogia che include Manufactured Landscapes (2009) e Watermark (2013). Tutto questo è la mostra Anthropocene, curata da Sophie Hackett, Curator of Photography della Art Gallery of Ontario, Canada, Andrea Kunard, Associate Curator, Canadian Photography Institute, National Gallery of Canada, e Urs Sthael, responsabile delle attività espositive della Fondazione Mast, tra tanto altro creatore, insieme con l’editore Walter Keller e il collezionista e mecenate George Reinhart, del Museo della Fotografia di Winterthur, in Svizzera, e docente presso l’Accademia di Belle Arti e l’Università di Zurigo. Ancora, il programma espositivo si completa con Mast, Dialogues on Anthropocene: eventi culturali, letture e tavole rotonde (per il programma vedere sul sito di Mast). Nota a margine, oltre che conclusiva. A chi chiede come sia possibile ottenere la qualità e l’incisione delle immagini esposte, Edward Burtynsky risponde: «Ho iniziato questo lavoro con l’Hasselblad da sessanta Megapixel e l’ho proseguito con l’Hasselblad H6D-100c da cento Megapixel. Con questa seconda dotazione, è come lavorare con la pellicola 8x10 pollici (20,4x25,4cm); mentre con il modello precedente c’era una equivalenza al formato 13x18cm (5x7 pollici)». Anthropocene; a cura di Sophie Hackett, Andrea Kunard e Urs Sthael. Mast Gallery (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia), via Speranza 42, 30133 Bologna; www.mast.org; www.anthropocene.mast.org. Fino al 22 settembre; martedì-domenica, 10,00-19,00. ❯ Burtynsky, Baichwal, de Pencier: Antropocene; edizione italiana Ago, a cura di Mast, 2019; 256 pagine 17x23,5cm, cartonato; 25,00 euro.

FONDAZIONE MAST (4)

Una cosa sono le riprese fotografiche o/e le riprese video; una cosa è l’editing dei lavori da parte dei curatori di una mostra; una cosa è lo spazio espositivo. Il sublime si raggiunge quando tutto questo si sposa, si intreccia, per un risultato straordinario. Così, a Bologna, presso la Fondazione Mast (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia), il sublime si è materializzato... in questa occasione, come in ogni altra precedente, di cui abbiamo sempre riferito in cronaca di date. Sublime per il tema svolto (e ne riflettiamo nel corpo centrale dell’attuale intervento redazionale); sublime per la qualità del lavoro; sublime per la perfezione delle stampe e degli spazi espositivi; sublime, anche, per la filosofia che sostiene e motiva la Collezione Mast e la collegata Fondazione. Come recita il comunicato ufficiale, si tratta di «un’esplorazione multimediale dell’impronta umana sulla Terra», dalle barriere di cemento frangiflutti che hanno snaturato il sessanta percento delle coste cinesi alla ciclopica macchina tedesca Bagger 291, per lo scavo delle miniere di lignite a cielo aperto, dalle psichedeliche miniere di potassio sui Monti Urali, in Russia, alla devastazione della Grande Barriera Corallina australiana, alle cave di marmo a Carrara, a una delle più grandi discariche del mondo, quella di Dandora, in Kenya, nei pressi di Nairobi. Anthropocene non è edificata soltanto su trentacinque fotografie di grandi dimensioni di Edward Burtynsky, che pure ne compongono l’ossatura portante e discriminante, ma anche con i filmati dei pluripremiati registi Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier, che combinano arte, cinema, realtà aumentata e ricerca scientifica. Ci sono quattro murales ad alta risoluzione, risultato del lavoro sinergico dei tre artisti, tredici videoinstallazioni HD che mostrano, tra l’altro, la galleria del san Gottardo, in Svizzera, che con i suoi cinquantasette chilometri è il tunnel più lungo al mondo, l’abbattimento, anche tramite esplosione, degli alberi pericolosi nella foresta Cathedral Grove, di Vancouver Island, in Canada,

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in quale, sul pianeta, sono avvenuti cambiamenti provocati dall’Uomo e non da un meteorite o dalla eruzione di centinaia di vulcani, così sconvolgenti da attribuire a questi cambiamenti una valenza geologica. Il neologismo Antropocene divenne celebre quando, nel 2002, fu adottato dal Premio Nobel per la chimica Paul Crutzen (nel 1995, insieme con Frank Sherwood Rowland e Mario Molina: «per gli studi sulla chimica dell’atmosfera, in particolare riguardo alla formazione e la decomposizione dell’ozono»), che ci pubblicò un articolo, Geology of Mankind, sulla rivista scientifica più prestigiosa, Nature (numero 415). E ci scrisse anche il libro Benvenuti nell’Antropocene. L’uomo ha cambiato il clima, la Terra entra in una nuova era (Mondadori, 2005; 94 pagine; 12,00 euro).

(doppia pagina precedente) Miniera di potassio della Uralkali #4; Berezniki, Russia, 2017.

LE FOTOGRAFIE

NICHOLAS METIVIER GALLERY, TORONTO (2)

Discarica di Dandora #3: riciclaggio della plastica; Nairobi, Kenya, 2016.

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Dell’allestimento e della presentazione delle fotografie e dei video in mostra riferiamo in un apposito riquadro, pubblicato sulla pagina accanto. Qui e ora, vorrei esprimermi sull’estetica dell’orrido, cioè di ciò che, spaventevole e incontrollabile, può diventare bello, in senso non solo romantico. Ne sono un esempio gli Orridi in natura, come quello di Bellano, in provincia di Como, e quello di Pré-Saint-Dider, in provincia di Aosta. In pittura, mi viene in mente Il trionfo della morte, di Pieter Bruegel il Vecchio, del 1562; e, in fotografia, certi bianconeri dei fotografi Magnum Photos Raymond Depardon, Alex Majoli, Gilles Peress e Larry

© EDWARD BURTYNSKY / COURTESY ADMIRA PHOTOGRAPHY, MILANO

(continua da pagina 24) Cosa c’entrano le ere con la mostra in commento (Anthropocene, alla Fondazione Mast, Manifattura Arti, Sperimentazione e Tecnologia, di Bologna)? Fino a pochi decenni fa, i grandi cambiamenti che hanno caratterizzato le ere sono durati milioni di anni e sono stati provocati dal mutare lento della geologia della Terra. Cambiamenti immensi, come il citato emergere delle catene alpina e himalayana. Oggi, invece, qualcosa è cambiato. Negli ultimi secoli, si è verificata l’estinzione, per colpa dell’Uomo, di un numero elevatissimo di specie. Sempre per colpa dell’Uomo si sta verificando un inquietante aumento del riscaldamento dell’atmosfera. Ed è l’Uomo che taglia, ogni anno, il manto vegetale antico che costituisce milioni di ettari di foresta tropicale (dodici milioni nel 2018, una superficie pari alla Grecia). È ancora l’Uomo che sta combattendo in alcuni paesi la Guerra dell’Acqua. E ancora e ancora, attraverso l’Uomo viene valutata la poco rassicurante impronta ecologica, un indice complesso che misura la superficie di mare e terra emersa necessaria a rigenerare le risorse consumate da Homo sapiens nell’unità di tempo e a smaltirne i relativi rifiuti. Cioè è l’Uomo, e non la geologia, che sta cambiando in modo rapidissimo il pianeta. Per questo, negli anni Ottanta, il biologo Eugene Filmore Stoermer (19342012) coniò il neologismo Anthropocene / Antropocene a indicare un periodo che inizia qualche decennio prima del nostro oggi e dura tuttora. Periodo durante

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Bacino di decantazione di residui di fosforo #4; nei pressi di Lakeland, Florida, Usa, 2012.

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Towell, sul genocidio in Ruanda. E la testimonianza partecipata di Sebastião Salgado: «In Ruanda, vidi la brutalità totale, vidi la gente morire a migliaia al giorno. Persi la fiducia nella nostra specie. Non credevo che fosse più possibile per noi vivere». In tutti questi esempi, c’è drammaticità e tragedia potenziale. Con gli Orridi naturali, con Bruegel e, a volte, con i film dell’orrore, si può facilmente convivere. Con le fotografie del Ruanda e con la fotografia di Massimo Sestini menzionata in apertura è più difficile. Venendo -finalmente- al progetto in mostra a Bologna, subito la menzione per uno degli autori: Edward Burtynsky, fotografo canadese noto per le sue immagini di grandi dimensioni di paesaggi industriali. Narrano un pianeta sull’orlo della catastrofe, un pianeta a cui sembra rimangano solo cento anni di vita, prima di trasformarsi in cadavere. Cento anni sembrano tanti (a livello individuale), ma sono pochi, pensando che l’età attuale della Terra, come già detto, è di circa quattro miliardi e mezzo di anni. Narrano di una specie, Homo sapiens, al quale sembra rimanere mezzo secolo di vita. La narrazione si basa su immagini esteticamente impeccabili, dove appare un lago di fosforo di un bellissimo colore bianco neve, una multicolore montagna di plastica che sembra ciò che rimane di una allegra festa di compleanno, due eleganti spirali rosa che rimandano alla macrofotografia di ammoniti, e invece rappresentano la traccia lasciata da enormi scavatrici dentro una miniera dove si estrae potassio, e una enorme parete dai colori pallidi ed ele-

ganti che ricordano una montagna coperta di neve: si tratta, invece, di una delle cave che hanno trasformato per sempre il dorsale rivolto al mare delle Alpi Apuane. Edward Burtynsky ha dichiarato: «Il nostro lavoro può offrire uno sguardo avvincente su ciò che accade; la nostra è una testimonianza reale. Far vivere queste realtà attraverso la fotografia è come creare un potente meccanismo che dà forma alle coscienze. È un lavoro più rivelatorio, che accusatorio. Sto divulgando luoghi che normalmente non vediamo e sto permettendo allo spettatore di giudicare se è buono o cattivo. Penso che l’arte possa far crescere la consapevolezza e farci riflettere sul mondo che stiamo creando e sui prezzi che vengono pagati per il nostro successo. Mi sento triste per ciò che sta accadendo in natura. I tassi di estinzione sono sempre più elevati. Penso che sarebbe disumano non provare tristezza per ciò che sta accadendo al pianeta, in particolare agli oceani».

DALLA CRONACA RECENTE Chiudo queste righe sui cambiamenti che il pianeta sta subendo a causa di Homo sapiens con un importante richiamo alla cronaca recente. Una ragazzina di quindici anni, Greta Thunberg, attivista svedese che sembra essere riuscita a risvegliare l’interesse delle giovani generazioni per il problema ambientale, è diventata famosa per il discorso che ha tenuto a Katowice, in Polonia, in occasione della ventiquattresima Conferenza delle Parti sul Clima (Cop24), nel


NICHOLAS METIVIER GALLERY, TORONTO (2) E

© EDWARD BURTYNSKY / COURTESY ADMIRA PHOTOGRAPHY, MILANO

dicembre 2018 [attenzione: Greta Thunberg è diagnosticata Asperger, sindrome di disturbo pervasivo dello sviluppo, inserito all’interno dello spettro autistico, senza però ritardi nell’acquisizione delle capacità linguistiche, a differenza di quanto avviene in quest’ultimo. Inoltre, chi soffre di questo “disturbo” non presenta un ritardo cognitivo; per questa ragione, è comunemente considerata un disturbo dello spettro autistico “ad alto funzionamento”]. Ecco qui il discorso... «meditate, gente, meditate». «Il mio nome è Greta Thunberg, ho quindici anni e vengo dalla Svezia. Parlo per conto di Climate Justice Now. Molte persone dicono che la Svezia è solo un piccolo paese e non importa quel che facciamo. Ma ho imparato che non sei mai troppo piccolo per fare la differenza. E se alcuni ragazzi ottengono attenzione mediatica internazionale solo perché non vanno a scuola per protesta, immaginate cosa potremmo fare tutti insieme, se solo lo volessimo veramente. «Ma per fare ciò dobbiamo parlare chiaramente, non importa quanto questo possa risultare scomodo. Voi parlate solo di una infinita crescita della green economy, perché avete troppa paura di essere impopolari. Parlate solo di andare avanti con le stesse idee sbagliate che ci hanno messo in questo casino, anche quando l’unica cosa sensata da fare è tirare il freno di emergenza. Non siete abbastanza maturi per dire le cose come stanno; anche questo fardello lo lasciate a noi bambini.

«A me, invece, non importa di risultare impopolare; mi importa della giustizia climatica e del pianeta. La civiltà viene sacrificata per dare la possibilità a una piccola cerchia di persone di continuare ad accumulare un’enorme quantità di profitti. La nostra biosfera viene sacrificata per far sì che le persone ricche, in paesi come il mio, possano vivere nel lusso. È la sofferenza di molti a garantire il benessere a pochi. «Nel 2078, festeggerò il mio settantacinquesimo compleanno. Se avrò dei bambini, probabilmente passeranno quel giorno con me e forse mi faranno domande su di voi. Forse mi chiederanno come mai non avete fatto niente quando era ancora il tempo di agire. Dite di amare i vostri figli sopra ogni cosa, ma state rubando loro il futuro proprio davanti ai loro occhi. Finché non vi concentrerete su cosa deve essere fatto, anziché su cosa sia politicamente meglio fare, non c’è alcuna speranza. «Non possiamo risolvere una crisi se non la trattiamo come tale: dobbiamo lasciare i combustibili fossili sotto terra e dobbiamo focalizzarci sull’uguaglianza. E se le soluzioni sono impossibili da trovare all’interno di questo sistema significa che dobbiamo cambiare il sistema. Non siamo venuti qui per pregare i leader di occuparsene. Ci avete ignorato in passato e continuerete a farlo. Siete rimasti senza scuse e noi siamo rimasti senza più tempo. Noi siamo qui per farvi sapere che il cambiamento sta arrivando, che vi piaccia o no. «Il vero potere appartiene al popolo. Grazie». ❖

Segherie #1; Lagos, Nigeria, 2016.

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SACRE SCRITTURE O Il manuale del perfetto fotoreporter, di Willy Ronis; Aldo Quinti, 1953; 124 pagine 12x17cm. The View Camera Made Simple, di Berenice Abbott; Little Technical Library, Ziff-Davis Publishing Company, 1948; 128 pagine 12x17cm.

The Photojournalist, di Mary Ellen Mark e Annie Leibovitz; Thames and Hudson, 1974; 96 pagine 20,5x27,5cm.

Scritto nel 1954, Il libro della fotografia, manuale fondamentale di Andreas Feininger, è stato pubblicato in Italia in diverse edizioni Garzanti, a partire dal 1961. Nell’aprile 1970, uscì nella collezione dei tascabili I Garzanti, dove è stato più volte ripubblicato: un classico senza tempo (sempre che il tempo abbia senso): 244 pagine 11x18cm.

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di Antonio Bordoni

vviamente, dipende tutto dall’anagrafe; altrettanto ovviamente, non fa differenza; addirittura, non ci interessa proprio... forse... certamente. Infatti, in ogni caso, e comunque si inquadri la problematica oggi e qui affrontata, in ripetizione di una nostra analoga precedente segnalazione (va rivelato; ma la rilettura si impone), si tratta sempre di anagrafi datate indietro nei decenni: la nostra, esordisce nel Millenovecentocinquantuno, per approdare alla Fotografia, comunque la si voglia intendere, a fine Millenovecentosettantadue. Nello specifico, ci riferiamo a richiami/riferimenti individuali a fotografi che sono stati anche capaci di trasmettere le proprie conoscenze tecniche. Ne abbiamo già riferito, quindici anni fa; dunque, perché riprendere, perché ripetere? Semplice: per rispettare e ottemperare quel mandato che ci siamo prefissi, che ci guida, e che perseguiamo, nonostante tutto, nonostante molti (forse, tutti). Ovvero, osservare piuttosto di giudicare, pensare, invece di credere... e avvicinare la Fotografia non come arido punto di arrivo, ma fantastico e privilegiato s-punto di partenza: qualsiasi siano le intenzioni individuali e personali al proposito. Da qui, nel concreto. C’è una attuale generazione di fotografi (di anagrafe lontana, va rilevato) che ricorda perfettamente i manuali di Andreas Feininger (1906-1999), fotogiornalista (ma non soltanto) dai mille meriti, tra i quali l’aver fatto parte dello staff di Life. Tra tanto altro, sua è la celeberrima

sintesi visiva The Photojournalist, realizzata proprio per Life, nel 1951 (altre fonti, datano 1955): intenso e coinvolgente ritratto del fotogiornalista Dennis Stock, con Leica IIIf, Summitar 50mm f/2 e mirino esterno aggiuntivo (nostra identificazione), all’occhio sinistro, rovesciata per inquadratura verticale. Poi, c’è un’altra generazione, altrettanto attuale, moderatamente più giovane (non quanto basta per arrivare a una identificazione “giovane” in assoluto), vicina ad altra “fotografia”, che ha avuto come nume tutelare Ansel Adams (1902-1984), teorico di un bianconero in forma divina, se così vogliamo dirla, svincolato da esigenze terrene e contingenti. Ma non ci fermiamo a questa sostanziale divergenza, che poi tale non è; casomai, è specchio e riverbero delle molteplici sfaccettature che definiscono la Fotografia, costituendo -allo stesso momento- il suo valore e la sua ricchezza espressiva. Invece, con l’occasione di sostanziose presenze nella nostra capace libreria personale (biblioteca?), torniamo con la memoria e le osservazioni alla lunga e luminosa stagione di fotografi che hanno scritto e pubblicato manuali pratici, basati sulla propria esperienza professionale, che non si esaurisce -la stagione- con i riferimenti ai soli Andreas Feininger e Ansel Adams, appena ricordati. L’avvio del censimento, se di questo si tratta, si deve a un ritrovamento, neppure tanto recente, dell’autunno Duemilatredici, in una libreria antiquaria di Lucca, nella quale abbiamo incontrato una edizione rara del poco conosciuto Il manuale del perfetto fotoreporter, scritto


nientemeno che da Willy Ronis, una delle più significative personalità della fotografia del secondo Novecento (mancato, a novantanove anni, il 12 settembre 2009). A dire il vero, come sempre ci impegniamo a fare, eravamo a conoscenza di questa edizione, su segnalazione di Gianni Berengo Gardin, fotografo emerito, che già visualizzammo in prima istanza, nei ricordati quindici anni fa, nell’aprile 2005, di prima e originaria stesura di queste note. Ma, diamine!, per quel senso e gusto del possesso, parlarne in proprio, e non per conoscenza indiretta, fa una certa differenza: soprattutto, per noi e la nostra partecipazione all’editoria fotografica (oltre diecimila volumi consapevoli, non casuali, ordinati in oltre trecento metri lineari di scaffali di libri!).

DA WILLY RONIS Da qui, conteggiamo Il manuale del perfetto fotoreporter, di Willy Ronis, piccolo nelle dimensioni ma grande per i contenuti, come modello e prototipo di una sostanziosa genìa, che dà corpo a un autentico filone/fenomeno, in precedenza mai affrontato come tale. Infatti, a ben guardare, per quanto limitata alle conoscenze dirette personali, la lista di fotografi manualisti è comunque sostanziosa, sia per quantità sia per valore degli autori, alcuni dei quali insospettabili, a partire magari proprio dallo stesso Willy Ronis. Ovviamente, ci limitiamo soltanto ai manuali tecnici, senza estenderci agli eventuali articoli pubblicati su riviste, e, soprattutto, senza approdare a quelle riflessioni sui contenuti e la filosofia della fotografia che appar-

tengono ad altro territorio (peraltro, ben affrontato da appropriate antologie, tra le quali segnaliamo Fotografi sulla fotografia, pubblicata da Agorà di Torino, nel 1990 e rieditata nel 2004 [riquadro a pagina 36]). Ripetiamolo, confermandolo: l’elenco è corposo e l’eterogeneità dei protagonisti quantomeno curiosa. Passerella d’onore, in virtù dei meriti specifici oggi sottolineati, a Willy Ronis. Pubblicato da Aldo Quinti editore, nel 1953 (124 pagine 12x17cm; edizione italiana dell’originaria Publications Paul Montel, di Parigi), Il manuale del perfetto fotoreporter, di Willy Ronis, si completa con centoventuno fotografie commentate dall’autore. La progressione tecnica del testo è adeguatamente consequenziale: Il materiale; La caccia alle immagini; Servizi fotografici; Composizione; L’inquadratura; L’angolo di ripresa; I piani; Ambiente e simboli; Facciamo il punto; L’attimo fuggente; Interni; Flash; Astuzie e segreti; Colore; Analisi di due reportages pubblicati; Note supplementari; Breve elenco di soggetti per la Caccia alle immagini; Conclusione. Preceduti da una premessa Al Lettore, i diciotto capitoli comprendono divisioni in paragrafi. Dalla premessa: «Reportage e caccia alle immagini non sono due termini che si contraddicono. La caccia alle immagini è lo sport e l’arte che pratica chiunque -dilettante o professionista- si serva del proprio apparecchio per fissare gli aspetti fuggevoli del mondo esterno. Il reportage è un’applicazione della caccia alle immagini. [...] Scrivendo questo libretto, ho pensato a tutti voi, amici dilettanti che nella affascinante magia

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(Sacre, con evidente scarto di significato e valore) Ovverosia, manuali fotografici d’autore testimoni di un Tempo e un’Epoca durante i quali si manifestavano un confortevole scambio di esperienze e un dialogo proficuo, soprattutto tra coloro i quali avvicinano la materia (in questo caso mirata e dichiarata) in armonia di intenti. Curiosità e preziosità bibliografiche, ammesso e non concesso che l’avvicinamento ai libri possa ancora avere senso e valore (come in effetti ha!), dal passato, perfino remoto; carrellata su manuali di tecnica fotografica compilati da professionisti celebri e affermati. Approfondita ricerca retrospettiva che rivela i connotati di un Tempo che non dovremmo dimenticare, né contribuire a dimenticare Il negativo, di Ansel Adams; Zanichelli, 1987; 288 pagine 18,5x25cm, cartonato; 61,50 euro. La stampa, di Ansel Adams; Zanichelli, 1988; 224 pagine 18,5x25cm, cartonato; 61,50 euro. La fotocamera, di Ansel Adams; Zanichelli, 1989; 216 pagine 18,5x25cm, cartonato; 61,50 euro.

Edizione introvabile! Fotografia in bianco e nero, estratto dai manuali di Ansel Adams, pubblicato nella serie dei manualetti Hasselblad: 28 pagine 14,5x21cm.

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Guida allo sviluppo e ingrandimento per fotodilettanti, di Giuseppe Pino; Il Castello, 1965; 104 pagine 12x17cm. Fotografare il nudo, di Toni Thorimbert; Il Castello, 1981; 96 pagine 20x20cm. Il fotogiornalismo, di Roberto Carulli; Il Castello, 1986; 96 pagine 20x20cm. Il libro del sistema Sinar, di Carl Koch; Ippolito Cattaneo, 1969 (?); 112 pagine 19x23cm. Il sistema Sinar, di Carl Koch; Mafer, 1974 (e 1977); 144 pagine 19x26cm. Il grande formato, di Carl Koch, Jost J. e C. Marchesi; Mafer, 1982 (e 1986); 148 pagine 21x28cm. Il grande formato, di Carl Koch, Jost J. e C. Marchesi; Mafer, 1990; 144 pagine 21x28cm. Photo Know-How, di Carl Koch e Jost J. Marchesi; Mafer, 1984; 234 pagine 23x29cm. La macchina fotografica professionale, di Emilio Frisia; Fatif, 1975 (?); 80 pagine 21x29,5cm. New Handbook of Glamour Photography, di Peter e Alice Gowland; Crown Publishers, 1988; 214 pagine 18x25cm. The Art and Technique of Stereo Photography, di Peter Gowland; Crown Publishers, 1954; 128 pagine 18x25cm.

Manuali di Bunny Yeager: Bunny Yeager’s Art of Glamour Photography (Chilton Books, 1962; 96 pagine 12x19,5cm); How To Take Figure Photos (Whitestone, 1962; 112 pagine 16,5x23,5cm); Photographing the Female Figure (Whitestone, 1957; 144 pagine 16,5x23,5cm).

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della superficie sensibile cercate di fissare per l’avvenire alcuni momenti scelti nel presente». Beh, non male. Parole che da sole giustificano il prezzo del libro, qualsiasi fosse all’epoca, e che promettono bene: «amici dilettanti che nella affascinante magia della superficie sensibile cercate di fissare per l’avvenire alcuni momenti scelti nel presente»! Ribadiamo: «fissare per l’avvenire alcuni momenti scelti nel presente»! Riflettiamo in conseguenza e per conseguenza. Una delle peculiarità fondanti della Fotografia, che diventa pure sua responsabilità sostanziosa, è proprio e giusto quella di rendere permanenti istanti che avrebbero dovuto restare effimeri: da non dimenticare! Quindi, e in avanti, secondo ciascuna personalità d’autore, sia professionista, sia non professionista, per quanto ognuno manifesti intenzioni autonome e svolga propri mandati indipendenti (dagli altri), tutti noi sappiamo e siamo coscienti (dovremmo sapere ed essere coscienti) che se possiamo scippare un momento al Tempo, magari con una fotografia, altrettanto possiamo creare momenti nostri... magari, ancora con una fotografia! Come è fin scontato, il valore pratico e utilitaristico (in tempi brevi) del Manuale del perfetto fotoreporter, di Willy Ronis, così come quello di quasi tutti, o forse tutti, i testi oggi presentati e commentati, è ormai annullato dall’evoluzione tecnologica degli strumenti e la scomparsa della pellicola fotosensibile. Altrettanto non si può però dire per quanto si trova tra le righe, tipo la perla appena segnalata, o sopra le righe: per esempio, per quanto riguarda i valori assoluti e inviolabili di inquadratura, composizione e approccio. Fino a quel lungimirante Attimo fuggente (momento decisivo), che Willy Ronis riferisce ai gesti e alle espressioni del soggetto colto al volo (in adeguata contemporaneità ad altre riflessioni analoghe, certamente più note a ciascuno di noi: da e con Henri Cartier-Bresson, in introduzione a Images à la Sauvette, del 1952, con edizione statunitense coeva The Decisive Moment ).

INSOSPETTABILI Gli insospettabili cominciano con tre nomi. Tutti al femminile: Berenice Abbott (1898-1991), alla quale dobbiamo affascinanti vedute di New York negli anni Trenta e, anche, la scoperta e valorizzazione della fotografia di Eugène Atget (1857-1927), e poi Mary Ellen Mark (1940-2015) e Annie Leibovitz (1949) in coppia. Berenice Abbott ha compilato un efficace The View Camera Made Simple, manuale di uso degli apparecchi grande formato a banco ottico: Little Technical Library, Ziff-Davis Publishing Company; Chicago-New York, 1948; 128 pagine 12x17cm, cartonato (ai tempi, un dollaro). Estremamente semplificato nella propria didattica, come promette (e mantiene) il titolo, il testo non transige sulla linea discriminante che separa quella che allora era considerata autentica fotografia, appunto ripresa con apparecchi grande formato (meglio se 8x10 pollici / 20,4x25,4cm), dall’istantanea. Del resto, anche il leggendario Andreas Feininger, sul quale si sono formate generazioni di fotografi, come già rilevato, considerava il 6x9cm “piccolo formato”. Segno dei tempi! L’abbecedario di Berenice Abbott è comune a tutta la fotografia a corpi mobili, con i relativi controlli della

nitidezza e prospettiva attraverso la disposizione dei piani anteriore (porta obiettivo) e posteriore (focale), così come abbiamo più e più volte considerato su queste stesse pagine. Più personali sono, invece, le considerazioni meno pratiche, che si avvicinano a una sorta di filosofia degli strumenti (alla quale noi sommiamo anche l’estetica della funzionalità, e viceversa: la funzionalità dell’estetica), in particolare nelle applicazioni al ritratto e all’architettura, dove l’autrice ha modo di esprimere opinioni mirate e autorevoli. Pubblicato nel 1974 da Thames and Hudson, nella collana Masters of Contemporary Photography, il concentrato The Photojournalist ha unito le considerazioni specifiche di due straordinarie fotografe statunitensi contemporanee, che hanno espresso linguaggi visivi decisamente autonomi, che qui si accostano uno all’altro, integrandosi: Mary Ellen Mark e Annie Leibovitz. Come precisa il sottotitolo del ben strutturato fascicolo (96 pagine 20,5x27,5cm: di poche parole e tante immagini commentate), Due donne esplorano il mondo attuale e le emozioni dell’esistenza. I punti di vista partono da prospettive diverse. Mary Ellen Mark ha sempre guardato direttamente negli occhi crude vicende del mondo [ne abbiamo scritto in FOTOgraphia, del settembre 2004]; invece, soprattutto agli inizi della propria carriera, Annie Leibovitz ha agito nell’irreale mondo dello star system. Comunque, due approcci fotografici con i quali sarebbe opportuno confrontarsi ancora oggi, senza dar peso ai decenni che sono ancora trascorsi, nel frattempo.

ITALIANI (ANCORA INSOSPETTABILI) Anche tra i fotografi italiani autori di manuali tecnici si incontrano figure insospettabili: il ritrattista Giuseppe Pino (1940), noto soprattutto per la colta frequentazione del mondo jazz, il fotografo di moda (e tanto altro ancora) Toni Thorimbert (1957) e Toni Nicolini (19352012), professionista ad ampio campo, dal reportage alla geografia, dall’arte alla pubblicità. In anni nei quali l’impegno fotografico si è espresso anche, o forse soprattutto, attraverso rigorose capacità in camera oscura, l’editoria tecnica conseguente era adeguatamente florida. Ecco, quindi, la parola di due grandi interpreti, che hanno codificato la propria esperienza. Con le edizioni Il Castello, per decenni riferimento d’obbligo della tecnica fotografica (con l’inestimabile redazione di Paolo Lazzarin), sono stati pubblicati Tecnica dell’ingrandimento, di Toni Nicolini (prima edizione 1965 e edizioni successive: 272 pagine 14,5x21cm, cartonato), e Guida allo sviluppo e ingrandimento per fotodilettanti, di Giuseppe Pino (prima edizione 1965: 104 pagine 12x17cm). Il primo titolo ha un indirizzo professionale, e quindi è più approfondito del secondo, che declina esplicitamente un taglio non professionale. Ma entrambi sono (stati?) preziosi e hanno consentito a molti di avvicinarsi con sicurezza alla materia. Sempre con le edizioni Il Castello, nel 1981, Toni Thorimbert pubblicò una guida pratica il cui titolo dice già tutto. Fotografare il nudo è esattamente questo: una serie di consigli su uno dei generi più frequentati dalla fotografia non professionale (96 pagine 20x20cm).

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (16)

Tecnica dell’ingrandimento, di Toni Nicolini; Il Castello, 1965; 272 pagine 14,5x21cm.


Nell’autunno 2013, in una libreria antiquaria, abbiamo trovato la Guida Canon Zoom, di Francesco Ciapanna, pubblicata quando era redattore di Progresso Fotografico, nei primi anni Sessanta. Avremmo voluto regalarglielo, se non che, Cesco -personalità fondamentale del giornalismo fotografico italianoè venuto a mancare il 16 marzo 2014 [ FOTOgraphia, aprile 2014]. Questa segnalazione, accompagnatoria dell’argomento principale, sia intesa come nostro ricordo partecipe.

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Ancora, segnaliamo anche Il fotogiornalismo, di Roberto Carulli (Il Castello, 1986), uno di quei giovani che attraversarono in modo consapevole la lunga stagione del reportage di impegno sociale (96 pagine 20x20cm).

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA

GRANDE FORMATO

Esaurita da tempo l’edizione originaria del 1990, nel 2004, Agorà di Torino, libreria specializzata e casa editrice (che, purtroppo, ha concluso il proprio iter nell’estate 2007), ha ristampato il prezioso Fotografi sulla fotografia, antologia critica curata da Nathan Lyons. Oggettivamente, si tratta del primo libro di strumenti critici pubblicato in campo fotografico, che presenta trentanove saggi scritti da maestri della fotografia, in un arco di tempo che va dal 1866 agli anni Sessanta [del Novecento]. Soggettivamente, è uno dei volumi che non dovrebbero mancare nella biblioteca personale di chi si interessa alla fotografia. Non da leggere tutti d’un fiato, ma da soppesare in tempi e modi cadenzati, i testi sono fondamentali per la riflessione critica, filosofica e di contenuti della fotografia. Sono stati selezionati in base alle rispettive rappresentatività della filosofia individuale di ciascun fotografo e al contributo dato all’evoluzione dell’espressione fotografica. A completamento, il volume contiene note biografiche e bibliografiche dei ventitré fotografi presentati, aggiornate, in questa seconda edizione, al giugno 2004.

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Scomparso nell’estate 2004, a ottant’anni, Emilio Frisia è stato attento fotografo e apprezzato insegnante. Oltre una certa serie di monografie illustrate, ha compilato un manuale di uso degli apparecchi a banco ottico, ai tempi sollecitato dalla Fatif DS, originariamente progettata dal designer Giò Colombo [altrove Gio o Joe] insieme all’ingegner Quintino Piana (1969; premio Compasso d’Oro). Proprio la milanese Fatif pubblicò La macchina fotografica professionale, di Emilio Frisia, curandone anche la distribuzione (80 pagine 21x29,5cm, cartonato). La premessa dell’autore è discriminante: «Il presente manuale sull’uso delle macchine professionali è stato scritto da un fotografo e non da un tecnologo». E, ovviamente, ci si riferisce alle esperienze professionali e didattiche che nel testo guidano la presentazione dei movimenti caratteristici del banco ottico, i cui decentramenti e basculaggi sono finalizzati al controllo della prospettiva e della nitidezza. Per tanti versi, a metà degli anni Settanta, il manuale sulla fotografia grande formato a corpi mobili di Emilio Frisia rappresentò la risposta italiana alla didattica di Carl Koch, fotografo svizzero, creatore del sistema Sinar e divulgatore delle tecniche applicate [mancato il 23 dicembre 2005 (FOTO graphia, febbraio 2006), evocato ampiamente in FOTOgraphia, del settembre 2014, nell’ambito di Piacere del grande formato, in suo Ritorno auspicato]. I manuali di Carl Koch rappresentano ancora oggi pietre miliari del settore. In progressione temporale, i titoli sono presto riassunti: Das goldene Buch der Gebrauchsfotografie: Großformat (1969; manuale originario, pubblicato anche in altre lingue, compreso l’italiano: Il libro del sistema Sinar - Manuale della fotografia su grande formato); Il sistema Sinar - Manuale dell’apparecchio fotografico professionale (1974 e 1977); Il grande formato - Manuale del sistema Sinar (con Jost J. e C. Marchesi, 1982, 1986 e 1990); Photo Know-How - L’alta scuola del grande formato (1972); Photo Know-How - Corso di fotografia in grande formato (con Jost J. Marchesi, 1984).

GLAMOUR Con un clamoroso salto indietro nei decenni, arriviamo alla sfumata fotografia di nudo (e dintorni) statunitense degli anni Cinquanta/Sessanta, e poco oltre, dove incontriamo Peter Gowland (1916-2010) e Bunny Yeager (1929-2014 [FOTOgraphia, febbraio 2015]). Noto fotografo di nudo soft, Peter Gowland ha vantato una intensa attività editoriale, ricca di oltre venti titoli a tema scritti in decenni di luminosa carriera didattica, avviata con la rubrica mensile su Popular Photography all’inizio degli anni Cinquanta (riproposta anche dall’edizione italiana, in coincidenza di date!). Tra tanto materiale possibile, isoliamo due segnalazioni. Attribuito anche alla moglie Alice, il New Handbook of Glamour Photography è stato ristampato da Crown Publishers di New York nel 1988 (214 pagine 18x25cm,

cartonato): sia le immagini presentate sia il testo richiamano stagioni e stilemi precedenti, con figure femminili di forme procaci, tipo anni Sessanta e non oltre. Però, notazione parallela, sulle pagine si intravedono fotografie di scena nelle quali Peter Gowland usa la biottica 4x5 pollici autocostruita Gowlandflex, nota solo a una ristretta cerchia di autentici appassionati e conoscitori della fotografia grande formato [FOTOgraphia, giugno 1999]. Invece, è datato indietro e indietro nei decenni The Art and Technique of Stereo Photography, che lo stesso Crown Publishers ha editato nel 1954 (128 pagine 18x25cm, cartonato). Di fotografia stereo, abbiamo già scritto tanto, e dunque non è il caso continuare. Soltanto, annotiamo che queste parole antiche oggi possono essere considerate e conteggiate per il proprio valore di cronaca da ri/leggere in chiave storica. Con Bunny Yeager, modella di nudo degli anni Cinquanta passata dall’altra parte dell’obiettivo, rimaniamo ai decenni trascorsi, che richiamano i sapori di una stagione animata da figure mitiche, a partire dall’intramontabile icona di Betty Page [numerose passerelle in FOTOgraphia]. Una vasta serie di manualetti si inserirono, in quei tempi, nel prolifico filone del nudo più accomodante; ne citiamo tre: Photographing the Female Figure (1957; 144 pagine 16,5x23,5cm), How To Take Figure Photos (1962; 112 pagine 16,5x23,5cm) e Bunny Yeager’s Art of Glamour Photography (1962; 96 pagine 12x19,5cm). Volendo poi approfondire la figura professionale di Bunny Yeager fotografa, segnaliamo l’esaustiva monografia Taschen Bunny’s Honeys - Bunny Yeager, Queen of Pin-Up Photography ; 1994; 160 pagine 22,5x29,5cm [quindi, nel febbraio 2015, abbiamo relazionato in ulteriore attualità editoriale e compilato un casellario esaustivo di tutti i suoi titoli].

CLASSICI Al culmine della lunga cavalcata, concludiamo riallacciandoci all’esordio: Andreas Feininger e Ansel Adams, maestri di tecnica fotografica. A parte le edizioni italiane originarie, segnaliamo i tascabili Garzanti di Andreas Feininger: Il libro della fotografia (1970), Il libro della fotografia a colori (1971) e La nuova tecnica della fotografia (1977). E non dimentichiamo La fotografia a colori: nuove tecniche (1977) e Il mondo come lo vedo io (1964; non tecnico), ai quali sono seguite edizioni Vallardi: L’occhio del fotografo (1977), La fotografia: principi di composizione (1979), Luce e illuminazione nella fotografia (1981) e Fotografia totale (1982). I testi tecnici di Ansel Adams sono stati invece pubblicati da Zanichelli, cui si deve pure L’autobiografia (1993; 416 pagine 22x26cm, cartonato). In consecuzione logica: Il negativo (1987; 288 pagine 18,5x25cm, cartonato), La stampa (1988; 224 pagine 18,5x25cm, cartonato) e La fotocamera (1989; 216 pagine 18,5x 25cm, cartonato), reperibili anche in cofanetto. E, poi, ci sarebbe perfino un estratto Fotografia in bianco e nero, pubblicato nella serie dei manualetti Hasselblad: 28 pagine 14,5x21cm. Introvabile! Ovviamente, tutti i titoli citati e commentati sono presenti nella nostra libreria personale. ❖



L’ALBERO


di Maurizio Rebuzzini

S

MATTEO, GIOVANNI, MARTINO, ENRICO

pesso, su queste stesse pagine, là dove potrebbe essere rintracciata e isolata -ma non è preteso che questo avvenga-, esprimiamo un pensiero conciliatorio e dialettico: a proposito della Fotografia, e del suo apprezzamento, e della sua frequentazione volontaria e consapevole, specifichiamo “qualsiasi cosa questa significhi per ciascuno di noi”. Così dicendo, così inquadrando (è il caso), intendiamo la massima libertà individuale e concediamo i più estesi propositi che ciascuno di noi ha diritto di perseguire. E, forse, ne ha anche il dovere. Ovverosia, comprendiamo e intendiamo che ognuno può e deve frequentare la Fotografia per quanto ne intenda ricevere sostegno e intenzione di esistenza: anche qui, qualsiasi cosa questa significhi per ciascuno di noi. Approdato a un’età anagrafica che facilita e suggerisce l’osservazione pacata, la riflessione intima e la partecipazione intelligente, peraltro rasserenata da altri equilibri vitali pertinenti -ma non sono questi ultimi così determinanti-, da tempo, il dotato Giovanni Cabassi può scartare a lato le urgenze quotidiane della fotografia professionale, che ha frequentato e onorato per decenni, per finalizzare la propria saggezza/sensatezza fotografica in altra direzione, che non quella della fretta e della impellenza. Per essere espliciti, oltre che per rivelare competenza di considerazioni (le nostre, qui e oggi), prima di occuparci del maestoso e solenne progetto fotografico L’Albero. Genealogia recente di una Famiglia milanese, al quale stiamo per riferirci (allestito a primavera nel capoluogo lombardo e replicato -in quantità ridottanell’ambito di Coscienza dell’Uomo, a Matera, dal cinque al ventisei agosto, al Palazzo Viceconte), è giocoforza richiamare quella fotografia dell’intimo, quella fotografia della partecipazione emotiva, che -una decina di anni fa- approdò alla intensa selezione Mad. Moto Arte Design, in consapevole frequentazione di una propria interpretazione di vita, che si concretizza nella filosofia della motocicletta (all’esposizione degli originali, al Palazzo del Ghiaccio, di Milano, nell’autunno 2007, sopravvive una raccolta di avvincenti

In allineamento con un elemento naturale, che scandisce anche il ritmo del progetto, sia in forma di allestimento scenico, sia in dimensione di monografia (a diffusione indirizzata), L’Albero. Genealogia recente di una Famiglia milanese, di Giovanni Cabassi, assolve e risolve esattamente quello che il titolo anticipa e promette. Dunque, e in concreto: sia Albero, che segna passaggi e anticipa capitoli in forma palese di pianta, in una scelta non certo casuale, ma finalizzata e mirata, sia Albero genealogico, che scandisce tempi e modi di una dinastia (oltre che famiglia), attraverso i volti dei relativi protagonisti 39


a ritratti posati), compie un’azione di Vita, della quale gli dobbiamo essere (quantomeno) grati. Infatti, non contano mai i soggetti, per quanto siano oggettivamente necessari, ma è sempre il cuore che guida l’azione della Fotografia... ci piaccia o meno, inviolabile gesto d’amore. E, dunque, in ulteriore ripetizione di nostra convinzione, siamo certi che si può raggiungere il Bene solo attraverso il libero scambio di idee, che qui, che ora, si manifestano in forma e dimensione fotografiche. In allineamento con un elemento naturale, che poi scandisce anche il ritmo del progetto, L’Albero. Genealogia recente di una Famiglia milanese assolve e risolve esattamente quello che il titolo anticipa e promette. Dunque, e in concreto: sia Albero, che segna passaggi e anticipa capitoli in forma palese di pianta, in una scelta non casuale, ma finalizzata e mirata, sia Albero genealogico, che scandisce tempi e modi di una dinastia (oltre che famiglia), attraverso i volti dei relativi protagonisti.

MARCO

e convincenti schede fotografiche e descrittive dei singoli soggetti). Filosofia che molti di noi, tra i quali ci iscriviamo e inseriamo, rimandano alla letteratura di Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, che poco o tanto (a ciascuno, il proprio) ha a che vedere con lo Zen e con la motocicletta, ma tanto richiama della Vita (di Robert M. Pirsig, del 1974, che ufficialmente scrive in forma autobiografica, raccontando un viaggio dal Minnesota alla California, con il figlio Chris, ma che -ufficiosamente- racconta di ciascuno di noi... una volta ancora, noi stessi compresi). Così che, magari involontariamente -ma chi può affermarlo?-, persino nella consecuzione di queste due azioni fotografiche temporalmente successive una all’altra, ma tra loro in qualche modo conseguenti, Giovanni Cabassi rivela come e quanto la Fotografia significhi qualcosa per molti... lui, sopra tutti. Attraverso la Fotografia e con la Fotografia, indipendentemente dal soggetto manifesto ed esplicito (dagli still life di motociclette

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Certo, dal punto di vista milanese, quale è il nostro (volente o nolente), il richiamo “Cabassi” assume significati di sostanza, in considerazione del fatto che si tratta di una delle dinastie più influenti sulla vita della città. Ma non è questo che conta, per quanto abbia valori propri e meriti attenzione autonoma. Quello che fa la differenza è il passo, la cadenza del racconto, che non richiama istantanee nel tempo, ma declina una Fotografia d’autore, di Giovanni Cabassi, diretta ed esplicita, in proprio linguaggio, lessico e grammatica espressiva. Ed è su e con questa interpretazione che bisogna sintonizzarsi. Testuale, in accompagnamento della monografia (ribadiamolo, a diffusione indirizzata), con indirizzo ai soggetti: «Tutti insieme si chiamano bosco. Tutti insieme ci chiamiamo famiglia. Quanta diversità e quante analogie, quante forme, quanti germogli e spine e rami spezzati, quanta ombra accogliente e frutti ristoratori, negli alberi così come in noi tutti. (continua a pagina 44)

MIA, SIMONE

Eccolo qui, l’Albero genealogico, conteggiato dai capostipiti Giuseppe Cabassi (1929-1992) e Laura Mastracchi Manes (6 aprile 1940), i cui otto figli, con Giovanni primogenito (10 luglio 1957), hanno avviato una genìa fedele al princìpio (biblico?) secondo il quale bisogna crescere e moltiplicarsi. In passo fotografico, che ha scandito anche la sua vita, Giovanni Cabassi ha convocato i discendenti in sala di posa, per una qualità e quantità di ritratti che sillabano addirittura questa progressione. E noi, dal nostro punto di vista orientato (verso lo scambio di idee, verso l’osservazione, piuttosto del giudizio, verso il pensare, invece di credere: in ripetizione più che dovuta), rileviamo come la forma apparente del ritratto assolva la sostanza di un contenuto narrativo di sintesi ben superiore. Per quanto anche lo siano, questi incessanti centoventidue ritratti non sono specchio di se stessi, ma tessere di un racconto che supera ciò che è a tutti visibile, per raccontare intimità e cadenze trasversali.

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DAVID

ALESSANDRA, VALENTINA, MARTINA

TOMMASO, DAVID, ANTONIO CINZIA



GIUSEPPE, ALESSANDRA

(continua da pagina 41) «Sì, siamo proprio un bosco in continua espansione che muta in modo incredibile e sorprendente, un bosco che cresce un po’ qui e un po’ lì, si aggrappa alla montagna, affonda radici nella sabbia, cresce vigoroso lungo il fiume, o in una tranquilla pianura. Un Albero Genealogico è innanzi tutto un albero. Per definizione. Non si chiama lista, elenco, fila, scaletta, reparto, o settore. Si chiama Albero, e questo mi piace tanto. «Vi chiedo di affrontare la visione di queste pagine di ritratti con un po’ d’ironia -proprio come fanno gli alberi quando sorridono felici per il vento che gli fa il solletico-, senza prendere troppo sul serio i nostri visi meravigliosamente segnati dal tempo e riportati sulla carta nel mio modo un po’ crudo e indubbiamente iperrealista [...]». Del resto, la domanda è sempre implicita. Perché fotografare, perché esprimersi in questo linguaggio. Non lo si fa mai per

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vanità (non lo si dovrebbe fare mai per vanità), ma per gesto d’amore, qualsivoglia sia il proprio indirizzo formale. E questo, di Giovanni Cabassi, è giusto un gesto d’amore che arricchisce quel terreno della Fotografia entro il quale ognuno di noi ama ritrovarsi... una volta ancora, qualsiasi cosa questo significhi per ciascuno di noi. E se anche la mediazione formale è frutto/fonte di assimilazione e partecipazione, l’autore è generoso nella propria rivelazione (sempre, in monografia). Dà senso e valore al gesto, proiettato verso il contenuto più e più intensamente di quanto qualche visione superficiale potrebbe credere e liquidare: «I ritratti di L’Albero sono stati ripresi in tre studi differenti: la maggior parte, in quello che fu il salotto e la sala da pranzo della mia vecchia casa di via Piranesi 10. Per una fredda giornata di dicembre, ho allestito il semplice set nel capannone di Lacchiarella. Le ultime fotografie sono state realizzate nel nuovo studio di viale Papiniano 8.


FRANCESCO, GIOVANNI

«Ho usato, come unica fonte di luce, un flash Elinchrom 3000 watt, con un diffusore Octa posto alla sinistra dei soggetti. «Macchine fotografiche formato 6x6cm: Hasselblad 500C/M e 501C/M per la maggior parte delle fotografie. La 553ELX a motore, con il lungo cavo per l’autoscatto, nelle immagini dove io sono presente. Obiettivi: Carl Zeiss T* Planar 80mm f/2,8, per le figure intere, Carl Zeiss T* Planar 100mm f/3,5, per i mezzi busti, e Carl Zeiss T* Makro-Planar 120mm f/5,6, per i primi piani. Per gli alberi, ho utilizzato l’Hasselblad SWC/M con il Carl Zeiss T* Biogon 38mm f/4,5, l’Hasselblad 203FE con lo zoom FE 60-120mm f/4,8 e l’Hasselblad 501C/M con il Carl Zeiss T* Planar 80mm f/2,8 CFI. «Pellicole negative in bianconero Fujifilm Neopan Acros 100 e Kodak Tri-X 400. Il fondale realizzato da Luigi Camarilla, circa venticinque anni fa, è una tela leggera di cotone di sessanta metri quadrati dipinta a mano. Le stampe realizzate da Jacopo

Anti sono state ingrandite su carta fotografica baritata ai sali d’argento Ilford MG Classic». Cosa c’entra tutto questo con la creatività, con l’espressività, con il risultato finale? Poco o tanto... a ciascuno il proprio. Però, ricordiamoci, da e con Harry G. Frankfurt, professore emerito di filosofia morale all’Università di Princeton, Stati Uniti: «Nei tempi antichi, artisti e artigiani non si concedevano scorciatoie. Lavoravano con attenzione, e curavano ogni aspetto della loro opera. Prendevano in considerazione ogni parte del prodotto, e ciascuna era progettata e realizzata esattamente come avrebbe dovuto. Non allentavano la loro attenta autodisciplina nemmeno riguardo ad aspetti che di norma non sarebbero stati visibili. Anche se nessuno si sarebbe mai accorto di tali imperfezioni, loro dovevano rispondere alla propria coscienza. Perciò, non si nascondeva lo sporco sotto il tappeto». Forma per il contenuto. ❖

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un negozio di terroni* per terroni** In un paese ed epoca in cui la forma apparente ha sostituito il contenuto, perché non agire per sovvertire questa tragica condizione, per tornare alla parola che sia se stessa, e sia densa di significati propri? Perché non considerare che il rispetto è valore concreto, da frequentare e perseguire? Perché non agire nella convinzione che etica e morale siano ancora qualità e doti, insieme con garbo, eleganza e grazia? Una volta ancora, una volta di più, non certo per l’ultima volta: vogliamo parlarne?

* Terróne (sostantivo maschile / terróna, al femminile). Derivazione da “terra”; probabilmente, tratto da denominazioni di zone meridionali, quali “Terra di Lavoro” (in Campania), “Terra di Bari” e “Terra d’Otranto” (in Puglia). Appellativo dato, con intonazione spregiativa (talvolta anche scherzosa), dagli abitanti dell’Italia settentrionale a quelli dell’Italia meridionale [Enciclopedia Treccani ]. Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato in tono dispregiativo (talvolta in tono scherzoso, a seconda del contesto) per designare un abitante dell'Italia meridionale. Ha diverse varianti piuttosto diffuse e riconoscibili nelle lingue locali: terún, terù, teron, tarùn, tarù (lombardo); terún (ligure); terù, terún, tarún (piemontese); tarùn, taroch, terón (veneto, friulano); teròch, tarón (emiliano-romagnolo); terón, terró (marchigiano); teróne, taròne in altri idiomi dell'Italia settentrionale, mentre rimane terrone in toscano e romanesco [Wikipedia ].

** L'espressione politicamente corretto (traduzione letterale dell'inglese politically correct) designa una linea di opinione e un atteggiamento sociale di attenzione al rispetto generale, soprattutto nel rifuggire l'offesa verso determinate categorie di persone. Qualsiasi idea o condotta in deroga più o meno aperta a tale indirizzo appare, quindi, per contro, politicamente scorretta (politically incorrect ). L'opinione, comunque espressa, che voglia aspirare alla correttezza politica dovrà perciò apparire chiaramente libera, nella forma e nella sostanza, da ogni tipo di pregiudizio razziale, etnico, religioso, di genere, di età, di orientamento sessuale, o relativo a disabilità fisiche o psichiche della persona [Wikipedia ].


Sguardi su

di Pino Bertelli (Piombino dal vicolo dei gatti in amore, 5 volte giugno 2019)

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FRANCISCO BOIX

Tutti gli scemi finiscono in politica o in fotografia (questa ouverture sulla fotografia del nostro scontento è un frammento dello scritto che doveva essere posto come prefazione al nostro lavoro Contro la guerra. Ritratti dall’infanzia negata, poi tagliato per mancanza di spazio e fondi. Lo disseminiamo qui, per non dimenticare che la fotografia dell’orrore della Shoah è la primogenitura -atto del generaredi tutta la fotografia dell’inganno mercatale, santificata nei premi internazionali e -più ancora- è al fondo della simulazione e perversione della verità, ovvero del pensiero unico, finalizzata alla domesticazione sociale o all’oppressione del dissidio [con l’occasione, riveliamo che il direttore Maurizio Rebuzzini -pace all’anima sua- si è chiamato fuori da questa edizione, rifiutando di scrivere qualcosa in introduzione: bene per lo “spazio e i fondi”]). La menzogna della fotografia mercatale è uguale alla menzogna dichiarata della fede, della pubblicità e della politica: chi inganna vende, converte e convince... celebra un sistema culturale/politico/finanziario da ritardati mentali. In contrasto a questa degradazione dall’alto, si dovrebbe usare la fotografia (e tutti gli strumenti creativi) alla maniera dei partigiani, quando portavano il ferro sulla spalla e spianavano l’arroganza e il pubblico disprezzo per conquistare il bene comune. Ci sono momenti, nella Storia, che anche con un fucile si possono fare capolavori: annotava sulle barricate il poeta della Rivoluzione di Spagna del Novecentotrentasei, Benjamin Péret. Tuttavia, dare inizio allo smantellamento della miseria della fotografia (o viceversa) significa passare dalla cultura di resistenza all’insurrezione dell’intelligenza, girare intorno al fuoco nella notte dell’immaginario liberato e danzare sulla trasvalutazione di tutti i valori col martello di Friedrich Wilhelm Nietz-

sche: fare della bellezza autentica (e della dignità che ne consegue) il principio di tutte le cospirazioni contro l’ordine istituito. I fotografi hanno tentato d’interpretare il mondo, si tratta ora di cambiarlo. Per gli antichi greci, la bellezza era intimamente legata con la giustizia, due diverse facce della stessa qualità: la virtù e l’eccellenza. La bellezza è uno stile, la giustizia è il florilegio della sua genesi clandestina. Qualsiasi imbecille

quando leggiamo e ascoltiamo (assaliti da conati di vomito) certi fotografi affermare “La mia arte fotografica” (!?)... davanti a un tribunale degli angeli sarebbero condannati per insignificanza universale e allontanati dal Cielo, come dalla volgarità, senza remissione dei peccati!

SPUTEREMO SULLE VOSTRE TOMBE W. Eugene Smith, Henri CartierBresson, Diane Arbus e tanti altri

«Un ubriaco di taverna di porto disse al giovane fotografo che voleva fare la fotografia sociale: “Se studierai e coltiverai il tuo talento, diventerai un grande fotografo”. Il giovane fotografo, un po’ perplesso: “E se non ho voglia di studiare, né guardare la gente negli occhi?”. L’ubriaco, dopo aver sorseggiato un po’ di vino: “Allora diventerai un critico o, alla peggio, uno storico della fotografia!”» dal taccuino di un fotografo di strada, 1968 può fare una “buona opera”, ma solo un poeta senza guinzagli può comprendere e cogliere l’immagine della bellezza e della giustizia come testimonianza eversiva del proprio tempo... di nessuna chiesa è l’arte liberata da tutte le strutture dello spettacolo mercantile. Ci viene da ridere, o sobbalzare,

(oppure, pochi altri) si sarebbero lavati la lingua col sapone prima di dispensare tanta stupidità! In ogni millantatore coesistono l’idolatra e il portinaio in cerca della deificazione, foss’anche quella dell’entusiasta inchiodato sulla croce per eccesso di narcisismo. Sputeremo sulle vostre tombe!

Se davvero il “capitalismo parassitario” e la “società liquida” (Zygmunt Bauman diceva) sono all’origine di ogni cattività (e certo lo sono), perché non incitare a demolirli attraverso azioni concrete di disobbedienza civile? La Pace (come la Libertà e l’Amore) non si concede, si prende! Indignatevi! La concezione di democrazia partecipativa che passa attraverso comunità federative, cooperative, consigli di fabbrica (auspicati da Antonio Gramsci a Noam Chomsky, passando per Pierre-Joseph Proudhon e financo per Jean Baptiste Joseph Fourier), è una forma di opposizione alla sovranità (che proviene dall’alto) sancita dal consenso elettorale, ed è una necessità per arrestare il potere coercitivo dello Stato, della Chiesa e della Finanza. Le concentrazioni dei saperi detengono l’imperio dell’immaginario e, attraverso i media (cinema, fotografia, televisione, carta stampata, telefonia, internet...), educano gli uomini alla sottomissione, alla paura, alla mediocrità. Violenze, distruzioni, vigliaccherie sono legati alle “grandi” dichiarazioni dei governi; le forze dominanti della società globale non fanno sconti: le bombe sono il linguaggio primario del potere e i partiti rappresentano gli interessi fondamentali dei potenti. Solo i popoli falcidiati dalla guerra piangeranno chi è caduto per la Libertà e la Giustizia, perché solo dei massacrati è il lutto. La disobbedienza civile della fotografia non riguarda furfanti né mascalzoni, spesso incastonati nelle storiografie specializzate.

SULL’ICONOGRAFIA DELL’ORRORE DI MAUTHAUSEN E LA DISOBBEDIENZA CIVILE DELLA FOTOGRAFIA Però, qualcuno, non proprio coronato dal successo mediale, ha dirottato l’immaginale comunitario là dove la fotografia presuppone il contatto, implica ed esige il rap-

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Sguardi su porto con ciò che viene fotografato e questo comporta smascherare la menzogna istituita sull’egemonia degli Ultimi e sconvolgere (alla maniera di Simone Weil, Hannah Arendt e Ernst Jünger) gli spiriti gregari d’ogni totalitarismo. Uno di questi testimoni dell’indignazione è il catalano Francisco Boix (Francesc Boix i Campo), fotografo nel campo di sterminio di Mauthausen. Annotazione a margine. Francisco Boix nasce a Barcellona, il 31 dicembre 1920, muore a Parigi, il 7 luglio 1951 (per una malattia ai reni contratta a Mauthausen). Ancora ragazzo, milita nella Gioventù Socialista della Catalogna e nel corso della Rivoluzione sociale di Spagna (1936-1939) fotografa i combattimenti per la rivista Julio, con una Leica del 1930 (avuta in dono dal figlio di un diplomatico sovietico). Quando i franchisti vincono la guerra (col tradimento dei comunisti sovietici e italiani, e l’assenso di Francia, Inghilterra, Germania e dello Stato Vaticano, che invia i suoi sacerdoti a benedire bombe, cannoni e carneficine di anarchici e dissidenti), insieme a migliaia di repubblicani, Francisco Boix è costretto all’esilio in Francia. L’infilano nel campo d’internamento di Le Vernet, poi a Septfonds e, infine, viene reclutato in una compagnia di lavoratori stranieri, ausiliari dell’esercito francese. Nel 1940, i nazisti occupano la Francia; il 27 gennaio 1941, è catturato dai tedeschi e segregato a Mauthausen (con migliaia di confinati politici spagnoli, identificati con un triangolo blu sulle casacche), dove resterà fino al 5 maggio 1945, quando l’Undicesima Divisione Corazzata americana libera i sopravvissuti di Gusen e Mauthausen. Francisco Boix è stato il solo spagnolo chiamato a testimoniare contro gli assassini nazisti nel Processo di Norimberga (1946): qui riferì dei crimini che aveva visto nel campo di Gusen e delle condizioni disumane nelle quali versavano gli schiavi della cava di granito di Mauthausen. (A Gusen, ricordiamolo, furono deportati sovietici, jugoslavi, italiani, francesi, polacchi. A migliaia morirono di tifo, stenti o

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sterminati col gas Zyklon B, un insetticida per pidocchi, prodotto dalla Bayer: si trattava dell’acido cianidrico inventato dall’ebreo Fritz Haber, Premio Nobel per la chimica 1918. Per i curiosi, quando i nazisti promulgarono le leggi razziali e antisemite, nel 1933, Fritz Haber fu deposto dall’Istituto di Fisica e Elettrochimica della Società Kaiser Wilhelm per l’Avanzamento delle Scienze, di Berlino, ma riuscì a fuggire in Inghilterra, lavorò all’Università di Cambridge, e -nel 1934- si trasferì in Palestina, ora Israele. Una sorta di storia romanzata della vita di Fritz Haber si può avvicinare nella miniserie televisiva, in sei puntate, Padri e figli -in originale, Väter und Söhne - Eine deutsche Tragödie-, di Bernhard Sinkel, del 1986. Racconta le vicende di una famiglia di industriali chimici, interpretata, tra gli altri, da Burt Lancaster, Julie Christie, Rüdiger Vogler e Laura Morante; Bruno Ganz incarna Fritz Haber, per l’occasione rinominato Heinrich Beck). A Mauthausen, Francisco Boix -matricola 5185 (altri certificano 4186)- è assistente di laboratorio della SS-Oberführer Paul Ricken (altrove, Rottenführer), uno psicopatico innamorato della fotografia, che applicava -oltre alla funzione identificativa e protocollare- come evocazione della barbarie della quale era anche esecutore [a proposito della matricola di Francisco Boix, appena evocata in due numerazioni diverse, secondo le fonti, richiamiamo un articolo apparso su Patria indipendente, periodico Anpi / Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, il 24 gennaio 2010. Qui, Leoncarlo Settimelli descrive una fotografia emblematica di Mauthausen attribuita a Francisco Boix (identificato con il numero di matricola 4186). Si tratta dell’immagine dell’orchestrina di deportati che suona Tornerai (una canzonetta italiana scritta da Nino Rastelli, nel 1936, musicata da Dino Olivieri; uno slow fox di grande successo negli anni della Seconda guerra mondiale), che accompagna un uomo (Hans Bonarewitz) all’impiccagione. Leoncarlo Settimelli sottolinea che uno dei

due fisarmonicisti, il più alto, è tedesco, si chiama Wilhelm Heckmann (pianista e tenore molto noto) ed è un triangolo rosa, finito a Dachau e poi a Mauthausen perché omosessuale. Al di là di chi ha scattato la fotografia, ciò che importa non è solo il valore documentale, ma anche e soprattutto la visione d’insieme del momento: trainato su un carretto, davanti alla cassa della lavanderia che aveva usato per la fuga, il condannato tiene la testa abbassata e i suonatori di violino e fisarmonica sembrano quasi danzare. Sembra di assistere a un frammento cinematografico e non è un caso che questa scena sarà replicata in molti film hollywoodiani, anche se spesso in modo deplorevole]. In maniera clandestina, Francisco Boix riesce a scattare immagini dei deportati, con l’aiuto di partigiani comunisti (tra i quali, Gian Carlo Pajetta [Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza; La Pietra, Volume III, 1976]) e nasconde circa duemila negativi all’interno delle baracche; una parte fu, poi, esportata dal Campo e imboscata nel muro dietro la casa della socialista austriaca Anna Pointner, quindi recuperata da Francisco Boix alla fine della guerra. Il giovane fotografo si stabilisce a Parigi, lavora come fotoreporter per diversi giornali e riviste, qui muore a solo trentuno anni. In Spagna, sua patria, il dittatore Francisco Franco è ancora al potere (e il silenzio dei partiti sulla Shoah è quasi assordante), così l’eroismo (non solo fotografico) del fotografo di Mauthausen cade nell’oblìo. Nel 2002, lo storico spagnolo Benito Bermejo pubblica Francisco Boix, el fotógrafo de Mauthausen (Rba Libros). Ancora, nello stesso 2002, viene realizzato il documentario di Llorenç Soler Francisco Boix, un fotógrafo en el infierno, di cinquantacinque minuti, e la storia di un rivoluzionario della fotografia (non solo di questa) diventa memoria dell’Umanità. [Sul fronte cinematografico, integriamo con la segnalazione del film tv El fotógrafo de Mauthausen, realizzato nel 2018, che riprende il passo della graphic no-

vel che Pino Bertelli sta per evocare: regia di Mar Targarona; sceneggiatura di Roger Danès e Alfred Pérez Fargas; con l’attore Mario Casas nei panni di Francisco Boix (Francesc Boix i Campo). In distribuzione spagnola dallo scorso ventisei ottobre, è disponibile anche in versione internazionale The Photographer of Mauthausen]. A ragione (? forse), in una recensione alla trasposizione a fumetti (graphic novel!) Il fotografo di Mauthausen, di Salva Rubio, Pedro J. Colombo e Aintazane Landa, in edizione italiana Mondadori Comics (2018), apparsa in questa rivista FOTOgraphia, a firma Antonio Bordoni (alter ego di tutte le stagioni), dello scorso febbraio, si legge: «Il fotografo di Mauthausen [in edizione graphic novel] dà fiato a quella coscienza di Francisco Boix, matricola 5185 del Campo, in base alla quale e in risposta alla quale fu raccolto, protetto e trafugato un consistente apparato fotografico certificatore dell’orrore che, in seguito, a Seconda guerra mondiale conclusa, fu parte determinante del Processo di Norimberga, del 1946, che giudicò i crimini nazisti compiuti sugli internati e approvati da una quantità di burocrati e politici (qui identificabile), che negarono la propria partecipazione e, addirittura, regia». [Attenzione: a ragione e con orrore, oggi deploriamo l’Olocausto, ma all’indomani della Seconda guerra mondiale, durante la quale fu perpetuato, pochi lo presero seriamente in considerazione, non potendo (non volendo?) credere alle terribili testimonianze dei sopravvissuti. Tutto è cambiato, nelle coscienze di ognuno, all’indomani del processo all’SS-Obersturmbannführer Adolf Eichmann, del 1961, il primo registrato e trasmesso dalle televisioni di tutto il mondo. In quell’occasione, venne alla luce la pianificazione studiata dell’eliminazione del popolo ebraico, per mano del nazismo e dei suoi famigerati tentacoli. Ancora, vogliamo credere che sia merito, sperando che così sia (anche), dei reportage giornalistici dell’intrepida Hannah Arendt (1906-1975), già


Sguardi su richiamata in queste note, successivamente raccolti nell’illuminante, commovente e coinvolgente resoconto La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, in forma di libro (Feltrinelli; più recente edizione, la ventesima, 2013)]. La cognizione del dolore del fotografo di Mauthausen riporta, infatti, ad atti di resistenza e insubordinazione. Ovvero, invita a riflettere sui Sommersi, i Salvati e i Delinquenti -come l’infame dottor Josef Mengele, l’“angelo della morte” di Auschwitz, e Adolf Eichmann, il boia con la faccia da padre di famiglia [con processo a Gerusalemme, nel 1961 (primo evento mediatico in diretta televisiva mondiale), dal quale il coinvolgente e illuminante reportage di Hannah Arendt, La banalità del male, appena richiamato]- aiutati ad espatriare in Argentina dalla Croce Rossa Svizzera e da vicari dello Stato Vaticano [David Cesarani: Adolf Eichmann. Anatomia di un criminale; Mondadori, 2007]. E se Adolf Eichmann, dopo un avventuroso rapimento a Buenos Aires da parte dei servizi segreti israeliani [ai quali, in questo come in altri casi, per quanto non tutti, va la nostra approvazione e stima (mFranti)], fu giustamente destinato alla forca (1962), Josef Mengele riuscì a sfuggire alla cattura per il resto della vita. Infatti, invece di essere impiccato e appeso a capo all’ingiù, come si conviene per tutti i criminali di guerra, morì d’infarto mentre faceva il bagno nell’oceano Atlantico (Bertioga, Brasile, 1979). Comunque, le immagini di Francisco Boix portano al rigetto e al contrasto di qualsiasi ideologia come princìpio di verità, a non dimenticare mai più che quando la violenza prende il posto della ragione, s’instaura il dominio del terrore.

ANCORA: SULL’ICONOGRAFIA DELL’ORRORE DI MAUTHAUSEN La magia della fotografia e il meraviglioso che contiene non ha alcun valore, se non è il viatico di una visione libertaria dell’esistenza, anche là dove comporti sofferenze quali la prigionia, la tortura e l’eccidio. Francisco Boix ha inven-

tariato la memoria dell’orrore nazista negli sguardi di quanti rifiutano e combattono le farse e le tragedie degli assolutismi. Tuttavia, occorre ricordare che ogni forma di tirannia, anche quella guerrafondaia della civiltà dello spettacolo, è sostenuta anche dall’asservimento generalizzato senza il quale i dispotismi non potrebbero sorgere, né proliferare: «La massa è sempre complice dei totalitarismi, poiché ogni rappresentazione persecutoria dei regimi totalitari -cioè ogni loro menzogna- si sgretolerebbe miserevolmente» (Alexandre Koyré: Sulla menzogna politica; Lindau, 2010)... davanti alle rivendicazioni sociali dell’uomo in rivolta. Le dittature dei mercati finanziari lavorano sulla percezione, sull’inganno e sull’impostura in maniera eguale ai fascismi, nazismi, comunismi del passato... hanno riverniciato i muri delle galere e ripristinato fili spinati e plotoni di esecuzione ovunque... con le “bombe intelligenti” e i dividendi della Borsa continuano a perpetuare il genocidio... e sono anche i maggiori responsabili della distruzione del pianeta blu. La fotografia protocollare o identificativa (non solo di Francisco Boix) travalica spesso l’origine dello scatto. A differenza dei fotografi che si trovarono a documentare i Campi di sterminio dopo la liberazione, nella primavera-estate 1945 -Margaret Bourke-White, William Vandivert, George Rodger, Lee Miller (Elizabeth “Lee” Miller / Lady Penrose), David Scherman, Éric Schwab-, le fotografie di Francisco Boix provengono dall’interno del flagello di Mauthausen e come l’iconologia di Auschwitz, di Wilhelm Brasse [altro discorso, comunque; FOTOgraphia, febbraio 2019], del ghetto di Łód , di Mendel Grossman, e la raccolta fotografica del massacro nel ghetto di Varsavia, di Emanuel Ringelblum, denunciano la liquidazione finale di un popolo. I delitti d’ogni fanatismo nascono da ideologie, dottrine e ambizioni di conquista. La storia non è che una parata di falsità, una successione di cattedrali, una farsa innalzata a simulacri della finanza internazionale: ovunque i gemiti

dei perseguitati sono oscurati dalla rapacità dei potenti. Siatene certi, questi saprofiti dell’umano non potranno essere mai cancellati dalla faccia della Terra, se non con un corda al collo e appesi ai cancelli dei giardini pubblici o ai campanili delle chiese, un’operazione che va fatta con una certa grazia e un certo stile. Tra 1941 e il 1945, Francisco Boix lavora nel laboratorio fotografico di Mauthausen; era addetto all’identificazione fotografica dei detenuti; sviluppa, stampa, cataloga le nefandezze, le efferatezze compiute dalle SS e dai kapò sui prigionieri (i kapò erano ebrei reclusi dei campi di concentramento nazisti, ai quali era affidata la funzione di vita o di morte sugli altri deportati [a questo proposito, in capitolo oscuro e inquietante della vita nei Campi, spesso escluso da rievocazioni storiche e accettazioni etiche e morali, si può riconsiderare il film Kapò, di Gillo Pontecorvo, del 1960, regista di religione ebraica dai mille meriti, capace di guardare in faccia e negli occhi la Storia. Gillo Pontecorvo (19192006) è fratello del celebre fisico Bruno (1913-1993), allievo di Enrico Fermi, uno dei Ragazzi di via Panisperna, che avviarono la ricerca sull’energia atomica, che dopo la Seconda guerra mondiale scelse di agire nei programmi scientifici dell’Unione Sovietica]). Tra le migliaia d’immagini che Francisco Boix sottrarre alle SS, oltre alle “stragi di massa”, c’erano anche quelle dei crudeli esperimenti compiuti sui segregati dal “dottor morte” (o il “macellaio di Mauthausen”), l’austriaco Aribert Heim: al cui proposito, il rammarico storico è quello che dopo la sua fuga non sia mai stato trovato e passato le armi senza rimpianti (sembra sia morto di cancro nel 1992, a Il Cairo). Un’annotazione a margine. Il comandante di Mauthausen era Franz Xaver Ziereis. Entrò in servizio nel 1939 e abitava nel Campo con tutta la famiglia; nei sei anni che rimase a Mauthausen, si rese famoso come cacciatore di fuggitivi con i cani e la loro soppressione sul posto, ma la sua specialità era quella di uccidere i car-

cerati sparando col fucile dal portico della propria abitazione (rievocata in un brutto film di Quentin Tarantino, Bastardi senza gloria, del 2009). Nel 1944, fu promosso colonnello per meriti speciali; all’arrivo degli americani, riuscì a scappare sulle montagne nell’Alta Austria, con tutta la famiglia. Furono ritrovati, lui tentò di nuovo la fuga, venne ferito gravemente e trasferito all’ospedale militare americano di Gusen, dove morì il giorno seguente, dopo essere stato interrogato. Il suo corpo fu appeso dagli ex-prigionieri ai fili spinati del lager e nemmeno i corvi si cibarono di quella putrida carcassa. Il “macellaio di Mauthausen” è stato sepolto in una tomba anonima, sembra nei pressi di una latrina pubblica. Sono le sfumature e il dettaglio che dettano la Storia dei Giusti... qualche volta. La fotografia dell’indignazione, di Francisco Boix (o quella a lui attribuita, oltre all’eroica azione di salvataggio delle fotografie realizzate nel Campo dagli addetti nazisti, a partire dall’Oberführer Paul Ricken), è una memoria documentale che commuove: mucchi di cadaveri addossati alle baracche, corpi appesi al filo spinato, suicidi nei bagni o sulla recinzione elettrificata, la visita dei famigerati Heinrich Himmler e Ernst Kaltenbrunner nella cava di Mauthausen, che salgono sorridenti i centottantasei gradini della Scala della morte (utilizzata come sterminio dei dannati), hanno una qualche attinenza con la pietas, tutta laica, della “confessione” in pubblico. Nella profondità dell’incompiutezza affabulativa c’è un temperamento, un carattere, un disdegno del fotografato che morde l’indifferenza e qualcosa di scucito che rivela l’esecrazione della vigliaccheria. Ogni pratica di sovvertimento di universi dissennati deriva dall’impossibilità di dimenticare. Esiste un’immagine piuttosto eloquente della ferocia nazista (forse scattata da un fotografo autorizzato o da una SS): uomini in fila per cinque sono schiacciati da grandi pietre che portano sulle spalle e s’arrampicano faticosamente sulla “Via del sangue”, che

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collegava la cava di granito al lager. Questa fotografia traduce senza indulgenze la commiserazione per i forzati in complicità con afflizioni inaudite, rende formale la morte e promuove la retorica del più forte in approvazione; non c’è verità se non nell’innocenza o nel colpo di mano che la disvela. Nelle immagini di Francisco Boix, i volti scarniti dei superstiti sono impressi nella sofferenza con un velo di dignità che la fotografia rovescia in verità e posterità di tutto ciò che è dissolutore della bellezza e della giustizia. Le fotografie della liberazione di Mauthausen non solo quelle corali e festose, raccontano un’intimità sofferta, un’umiliazione prolungata e -al contempo- si fanno carico di una rinascita: quella che il dolore è la prima accusa contro ogni forma di autoritarismo e nessuno si può ergere a giudice o aguzzino di quanti professano altri credi. Ancora: rivendicano i diritti dell’omosessualità, vivono ai margini della propria follia o hanno la pelle diversa (anche perché

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il sangue è rosso per tutti); la paccottiglia della politica va spazzata via con la conquista della libertà, il diritto della forza va combattuto con la forza del diritto. Il resto è la realizzazione di una società più giusta e più umana. Maneggiare la fotografia, in fondo, richiede meno talento che vivere la Fotografia. Non crediamo che esista piacere più completo di essere parte del fallimento di un’ideologia. Quando un fotografo (o un artista qualsiasi) non ha niente da dire (spesso) diventa famoso. Ci dev’essere una qualche affinità tra il bisogno di diventare celebri e la stupidità! Altrimenti, non si capisce perché al funerale di terza classe di Mozart (seppellito in una fossa comune nel cimitero di St. Marx, in Landstraße, a Vienna), nessuno della famiglia, né dei suoi amici e conoscenti fosse presente (quando basta la morte di un cretino dei Beatles o dei Doors per solleticare lacrime spettacolari di folle inebetite nella santificazione del Mito). L’industria culturale non può che generare

sentimenti falsi, che a propria volta generano linguaggi falsi! Un sistema esiste sino a quando esiste il delirio che lo assolve dei suoi disastri! Quando crollano le infatuazioni, crollano anche gli dèi, e sarà sempre troppo tardi. La fotografia della Shoah va letta o “ascoltata” come specchio della memoria o fotografia spontanea: un accadere fotografico che inchioda la mentalità degli assassini al di sopra delle dispute storiche. Ando Gilardi, a ragione, scrive: «La definizione spontanea l’affidiamo a un ossimoro: il fotografo incontra un soggetto che gli procura una grande emozione, che “prende” poi lui più di quanto lui non prenda la foto[grafia]. In parole diverse, la fotografia spontanea non è come quella di cronaca o dei momenti familiari: in viaggio come visitando un museo o come magari sfogliando un giornale illustrato e oggi -meglio ancora di tutto- navigando in Internet. In questi casi ultimi che sono di più grande importanza, un’immagine già esistente può far esplodere nella coscienza del fotografo il bisogno di riprodurla e pure di modificarla. E il fenomeno epocale e appunto “spontaneo” chiamato YouTube... specialmente in guerra fu, per evidenti ragioni, una grande occasione per le riprese fotografiche spontanee. Gli eventi della Shoah furono certo fra i più emotivi. Si pensi al caso limite della uccisione, in piena luce in campo aperto, di decine di migliaia di donne nude insieme ai bambini» (Ando Gilardi: Lo specchio della memoria: fotografia spontanea dalla Shoah a YouTube; Bruno Mondadori, 2008). Si può avere compassione anche per il più efferato degli assassini... forse. Ma amare il tiranno che li suscita è impossibile: il solo posto dove possiamo sistemarlo è l’orinatorio. La fotografia della Shoah è una requisitoria e un’interrogazione sull’olocausto nazista di fronte all’umanità (dello stalinismo o dei Laogai, cinesi del nostro secolo [i Laogai sono moderni campi di concentramento in Cina, istituiti da Mao Zedong, nel 1950, seguendo il modello criminale del comunismo stalinista: un sistema carce-

rario che tiene nella totale disumanità milioni di persone -uomini, donne, bambini-, condannati ai lavori forzati. Fine pena mai!, perché ritenuti controrivoluzionari: fabbricano scarpe, vestiti, palloni da calcio per le multinazionali occidentali. «All’interno dei Laogai sono previste punizioni corporali, quali scariche elettriche, pestaggi, sospensione per le braccia, privazione del sonno, isolamento in celle di pochi metri quadrati, assenza di cure mediche e controlli, induzione al vomito con tubi ficcati in gola o nel naso, esposizione a caldo e freddo, bruciature, fino ad arrivare a violenze sessuali e all’asportazione e al traffico di organi dei detenuti». Vedi: https://thedailycases.com/ilaogai-le-carceri-gulag-cinesi- vereindustrie-della-morte/ e, anche, www.laogai.it]). Una civiltà è finita quando smette di generare eresie e chiude gli occhi di fronte al lezzo delle bandiere; la volgarità delle chiese, dei partiti, delle religioni è contagiosa... sempre! La Bellezza della Libertà, dell’Uguaglianza, della Giustizia... non lo è mai! È spregevole aderire al culto d’ogni potere, che è sempre la feccia impiumata dell’ordine costituito. Gli uomini, i politici, gli economisti, gli artisti dimenticano troppo in fretta che il Ventesimo secolo è stato il più crudele della Storia: e quello che avanza con la medesima violenza istituzionalizzata, si avvia alla mattanza di altre innocenze, fomentazione di disuguaglianze e distruzione dell’intero pianeta. Il Requiem di Mozart aleggia ovunque una minoranza di arricchiti padroneggia sulla maggioranza dei popoli impoveriti e condanna alla miseria l’intera umanità: «Viviamo in una storia sconsacrata. L’uomo, certo, non si riassume nell’insurrezione. Ma la storia di oggi, con le sue contestazioni, ci costringe a dire che la rivolta è una delle dimensioni essenziali dell’uomo» (Albert Camus: L’uomo in rivolta; Bompiani, 1981). È la nostra realtà storica, a meno di fuggire la realtà, dobbiamo trovare in essa i valori di libertà, uguaglianza e fraternità tra le genti. ❖


Dal 1991, i logotipi dei TIPA Awards identificano i migliori prodotti fotografici, video e imaging dell’anno in corso. Da ventinove anni, i qualificati e autorevoli TIPA Awards vengono assegnati in base a qualità , prestazioni e valore, tanto da farne i premi indipendenti della fotografia e dell’imaging dei quali potete fidarvi. In cooperazione con il Camera Journal Press Club of Japan. www.tipa.com



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