FOTOgraphia 251 maggio 2019

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ANNO XXVI - NUMERO 251 - MAGGIO 2019

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Tipa Awards 2019 TECNOLOGIA INFLUENTE Riflessione TEORIA PRATICA TEORIA Rachel Talibart ONDE, SIRENE E VITA

DANIELE TAMAGNI GENTLEMEN OF BACONGO


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prima di cominciare ALTRE UNITÀ DI MISURA. Per quanto possibile farlo, a volte (molte volte) condividiamo con altri riflessioni e argomenti in procinto di essere pubblicati sulla rivista. È una sorta di anteprima che non riguarda noi stessi, in alcuna dimensione di autoreferenzialità, ma l’aderenza a un argomento e al modo nel quale viene affrontato. In particolare, va sottolineato, che uno dei nostri referenti privilegiati, forse il referente privilegiato per antonomasia -se soltanto volessimo mai frequentare gli assoluti, dai quali ci teniamo, invece, lontani-, è Lello Piazza, che spesso e volentieri contribuisce di suo alla redazione della rivista. In stretto ordine temporale, qui e ora, va rivelata una piacevole consecuzione all’Editoriale odierno, tradizionalmente pubblicato a pagina sette, riguardante lo slittamento attuale da unità di misura oggettive a valutazioni soggettive che partono da se stessi, magari per concludersi ancora a se stessi. A parte aver fattivamente contribuito al completamento della meditazione, facendoci conoscere l’Effetto Dunning-Kruger, richiamato in didascalia [e altrove, su questo stesso numero], come già da lui rivelato lo scorso marzo-aprile, Lello Piazza ha diffuso a propria volta l’Editoriale, in anticipo sulla sua pubblicazione, inviandolo a proprie referenze soprattutto accademiche (Dipartimento di Matematica del Politecnico di Milano). Tra altre risposte e aderenze, ha ricevuto una poesia, che ci ha girato... e che noi giriamo, a nostra volta, a completamento individuale del nostro stesso Editoriale, ulteriore alla sua presenza già sullo scorso numero. mFranti La misura del mondo In matematica non sono brava. Perdo il conto delle foglie dei rami e per le stelle ogni volta ricomincio da capo. Non riesco a misurare il salto delle cavallette e non so la formula per il perimetro delle nuvole. Il calcolo di quanta neve sia caduta mi sfugge e anche di quanta ne possa reggere un filo d’erba.

La fotografia è il sangue di un’alchimia visuale nel quale si ricerca la verità o la falsificazione del bello, del giusto, del buono: perché solo la verità regna, il resto è trucco! La fotografia è anzitutto l’autobiografia di un corpo. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 50 La fotografia mi ha coinvolto in un vero e proprio love affair più di sessant’anni fa. Nei primi anni di questi sessanta, iniziammo a giocare insieme. Lello Piazza; su questo numero, a pagina 28 La conclusione è che noi sosteniamo l’unità concreta del soggettivo e dell’oggettivo, della teoria e della pratica, del sapere e del fare, e siamo contro tutte le idee astratte, erronee, avulse dalla realtà professionale concreta. mFranti; su questo numero, a pagina 9 Il fotografo si chiamerà Paparazzo. Non saprà mai di portare l’onorato nome di un albergatore delle Calabrie, del quale Gissing parla con riconoscenza e con ammirazione. Ma i nomi hanno un loro destino. Ennio Flaiano; su questo numero, a pagina 14 Ovvero, sta venendo sempre meno il contraddittorio e il dibattito a favore dell’autocompiacimento. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 7

Copertina Dalla serie Gentlemen of Bacongo, dell’accreditato Daniele Tamagni, raccolta anche in monografia (premiata!), una significativa osservazione della moda dei sapeurs congolesi. Inquadratura parziale dall’originale a composizione orizzontale, a pagina 32

3 Altri tempi (fotografici)

La somma dei passi per arrivare al mare non mi riesce e mi chiedo se per il ritorno devo fare una sottrazione. Ho diviso il numero dei semi per i frutti il risultato è una nuova foresta e ne avanza qualcuno.

Dettaglio da un annuncio Lamperti & Garbagnati, del febbraio 1927; è visualizzato un “apparecchio fotografico per ritratti da galleria, su cavalletto moderno”

Se moltiplico le giornate di sole per quelle di pioggia ottengo più di sette stagioni e non so quante settimane. La matematica mi confonde. Come misura del mondo è strana. Per quanti conti si facciano qualcosa non torna mai pari.

Metro di misura: dall’oggettivo al soggettivo

Due finestre fanno una vista? quattro muri sono una casa? Noi siamo i nostri centimetri, chili, litri? quanto pesa un segreto? quanto misura una risata? e l’area del cuore come si calcola? Azzurra D’Agostino

7 Editoriale 8 Teoria-pratica-teoria Detta meglio, forse. Anche in fotografia: la conoscenza e la pratica, il sapere e il fare. Dal soggettivo all’oggettivo

10 C’era una volta un re Siparietti fotografici dal film Un re a New York, del 1957, di e con Charles Chaplin. Nulla di particolare, ma occasione di riflessione. Al solito... come sempre Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini


MAGGIO 2019

RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA

13 Paparazzo (e dintorni) Etimologia del neologismo più clamoroso del Novecento (diciamola così). Con autorevoli testimonianze dal passato (di Ennio Flaiano e George Gissing) e curiosa combinazione fotografica del presente: a Catanzaro, per abbinarci a Cine Sud (Francesco Mazza) di Angelo Galantini

16 Polarnography Affascinante interpretazione fotografica del giapponese Nobuyoshi Araki, in garbata edizione Skira. Ancora erotismo trasgressivo... con accompagnamento di cieli, in combinazioni polaroid integrali

19 Un’altra luce Ulteriore capitolo del percorso visivo di Vittorio Storaro: Scrivere con la Luce / 4. Le Muse riflette su fonti iconografiche e letterarie che lo hanno ispirato. Muse: figure della mitologia classica, protettrici delle arti di Maurizio Rebuzzini

26 Sirene Presentazione e commento delle fotografie di onde dell’inglese Rachel Talibart, ispirata dai miti e dalle leggende di tutte le culture e di tutte le epoche di Lello Piazza

32 Gentlemen of Bacongo L’importanza di sentirsi eleganti. Avvincente visione di Daniele Tamagni (1975-2017) su un fenomeno che, in Congo, è nato come forma di opposizione politica e culturale, per affermarsi come stile di vita di Gigliola Foschi

39 Tecnologia influente I quaranta premi attribuiti dall’autorevole associazione di categoria Technical Image Press Association (TIPA) alla qualità e tecnologia fotografica dei nostri giorni: con qualche distinguo e disamina adeguata. Al solito di Antonio Bordoni

48 Terry Richardson

Anno XXVI - numero 251 - 6,50 euro DIRETTORE

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

IMPAGINAZIONE

Maria Marasciuolo

REDAZIONE

Filippo Rebuzzini

CORRISPONDENTE Giulio Forti

FOTOGRAFIE Rouge

SEGRETERIA

Maddalena Fasoli

HANNO

COLLABORATO

Pino Bertelli Antonio Bordoni Azzurra D’Agostino Gigliola Foschi mFranti Angelo Galantini Lello Piazza Franco Sergio Rebosio Rachel Talibart Daniele Tamagni Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.com; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 1027671617 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard e PayPal (graphia@tin.it). ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano

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Sguardi su un interprete della fotografia consumerista di Pino Bertelli

Nella stesura della rivista, a volte, utilizziamo testi e immagini che non sono di nostra proprietà [e per le nostre proprietà valga sempre la precisazione certificata nel colophon burocratico, qui accanto: «È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo)»]. In assoluto, non usiamo mai propietà altrui per altre finalità che la critica e discussione di argomenti e considerazioni. Quindi, nel rispetto del diritto d'autore, testi e immagini altrui vengono riprodotti e presentati ai sensi degli articoli 65 / comma 2, 70 / comma 1bis e 101 / comma 1, della Legge 633/1941 / Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio.

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Dal 1991, i logotipi dei TIPA Awards identificano i migliori prodotti fotografici, video e imaging dell’anno in corso. Da ventinove anni, i qualificati e autorevoli TIPA Awards vengono assegnati in base a qualità , prestazioni e valore, tanto da farne i premi indipendenti della fotografia e dell’imaging dei quali potete fidarvi. In cooperazione con il Camera Journal Press Club of Japan. www.tipa.com


editoriale M

igliaia di anni fa -in termini sociali correnti-, nelle stagioni della scuola dell’obbligo (secondi anni Cinquanta e primi anni Sessanta), ho avvicinato e imparato una condizione fisica/matematica. Allora, il metro (unità base della lunghezza, nel Sistema internazionale di unità di misura) era definito dal campione standard in forma di barra di platinoiridio conservata a Versailles, in Francia. Questo, a memoria: in realtà, il riferimento a Versailles semplificava la collocazione presso il Bureau International des Poids et Mesures, a Sèvres, altrettanto vicina alla capitale Parigi. A seguire, con il progredire delle nozioni scientifiche, si registrano aggiornamenti che hanno pensionato quella rappresentazione corporea. Ecco dunque che, nel 1960, con la disponibilità del laser, l’undicesima Conferenza generale di pesi e misure ridefinì il metro come lunghezza pari a 1.650.763,73 lunghezze d’onda nel vuoto della radiazione corrispondente alla transizione tra i livelli 2p10 e 5d5 dell’atomo di kripton-86. Quindi, nel 1983, la successiva diciassettesima Conferenza fissò il metro come la distanza percorsa dalla luce nel vuoto in 1/299.792.458 di secondo (ovvero, la velocità della luce nel vuoto venne definita essere 299.792.458 metri al secondo). Tengo conto di questo attuale campione, anche se ne abbiamo persa la fisicità a tutti visibile, per abbracciare una “quantità” inalterabile da qualsivoglia influenza esterna. Ma, soprattutto, riferimenti a parte, mantengo il princìpio base che, indipendentemente da barre di platino-iridio, lunghezze d’onda e percorrenza della luce, stabilisce che per giudizi assoluti bisogna sempre riferirsi a una unità di misura oggettiva, accessibile a tutti e da ognuno condivisibile. Raramente, ormai, questo accade. E un’altra unità di misura si sta imponendo prepotentemente: se stesso. Per quanto nella vita di tutti i giorni, questo slittamento riguarda soltanto l’educazione individuale (il galateo), in Fotografia -territorio/materia/disciplina/espressione che mi sta particolarmente a cuore- questo stesso parametro è devastante, e porta molti di noi a non confrontarsi più con la materia, attraverso gli altri, ma a limitarsi alla propria fotografia (in qualsiasi modo ciascuno la frequenti), come parametro unico e inviolabile di pensiero. Ovvero, sta venendo sempre meno il contraddittorio e il dibattito a favore dell’autocompiacimento (peraltro, alimentato anche dai social mal declinati). A distanza, breve e media, cosa comporta tutto questo? Semplice. Impoverimento assoluto e generale ma, anche, decadimento individuale: del proprio pensiero, della propria fotografia, della propria Vita. Infatti, è solo attraverso la conoscenza (degli altri, soprattutto), il rispetto (ancora, degli altri) e l’accoglienza del diverso da sé (in qualsiasi modo e misura ogni presunta diversità si manifesti) che si può crescere, maturare e migliorare. Migliorando se stessi (non in unità di misura, ma nell’intimo), si contribuisce all’evoluzione... forse, della specie. Sicuramente... della specie. Maurizio Rebuzzini

In visualizzazione spettacolarizzata, a fin di bene (dal web), la barra di platino-iridio utilizzata come campione del metro, dal 1889 al 1960. Si storicizza l’identificazione numerica “27”, ed è conservata presso il Bureau International des Poids et Mesures, a Sèvres, alle porte di Parigi. Per settantuno anni, ha rappresentato il campione standard internazionale della lunghezza di un metro. Successivamente, è stata sostituita da altre definizioni, non corporee, ma allineate con i progressi della scienza. In ogni caso, riferimento a parte, è unità di misura oggettiva, che troppo spesso, al giorno d’oggi, sta cedendo il passo a una altra unità di misura, assai pericolosa: se stessi e le opinioni che ognuno matura da sé, senza confronti, né incontri, né comprensione degli altri, né rispetto. Così agendo, si innesca il definito Effetto Dunning-Kruger, dai nomi dei due psicologi che l’hanno teorizzato: David Dunning e Justin Kruger, della autorevole e prestigiosa Cornell University, di Ithaca, nello stato di New York, Usa. Si tratta di una sorta di forza dello stupido: è una distorsione cognitiva a causa della quale individui poco esperti in un campo tendono a sopravvalutare le proprie abilità, autovalutandosi -a torto- esperti in quel campo. Come corollario di questa teoria, spesso gli incompetenti si dimostrano estremamente supponenti. Da e con David Dunning: «Se mi chiedete quale sia la singola caratteristica che renda una persona soggetta a questo auto inganno, io direi che è respirare». Per quanto ci riguarda... anche in Fotografia, nostro territorio.

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Parliamone Di Maurizio Rebuzzini (Franti)

TEORIA-PRATICA-TEORIA

Detta meglio, forse. Anche in fotografia: la conoscenza e la pratica, il sapere e il fare.

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Nel passato remoto, una certa forma di materialismo ha esaminato il problema della conoscenza senza tener conto della natura sociale dell’Uomo e dell’evoluzione storica della società; perciò, non ha potuto comprendere che la conoscenza dipende dalla pratica, cioè dalla produzione e dalla propria attività professionale: che, per quanto ci riguarda direttamente e individualmente, può e deve richiamarsi alla frequentazione fotografica di ciascuno noi, sia in senso stretto di produzione di immagini (con svolgimento professionale, piuttosto che intenzione non professionale), sia in misura allargata di frequentazione delle sue analisi e riflessioni indotte. Oggigiorno, non possiamo ignorare che l’attività produttiva dell’Uomo sia l’attività pratica fondamentale, che determina anche ogni altra forma di attività. Come già sottolineato, in altri ambiti e per altri richiami e riferimenti, sempre pertinenti, la conoscenza umana dipende soprattutto dall’attività produttiva materiale: attraverso questa, ciascuno riesce a comprendere grado a grado i fenomeni, le proprietà e le leggi della Natura, come pure i propri rapporti con la Natura e la Realtà; inoltre, attraverso l’attività produttiva, a poco a poco, ognuno raggiunge i diversi livelli di comprensione di certi rapporti reciproci tra gli Uomini. Tutte queste conoscenze non possono essere acquisite al di fuori dell’attività produttiva. Nella società, nel corso della propria attività professionale e vita sociale, ogni persona collabora con altri, entra in determinati rapporti di produzione con il prossimo e s’impegna nell’attività produttiva per risolvere i problemi

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della vita materiale. A tutti gli effetti, questa è la principale fonte di sviluppo della conoscenza umana, ed è logico ritenere che la conoscenza individuale evolva, passo a passo, dagli stadi più bassi ai più alti, cioè dal superficiale al profondo, dall’unilaterale al multilaterale. La pratica professionale è uno dei criteri con i quali raggiungere il senso della realtà e della verità: ovvero, l’autentica conoscenza del mondo esterno. Però, ciascuno di noi riceve la conferma della verità della propria conoscenza solo dopo che nel corso del processo esistenziale materiale ha raggiunto i risultati previsti. Se il professionista vuole riuscire nel lavoro, cioè arrivare ai risultati previsti, deve conformare le proprie idee alle leggi del mondo oggettivo esterno; in caso contrario, nella pratica, fallirà. Se fallisce, ne trarrà insegnamento, correggerà le proprie idee e le conformerà alle leggi del mondo esterno, trasformando così la sconfitta in vittoria; è questo il significato delle massime “Sbagliando s’impara” e “La sconfitta è madre del successo”. Questa teoria della conoscenza pone la pratica al primo posto; inoltre, stabilisce come la conoscenza umana non possa in nessun modo essere separata dalla pratica, e respinge tutte le idee che negano l’importanza della pratica e scindono la conoscenza dalla pratica. È stato scritto che «La pratica è superiore alla conoscenza (teorica), perché possiede non solo il pregio dell’universalità, ma anche quello dell’immediata realtà». Con questo, si sottolinea che la teoria dipende dalla pratica, che la teoria si basa sulla pratica e, a propria volta, serve la pratica (teoria-pratica-teoria, dunque). La verità di una conoscenza o di una teoria non è determinata da un giudizio soggettivo, ma dai

risultati oggettivi della pratica professionale. Ma come la conoscenza individuale nasce dalla pratica e, a propria volta, serve la pratica? Per comprenderlo, basta esaminare il processo di incremento della conoscenza. I professionisti, nel corso della propria pratica, all’inizio vedono soltanto l’aspetto fenomenico, gli aspetti singoli e i nessi esterni delle diverse cose. Per esempio, un reporter raggiunge un luogo per realizzare un servizio. Il primo o il secondo giorno, osserva la località, le strade, le case, incontra molta gente, partecipa alla vita, ascoltando discorsi di vario genere e leggendo documenti; tutto ciò rappresenta l’aspetto fenomenico, gli aspetti singoli e i nessi esterni delle cose. Questa fase del processo conoscitivo si chiama fase della percezione, cioè fase delle percezioni e delle impressioni. In altri termini, le singole osservazioni riscontrate provocano determinate percezioni, fanno sorgere una serie di impressioni collegate da un nesso approssimativo esteriore; questa è appunto la prima fase della conoscenza. In questa fase, nessuno può formarsi concetti profondi, né trarre conclusioni logiche. Il proseguire del contatto diretto porta a numerose ripetizioni degli avvenimenti che suscitano negli Uomini percezioni e impressioni, e allora si produce un subitaneo cambiamento (un salto) nel processo della conoscenza, e nasce il concetto. Il concetto non riflette più l’aspetto fenomenico, gli aspetti singoli e i nessi esterni dei fatti, ma coglie l’essenza della realtà, il suo insieme e il suo nesso interno. La differenza tra concetto e percezione non è soltanto quantitativa, ma anche qualitativa. Procedendo in questa direzione e servendosi dei metodi del giudizio e della deduzione, si può arrivare a conclusioni logiche. Quando si dice co-

munemente “Lasciatemi riflettere”, ci si riferisce al momento nel quale ciascuno di noi collega le proprie impressioni, servendosi dei concetti, per formare giudizi e trarre deduzioni. Questa è la seconda fase della conoscenza. Nell’intero processo della conoscenza, questa fase dei concetti, dei giudizi e delle deduzioni è la più importante: è la fase della conoscenza razionale. Il vero compito della conoscenza è arrivare, attraverso la percezione, al pensiero, alla graduale comprensione delle contraddizioni interne degli avvenimenti, delle leggi che regolano la vita professionale, del nesso interno tra l’uno e l’altro processo: arrivare, cioè, alla conoscenza logica. Ripetiamo: la conoscenza logica si distingue dalla conoscenza percettiva in quanto la conoscenza percettiva coglie gli aspetti singoli, fenomenici delle cose, i loro nessi esterni, mentre la conoscenza logica fa un gran passo in avanti, abbraccia l’insieme, l’essenza, il nesso interno dei fatti, porta alla scoperta delle contraddizioni interne del mondo circostante, e può così afferrarne l’incremento in tutto il proprio insieme, con il nesso interno di tutti i suoi aspetti. Capita spesso di sentir dire da un collega che non ha il coraggio di accettare un lavoro (anche se oggi, in un clima di precarietà professionale ed economica, si tende ad accettare di tutto). Perché non si sente sicuro? Perché non ha un’idea chiara e precisa del contenuto e delle condizioni di quel lavoro; non ha mai affrontato un lavoro di quel genere o l’ha affrontato di rado, e pertanto non è in grado di capire le leggi che lo regolano. Soltanto dopo che gli saranno stati spiegati dettagliatamente l’ambiente e i confini di lavoro, si sentirà più sicuro e potrà occuparsene. Se poi quel fotografo, dedicandosi per


Parliamone un certo periodo a questo lavoro, acquisterà esperienza e guarderà la Realtà con animo aperto, invece di considerare i problemi in modo soggettivo, unilaterale e superficiale, allora potrà trarre da solo le conclusioni sul modo di portarlo avanti e lavorerà con molta più risolutezza. Soltanto coloro che esaminano i problemi in modo soggettivo, unilaterale e superficiale, non appena contattano una Realtà, si mettono, con aria di sufficienza, a dare ordini e direttive senza considerare le circostanze, senza cercare di guardare le cose nel proprio insieme e senza penetrarne l’essenza. È inevitabile che questa gente inciampi e finisca per cadere... quantomeno, lo speriamo proprio. [Ancora dall’Editoriale di questo mese, a pagina sette: elaborato dagli autorevoli psicologi David Dunning e Justin Kruger, della prestigiosa Cornell University, di Ithaca, nello stato di New York, Usa, il definito Effetto Dunning-Kruger è una distorsione cognitiva a causa della quale individui poco esperti in un campo tendono a sopravvalutare le proprie abilità autovalutandosi, a torto, esperti in quel campo. Come corollario di questa teoria, spesso gli incompetenti si dimostrano estremamente supponenti. Questa distorsione viene attribuita all’incapacità metacognitiva, da parte di chi non è esperto in una materia, di riconoscere i propri limiti ed errori. Il possesso di una reale competenza, al contrario, può produrre la distorsione inversa, con un’affievolita percezione della propria competenza e una diminuzione della fiducia in se stessi, poiché gli individui competenti sarebbero portati a vedere negli altri un grado di comprensione equivalente al proprio. Testuale da David Dunning e Justin Kruger: «L’errore di valutazione dell’incompetente deriva da un giudizio errato sul proprio conto, mentre quello di chi è altamente competente deriva da un equivoco sul conto degli altri»]. Di conseguenza, il primo pas-

so nel processo della conoscenza è il contatto con gli elementi del mondo esterno: la fase della percezione. Il secondo è la sintesi dei dati forniti dalla percezione, la loro sistemazione e la loro elaborazione: la fase dei concetti, dei giudizi e delle deduzioni. Ma soltanto se i dati forniti dalla percezione sono molto ricchi (e non frammentari e incompleti) e corrispondono alla Realtà (non sono cioè frutto di un inganno dei sensi, né dipendono da successi casuali ed effimeri), è possibile, sulla loro base, elaborare giusti concetti e trarre giuste conclusioni logiche. Ci sono qui due punti importanti che bisogna mettere particolarmente in rilievo. Il primo, al quale abbiamo già accennato, ma del quale vogliamo riparlare, è il problema della dipendenza della conoscenza razionale dalla conoscenza percettiva. Chi ritiene che la conoscenza razionale possa non provenire dalla cono-

scenza percettiva è un idealista. I dati della ragione sono attendibili proprio perché hanno origine dai dati della percezione, altrimenti sarebbero come un fiume senza sorgente, come un albero senza radici, sarebbero qualcosa di soggettivo, di spontaneo, di inattendibile. Circa l’ordine nel processo della conoscenza, l’esperienza percettiva occupa il primo posto, e noi sottolineiamo l’importanza della pratica professionale, proprio perché solo questa pratica può dare origine alla conoscenza e permettere a ciascuno di ricevere dal mondo oggettivo esterno l’esperienza percettiva. Il secondo punto è la necessità di approfondire la conoscenza, la necessità di passare dalla fase della conoscenza percettiva a quella della conoscenza razionale: questa è la dialettica della teoria della conoscenza. Ritenere che la conoscenza possa fermarsi alla fase inferiore, alla fase della per-

CON GEORGES SIMENON

Ormai aveva al suo attivo centinaia di inchieste. Sapeva che quasi tutte si svolgono in due tempi e comportano due fasi diverse. All’inizio, il poliziotto deve prendere contatto con un’atmosfera nuova, con persone di cui fino al giorno prima ignorava l’esistenza, con un piccolo mondo sconvolto da un dramma. Entra in quel mondo da estraneo, da nemico. Deve scontrarsi con esseri ostili, scaltri o enigmatici. Eppure, per Maigret, quella era la fase più appassionante. Si annusa l’aria. Si va a tentoni. Non ci sono punti di riferimento, e spesso nemmeno un vero punto di partenza. Si resta a guardare la gente che si agita, e chiunque può essere il colpevole o un suo complice. All’improvviso, si afferra il bandolo della matassa, e così comincia la seconda fase. L’inchiesta si avvia. L’ingranaggio si mette in moto. Ogni passo, ogni iniziativa porta a una nuova scoperta, e quasi sempre il ritmo si fa più rapido, per poi sfociare in una brusca rivelazione. Il poliziotto non è più solo ad agire. Gli eventi lavorano per lui, quasi a prescindere dalla sua volontà. Lui deve solo seguirli, senza lasciarsi mai prendere la mano. da La balera da due soldi ; Adelphi - Le inchieste di Maigret

cezione, e che solo la conoscenza percettiva sia attendibile e non lo sia quella razionale, significa cadere nell’errore dell’empirismo. L’errore di questa teoria sta nel non ammettere che i dati della percezione, pur essendo il riflesso di certe realtà del mondo professionale esterno, sono tuttavia soltanto unilaterali e superficiali, riflettono la verità in modo incompleto e non ne rispecchiano l’essenza. Per riflettere completamente sulla totalità, per riflettere sull’essenza e le sue leggi interne, è necessario sottoporre i ricchi dati della percezione a una elaborazione: scartare il falso e conservare il vero, procedere dall’uno all’altro e dall’esterno all’interno, al fine di formare un sistema di concetti e teorie. Cioè, è necessario il salto dalla conoscenza percettiva alla conoscenza razionale. Dopo questa elaborazione, la conoscenza non diventa meno completa o meno attendibile. Al contrario, tutto ciò che nel corso del processo della conoscenza viene scientificamente elaborato sulla base della pratica riflette le realtà oggettivamente esistenti in modo più profondo, più verace, più completo. Tutto questo si deve costruire anche partendo da solide basi teoriche. La conoscenza comincia con la pratica, e la conoscenza teorica acquisita attraverso la pratica deve tornare nuovamente alla pratica. Il ruolo attivo della conoscenza non si manifesta solo nel salto dalla conoscenza percettiva a quella razionale, ma anche, e questo ha un’importanza maggiore, nel salto dalla conoscenza razionale alla pratica professionale. La teoria da sola diventa priva di oggetto se non viene collegata con la pratica professionale, esattamente allo stesso modo in cui la pratica diventa cieca se non si rischiara la strada con la teoria di partenza. La conclusione è che noi sosteniamo l’unità concreta del soggettivo e dell’oggettivo, della teoria e della pratica, del sapere e del fare, e siamo contro tutte le idee astratte, erronee, avulse dalla realtà professionale concreta. ❖

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Cinema

di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

C’ERA UNA VOLTA UN RE

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Molte e varie sono le considerazioni aggiunte al film Un re a New York (A King in New York), del 1957, scritto, diretto e interpretato da Charles Chaplin. Qui e ora, al nostro solito, ne riferiamo per siparietti fotografici in scenografia; ma, questa volta, a differenza dell’approccio abituale di rubrica a tema, la fotografia non si propone come soggetto portante, per quanto amabile, ma pretesto per considerazioni sul film e il suo dietro-le-quinte. Infatti, mai film riportato e evocato tra gli importanti del gigantesco personaggio, che, con la sua presenza, ha illuminato la Storia del Cinema, quantomeno di quello degli esordi e delle speranze di primo Novecento, rimane uno di quelli per i quali vanno spese parole di certificazione: ancora oggi, a distanza di sessant’anni abbondanti dalla propria cronaca; ancora oggi... in tempi durante i quali la velocità imposta dall’attualità social sta prescrivendo altrettanta rapidità di dialogo emozionale e istintivo, divergente dal raziocinio degli approfondimenti. Un re a New York è il primo dei due film di Charles Chaplin realizzati in Europa (il secondo è La contessa di Hong Kong / A Countess from Hong Kong, del 1967, con Sophia Loren e Marlon Brando), dove è tornato all’indomani della sua espulsione dagli Stati Uniti, nel 1952, in clima di maccartismo. Con l’occasione, ricordiamo che il maccartismo fu un periodo della storia degli Stati Uniti avviato nei primi anni Cinquanta del Novecento dal senatore repubblicano Joseph McCarthy alla ricerca e persecuzione di “influenze comuniste” nelle istituzioni del paese. Si storicizza che il maccartismo abbia avuto termine nel gennaio 1955, quando Joseph McCarthy si dimise dalla presidenza della commissione parlamentare d’inchiesta da lui creata e diretta a seguito di una mozione di censura contraria votata dal Senato. Comunque, il termine “maccartismo” è entrato nell’uso comune e nel dibattito politico per indicare, in maniera dilatata, un clima di sospetto generalizzato (ovvero, “caccia alle streghe”), determinato da un anticomunismo ottuso e, alla lunga, controproducente.

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Sessione di posa nel film Un re a New York ( A King in New York), di e con Charles Chaplin, del 1957. Interpretata dall’attrice Dawn Addams, la petulante giornalista Ann Kay impegna King Shahdov (Charles Chaplin) in una serie di ritratti (con assistente che fa capolino dietro il set).


Cinema Oltre la sessione di posa per il ritratto, autentico siparietto che ha sollecitato la nostra attenzione, una certa altra presenza della fotografia nel film Un re a New York riguarda il consueto e tradizionale assalto di fotogiornalisti in cronaca. Dato l’anno di produzione, 1957, e l’ambientazione statunitense, qui e là... abbondanza di Speed Graphic 4x5 pollici, con e senza flash a lampadina.

Ancora negli Stati Uniti, Charles Chaplin, sicuramente di pensiero progressista, ma non certo socialista o comunista, nel 1947, fu boicottato per il suo film Monsieur Verdoux, considerato “filocomunista”, e di questo e per questo accusato: fino alla successiva espulsione dal paese, già ricordata. A seguire, sull’onda lunga di questo pensiero, anche Un re a New York fu censurato negli Stati Uniti per oltre vent’anni. Di nostro, andiamo un poco sotto traccia. È l’ultimo film dove Charles Chaplin recitò come attore protagonista; è una sceneggiatura in qualche misura autobiografica, quantomeno nei contenuti, per quanto non nei fatti. Tanto che in dedica iniziale, come spesso si è usato fare nel cinema, compare un incipit che recita «Tra le più comuni seccature della vita moderna vanno annoverate le rivoluzioni» [attenzione, nel 1971, il film Giù la testa, di Sergio Leone, ambientato nella rivoluzione messicana del 1913, richiamò -in apertura di proiezione- una citazione da Mao Zedong / Mao Tze Tung, allora agli apici di certo pensiero comunista, allora trasversale e presente nella società: «La rivoluzione / non è un pranzo di gala, / non è una festa letteraria, / non è un disegno o un ricamo, / non si può fare con tanta eleganza, / con tanta serenità e delicatezza, / con tanta grazia e cortesia. / La rivoluzione è un atto di violenza»]. La trama del film è semplice, per quanto non banale. King Shahdov, un re di uno stato europeo non meglio precisato, né identificato, va in esilio volontario negli Stati Uniti d’America, che ritiene patria della libertà. Però, dal momento che scende dall’aereo, la sua vita non risulta affatto tranquilla: tra tormenti con una giornalista, il mondo della pubblicità, un bambino terribile e la Commissione per le Attività Antiamericane che lo assilla, accusa di comunismo e poi ritratta. Stanco di tutto ciò, ritorna a casa, sperando che presto, anche in America, le cose cambieranno. I siparietti fotografici in giustificazione di pubblicazione sono due: all’arrivo all’aeroporto, si registra il consueto assalto di fotogiornalisti locali; in una sessione di posa con la petulante giornalista Ann Kay, interpretata dall’attrice Dawn Addams. Niente di più. ❖

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Neologismo di Angelo Galantini

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Senza alcuna ombra di dubbio, tra i tanti neologismi che la lingua parlata e scritta inserisce periodicamente nel proprio vocabolario quotidiano, quello di “paparazzo”, a misura di una certa interpretazione della figura del fotocronista, è il più clamoroso. Non è soltanto fragoroso tra quanti se ne possono registrare, ma vale proprio l’assoluto: “il più” di tutti. Infatti, rimbomba inalterato sia nella lingua italiana, dove ha avuto origine, sia nella società planetaria tutta, dove non viene declinato, né tradotto, ma si impone nella propria dizione originaria... non più soltanto italiana ma del mondo intero, senza soluzione di continuità. Originariamente, Paparazzo è lo sfacciato fotografo del film La dolce vita, nell’interpretazione di Walter Santesso (qualcuno, per errore, combina Paparazzo con un altro dei fotografi presenti nella sceneggiatura, e non identificato da alcun nome, interpretato da Enzo Cerusico). Per mille e mille motivi, non necessariamente tutti leciti, il neologismo ha immedesimato una intera categoria, in declinazione negativa. Tra i tanti esempi che possiamo ricordare, uno sopra tutti merita ancora oggi una segnalazione particolare e specifica per la certificazione giornalistica, prima, e giudiziaria, poi, di quei fotocronisti (per l’appunto, definiti paparazzi, in spregio) che, a Parigi, la notte del 31 agosto 1997, inseguirono l’auto sulla quale viaggiava Lady Diana Spencer, moglie divorziata dell’erede al trono di Inghilterra, Charles Philip Arthur George Mountbatten-Windsor, principe del Galles, insieme al proprio compagno Dodi Al-Fayed (Emad El-Din Mohamed Abdel Moneim Fayed), che si schiantò sotto il tunnel del Pont de l’Alma. La genesi del nome Paparazzo, di forte personalità fotografica, è affascinante e merita un nostro attuale ritorno specifico e mirato. La fonte è autorevole: Ennio Flaiano, che ha firmato il soggetto di La dolce vita insieme con Federico Fellini (e Tullio Pinelli). Invitato a raccontare come si sia arrivati a delineare il personaggio di Paparazzo, Ennio Flaiano ha compiuto una disamina illuminante, raccolta nella sezione Fogli

Il 23 ottobre 1999, l’amministrazione comunale di Catanzaro ha posto una lapide in corso Mazzini 189 che testimonia il fatale incontro tra lo scrittore George Gissing e l’albergatore Coriolano Paparazzo, dal quale è nato uno dei più celebri neologismi della nostra epoca. Qui, ha oggi domicilio l’indirizzo fiscale di Cine Sud, di Francesco Mazza.

di via Veneto in La solitudine del satiro (Rizzoli Editore, 1973; e Adelphi, dal 1996). In annotazioni del giugno 1958, in tempi preparatori del film, girato di lì a poco e arrivato nelle sale cinematografiche nell’inverno 1959-60 (ufficialmente, è accreditato al 1960), Ennio Flaiano scrive: «Una società sguaiata, che esprime la sua fredda voglia di vivere più esibendosi che godendo realmente la vita, merita fotografi petulanti. Via Veneto è invasa da questi fotografi. Nel nostro film ce ne sarà uno, compagno indivisibile del protagonista. Fellini ha ben chiaro in testa il personaggio, ne conosce il modello: un reporter d’agenzia, di cui mi racconta una storia abbastanza atroce. Questo tale era stato mandato al funerale di una personalità rimasta vittima di una sciagura, per fotografare la vedova piangente;

ANTONIO BORDONI (2)

PAPARAZZO (E DINTORNI)

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ma, per una qualche distrazione, la pellicola aveva preso luce e le fotografie non erano riuscite. Il direttore d’agenzia gli disse: “Arrangiati. Tra due ore portami la vedova piangente o ti licenzio e ti faccio anche causa per danni”. Il nostro reporter si precipitò allora a casa della vedova e la trovò che era appena tornata dal cimitero, ancora in gramaglie, e vagante da una stanza all’altra, istupidita dal dolore e dalla stanchezza. Per farla breve: disse alla vedova che se non riusciva a fotografarla piangente avrebbe perso il posto e quindi la speranza di sposarsi, perché s’era fidanzato da poco. La povera signora voleva cacciarlo: figurarsi che voglia aveva di fare la commedia dopo aver pianto tanto sul serio. Ma qui il fotografo, in ginocchio, a scongiurarla di essere buona, di non rovinarlo, di piangere solo un minuto, magari di fingere!, solo il tempo di fare un’istantanea. Ci riuscì. La povera vedova, una volta presa al laccio della pietà, si fece fotografare piangente sul letto matrimoniale, sullo scrittoio del marito, nel salotto, in cucina.

«Ora dovremmo mettere a questo fotografo un nome esemplare, perché il nome giusto aiuta molto e indica che il personaggio “vivrà”. Queste affinità semantiche tra i personaggi e i loro nomi facevano la disperazione di Flaubert, che ci mise due anni a trovare il nome di Madame Bovary, Emma. Per questo fotografo non sappiamo che inventare: finché, aprendo a caso quell’aureo libretto di George Gissing che si intitola Sulle rive dello Jonio troviamo un nome prestigioso: “Paparazzo”. Il fotografo si chiamerà Paparazzo. Non saprà mai di portare l’onorato nome di un albergatore delle Calabrie, del quale Gissing parla con riconoscenza e con ammirazione. Ma i nomi hanno un loro destino». Da cui: da nome proprio, Paparazzo è diventato nome comune. A ciascuno, il suo... In proseguimento dovuto, e stiamo per approdare ad altro, in collegamento consequenziale, sempre di sapore fotografico, rileviamo prima di tutto che le note del grand tour di George Gis-

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2)

ALTRI RICHIAMI A TEMA (CIRCA)

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ARCHIVIO FOTOGRAPHIA

Neologismo Nel proprio numero datato 4 aprile 2000, l’autorevole settimanale Diario (periodico in edicola fino alla fine del settembre 2007) pubblicò una approfondita inchiesta di Mauro Francesco Minervino sul legame tra il resoconto di George Gissing e il neologismo di “paparazzo”: con lancio dalla copertina.

Le declinazioni e attribuzioni del neologismo di “paparazzo” sono infinite. Addirittura, ricordiamo anche una linea di carta per fotocopie individuata qualche anno fa negli Stati Uniti. E poi non mancano gli errori storici, come la definizione del fotografo Elliott Gould nel modesto film Il mistero della signora scomparsa (di Anthony Page, del 1979), remake di una più sofisticata commedia di Alfred Hitchcock (La signora scompare / The Lady Vanishes, del 1938): viene appellato “paparazzo” in una vicenda ambientata nel 1939, vent’anni prima della Dolce vita, di Federico Fellini. Arrivando a una sostanziale attualità, va quindi segnalato il bimestrale brasiliano di fotografia d’arte Paparazzi, appunto. Pubblicata da Paparazzi Estúdio Fotográfico di San Paolo, la rivista si occupa delle espressioni artistiche che si basano sull’uso dell’immagine in proiezione presente-futuribile: molta sperimentazione e altrettanta avanguardia fotografica. Dopo di che, un ulteriore passo indietro per ricordare la copertina dello speciale di Newsweek, del 5 gennaio 1998, sulla quale un impacciato Babbo Natale viene colto in flagrante, all’uscita da un camino, da una schiera di... Paparazzi!!. E tanto altro ancora!

sing, al Sud d’Italia, sono più correttamente titolate Sulla riva dello Jonio, al singolare, per quanto alcune edizioni le declinino al plurale, come da citazione di Ennio Flaiano: Sulle rive dello Jonio. In ogni caso, tante e diverse le edizioni (in originale, By the Ionian Sea. Notes of a Ramble in Southern Italy; 1901 / in titolo completo Sulla riva dello Jonio. Appunti di un viaggio nell’Italia meridionale: prima edizione italiana, 1957). Da qui, il passaggio in questione. Nel tredicesimo capitolo, La cima ventosa, riferendosi al proprio soggiorno a Catanzaro, ospite dell’Albergo Centrale, George Gissing scrive: «L’albergo mi offriva poco svago dopo la Concordia di Crotone, ma non mancava di elementi caratteristici. Per esempio, trovai nella mia camera un avviso stampato che faceva appello, in termini molto espressivi, a tutti gli occupanti della stanza. Il proprietario -così stava scritto- aveva saputo, con grandissimo dispiacere, che certi viaggiatori che dormivano sotto il suo tetto avevano l’abitudine di consumare i loro pasti in altri ristoranti. Egli desiderava render noto che tale comportamento non solo feriva i suoi sentimenti personali -tocca il suo morale- ma danneggiava la reputazione del suo albergo. Assicurando tutti che avrebbe fatto del suo meglio per conservare un alto livello di perfezione culinaria, il proprietario concludeva pregando i rispettabili clienti di concedere i loro favori al ristorante dell’albergo si onorava pregare i suoi rispettabili clienti perché vogliano benignarsi il ristorante; e quindi si firmava: Coriolano Paparazzo». Eccolo qui! Ora, in aggiornamento temporale, rileviamo che l’Albergo Centrale stava al civico centottantanove di corso Mazzini, a Catanzaro. L’edificio c’è ancora: al piano terra ci sono locali che Cine Sud, fotonegoziante di riferimento nazionale, ha utilizzato, negli anni, per la vendita e per esposizioni. Al momento, è in nuce un’attività fotografica identificata in Galleria Coriolano Paparazzo. In ogni caso, corso Mazzini 189, a Catanzaro, è sede legale dell’attività commerciale creata e guidata da Francesco Mazza [Sguardo su, di Pino Bertelli, in FOTOgraphia, del dicembre 2016]. Corsi e ricorsi della Storia. Per quanto ci riguarda, sempre in chiave fotografica: originaria e con audacia di visione e collegamento. ❖



In cofanetto di Antonio Bordoni

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POLARNOGRAPHY

Stagioni passate, in tempi non sospetti, siamo stati grandi estimatori della fotografia del giapponese Nobuyoshi Araki. Tanto è vero che, alla fine degli anni Novanta del Novecento, acquistammo la serie dei venti volumi The Works of Nobuyoshi Araki, pubblicati tra il 1996 e 1997. Quindi, altri titoli, alcuni anche italiani, si sono aggiunti a questi sul ripiano della nostra libreria a lui riservato. Con il passare del tempo, l’ammirazione originaria si è sensibilmente affievolita, alla luce di una ripetitività espressiva che abbiamo finito per considerare eccessiva e, perfino, stucchevole. Non tanto per il suo accanimento nell’introspezione sessuale ed erotica, che non ci turba più di tanto, ma proprio per la monotonia visiva del passo fotografico sistematicamente replicato... a onor di mercato. Ciò non toglie che Nobuyoshi Araki sia a tutti gli effetti esponente di spicco della fotografia contemporanea, per quanto la sua fotografia ci paia troppo assoggettata alle convenzioni mercantili, galleristiche e dintorni: tanto da aver perso per strada l’approccio originario in passo di “rottura” da qualsivoglia intesa preconcetta e preconfezionata. Ma, comunque... Ma la nostra opinione vale niente. È stata riportata soltanto in onore di chiarezza, in dovere di franchezza. Oppure, e fa lo stesso, sia intesa come misura dell’attuale ulteriore ripensamento sull’autore, che, con l’edizione di Polarnography, a cura di Filippo Maggia, riprende un ritmo che ci era sembrato smarrito da tempo. Certo, la concentrazione è ribadita da un progetto edificato su immagini erotiche -richiamate nel titolo-, questa volta in combinazione visiva inedita. Eccellente edizione libraria, in questo caso con moderato scarto di significato (rispetto al libro in quanto tale), questo box set offre e propone cento polaroid di Nobuyoshi Araki, realizzate nel 2016, in convincente facsimile del contenitore originario delle opere. Alla maniera di altre proposte editoriali dei nostri giorni, siamo al cospetto di un pregiato oggetto da collezione.

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Nobuyoshi Araki: Polarnography; a cura di Filippo Maggia; edizione in italiano e inglese; Skira, 2018. 100 fotografie sciolte 8,7x10,8cm, in scatola 9x11,5x6,5cm, contenuta in confezione 29x35,5x6,8cm in tela e acetato; 89,00 euro.


In cofanetto In accostamento e unione, queste affascinanti polaroid combinano ritratti di donne e squarci di cielo, che si dividono equamente lo spazio secondo un abbinamento ricercato, ovviamente mai casuale. Così che i discussi nudi di donne giapponesi legate secondo le norme kinbaku (disciplina giapponese che consiste nel legare una persona in un contesto erotico), che l’hanno reso famoso in tutto il mondo, si presentano oggi in uno svolgimento visivo, ovvero fotografico, nel quale donna e cielo convivono nel tradizionale quadrato polaroid, fino a completarsi l’una nell’altro, nelle forme come nei colori: cento combinazioni per altrettante opere. Riferita così, come è inevitabile fare, in adempimento formale di mandato, la vicenda rischia di esaurirsi in se stessa e nel proprio “giochino” formale. Invece, sia chiaro, che questa interpretazione di Nobuyoshi Araki non è soltanto apparenza esteriore e superficiale, ma sottintende una intenzione espressiva in profondità. Autore cosciente e scrupoloso (artista?), anche in questo attuale suo agire, Nobuyoshi Araki applica una grammatica-linguaggio che manifesta una straordinaria combinazione di regole logiche e acquisite (relative soprattutto alla costruzione compositiva) e usi arbitrari, che scandiscono un tempo e ritmo che accompagnano l’osservazione, invitandola ad allineare l’irrazionale con il razionale, e viceversa: dalla mente al cuore, ma anche dal cuore alla mente. Prima ancora di aver realizzato ognuno dei suoi scatti, averli pensati o sognati, anche per un solo istante, l’autore è diverso da tutti coloro che hanno guardato (non visto) le medesime situazioni. Per sempre. Perché va detto. Nessuno di questi soggetti raffigura necessariamente se stesso (anche se, poi, lo fa in termini utilitaristici): ognuno rappresenta qualcosa d’altro e di diverso, sia preso da solo, sia inserito nella magistrale combinazione di tante immagini, una accanto all’altra, una dietro l’altra. Non sono donne e cieli, ma “fotografie di donne e cieli”: tra la realtà e la loro raffigurazione ci sta la mediazione di un autore, che risponde a una propria cultura ed esperienza esistenziale, che mette cortesemente a disposizione. Fotografia d’autore... ci piaccia o meno che così sia. ❖

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di Maurizio Rebuzzini

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ichiamo d’obbligo a quanto rilevato, nove anni fa, nel febbraio 2010, in occasione della presentazione dell’autorevole Calendario Epson 2010, firmato dall’italiano Vittorio Storaro, che ha illuminato la Storia del Cinema con la sua eccezionale e unica direzione della fotografia: che, tra tanto altro, gli è valsa tre premi Oscar, per i film epici Apocalypse Now (guerra in Vietnam), di Francis Ford Coppola, del 1979, Reds (Rivoluzione d’Ottobre), di Warren Beatty, del 1981, e L’ultimo imperatore (biografia di Pu Yi, alla vigilia della trasformazione epocale

della Cina), del compianto regista italiano Bernardo Bertolucci, scomparso lo scorso ventisei novembre. In quella occasione, in somma di riflessioni, furono menzionati i primi tre volumi della collana di monografie Scrivere con la Luce, che lo stesso Vittorio Storaro identifica ben oltre la sola edizione libraria. Testuale: «Scrivere con la Luce non è soltanto una collana di libri, ma un progetto di vita. La definirei l’enciclopedia di un visionario, di un ricercatore, di chi ha studiato quanto filosofi, scienziati, pittori, artisti di tutto il mondo hanno speso in ricerca intorno al mistero della visione. Ogni libro è un insieme di pensieri filosofici, scritti, dipinti e immagini fotografiche in doppia

Vittorio Storaro e Antinoo.

UN’ALTRA LUCE Nove anni fa, alla sua decima edizione, il Calendario Epson 2010 scartò un poco a lato, ma neppure troppo, l’idea canonica di “fotografia”, affidandosi a Vittorio Storaro, che ne declina i princìpi linguistici nel cinema d’autore. In quella lontana occasione, esprimemmo considerazioni di merito assoluto che confermano quanto e come la Fotografia -comunque ciascuno di noi la intenda e frequenti- non sia mai un approdo, ma un fantastico, appagante e privilegiato s-punto di partenza. Torniamo su quelle valutazioni, in aggiornamento temporale, alla luce del quarto volume di una collana di monografie a tema, che scandiscono un autentico progetto di Vita approfondendo il motivo conduttore di una esperienza e proposizione. Per l’appunto, Scrivere con la Luce... che è effettiva comunicazione visiva

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Apocalypse Now Redux, di Francis Ford Coppola; 1979.

Anonimo / Vittorio Storaro: Tersicore.

esposizione, frutto di cinquant’anni da autodidatta e da professionista... in pratica, da eterno studente».

TRE PRIMI CAPITOLI Per nostro conto, censimmo i primi tre passi filosofici di Scrivere con la Luce, che Vittorio Storaro ha pubblicato con Electa. In rilettura e ripetizione: «Il primo si intitola La Luce (2001): è dedicato a film nei quali l’autore ha lavorato, da Giovinezza giovinezza, di Franco Rossi (1969), a Apocalypse Now, di Francis Ford Coppola (1979). Per spiegare il suo modo di creare e gestire la luce, a immagini tratte dai film, Vittorio Storaro accosta dipinti di artisti che sono stati significativi per

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il suo lavoro, da Botticelli a Caravaggio, da Mantegna a Pellizza da Volpedo, da Balthus a Rousseau. «Nel secondo volume, I Colori (2002), l’autore afferma [appena riportato, e in ripetizione]: “Scrivere con la Luce non è solo un libro, ma il progetto di una vita. Una enciclopedia di un visionario, un ricercatore, uno studioso di quanto hanno speso in ricerca intorno al mistero della visione filosofi, pittori e scienziati di tutto il mondo”». «Il terzo volume, Gli Elementi (2003), conclude la trilogia [che, ora, prosegue con il titolo odierno, e procederà ancora con altri due capitoli], ed è dedicato al tema degli elementi naturali della vita: acqua, fuoco, terra, aria, femminile, maschile, conscio e inconscio, materia,


Ho solo fatto a pezzi mia moglie, di Alfonso Arau; 2000.

La Traviata a Paris, di Giuseppe Patroni Griffi; 2000.

Flamenco, di Carlos Saura; 1995.

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energia. Ogni elemento è introdotto da uno scritto di Vittorio Storaro, che si intreccia con idee di importanti filosofi, illustrate da dipinti e immagini da film». A proposito della creatività di Vittorio Storaro, che ora stiamo per incontrare alla luce del quarto sostanzioso capitolo di Scrivere con la Luce / 4. Le Muse, di ben trecentosettantasei pagine ampiamente illustrate da cinquecento cinquanta immagini, pubblicato da Rizzoli Illustrati, che annuncia già il successivo completamento con altre due monografie risolutive -I Visionari e I Profeti-, ancora dal febbraio 2010, in recensione del Calendario Epson 2010, reiteriamo un incipit in citazione di poesia, con il quale l’autore di quel testo, Lello Piazza, Frank Herbert’s Dune; 1992.

Anonimo / Vittorio Storaro: Erato.

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invitava a riflettere sui poteri divinatori di versi che si possono facilmente verificare in una infinità di momenti della vita di oggi, momenti che rivelano, più o meno potentemente, il declino della nostra civiltà. Dal Christmas Oratorio, di Wystan Hugh Auden, pubblicato nel 1944 nella collezione di poesie For the Time Being: «La Ragione sarà sostituita dalla Rivelazione [...]. La conoscenza degenererà in un tumulto di visioni soggettive - sensazioni viscerali indotte dalla denutrizione, immagini angeliche suscitate dalla febbre o dalle droghe, sogni premonitori ispirati dallo scroscio di una cascata. Compiute cosmogonie nasceranno da dimenticati rancori personali, intere epopee saranno scritte


in idiomi privati, gli scarabocchi dei bambini innalzati al di sopra dei più grandi capolavori».

CAPITOLO 4. LE MUSE Come sottolineato, con l’attuale quarto capitolo dedicato alle Muse, Vittorio Storaro prosegue il progetto editoriale Scrivere con la Luce, attraverso il quale sta esprimendo la sua personale interpretazione filosofica e visiva dell’universo Immagine. Come specificato nel titolo di monografia, le riflessioni su fonti iconografiche e letterarie che hanno ispirato il suo lavoro scandiscono il ritmo delle Muse: figure della mitologia classica, figlie di Zeus, Mnemosine (figlia di Urano, il Cielo, e Gea, la

Terra), protettrici delle arti, del canto, della danza e della poesia, sono sempre invocate dagli artisti quali ispiratrici della propria vena creativa. Così è anche per Vittorio Storaro, che, film dopo film, dedica alle proprie muse ispiratrici riflessioni e considerazioni originali. Mantenendo la cadenza già scandita dei precedenti titoli della collana, anche questo volume è concepito, scritto e disegnato in prima persona da Vittorio Storaro, con una apparato fotografico di coinvolgente impatto visivo, composto da sovrapposizioni, dissolvenze ed effetti cromatici realizzati con l’attenzione della tecnica del sandwich: diapositive realizzate con le (antiche) tecniche analogiche, o con l’esposizione multipla di una Bulworth - Il senatore, di Warren Beatty; 1998.

Anonimo / Vittorio Storaro: Euterpe.

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Vittorio Storaro: Scrivere con la Luce / 4. Le Muse. Rizzoli Illustrati, 2018; 550 illustrazioni; 376 pagine 29x29cm, cartonato; 99,00 euro.

Taxi, di Carlo Saura; 1996.

Anonimo / Vittorio Storaro: Aurea.

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pellicola inserita più volte nella macchina fotografica. Vittorio Storaro ha compilato didascalie dettagliate per ciascuna di queste immagini: ciascuna immagine trae ispirazione da una scena di un’opera filmica realizzata. Da qui, quindi, la modulazione filologica delle tre sostanziose suddivisioni tematiche, con propri paragrafi di identità: Le mie Muse ispiratrici; Le Muse; Film. Rispettivamente in ulteriori scomposizioni identificative, in questa intonazione collegata: Calliope. Il concepimento - Il Nero / Calliope è la Leggenda; Melpomene. La nascita - Il Rosso / Melpomene è la Tragedia; Tersicore. La fanciullezza - L’Arancio / Tersicore è la Danza; Polimnia. La consapevolezza - Il Giallo /

Polimnia è l’Eloquenza; Clio. La riflessione - Il Grigio / Clio è la Storia; Erato. La conoscenza - Il Verde / Erato è la Fama; Euterpe. La concentrazione - L’Azzurro / Euterpe è la Musica; Talia. La crescita - L’Indaco / Talia è la Commedia; Urania. La maturità - Il Violetto / Urania è la Metafisica; Aurea. L’equilibrio Il Bianco / Aurea è l’Immaginazione. Per concludere con Film: in passi di Flamenco, Taxi, Bulworth, Tango, Mirka, Goya In Bordeaux, Ho solo fatto a pezzi mia moglie, Frank Herbert’s Dune, La Traviata a Paris e Apocalypse Now Redux. Immancabilmente, Scrivere con la Luce... secondo Vittorio Storaro. ❖



SIRENE «Mi sono spudoratamente ispirata ai miti e alle leggende di tutte le culture e di tutte le epoche. Nei giorni in cui fotografo le onde, il mare è bellissimo, ma anche terrificante. Mi sento del tutto insignificante, eppure completamente infatuata da questi incontri con la natura selvaggia, ed è quello che cerco di comunicare nelle mie fotografie»: questo annota Rachael Talibart a proposito delle sue onde marine. Da qui, o per approdare a qui -cambiando l’ordine dei fattori il risultato non cambia-, riflessioni in presentazione e commento



di Lello Piazza onfessione d’obbligo... in sapore anagrafico. La fotografia mi ha coinvolto in un vero e proprio love affair più di sessant’anni fa. Nei primi anni di questi sessanta, iniziammo a giocare insieme. Quando avevo circa otto anni, mio papà cominciò a lasciarmi provare a usare la sua Rolleiflex biottica (il cambio pellicola era difficilissimo per me bambino [ma lo è sempre stato, anche per gli adulti; richiamo esplicito in FOTOgraphia, del giugno 2010, a margine della Rolleiflex di Diane Arbus, nel film biografico Fur : «Chi ha vissuto questa esperienza è consapevole di individuate difficoltà di caricamento, sostanzialmente estranee alle facilitazioni di altri sistemi fotografici, rivolti al grande pubblico»]), e la sua Contaflex (molto più facile da usare). Poi, mi introdusse alla magica atmosfera della camera oscura, dove usavamo un ingranditore Durst 609. Più tardi, l’affair è diventato professionale. Per lei, ho trascurato la matematica e la proba-

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bilità, vera fonte di sostentamento economico. Grazie a lei, ho visto fotografie che voi umani neanche... Ciononostante, non manca mai di sorprendermi, di proporre nuovi spunti. Molte sorprese vengono dalle chiacchierate quotidiane che ho il privilegio, la fortuna e il piacere di condividere con Maurizio Rebuzzini, direttore di questa rivista [pardon]. Preamboli a parte, vengo al tema di questo servizio: forme di onde marine congelate con un duemillesimo di secondo. Tempo fa, durante i lavori di una giuria, mentre valutavo uno scatto di Rachael Talibart, che rappresentava -appunto- un’onda congelata in un breve attimo di otturazione, come un duemillesimo di secondo, mi venne in mente questo verso dal Faust, di Goethe: «Fermati attimo / perché sei bello» (nella versione originale Werd ich zum Augenblicke sagen: / Verweile doch! du bist so schön! - Faust, Studio II; in traduzione più precisa: «Se io dovessi dire all’attimo: / fermati, sei così bello!»). Ho riflettuto: quale altro strumento al mondo può realizzare il sogno di Faust, quale altro strumento che non sia una macchina fotografica?... a rendere per-


manente alla vista la struggente nostalgia nei confronti degli istanti felici che, in apparenza, corrono via trascinati dal tempo e scompaiono chissà dove, come se fossero perduti per sempre. Adesso, non tiratemi per le gambe, o per qualcosa di più fragile. Ovviamente, la mia è certo una delle tante scoperte dell’acqua calda! Basta pensare alla fotografia stroboscopica di Harold Eugene Edgerton, che è riuscito a fermare/congelare addirittura un proiettile di pistola che attraversa una carta da gioco. Altro che la cattura dell’attimo offerta da Mefistofele a Faust! Non sono tanti i fotografi che si sono occupati di onde. Ripesco dalla mia libreria Il Libro delle Onde. Forma e bellezza dell’oceano, con fotografie di tanti autori, accompagnate da un mirabile testo di Drew Kampion (Garzanti; 1989), nel quale sono raccolte molte immagini di onde, per l’appunto. Fotografie di questo genere sono per lo più scattate da surfisti statunitensi, magari con una macchina fotografica impermeabilizzata assicurata a una cintura che gira intorno alla testa, una specie di struttura tipo le lampade degli speleologi, dove invece della

torcia c’è la macchina fotografica. Gli autori hanno nomi esclusi dalla Storia della Fotografia: Warren Bolster, Woody Woodworth, Mike Moir, Denjiro Sato. Proprio quest’ultimo è l’autore dell’immagine del libro che più assomiglia alle opere di Rachael Talibart, qui e oggi in passerella. Nella monografia, questa immagine è accompagnata da una didascalia che riprende versi tratti dalla poesia L’Onda (in Alcyone, raccolta di liriche di Gabriele D’Annunzio, del 1903): «Altra onda s’alza, / nel suo nascimento / più lene / che ventre virginale! / Palpita, sale, / si gonfia, s’incurva, / s’alluma, propende. / Il dorso ampio splende / come cristallo; / la cima leggiera / s’arruffa / come criniera / nivea di cavallo. / Il vento la scavezza. / L’onda si spezza, / precipita nel cavo / del solco sonora; / spumeggia, biancheggia, [...]». E, poi, non ignoro le due raccolte LuceMare e Luce, Colore, Emozione, del 1982 e 2009 (anche in edizione Calendario Epson 2001, il primo di una cadenza che si è allungata avanti negli anni), di Giorgio Lotti: mirabili esempi di visioni d’acqua, semplifichiamola così, sulla quale la luce disegna astrazioni oniriche.

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Nel concreto odierno, la serie di fotografie di onde che proponiamo rappresenta una selezione ridotta, per quanto significativa, da un progetto più ampio che la brava Rachael Talibart ha cominciato nel 2016 e che tuttora implementa. Un portfolio estratto da questo lavoro ha partecipato al Sony World Photography Awards 2018; un’opera è stata selezionata per le finali nel settore professionale, categoria Landscape (paesaggio) e l’insieme delle immagini fa parte della mostra circolante che ha girato (e gira) il mondo per far conoscere e promuovere il Concorso. È un lavoro speciale che richiede una grande passione per il mare. Immaginando le onde ritratte in queste immagini come attimi vaganti sopra il mare, l’autrice aspetta l’attimo giusto, l’attimo bello... per fermarlo: una operazione magica, che -ai tempi di Faust- poteva compiere solo Mefistofele. Ho chiesto a Rachael Talibart dettagli sul suo modo di agire. Prima dell’incontro, mi ero convinto che scattasse da una imbarcazione utilizzata per andare in mezzo al mare tempestoso e avvicinarsi alle creste spumeggianti dei marosi. Ma mi chiedevo

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come avrebbe potuto scattare in quelle condizioni. Lei mi ha spiegato che non si trovava in mezzo al mare per fotografare, ma si trovava su un molo del porto di Newhaven, nell’East Sussex, nell’Inghilterra meridionale, davanti al mare in tempesta; in particolare, della tempesta Imogen che, nel febbraio 2016, ha colpito la Bretagna e il sud dell’Inghilterra con onde alte fino a quindici metri. Nelle numerose interviste sollecitate dalla bellezza delle immagini, Rachael Talibart racconta che ha trascorso parte della sua prima infanzia in mare. Ciò le ha trasmesso una fascinazione irresistibile per l’oceano in tutte le proprie forme e manifestazioni, ma soprattutto per le situazioni di tempesta. Stava spesso male, a bordo, ma le sue letture di mitologia trasformavano il malessere in eccitazione e le acque del mare in personaggi mostruosi e in gigantesche creature mitologiche. Una specie di amore e odio, il nec tecum nec sine te di Ovidio [né con te, né senza di te], o il vorrei e non vorrei della Zerlina del Don Giovanni mozartiano, una incertezza tipica dei ragazzini. Ma, udite udite, Rachael Talibart comincia la propria carriera


come avvocato, nella City di Londra. In genere, una professione ben pagata. Ma le sterline valgono meno della professione di fotografo, dell’amore per la natura e il paesaggio. Una giornata su una spiaggia deserta rappresenta qualcosa di impagabile. Le sue fotografie sono pubblicate su libri e riviste, sono state esposte nel Regno Unito, a Barcellona e a New York, sono entrate in collezioni private. Vende stampe fine art e organizza workshop, Tutte le informazioni a riguardo possono essere trovate sui siti www.rachaeltalibart.com e http://f11workshops. com/; oppure su Instagram: www.instagram.com/rachaeltalibart/. Lo scorso 2018, la rivista inglese B&W Photography Magazine (www.bandwmag.com/) l’ha eletta Black & White Photographer of the Year. Alcune delle fotografie di onde di Rachael Talibart sono raccolte nella seducente monografia Sirens: sessantaquattro pagine 29,5x24cm, cartonato; quaranta illustrazioni; edizione Triplekite, 2018; in inglese; prezzo Amazon.it 30,63 euro. «Mi sono spudoratamente ispirata ai miti e alle leggende di

tutte le culture e di tutte le epoche. Nei giorni in cui fotografo le onde, il mare è bellissimo, ma anche terrificante. Mi sento del tutto insignificante, eppure completamente infatuata da questi incontri con la natura selvaggia, ed è quello che cerco di comunicare nelle mie fotografie». ❖ Post Scriptum uno: il concorso nel quale, come giurato, ho esaminato la fotografia di Rachael Talibart intitolata Medusa [a pagina 26], era l’edizione 2018 del Sipa (Siena International Photography Awards), dove la fotografa britannica è stata giudicata Remarkable nella categoria La bellezza della natura. Le altre immagini presenti in queste pagine provengono dal Sony World Photography Awards 2018 (www.worldphoto.org). Post Scriptum due: un altro grande fotografo di onde, il cui lavoro ho scoperto come giurato nell’Oasis Photo Contest 2017, quindi un anno prima di vedere quello di Rachael Talibart, è Roy Collins (www.raycollinsphoto.com).

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GENTLEMEN OF BACONGO di Gigliola Foschi

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GENTLEMEN

OF

BACONGO (TROLLEY BOOKS, 2009)

ll’Africa e alla sua moda di strada, Daniele Tamagni (Milano, 1975-2017) ha dedicato un periodo fondamentale della sua vita e della propria ricerca artistica, come dimostrano le sue recenti monografie fotografiche Global style battles. Modes et sud cultures urbaines (La Decouverte, 2015 / con edizione coeva, in inglese: Fashion Tribes. Global Street Style; Abrams, 2015), Mtindo. Style Movers Rebranding Africa (Skira, 2017) e -soprattutto- Gentlemen of Bacongo (Trolley Books, 2009): raccolta, questa ultima -in ordine di esposizione, e prima in edizione- che ha fatto conoscere nel mondo i sapeurs congolesi, e che gli ha fatto vincere l’ICP Infinity Award per la categoria Applied/Fashion/Advertising Photography (New York, 2010) [attenzione, quindi, che in ulteriori edizioni della stessa monografia, tra le quali va menzionata quella giapponese, del 2016, pubblicata da Seigensha Art Publishing, il richiamo Sapeurs è incluso nel titolo, a certificazione di senso e valore]. (continua a pagina 37)

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Nel senso dell’importanza di sentirsi eleganti. Avvincente visione di Daniele Tamagni (19752017) su un fenomeno che, in Congo, è nato come forma di opposizione politica e culturale alla dittatura del generale Mobutu, per affermarsi come stile di vita e distinzione socioculturale. Sguardo di un amico partecipe alla vita di una comunitĂ ; atteggiamento di una persona capace di condividere i vissuti altrui. Queste fotografie, cariche di energia ed empatia, raccontano la moda di strada dei sapeurs congolesi: persone comuni, di Brazzaville e Kinshasa, che reinventano la moda occidentale nel nome del colore e del portamento

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UNA VITA BREVE

Nel 2009, Daniele Tamagni (Milano, 1975-2017) pubblica la monografia fotografica Gentlemen of Bacongo, dedicata ai Sapeurs congolesi. L’edizione è premiata a New York, nel 2010, con l’ICP Infinity Award per la categoria Applied/Fashion/Advertising Photography, e ispira la collezione primavera-estate 2010 dello stilista inglese Paul Smith. Nel 2012, realizza il videoclip della cantautrice statunitense Solange Knowles, ambientato tra i Sapeurs. Nel 2018, intervistata da Esquire, la stilista Stella Jean ha definito Gentlemen of Bacongo il libro più importante per la sua formazione.

Al World Press Photo 2011, Daniele Tamagni è secondo nella categoria Arts and Entertainment, con un servizio sulle cholitas, le “lottatrici di wrestling” di La Paz, in Bolivia [FOTOgraphia, marzo 2011]. Nel 2105, pubblica Global style battles. Modes et sud cultures urbaines (La Decouverte, 2015 / con edizione coeva, in inglese: Fashion Tribes. Global Street Style; Abrams, 2015); nel 2017, Mtindo. Style Movers Rebranding Africa (Skira, 2017). Nello stesso 2017, alla Galleria del Cembalo, di Roma, viene allestita la mostra personale Another Look. Sguardi e stili di un Africa in movimento, a cura di Giovanna Fazzuoli.

(continua da pagina 32) In controtendenza e in anticipo sui tempi, con Gentlemen of Bacongo, Daniele Tamagni racconta la vitalità e creatività dell’Africa. E lo fa con lo sguardo di un amico partecipe alla vita di una comunità, con l’atteggiamento di una persona capace di condividere i vissuti altrui. Le sue fotografie, cariche di energia ed empatia, raccontano la moda di strada dei sapeurs congolesi: persone comuni, di Brazzaville e Kinshasa, che reinventano la moda occidentale nel nome del colore e del portamento. Uomini capaci di trasformare il proprio eccentrico e talvolta lussuoso modo di vestire in un gesto di speranza e gioia di vivere in un paese complesso e spesso difficile. In Congo [Repubblica Democratica del Congo], l’eleganza s’identifica, infatti, con la Sape (Société des Ambienceurs et des Personnes Élégantes / Società delle persone creatrici di atmosfera ed eleganti): fenomeno sociale nato nel quartiere di Bacongo, nella capitale Brazzaville, ancora in epoca coloniale, e poi diffuso a Kinshasa, come forma di opposizione politica e culturale alla dittatura del generale Mobutu [Mobutu Sese Seko Kuku Ngbendu Wa Zabanga], che, in nome di un ritorno obbligatorio “all’autenticità congolese”, aveva anche vietato di vestirsi all’occidentale. Per i sapeurs, essere super-eleganti, vestiti letteralmente dalla testa ai piedi con cappelli, abiti e scarpe di noti stilisti francesi e italiani, diventa un gesto di libertà e un’arte di vivere, che si esprime attraverso il corpo e lo stile. Ma è anche un modo per suscitare rispetto e ammirazione tra la gente del quartiere o ovunque siano chiamati a esibirsi coi loro tipici passi danzanti e le loro pose studiate e fantasiose. Daniele Tamagni ha raccontato questo movimento ricco di contraddizioni e paradossi, dove persone semplici, che spendono fortune per abbigliarsi, vivono in quartieri poveri, ma sono vestite in modo eccentrico e raffinato. Le sue inquadrature sanno isolare dettagli, colgono gesti ed espressioni; riescono a evidenziare la relazione tra le persone e gli ambienti nei quali vivono, fino a costruire una narrazione che ha il ritmo intenso della rumba congolese. Lui non racconta i sapeurs con lo sguardo di un antropologo o di una persona esterna, per quanto di fiducia, ma diventa un po’ come un sapeur... immedesimandosi. La sua non è una semplice osservazione partecipe, ma qualcosa di più: una partecipazione osservante. Queste fotografie non sono “rubate”, non “colgono di sorpresa” nessuno, perché nascono da un gioco combinato insieme, privo di giudizi e pregiudizi. Intime e forti, le immagini di Daniele Tamagni scompaginano le carte di una logica fotografica basata sulla differenza tra osservatore e osservato, tra chi guarda e chi è visto. Nascono da un terreno di esperienza basato sull’incontro reciproco, sorgono da un desiderio di conoscenza che è autentico co-sentire, capacità di mettersi in gioco e accogliere la voce degli altri per amplificarla e tradurla in immagini. ❖

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Tra i propri compiti istituzionali, l’autorevole associazione di categoria TIPA (Technical Image Press Association), formata da trenta accreditate e qualificate riviste di fotografia del mondo, ha anche quello di giudicare, anno dopo anno, i migliori prodotti presentati sul mercato nei mesi della stagione immediatamente precedente. Da cui, a livello planetario, con rispettive proiezioni nazionali -ce lo auguriamo vivamente-, i quaranta TIPA Awards rappresentano una prestigiosa, competente e influente osservazione del comparto tecnico-commerciale alla luce delle evoluzioni tecnologiche che si susseguono sugli scaffali di vendita. Dall’avvento dell’acquisizione e gestione digitale delle immagini, immediatamente seguente (e conseguente?) i decenni di fotografia chimica, con materiali fotosensibili, questa crescita si è rivelata sempre più rapida e incessante. Tanto che la suddivisione in categorie impone sempre nuove interpretazioni e segnalazioni. Ecco qui, i TIPA Awards 2019... in presentazione e commento

TECNOLOGIA INFLUENTE C di Antonio Bordoni

ompetente e influente osservazione del mercato fotografico, in concentrazione e scansione sulla tecnologia in stretta attualità, anno dopo anno, i TIPA Awards individuano e segnalano le migliori soluzioni operative approdate al commercio nella stagione di riferimento temporale: in cronaca, presentiamo e commentiamo l’edizione presente dei TIPA Awards 2019, scanditi al ritmo e cadenza di quaranta premi di categoria. Già... quaranta. Ne abbiamo già scritto, in occasioni precedenti a questa odierna, e non serve ripetere: la quantità di attribuzioni non va a scapito della loro qualità, per quanto ci siano categorie complementari che potrebbero essere ormai accantonate.

Lo rileviamo soprattutto alla luce di questa attuale edizione TIPA Awards 2019, nell’ambito della quale la suddivisione ragionata e minuziosa del comparto fotografico portante, quello delle macchine fotografiche (con allungo video), comunque vengano identificate e definite, cadenza ben dodici attribuzioni ufficiali, alle quali altre se ne debbono aggiungere, sia per conseguenza diretta, sia per affinità. Contiamole, mantenendo l’ordine formale di presentazione. Eccoci qui, migliore reflex (Nikon D3500), migliore APS-C Advanced (Fujifilm X-T30), migliore APS-C Expert (Sony 6400), migliore MFT Professional (Olympus OM-D E-MIX), migliore Full Frame (Canon Eos RP), migliore Full Frame Expert (Nikon Z6), migliore Full Frame Professional (Nikon Z7), migliore Full Frame Photo/Video (continua a pagina 46)

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TECHNICAL

TIPA IMAGE PRESS ASSOCIATION

Fortemente voluta da Juan Varela, allora editore e direttore del mensile spagnolo FV / Foto-Video Actualidad, e subito sostenuta da altri giornalisti europei (tra i quali, sopra tutti, Giulio Forti, editore e direttore di Fotografia Reflex, che -purtroppo- ha cessato le proprie pubblicazioni nell’autunno 2016), TIPA è un’associazione internazionale di riviste di fotografia nata nel 1991 (per ovvi motivi di avvio, FOTOgraphia ne fa parte dal 1995); attualmente, è presieduta da Thomas Gerwers, editore e direttore del prestigioso mensile tedesco ProfiFoto. Per un lungo periodo, la Technical Image Press Association ha riunito riviste europee; da qualche stagione, i confini si sono allargati a tutto il mondo, e attualmente sono comprese riviste in rappresentanza di quattro continenti (con adesione del Camera Journal Press Club of Japan). Istituzionalmente, oltre proprie vicende interne, che risolvono e assolvono la sistematica informazione e formazione dei propri membri, ogni anno, la competente TIPA - Technical Image Press Association assegna i propri prestigiosi, ambìti e autorevoli TIPA Awards (Premi TIPA), conferiti ai migliori prodotti fotografici introdotti sul mercato nella stagione in corso.

In attualità, anche di intenti, la Technical Image Press Association (TIPA) è formata da trenta riviste planetarie di fotografia, di quattordici paesi, in quattro continenti; in rigoroso alfabetico, per nazioni: Camera (Australia); Fhox (Brasile); Photo Life e Photo Solution (Canada); Chinese Photography e Popular Photography (Cina); Fisheye e Réponses Photo (Francia); digit!, Foto Hits Magazin, Inpho Imaging & Business, Photo Presse, Photographie e ProfiFoto (Germania); Photobusiness e Photographos (Grecia), Better Photography (India); Photography News, Practical Photography e ProfessionalPhoto (Inghilterra); Foto Cult e FOTOgraphia (Italia); Pf - Professionele Fotografie (Olanda); FV / Foto Video Actualidad (Spagna); Digitális Fotó Magazin (Ungheria); Luminous Landscape, Photo District News e Rangefinder (Usa). In questo totale sono comprese riviste che si rivolgono alla fotografia non professionale (e sono la maggior parte), alla fotografia professionale (una quantità e qualità consistente; e qui è considerata FOTOgraphia) e al trade, ovverosia commercio. Da cui e per cui, l’assegnazione dei TIPA Awards si basa su una visione accreditata, sia per osservazione geografica, sia per indirizzo giornalistico.

TIPA AWARDS 2019: BEST... IN DOPPIA PRESENTAZIONE

DSLR Camera.........................................................................Nikon D3500 APS-C Camera Advanced .................................................Fujifilm X-T30 APS-C Camera Expert.............................................................Sony 6400 MFT Camera Professional ..................................Olympus OM-D E-MIX Full Frame Camera ..............................................................Canon Eos RP Full Frame Camera Expert ..........................................................Nikon Z6 Full Frame Professional Camera ................................................Nikon Z7 Full Frame Photo/Video..........................................Panasonic Lumix S1 Medium Format Camera ..............................................Fujifilm GFX 50R DSLR Ultra Wide Prime Lens........................Samyang XP 10mm f/3,5 DSLR Prime Lens.............................Sigma 40mm f/1,4 DG HSM | Art DSLR Wide Angle Zoom Lens .........Tokina Opera 16-28mm f/2,8 FF DSLR Telephoto Zoom Lens .................Sigma 60-600mm f/4,5-6,3 DG OS HSM | Sports DSLR Professional Zoom Lens.....................Sigma 70-200mm f/2,8 DG OS HSM | Sports DSLR Professional Prime Lens...Canon EF 400mm f/2,8L IS III USM APS-C Mirrorless Prime Lens ..............Canon EF-M 32mm f/1,4 STM Mirrorless Prime Standard Lens.............Canon RF 50mm f/1,2L USM Mirrorless Prime Telephoto Lens ................Sony FE 135mm f/1,8 GM Mirrorless Wide Angle Zoom Lens...............Nikkor Z 14-30mm f/4 S Mirrorless Standard Zoom Lens ..................Tamron 28-75mm f/2,8 Di III RXD Mirrorless Professional Lens...............Sony FE 400mm f/2,8 GM OSS Expert Compact Camera ........................................................Ricoh GR III Superzoom Compact Camera ..........................................Sony RX100 VI Inkjet Photo Paper..............................Hahnemühle Photo Rag Metallic Imaging Software .......................................................Skylum Luminar 3 Camera Accessory..........................................................Hoya Fusion One Imaging Storage Solution....................................................Sony SF-G Series Tough Specification Cards Flash System..................................................Godox Witstro AD400 Pro Portable Led Light............................................Metz Mecalight S500 BC Professional Tripod.................................................Uniqball iQuick3 Pod Travel Tripod ...................................Manfrotto Befree GT Carbon Fibre Photo Monitor .......................................LG UltraFine Display 32UL950 Budget Photo Monitor .........................................................BenQ SW240 Photo Smartphone...........................................................Huawei P30 Pro Professional Video Camera..........Blackmagic Ursa Mini Pro 4.6K G2 360° Camera .......................................................................Ricoh Theta Z1 Photo Device..........................................................................Cewe Hexxas Photo Bag.............................................Lowepro Whistler BP450 AW II Design ...........................................................................................Zeiss ZX1 Special Industry Award................................................L-Mount Alliance

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BenQ SW240 .........................................................Budget Photo Monitor Blackmagic Ursa Mini Pro 4.6K G2..........Professional Video Camera Canon Eos RP ..............................................................Full Frame Camera Canon EF 400mm f/2,8L IS III USM...DSLR Professional Prime Lens Canon EF-M 32mm f/1,4 STM ..............APS-C Mirrorless Prime Lens Canon RF 50mm f/1,2L USM.............Mirrorless Prime Standard Lens Cewe Hexxas..........................................................................Photo Device Fujifilm X-T30 .................................................APS-C Camera Advanced Fujifilm GFX 50R ..............................................Medium Format Camera Godox Witstro AD400 Pro..................................................Flash System Hahnemühle Photo Rag Metallic..............................Inkjet Photo Paper Hoya Fusion One..........................................................Camera Accessory Huawei P30 Pro...........................................................Photo Smartphone LG UltraFine Display 32UL950 .......................................Photo Monitor L-Mount Alliance................................................Special Industry Award Lowepro Whistler BP450 AW II.............................................Photo Bag Manfrotto Befree GT Carbon Fibre ...................................Travel Tripod Metz Mecalight S500 BC............................................Portable Led Light Nikon D3500.........................................................................DSLR Camera Nikon Z6 ..........................................................Full Frame Camera Expert Nikon Z7 ................................................Full Frame Professional Camera Nikkor Z 14-30mm f/4 S...............Mirrorless Wide Angle Zoom Lens Olympus OM-D E-MIX ..................................MFT Camera Professional Panasonic Lumix S1..........................................Full Frame Photo/Video Ricoh GR III ........................................................Expert Compact Camera Ricoh Theta Z1 .......................................................................360° Camera Samyang XP 10mm f/3,5........................DSLR Ultra Wide Prime Lens Sigma 40mm f/1,4 DG HSM | Art.............................DSLR Prime Lens Sigma 60-600mm f/4,5-6,3 DG OS HSM | Sports ..............................DSLR Telephoto Zoom Lens Sigma 70-200mm f/2,8 DG OS HSM | Sports..........................DSLR Professional Zoom Lens Skylum Luminar 3 .......................................................Imaging Software Sony 6400.............................................................APS-C Camera Expert Sony RX100 VI ..........................................Superzoom Compact Camera Sony FE 135mm f/1,8 GM ................Mirrorless Prime Telephoto Lens Sony FE 400mm f/2,8 GM OSS...............Mirrorless Professional Lens Sony SF-G Series Tough Specification CardsImaging Storage Solution Tamron 28-75mm f/2,8 Di III RXD...........................................Mirrorless Standard Zoom Lens Tokina Opera 16-28mm f/2,8 FF .........DSLR Wide Angle Zoom Lens Uniqball iQuick3 Pod.................................................Professional Tripod Zeiss ZX1 ...........................................................................................Design


TIPA AWARDS 2019 PANASONIC BEST FULL FRAME PHOTO/VIDEO : PANASONIC LUMIX S1 La Panasonic Lumix S1 funge prima di tutto da reflex professionale Full Frame con risoluzione di 24,2 Megapixel, alta velocità AF e prestazioni di tracciamento molto veloci. Inoltre, consente registrazioni video 4K a 60p con la visualizzazione a pieni pixel dei segnali in 4K 30p / 25p ed è conforme alla registrazione video 4:2:2 a 10-bit 4K 30p / 25p e all’uscita HDMI 4K 60p più V-Log. Tutto ciò si aggiunge alle prestazioni e alle funzionalità video particolarmente gradite (e ricercate) dagli operatori più creativi. La Panasonic Lumix S1 incorpora una stabilizzazione dell’immagine Body IS a cinque assi che, se utilizzata con obiettivi della serie S, offre una compensazione a sei stop. Per i fermi immagine, offre una modalità ad alta risoluzione che può essere utilizzata per creare immagini di novantasei Megapixel, grazie al nuove funzionalità di elaborazione Venus del segnale ad alta velocità di immagini. Ancora: velocità di otturazione superiore di 1/8000 di secondo, con sincronizzazione flash fino a 1/320 di secondo.

TIPA AWARDS 2019 RICOH BEST EXPERT COMPACT CAMERA: RICOH GR III I fotografi che amano viaggiare con una macchina fotografica estremamente compatta, che permetta loro di “afferrare” immagini di qualità, senza portare con sé attrezzi più ingombranti, accolgono e apprezzano la configurazione Ricoh GR III. Estremamente compatta, in lega di magnesio, è dotata di un sensore da ventiquattro Megapixel di dimensioni APS-C, con stabilizzazione dell’immagine a spostamento del sensore (tre assi) e AF con rilevamento di fase sul sensore. L’obiettivo grandangolare 28mm fisso è composto da sei elementi (inclusi due asferici) divisi in quattro gruppi: a fuoco da sei centimetri! La Ricoh GR III include un filtro ND a 2 stop integrato, un LCD touch-enabled da pollici e una presa USB-C per l’uscita video, in standard Displayport. La compatta offre modalità di esposizione, inclusa la compensazione dell’esposizione +/- cinque stop.

BEST 360° CAMERA: RICOH THETA Z1 La Ricoh Z1 dispone di due sensori Cmos di un pollice, con sensibilità limite di 6400 Iso equivalenti. Può acquisire fotogrammi Raw da ventitré Megapixel e video 4K / 30p a 360 gradi e dispone di nuovi algoritmi di elaborazione delle immagini e supporto di acquisizione che include una nuova modalità di rendering HDR, un Interval Composite e funzionalità multi-bracket. Le sequenze possono essere registrate in formato Jpeg o Adobe DNG, mentre il video viene migliorato tramite un microfono a quattro canali per la registrazione audio spaziale a 360 gradi. Un obiettivo aggiornato e un meccanismo di apertura migliorato, per tre impostazioni di apertura, nonché la stabilizzazione a tre assi si aggiungono a questa dotazione tanto particolare.


TIPA AWARDS 2019 METZ BEST PORTABLE LED LIGHT: METZ MECALIGHT S500 BC Questo illuminatore Led compatto misura tredici centimetri di larghezza, è sottile come uno smartphone e può essere montato su un supporto di sostegno, stativo o treppiedi, tramite l’innesto filettato da ¼ di pollice. Con le impostazioni della temperatura colore variabile (da 3000 a 5000 K / da luce artificiale a luce diurna), può combinarsi con l’illuminazione d’ambiente o aggiungere un taglio di luce particolare e volontario a qualsiasi allestimento scenico. I pulsanti di comando forniscono l’accesso per controllare l’uscita di potenza e la temperatura colore, con relative indicazioni sul display Oled. Alimentato da una batteria agli ioni di Litio incorporata e con un’interfaccia micro USB, l’illuminatore Metz Mecalight S500 BC è dotato di un diffusore supplementare, facilmente collocabile in posizione, con un distanziatore che consente di ammorbidire la fonte di luce.

TIPA AWARDS 2019 SAMYANG BEST DSLR ULTRA WIDE PRIME LENS: SAMYANG XP 10mm f/3,5 Questo obiettivo con copertura Full Frame è costruito da diciotto elementi in undici gruppi, con tre lenti asferiche, una lente ad alto potere rifrangente e tre lenti a dispersione extra bassa, insieme a vetro multistrato che riduce il bagliore e l’effetto fantasma. La minima distanza di messa a fuoco è a 0,26 metri, che consente di ottenere un’effettiva profondità di campo in entrambe le aperture più strette (apertura minima f/22) e mettere a frutto il diaframma a nove lamelle, anche a piena apertura. Questo obiettivo con messa a fuoco manuale è costruito in lega di alluminio e viene fornito con un paraluce a forma di petalo.

TIPA AWARDS 2017 ZEISS BEST DESIGN: ZEISS ZX1 Innovativa Mirrorless Full Frame, la Zeiss ZX1 dispone di un sensore da 37,4 Megapixel e può registrare immagini fisse Raw e Jpeg e video 4K. È dotata di un obiettivo Zeiss Distagon 35mm f/2 di alta qualità formale (e lunga storia). Il design rivoluzionario esordisce con un monitor touch-screen leggermente inclinato che separa il grande mirino LCD Live da 4,34 pollici dagli elementi di controllo operativo. Quindi, prosegue con la capacità di elaborare le immagini Raw direttamente in camera, con la piena integrazione di Adobe Photoshop Lightroom CC, con accesso alle immagini direttamente dalla capace memoria interna (SSD, da 512GB). C’è anche connettività Wi-Fi, Bluetooth e USB-C integrata, oltre a geo-tagging e controllo remoto tramite app per smartphone. Tutto sommato, questa avveniristica Zeiss ZX1 ridefinisce il modo in cui i fotografi possono scattare, modificare e condividere il proprio lavoro in e da ogni condizione operativa.

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TIPA AWARDS 2019 NIKON

BEST DSLR CAMERA: NIKON D3500 Reflex compatta e leggera destinata agli appassionati che desiderano avvicinarsi a una dotazione fotografica che sfrutta appieno un’ampia gamma di obiettivi Nikkor e accessori dedicati, per migliorare il proprio divertimento e la propria creatività. Il sensore Cmos da 24,2 Megapixel offre una gamma di sensibilità che spazia da 100 a 25.600 Iso equivalenti, gestisce scatti continui a cinque fotogrammi al secondo, oltre a funzionalità video Full HD 1080 / 60p. Con l’app Nikon SnapBridge, gli utenti possono condividere facilmente le immagini con uno smartphone o un dispositivo collegato. Possono anche attivare la reflex con l’app e accedere a Nikon Image Space, un servizio di condivisione e archiviazione basato su un cloud gratuito.

BEST FULL FRAME PROFESSIONAL CAMERA: NIKON Z7 Questa Mirrorless ad alta risoluzione sfoggia un sensore Cmos FX da 45,7 Megapixel, che produce file di immagine consistenti e sbalorditivi. Supporta una gamma di sensibilità da 64 a 25.600 Iso equivalenti, con ulteriore espansione da 32 Iso equivalenti a 102.400 Iso equivalenti. L’EVF ha una copertura di circa il cento percento con la possibilità di impostare numerosi parametri di scatto, mentre si osserva attraverso il mirino. Le funzionalità video includono 4K UHD e riprese Full HD 120p e il supporto di D-Lighting attivo, VR elettronico e messa a fuoco di messa a fuoco. Il timecode consente la sincronizzazione video e audio da più dispositivi. Gli obiettivi S-Line Nikkor Z consentono una regolazione silenziosa e uniforme dell’esposizione durante le riprese video.

BEST FULL FRAME CAMERA EXPERT: NIKON Z6 Lo Z6 è rivolta a fotografi che desiderano prestazioni eccellenti in condizioni di scarsa illuminazione e video 4K UHD con lettura a pixel intero. Il sensore di acquisizione posteriore Cmos da 24,5 Megapixel -con pixel AF a rilevamento di fase del piano focalesupporta un’ampia gamma di sensibilità da 100 a 51.200 Iso equivalenti e funziona con il più recente motore di elaborazione immagini Nikon Expeed 6. La reflex (Mirrorless) dispone di duecentosettantatré punti di messa a fuoco (273), che consentono un’ampia copertura di circa il novanta percento dell’area di imaging, sia verticalmente sia orizzontalmente. Con immagini fisse e video, un’opzione di nitidezza a medio raggio nel menu Picture Control consente di creare texture all’interno dello schermo più nitide o più sfumate.

BEST MIRRORLESS WIDE ANGLE ZOOM LENS: NIKKOR Z 14-30mm f/4 S Caratterizzato da un design con una lente frontale quasi piatta, lo zoom 14-30mm consente l’uso di filtri sulla filettatura dell’elemento frontale (diametro 82mm). La costruzione ottica incorpora quattordici elementi, con quattro lenti ED e il rivestimento Nikon Nano Crystal, per ridurre il bagliore e il hosting; oltre a un motore passo-passo per un’autofocus efficace e silenzioso e una funzione ricercata per l’acquisizione sia fotografica sia video. Sigillato contro polvere e umidità, lo zoom ha anche un anello di controllo personalizzabile, che può essere finalizzato alla messa a fuoco manuale, l’apertura e la compensazione dell’esposizione. L’obiettivo pesa soltanto 485g.

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TIPA AWARDS 2019 SIGMA BEST DSLR PROFESSIONAL ZOOM LENS: SIGMA 70-200mm f/2,8 DG OS HSM | SPORTS Rivolto ai professionisti e ai fotografi più esperti, questo zoom veloce combina una montatura in magnesio leggero con una esclusiva protezione antipolvere e rivestimento idrorepellente e oleorepellente, per affrontare e gestire le condizioni ambientali più difficili. Per un’azione rapida, combina la stabilizzazione ottica intelligente con un sensore di accelerazione, consentendo l’acquisizione del movimento del soggetto senza perdere il panning, anche quando la reflex viene mossa in qualsiasi direzione, indipendentemente dalla posizione dell’obiettivo. Dieci elementi in vetro a bassa dispersione assicurano una registrazione fotografica e video ad alta risoluzione, da centro a bordo, e la pertinente correzione dell’aberrazione sferica produce un effetto bokeh naturale, rendendolo adatto anche al ritratto.

BEST DSLR PRIME LENS: SIGMA 40mm f/1,4 DG HSM | ART Questo obiettivo veloce nella linea Sigma Art, che sarà presto disponibile anche in L-Mount [TIPA Award 2019: Special Industry Award], offre sia una risoluzione compatibile con 8K sia un bokeh impressionante ed emozionante. La disposizione di tre elementi di vetro FLD e tre SLD combinati corregge l’aberrazione cromatica assiale e l’aberrazione cromatica dell’ingrandimento, oltre a offrire un’eccezionale nitidezza alla massima apertura ed eccellere in condizioni di scarsa luminosità. Disponibile in un’ampia gamma di innesti, il Sigma 40mm f/1,4 DG HSM | Art è composto da sedici lenti divise in dodici gruppi ottici; dispone di un diaframma a nove lamelle e mette a fuoco da 40cm. Il produttore rileva che è il primo obiettivo della linea ad essere stato progettato per essere rispondere al meglio all’angolo di campo ristretto della focale standard, affermandosi come parametro ottico di riferimento fotografico.

BEST DSLR TELEPHOTO ZOOM LENS: SIGMA 60-600mm f/4,5-6,3 DG OS HSM | SPORTS Ora, i fotografi possono disporre di un obiettivo che offre nuove possibilità di lavoro creativo con una impressionante escursione 10x, che approda al lungo tele 600mm. Grazie a un particolare rivestimento idrorepellente e oleorepellente sul frontale, il Sigma 60-600mm f/4,5-6,3 DG OS HSM | Sports è resistente alla polvere e agli spruzzi. Viene fornito con una versatile staffa per treppiedi, a rotazione controllata, con fermi ogni novanta gradi e Manual Override che consente di selezionare due modalità manuali simultaneamente. Costruito con venticinque elementi in diciannove gruppi, con un diaframma a nove lamelle, misura solo 120,4x268,9mm all’escursione minima (unzoomed): è adatto e pratico per essere trasportato in ogni borsa fotografica e zaino.

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TIPA AWARDS 2019 GODOX BEST FLASH SYSTEM: GODOX WITSTRO AD400 PRO Con 400W di potenza luminosa e 0,01 secondi di tempo di ricarica, una lampada pilota da 30W, la capacità di erogare dodici flash continui a 1/16 di potenza e 1/8000 di secondo ad alta velocità, il versatile Godox Witstro AD400 Pro ha un sistema integrato 2.4G wireless che può funzionare con i collegamenti a tutti i principali sistemi TTL. Può anche agire con la funzionalità master/slave, se utilizzato insieme con altri flash del sistema Godox. L’unità può essere alimentata tramite connessioni di rete standard o con batteria ricaricabile al Litio, che fornisce trecentonovanta lampi a piena potenza (390). Le regolazioni di potenza consentono il controllo creativo della luce; sono disponibili adattatori che possono accettare accessori dei principali produttori di flash e illuminatori.

TIPA AWARDS 2019 TOKINA BEST DSLR WIDE ANGLE ZOOM LENS: TOKINA OPERA 16-28mm f/2,8 FF Questo zoom versatile e ad apertura costante incorpora un modulo Silent Drive di nuovo design, per un AF più veloce, più fluido e più silenzioso. È costruito con quindici elementi in tredici gruppi, incluse tre lenti asferiche e tre in vetro a basso indice di dispersione, che riducono sensibilmente le aberrazioni cromatiche e sferiche. Un ampio elemento frontale garantisce una vignettatura minima e una distorsione contenuta, mentre un meccanismo di frizione Focus One-Touch semplifica il passaggio dalla messa a fuoco automatica alla messa a fuoco manuale: basta agganciare la ghiera di messa a fuoco verso la reflex, per attivare il manuale. La distanza minima di messa a fuoco, da 0,28 metri, consente una profondità di campo estremamente creativa, in apertura e chiusura fino all’apertura minima di f/22.

TIPA AWARDS 2019 HOYA BEST CAMERA ACCESSORY: HOYA FUSION ONE Questa nuova gamma di filtri è realizzata in vetro ottico di alta qualità, ha una montatura a basso profilo e rivestimento antimacchia e resistente all’acqua. Ogni filtro della linea, incluso l’UV, un protettore e un polarizzatore circolare, è multistrato e offre una trasmissione della luce ultraelevata. La linea è configurata per soddisfare i rigorosi standard e le capacità ottiche dei moderni obiettivi ad alta risoluzione, ed è disponibile in una varietà di diametri, per adattarsi a tutti gli obiettivi in dotazione ai fotografi professionisti e non professionisti.

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TIPA AWARDS 2019 L-MOUNT ALLIANCE

SPECIAL INDUSTRY AWARD: L-MOUNT ALLIANCE Come il formato MFT, L-Mount Alliance offre agli utenti l’opportunità di utilizzare una baionetta comune su -in questo caso- tre marchi di apparecchi fotografici. I nuovi obiettivi possono essere utilizzati su corpi macchina Panasonic (in particolare, le nuove Lumix S1R e S1 [TIPA Award 2019: Best Full Frame Photo/Video], una promettente configurazione Sigma (con la propria gamma di obiettivi)

(continua da pagina 39) (Panasonic Lumix S1), migliore medio formato (Fujifilm GFX 50R), migliore compatta Expert (Ricoh GR III), migliore compatta Superzoom (Sony RX100 VI) e migliore videocamera Professional (Blackmagic Ursa Mini Pro 4.6K G2): fanno dodici ufficialità, come abbiamo appena annotato. Ma! Ma c’è anche da considerare la Ricoh Theta Z1 (a trecentosessanta gradi) e, siamo sinceri, Huawei P30 Pro (Photo Smartphone), che non sta qui certo per le sue capacità di conversazione telefonica, né connessioni social, né ricettore di app dai mille indirizzi e profili, ma per la propria dotazione fotografica. E, ancora, non possiamo ignorare la Zeiss ZX1, apparecchio fotografico futuristico e indicatore di tragitto, accreditato come Special Industry Award. Dunque, da dodici a quindici... e non è ancora finita. Infatti, compatte a parte e dotazioni fotografiche autoconcluse, con dotazione ottica fissa (ognuna con propri parametri, Ricoh GR III, Ricoh Theta Z1, Zeiss ZX1 e Sony RX100 VI), non possiamo certo ignorare come e quanto gli obiettivi intercambiabili siano concreta sostanza con la quale e sulla quale erigere sempre e comunque i nostri conti fotografici: dodici obiettivi! Ancora, in ordine di protocollo ufficiale TIPA Awards 2019. Da cui e per cui, in ulteriore cammino: migliore grandangolare estremo (Samyang XP 10mm f/3,5), migliore Prime Lens (Sigma 40mm f/1,4 DG HSM | Art), migliore zoom grandangolare (Tokina Opera 16-28mm f/2,8 FF), migliore tele zoom (Sigma 60-600mm f/4,5-6,3 DG OS HSM | Sports), migliore zoom Professional (Sigma 70-200mm f/2,8 DG OS HSM | Sports), migliore Prime Lens Professional (Canon EF 400mm f/2,8L IS III USM), migliore Prime Lens APS-C (Canon EF-M 32mm f/1,4 STM), migliore Prime Lens Standard (Canon RF 50mm f/1,2L USM), migliore Prime Lens tele (Sony FE 135mm f/1,8 GM), migliore zoom grandangolare Mirrorless (Nikkor Z 14-30mm f/4 S), migliore zoom Standard Mirrorless (Tamron 28-75mm f/2,8 Di III RXD) e migliore obiettivo Mirrorless Professional (Sony FE 400mm f/2,8 GM OSS).

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e, naturalmente, con apparecchi Leica. La L-Mount misura 51,6mm di diametro, alla portata di dotazioni Full Frame e APS-C, e il suo tiraggio al sensore contenuto consente ai progettisti ottici di disegnare obiettivi estremamente compatti. C’è anche un array standardizzato di dodici contatti elettronici, che fornisce una comunicazione avanzata tra corpo macchina e obiettivo.

Conti alla mano: quindici più dodici fa ventisette TIPA Awards 2019, su quaranta totali, che celebrano ed elevano la base sostanziosa della fotografia: apparecchi e complementi indispensabili. Per approdare a questo, che celebra la sostanza fondamentale dell’esercizio fotografico (e video), al quale, poi, si accodano elementi di gestione e infrastruttura di comodo, non certo di realizzazione primaria, la giuria TIPA, composta da direttori e redattori delle trenta riviste associate, distribuite in tutto il mondo (in questa sede, FOTOgraphia è stata rappresentata da Giulio Forti), ha dovuto districarsi tra le pieghe tecnico-commerciali del mercato, per poter approdare alla legittima certificazione di una identificata serie di configurazioni fotografiche di alto livello e qualità assoluta. Ecco: è questa la spiegazione, per quanto non giustificazione, della scomposizione quasi millimetrica di categorie di riferimento di questa stagione, come anche di qualche precedente edizione dei Premi. Infatti, sono tramontati i tempi nei quali tutto era semplificato e indirizzato, con confini certi e inviolabili tra una interpretazione fotografica e le altre. Fatte salve poche certezze, che magari riguardano la dimensione del sensore (perché no?), oggigiorno, il resto naviga in acque complesse e a reciproca influenza: non si possono più stabilire linee assolute di demarcazione. Per cui, in motivazione (ora, sì), l’intenzione esplicita dei TIPA Awards è sempre e comunque quella di sottolineare le eccellenze tecnicocommerciali del comparto fotografico, sapendosi muovere tra le evoluzioni tecnologiche che via via si affacciano alla ribalta. Dunque, non è più un cammino preconfezionato, come è stato quello percorso all’alba di queste segnalazioni, e sono trascorsi decenni di profonde trasformazioni, ma un tragitto entro il quale camminare, avendo in mente la meta alla quale approdare, la meta da raggiungere. Attenzione, in ripetizione da precedenti rilevazioni: quando il marchio dei TIPA Awards appare in un annuncio pubblicitario, un pieghevole o sulla confezione di un prodotto, potete esser certi che è stato meritato. I TIPA Awards sono un motivo di orgoglio per chi li attribuisce e per coloro che li ricevono. ❖



Sguardi su

di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 30 volte novembre 2018)

TERRY RICHARDSON

A

Al tempo della civiltà spettacolare, la cultura della fotografia spinge i fotografi nelle macellerie delle guerre e nei salotti dabbene dei produttori di illusioni. La fotografia consumerista è come il cadavere di Cristo che si nasconde nella Bibbia... un’immagine del desiderio, di compassione e di timore che incute riverenza e sottomissione (ma non proprio) celestiale, salvifica, mitica. La fotografia, proprio come Cristo sulla croce, è un’impostura, un distoglimento dal vero, un crimine continuato contro secoli di ribellione al sacro, a parte i soliti eretici a tutto: gente in gamba, che a ogni pagina di Storia hanno attentato a re, regine, tiranni, generali, papi, padroni, capi di Stato che opprimevano i popoli e li costringevano a morire nelle loro guerre e a servire alle loro tavole e nelle loro fabbriche... e avevano osato pensare che l’avvento di una società più libera e più umana potesse davvero fare a meno di questi buffoni in formato grande. L’intuizione non è stata il risultato; però, l’utopia di fare “tabula rasa” di tutta la “bella gente” che governa in questo modo e a questo prezzo non è mai sfumata: li hanno massacrati senza pietà, gli eretici, ma non vinti! All’infuori della bellezza e della verità, tutte le mitologie sul “buon governo” sono senza valore. I crimini più raffinati si commettono sugli scranni dei parlamenti e sono perpetrati contro chi vuole la libertà, tutta la libertà e nient’altro che la libertà, per raggiungere la pubblica felicità.

LA FOTOGRAFIA CHE UCCIDE LA FOTOGRAFIA La fotografia uccide la fotografia nella desertificazione della coscienza e dell’intelligenza; la verità della fotografia muore con l’innocenza; la fotografia mercatale persegue gli itinerari del brutto, dell’odio e dell’imbecille. La buona fotografia (che non ha niente a che vedere con la bella fotografia) è inafferrabile

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e impudica insieme: è un’effervescenza di emozioni, di sofferenze e di realtà, e si porta addosso anche il brogliaccio del contrasto contro la ragione imposta, che non merita d’essere ascoltata o solo di esistere. La buona fotografia è quella della “perduta gente”... quella che lavora per l’inatteso non per l’evento... quella che consegna le mitologie della fotografia ai manuali o alla spazzatura... quella che suscita interesse soltanto a coloro che impugnano la macchina fotografica come i partigiani il ferro. Le belle parole sono finite, restano le immagini a interrogare (o inginocchiarsi) davanti alle convenzioni del disamore.

propria esistenza; non si tratta di seguire gli insegnamenti di quel figlio di puttana di san Paolo, ma quelli aperti alla felicità sociale di Epicuro... per Diavolo! Una fotografia senza l’autobiografia che ne consegue non merita un secondo d’attenzione!, avrebbero detto di ogni filosofia Arthur Schopenhauer, Friedrich W. Nietzsche e Søren Kierkegaard... e anche mia nonna partigiana. Il taccuino (ben scritto) di un fotografo non si riassume nel consenso delle sue opere, ma nel portolano che lega le sue fotografie ai suoi comportamenti: la fotografia è parte della vita, che a propria volta mangia l’opera che diventa vita.

«Abbiamo tolto di mezzo il mondo vero: quale mondo ci è rimasto? forse quello apparente?… Ma no! col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente!» Friedrich W. Nietzsche L’abbiamo detto da qualche parte e vogliamo ribadirlo qui: il pensiero mercantile condiziona la storiografia della fotografia. A forza di erigere miti d’occasione, la fotografia, anche la più cialtrona, diventa verità o parola di vangelo: lezioni, dispense, dossologie della fotografia passano da un mito all’altro, senza mai andare a vedere a fondo i meccanismi che lo producono, senza sapere mai che ogni fotografia implica la filosofia dell’autore che la precede. La verità deborda nella giustizia, la bellezza la mostra! «La migliore fotografia già tradisce il reale, essa nasce da una scelta e dà un limite a ciò che non ne ha» (Albert Camus diceva). Fotografare significa rendere vitale e visibile la

Una controstoria della fotografia [leggiamo nelle annotazioni sul nostro Moleskine, scritte in bar, treni, parchi pubblici, perfino al cinema e nel deserto...] non solo è utile a rompere l’omertà della fotografia imperante, ma è necessaria a un’epifania del conflitto che deterge l’utilitarismo e le ragioni della consorteria liberista che la sottende: disprezzo, spregio, invettive... tutti i mezzi sono buoni per smantellare l’ordine del discorso... non c’importa nulla né della camera chiara né dell’aura artistica... tantomeno della museificazione di qualsiasi estetica piantata in codici e morali perverse o delle insensatezze fotografiche diffuse sulla credenza che la fotografia si realizza con le mac-

chine fotografiche. La fotografia si può fare con sguardi, parole, tamburi, pugni e con qualsiasi strumento del comunicare, anche col fucile... quando occorre (come è stato per le rivolte arabe affogate nel sangue). Ciò che vale è dire qualcosa su qualcosa e possibilmente contro qualcuno! Diventare franchi tiratori della menzogna e raccontare che l’estetica del mito è una truffa ben congegnata. Voltiamo le spalle alla stupidità e incamminiamoci verso la fotografia per scoprire una lingua dell’immaginale capace di scompaginare e sovvertire la brutalità levigata dell’iconologia predominante. Un fotografo è un criminale che si ignora o un poeta maledetto che si ama. Solo quando la bellezza sarà vissuta, non immaginata, sarà possibile il recupero della dignità dell’Uomo, da sempre calpestata; finché trionfa il mito, la fotografia è una sottosezione del mercimonio: chiedete al prete, al padrone, all’accademico e al generale... e avrete risposta. Certo, il falso valore del mito è, sotto ogni taglio, la scienza dell’assoggettamento; solo il nascere di una bella individualità o la soggettività radicale che infiamma l’inedito può sostituire il santo, l’eroe e anche il genio, con la costruzione di sé e fare del bello, del giusto e del buono, i princìpi di distruzione della cultura sommaria, intrecciata con i gangli delle istituzioni. Ogni educazione alla vita vera implica la scelta dell’Uomo del no!, come diceva John Ford in Furore (1940)... e là dove il bastone del potere batte contro gli Ultimi, gli Sfruttati, gli Oppressi, l’Uomo del no! sarà accanto a loro e combatterà per una nuova vissutezza dei popoli liberati. A ciascuno le proprie utopie... noi ci teniamo quella della Comune di Parigi: ha rappresentato l’ultimo afflato popolare che ha dato l’assalto al potere per la conquista di una società libertaria. Se oggi molti possono par-


Sguardi su lare di democrazia, libertà di pensiero e possono portare il cane col cappottino a pisciare nei giardini senza essere deportati ad Auschwitz, lo debbono ai comunardi trucidati sulle barricate, alla rivoluzione sociale di Spagna del Trentasei e ai sessantamila morti della Resistenza che hanno sconfitto il nazifascismo. Per non dimenticare! Cosa c’entra la fotografia con tutto questo? Molto: la fotografia è parte integrante dell’ideologia dell’irreparabile, l’equivalente di un patibolo o di un bordello, e là dove trionfa il tanfo del successo, si riproduce anche la castrazione dell’arte! Poiché non c’è altro riconoscimento se non quello del mercato, ogni fotografo è disposto a uccidere la propria madre per avere un posto alla destra (o alla sinistra, non c’è differenza) del boia che lo incensa! Ciò che importa è la sottomissione alla mediocrità o all’indulgenza!, in cambio, certo, del salto della pulce da una mano all’altra del prestigiatore! Più di venti secoli di estetica hanno prodotto il lucido da scarpe di Andy Warhol, il water d’oro di Maurizio Cattelan e le performance del cazzo di Marina Abramovic̀, celebrati come arte. Non è un caso se l’artista delle zuppe Campbell’s (Andy Warhol) ha affermato che «La cosa più bella di Firenze è McDonald’s». In fotografia accade la stessa cosa. Se avessimo voglia e la demenza di vedere chi sono i dieci fotografi più pagati al mondo, magari anche meritatamente, tra questi -di sicuro- c’è Terry Richardson (dicono che è addirittura il più ricco e, di conseguenza, anche il più invidiato). Non ci sorprende: la povertà intellettuale di questo tempo si evidenzia nel numero esponenziale di artisti che hanno compreso come si vende l’anima a Dio (al mercato)! La povertà intellettuale e l’inesistenza etica non contano, ciò che vale è tutto nel prezzo che il mercante dà all’opera: il supporto e il dispositivo è la rimaterializzazione dell’arte in merce... soltanto. Facciamoci del male. Terrence “Terry” Richardson nasce a New York, nel 1965. Figlio

di un importante fotografo di moda finito nella droga e in miseria, che poi riprese a insegnare e fotografare, senza mai più raggiungere i fasti hollywoodiani originari. Il figlio, in principio, si era avviato verso la musica punk-rock, con il gruppo The Invisible Government; poi, vede nella fotografia la propria strada: fa da assistente a Tony Kent (modesto fotografo di sarti di grido) e mette su bottega in proprio. Capisce subito che la provocazione vende e bene: così, collabora con numerose riviste di grido, i marchi più eminenti e qualche volta si fa censurare le campagne pubblicitarie... non perché sono scandalose, sovente perché sono stupide! Ma i censori non lo sanno! Credono davvero che vadano a disturbare il pubblico pudore. Vero niente. Lo scandalo è una prerogativa del potere: più uno ruba, più è scemo, più è ritenuto importante, più è tollerato quando non idolatrato dalle masse. I personaggi che sfilano sui set di Terry Richardson sono tanti: Barack Obama, Leonardo DiCaprio, Sharon Stone, Catherine Deneuve, Karl Lagerfeld, Lady Gaga, Mickey Rourke, Amy Winehouse, Lil’ Kim, Nicolas Cage, Madonna. Il fotografo li sublima in oggetti di largo consumo; come Nan Goldin e Wolfgang Tillmans, cerca di stupire, di affascinare, di essere trasgressivo quanto basta per suscitare i fervori delle gallerie e dei media. A volte, fotografa qualche ragazzetta e poi ci va a letto, ma non per cattiveria, solo per far vedere loro da dove viene il suo istinto fotografico. Anche i suoi video diventato famosi... inutili, ma famosi. Quello che non torna in questo fotografo, forse, è l’assoluta mancanza di talento e stile, ben camuffata con quel tanto di esaltazione del “diverso” o di superbia che lo proiettano nel pantheon dell’immaginario servile. Collezionisti privati, musei, la stampa specializzata se lo contendono a colpi sensazionalistici; il culto organizzato ha i propri ritorni economici e tutti ballano insieme sul sagrato dell’industria che li foraggia. Non stupisce che una grossa parte (per

niente trascurabile) dell’arte fotografica è al servizio permanente della civiltà dello spettacolo, dove la merce è tutto, l’Uomo niente. La macchina commerciale ha bisogno di scimmiette ammaestrate -e in buona misura le protegge in gabbiette dorate-, che non perdono mai occasione per dire sciocchezze e di farne di peggio: dissertano sull’arte e la vita come davvero sapessero ciò che affermano. I loro seguaci li ascoltano, li imitano, li copiano. L’Uomo, tuttavia, è la misura di tutte le cose ed esiste solo il reale... ed è solo questo ciò che conta: «La forma non è uno scopo; essa porta, sostiene, rivela il contenuto, perché il secondo offre l’occasione della prima. Troppo a lungo il formalismo ha prodotto effetti nefasti: la forma per se stessa, il culto della forma, la venerazione della carcassa» (Michel Onfray: La potenza di esistere. Manifesto edonista; Tea, 2009). Sotto ogni lettura, la fotografia di Terry Richardson risente di una logica da parrocchia rovesciata: celebrazione del vuoto a detrimento della compiutezza, confusione visiva e pochezza affabulativa si confondono. L’inconsistenza dei lavori evapora nell’astrazione verso il nulla e nel semplicistico, che è la versione più acclamata nei centri commerciali e nei salotti mondani (quanto nelle scuole di fotografia). Soltanto quando si raggiungono gli altopiani di una cartografia della verità liberata da tutti i guinzagli mercatali che la strozzano, si ha coscienza di sé, coscienza degli altri e conoscenza del mondo.

SULLA FOTOGRAFIA CONSUMERISTA Dal momento che la natura della fotografia più consumata non ha nulla a che fare con la realtà, la filosofia della fotografia autentica penetra la realtà essenziale delle cose. L’iconografia di Terry Richardson -appunto- è un prontuario di immagini furbe, piuttosto brutte e nemmeno ben confezionate. C’è un’esaltazione generalizzata che investe l’intera produzione del fotografo statunitense, una sorta d’insignificanza che tra-

scende il fotografico dal quale parte, e non è certo una ragazza nuda che lecca la cresta di un gallo nel Calendario Pirelli 2010 a far sobbalzare gli sguardi dei suoi estimatori: è la sua disponibilità a promuovere lo spazio fotografico alla stregua di una soap-opera... è la rassegnazione della fotografia al narcisismo smodato di chi fa della fotografia solo un richiamo per iloti dell’estetismo. La fotografia così fatta è una lebbra dello spirito, una visione rivelatrice della storia come farsa o abbellimento del nulla: i ribelli hanno salvato i popoli, gli opportunisti li hanno rovinati. Terry Richardson dichiara che «Un grande fotografo coglie il momento; per questo, io fotografo senza apparati e senza assistenti. La mia tecnica è l’assenza di tecnica: l’obiettivo sono i miei occhi, il mio carisma, la mia capacità di catturare attimi di verità, qualunque essa sia; i tagli delle immagini, l’uso del colore, le luci, le ambientazioni sono sempre stati i punti essenziali della mia arte fotografica». La “mia arte fotografica” (?!): al “suono” di queste parole ci assalgono conati di vomito; le cazzate troppo ripetute sviliscono l’immaginario dal vero e muoiono nel mattatoio delle definizioni e figurano un dilettantismo senza splendore. Alla fine delle lusinghe, restano le opere e la violenza del sacro che hanno asservito. La superbia supera in grossolanità tutte le truccherie mercatali del proprio tempo. «Chiunque non accetti la propria nullità è un malato di mente» (Emil M. Cioran), e nell’insania dell’adorazione e del successo trova il suo giusto lupanare. Nell’elencario fotografico di Terry Richardson, l’approssimazione architetturale, l’ammiccamento sessuale, la megalomania perseguita sino all’insignificanza evidenziano forme ingannevoli della cosa fotografata. Se le idee sono surrogati dei dolori, come diceva Marcel Proust, il fotografico di Terry Richardson mette in scena un pensiero d’occasione che non ha niente da dire, né -tantomenoinsegnare. I miti che fanno finta di spararsi alla tempia (o in bocca) con una pistola, ragazzine discinte

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che succhiano banane insieme al fotografo, dive in mutande o seminude che fanno finta d’essere umane, aggressioni giovanili simulate, nudi e autonudi (del fotografo) che figurano l’incensamento di un malessere e di un delirio e nulla più... restituiscono una clownerie improvvisata... una sorta di caleidoscopio d’immagini slegate da ogni fatto importante dell’esistenza umana. La fotografia di questo sbruffone da quattro soldi reca in sé una cultura da beoti che prospera nella fuga dalla realtà, che non sia quella di ciò che affoga nei fiumi d’imbecillità dell’industria culturale. Solo i pesci morti vanno con la corrente! Ai più, le campagne pubblicitarie di Terry Richardson appaiono “singolari”: si fa finta di assumere un po’ di droga insieme all’abito firmato, una ragazza in rosso dischiude le gambe davanti a un toro, effusioni, ammiccamenti, baci in bocca tra uomini, tra donne e anche gli animali fanno il loro gioco d’effusioni... il tutto condito

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sotto l’egida di “griffe” internazionali, e tutto all’insegna della folgorazione mercantile. C’è perfino Barack Obama -il presidente afroamericano che ha fatto sganciare bombe sui civili siriani con i droni, respinto i profughi oltre il confine del Messico e assicurato a banche e mercanti d’armi profitti mai raggiunti nella storia degli Stati Uniti- che fa lo scemo col fotografo. C’è anche Lady Gaga che si fa succhiare il dito da un’amica (imitata dal fotografo). C’è il culo di Madonna, che non dispiace, sventolato con particolare complicità. C’è il ragazzo che mostra i muscoli ai compratori di mutande marchiate. Ci sono le icone del pop (non poteva mancare il cantore della musica alla crema dei Beatles, sir Paul Mc Cartney) e tutto un bestiario similare a santificare la promozione del desiderio e una gloria da stronzi, concepiti in questa mascherata da servi del superfluo: una ritualità della barbarie spettacolare che dà la sensazione di

trovarci di fronte al cattivo gusto di un fotografo intraprendente o un demente realizzato. Nella fotografia del nostro disdoro tutto invecchia all’istante, perfino la felicità del mercato; e sulle vetrine delle qualificazioni, l’oggetto del desiderio è già moribondo al momento della fatturazione: lo si vede bene nella fotografia del sensazionale di Terry Richardson. L’inquadratura, l’empatia, il senso della luce non sembrano riguardare le iconologie del fotografo dell’entusiasmo (e, come sappiamo, non c’è forma di banalità, di proselitismo e d’intransigenza ideologica che non vesta gli abiti dell’imbecille truccato da entusiasta). Gli sguardi, le posture, i tagli espressivi delle immagini di Terry Richardson illustrano e accompagnano l’illusione della vita, elevano la bulimia dell’apparire nelle facezie dello spettacolare e, più ancora, contribuiscono alla costruzione di un apparato di distruzione del fotografico, una stasi e una formula della percezione che si sottomette alla farsa eterna dell’utilitarismo. La fotografia è il romanzo della materia, come sostenevano Miguel de Cervantes, H. G. Wells, Lewis Carroll e perfino la Banda Bonnot. All’inganno di un qualsiasi fotografo da estrema unzione, come Terry Richardson, preferiamo un hidalgo che combatte contro i mulini a vento del potere: ciò che non ci uccide, ci rende più forti, diceva il poeta senza pari che abbracciò un cavallo e pianse per le vie di Torino, smise di parlare e lo ficcarono in un manicomio con altri della sua stessa bellezza incompresa (lì, se la rideva forte di tutte le epoche dissolute e corrotte in mano a piccoli uomini -politici, preti, finanzieri, artisti- destinati ad essere adorati come dèi... tutti lebbrosi del pregiudizio che andrebbero destinati alla pulitura dei cessi pubblici o passati inevitabilmente sotto il torchio della verità insorta). Tra la fotografia e la giustizia, l’incompatibilità è totale. La raffigurazione della violenza e l’apologia dei potenti (che è la medesima cosa) funzionano bene: riviste, giornali, tv, il circo dei festival,

delle mostre, dei giochi a premi fanno dell’immagine fotografica una prerogativa eroica e una tentazione monumentale della velenosità mercatale. Il fatto è che la fotografia autentica non è collegata ad alcun pregio dell’esistenza che non sia il franamento delle teocrazie; il disinganno lucido è dei fotografi che fecero l’impresa, quella cioè che si sbarazza delle confessioni e dei dogmi disseminati lungo i cenacoli delle qualificazioni e -al posto della santitàpreferiscono il dissidio e la rivolta. Sì, in verità vi dico: è difficile parlare con i fotografi come con gli angeli. Gli uni e gli altri sono sempre stati dei grandi ingannatori: le loro infatuazioni si portano dietro l’aureola della prostrazione, mai quella dell’indignazione. In qualsiasi trattato sulle malattie mentali non sono menzionati, eppure proprio tra i fotografi e gli angeli si ritrovano i piaceri più alti dell’imbecillità. Non potendo vivere se non al di qua o al di là della realtà, i fotografi e gli angeli sono esposti a molte tentazioni, sempre sospese tra la santità e l’idiozia. Quello che ci spaventa è che questa perdita di coscienza implica un avvicinamento alle cosche di ogni potere che li imbriglia nella promessa di diventare santi... del mercimonio, certo. I martiri non fanno cassetta. La fotografia è il sangue di un’alchimia visuale nel quale si ricerca la verità o la falsificazione del bello, del giusto, del buono: perché solo la verità regna, il resto è trucco! La fotografia è anzitutto l’autobiografia di un corpo, l’utensile che permette di fissare l’intuizione, per non dimenticarla; disvela cecità secolari o genera dissidenze che tendono a dire, ridire, precisare, affinare, correggere, aggiungere o rompere la macchina di domesticazione sociale che pervade ogni anfratto dell’umano. I calunniatori del reale si ritrovano sul sagrato della seduzione dell’effimero e nella denigrazione del vero mondo di contro. La fotografia autentica vive ai bordi dell’eccellenza etica, dove la poetica del disinganno si rovescia in disobbedienza sociale.❖




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