FOTOgraphia 248 febbraio 2019

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ANNO XXVI - NUMERO 248 - FEBBRAIO 2019

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Tre fotografie (epocali?) CHE HANNO CAMBIATO IL MONDO 1839-2019 CENTOTTANT’ANNI Matricola 5185 IL FOTOGRAFO DI MAUTHAUSEN

APOLLO 8 (DICEMBRE 1968) LA TERRA CHE SORGE DALLA LUNA


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prima di cominciare PROIBIZIONI E DIVIETI. Su questo numero della rivista, da pagina quarantadue, presentiamo e commentiamo il coinvolgente progetto fotografico Paris d’Amour, del francese Gérard Uféras, in occasione dell’allestimento espositivo alla Villa Reale di Monza, fino al prossimo tre marzo. Nell’occasione, e a ragione, Lello Piazza, autore del testo, allinea questa fotografia alla corrente umanista che attraversa il Tempo e lo Spazio della nostra Esistenza, in qualsiasi modo ciascuno di noi la consideri (l’Esistenza). Anche noi siamo schierati con lui su questa lunghezza d’onda, per quanto non sia questo il motivo per il quale -in genere e in assoluto- pubblichiamo fotografie e note di accompagnamento: nessuna complicità di intenti, nessuna connivenza, ma solo il senso di osservare le manifestazioni della Fotografia che influiscono sulla nostra vita (e rimandiamo anche da pagina ventitré, trasversalmente alle fotografie della Terra realizzate, nel dicembre 1968, cinquant’anni fa, dall’equipaggio della missione spaziale statunitense Apollo 8). Soltanto, a margine, annotiamo che il senso di condivisione e reciproca relazione non appartiene certamente a tutti. Contrariamente a quanto precisato là dove l’ufficialità della burocrazia lo richiede, per intenderci sul “tamburino” in pagina accanto, secondo il quale la redazione di FOTOgraphia consente «la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo)», altri continuano a percorrere strade opposte. Nessun giudizio, sia chiaro, perché ciascuno ha il diritto di vivere come crede di dover e voler fare. Da parte nostra, continuiamo a intendere l’allocuzione latina Verba volant, scripta manent per il suo intendimento originario: non scrivete soltanto libri, che rimangono chiusi in locali preposti, ma andate tra la gente e parlate, perché le parole volano e possono essere raccolte da ognuno. Leggiamo dall’allegato alle fotografie di Paris d’Amour, in Comunicato Stampa, così come è arrivato in redazione: «Tutte le fotografie in oggetto non possono essere tagliate o manipolate in alcun modo, senza previo consenso dell’autore [giusto]. / Tutte le fotografie in oggetto possono essere condivise con terze parti esclusivamente ai fini della promozione e della comunicazione della mostra Paris d’Amour e devono essere inviate unitamente al presente accordo [legittimo]. / Tutte le fotografie inviate congiuntamente a questo documento devono essere completamente cancellate da tutti i database e da qualsiasi archivio stampa o digitale non appena sia conclusa la mostra oggetto del presente accordo [grottesco, soprattutto nella nostra epoca]». Verba volant! Fotografia umanista!

In ogni immagine, c’è il cuore di chi fotografa, la sua cultura visiva, gli anni e anni che ha dedicato a costruirla. Questo è il vero tempo di otturazione di ogni fotografia: anni e anni. Lello Piazza; su questo numero, a pagina 45 La differenza tra stereotipo e archetipo è profonda: separa la non cultura, entro la quale nasce e si alimenta lo stereotipo, o viceversa, dalla cultura, sulla quale si basa l’archetipo. Angelo Galantini; su questo numero, a pagina 46 Perché studiare la Storia? A differenza di altre visioni codificabili, la Storia non è un mezzo per esprimere previsioni accurate. Noi studiamo la Storia non per conoscere il futuro, ma per ampliare i nostri orizzonti, per capire che la nostra situazione presente non deriva/dipende da leggi naturali e non è inevitabile; di conseguenza, abbiamo di fronte a noi molte più possibilità di quante ne possiamo immaginare. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 28 Prendiamo le distanze da certa spettacolarizzazione e speculazione diffusa di queste fotografie, da avvicinare solamente con intenzioni filologiche, e ci chiamiamo fuori da tutto questo. Niente altro, niente di più. Antonio Bordoni; su questo numero, a pagina 36

Copertina La Terra sorge sopra l’orizzonte lunare. Questa visione si è presentata per la prima volta agli astronauti di Apollo 8 (21-27 dicembre 1968), i primi a raggiungere la Luna, allontanandosi dalla Terra tanto da poterla inquadrare tutta intera sullo sfondo nero: con questo primo controcampo, lo sguardo umano non si volgeva più verso l’infinito, bensì verso il luogo finito, lì dove c’erano le radici

3 Altri tempi (fotografici) Dettaglio in avvicinamento (crop?) da una cartolina francese del 1919 -cento anni fa-, come certifica l’annullo postale: gesto galante dalla Storia, in celebrazione del centottantesimo anniversario della Fotografia (1839-2019), evocato già da questo numero, con riprese sulle prossime edizioni di quest’anno

7 Editoriale Ventisette gennaio: Giornata della Memoria 2019. Ancora, con il coraggio e l’etica di Ernst Leitz II

8 1839: dal sette gennaio A partire dalle date ufficiali di annuncio e presentazione, rispettivamente sette gennaio e diciannove agosto, la Fotografia compie cento ottanta anni: 1839-2019


FEBBRAIO 2019

RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA

19 Pre 1839... di fantasia Nel brioso film Ladri di cadaveri - Burke & Hare compare un proto fotografo, che agisce nel 1828! In nostra considerazione per i cento ottanta anni Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

Anno XXVI - numero 248 - 6,50 euro DIRETTORE

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

IMPAGINAZIONE

Maria Marasciuolo

REDAZIONE

23 Fotografie epocali Alla fin fine approdiamo a una Fotografia memorabile che ha influito in tempo reale sulla società tutta: la Terra che sorge dalla Luna, ma anche la Terra per se stessa, dalla missione spaziale Apollo 8, del dicembre 1968 (cinquanta anni fa). Però, in visione dovuta -volontaria prima che consapevole-, incontriamo altre due fotografie che hanno agito immediatamente sulle coscienze... entrambe dalla guerra in Vietnam di Maurizio Rebuzzini

30 Legàmi Intensi ritratti di Marina Alessi che, con il passo proprio e caratteristico del più concentrato linguaggio fotografico, sottolineano il significato dei legami nella Vita e per la Vita. Un poco oltre: l’amore e la passione di Angelo Galantini

36 Eroismo fotografico In edizione italiana Mondadori, dall’originaria spagnola, la graphic novel Il fotografo di Mauthausen racconta l’eroica storia di Francisco Boix, matricola 5185 del Campo, che ha pianificato e realizzato il salvataggio di fotografie che documentarono gli eccidi perpetuati di Antonio Bordoni

42 Fotografia umanista In passaggio italiano, lungo il proprio percorso espositivo internazionale, il progetto fotografico Paris d’Amour, del francese Gérard Uféras, è ottimo esempio di fotografia umanista, realizzata con delicatezza e affetto di Lello Piazza

46 Ogni Uomo a se stesso A Matera, in Basilicata, lungo tutto il Duemiladiciannove, si svolge l’intenso e concentrato progetto fotografico Coscienza dell’Uomo: un invito e una esortazione in forma di mostre, convegni e iniziative collaterali di Angelo Galantini

Nella stesura della rivista, a volte, utilizziamo testi e immagini che non sono di nostra proprietà [e per le nostre proprietà valga sempre la precisazione certificata nel colophon burocratico, qui accanto: «È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo)»]. In assoluto, non usiamo mai propietà altrui per altre finalità che la critica e discussione di argomenti e considerazioni. Quindi, nel rispetto del diritto d'autore, testi e immagini altrui vengono riprodotti e presentati ai sensi degli articoli 65 / comma 2, 70 / comma 1bis e 101 / comma 1, della Legge 633/1941 / Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio.

Filippo Rebuzzini

CORRISPONDENTE Giulio Forti

FOTOGRAFIE Rouge

SEGRETERIA

Maddalena Fasoli

HANNO

COLLABORATO

Marina Alessi Aurelio Amendola Antonio Bordoni mFranti Angelo Galantini Lello Piazza Piero Raffaelli Franco Sergio Rebosio Gérard Uféras Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.com; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 1027671617 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard e PayPal (graphia@tin.it). ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano

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editoriale L

ungo le strade della Vita, non cerchiamo mai persone e parole che possano fare la differenza nella nostra Esistenza. Però, fortunatamente, spesso le incontriamo. Esulando qui da ogni fastidioso onere burocratico, le incontriamo soprattutto nello svolgimento delle nostre rispettive mansioni professionali. Infatti, non possiamo ignorare che l’attività produttiva dell’Uomo sia l’attività pratica fondamentale, che determina anche ogni altra forma di attività. La conoscenza umana dipende soprattutto dall’attività produttiva materiale: attraverso questa, ciascuno riesce a comprendere grado a grado i fenomeni, le proprietà e le leggi della natura, come pure i propri rapporti con la natura e la realtà; inoltre, attraverso l’attività produttiva, a poco a poco, ognuno raggiunge i diversi livelli di comprensione di certi rapporti reciproci tra gli Uomini (e tanto altro ancora da dire, al proposito). Ecco dunque che torniamo su una vicenda a base fotografica (diciamola così), sollecitata da una evocazione che merita attenzione, ancora oggi: la scorsa domenica ventisette gennaio è stata celebrata la Giornata della Memoria 2019, in ricordo delle vittime dell’Olocausto nazista, coincidente con lo svolgimento della Seconda guerra mondiale (attenzione: sterminio non solo di ebrei, dove troppo spesso ci si limita, ma anche dissidenti politici, Testimoni di Geova, immigrati, Rom e Sinti, omosessuali, civili slavi, prigionieri di guerra, disabili e altro ancora, fino all’eliminazione stimata di tredici-diciannove milioni di innocenti). In ripetizione da altre nostre precedenti rievocazioni analoghe, ancora qui, riproponiamo la nobile vicenda del produttore tedesco di apparecchi fotografici (e ottica di precisione) Ernst Leitz II, e famiglia, che dal 1933 di salita al potere di Hitler ha messo in salvo oltre trecento propri dipendenti di religione ebraica e negozianti e amici, trasferendoli all’estero. Tra tanto che incontriamo nel nostro mestiere in fotografia, questa di Ernst Leitz II è una lezione che ha influito sulla nostra Esistenza: per se stessa e il suo svolgimento. Infatti, lo ricordiamo, Ernst Leitz II, mancato nel 1956, non ha mai parlato della sua opera di tutela/assistenza di ebrei tedeschi. Le prime notizie al proposito sono state diffuse da Norman Lipton, impiegato della filiale Leitz di New York, nel 1969. In seguito, la storia dettagliata è stata raccontata dal rabbino Frank Dabba Smith nel suo The greatest invention of the Leitz family: The Leica freedom train, pubblicato nel 2002. Nel 2007, a Ernst Leitz II -il cui motto fu “Dire poco, fare molto” (!)- è stato conferito il riconoscimento Courage to Care Award. Zibaldone: dopo l’edizione originaria, appena evocata, segnaliamo le pubblicazioni di Dr. Ernst Leitz II and the Leica Train to Freedom. Defying the Nazis with a Camera (Dr. Ernst Leitz II e il treno Leica della libertà. Sfidando il nazismo con una macchina fotografica), realizzato dalle sorelle Taylor e Samantha Beitzel, in illustrazioni dedicate ai bambini [FOTOgraphia, settembre e dicembre 2015], e Ernst Leitz of Wetzlar: Helping the Persecuted, ancora del rabbino Frank Dabba Smith, del 2010. Maurizio Rebuzzini

Divulgato nel 2002, The greatest invention of the Leitz family: The Leica freedom train è il saggio originale con il quale il rabbino Frank Dabba Smith racconta l’azione svolta da Ernst Leitz II a favore di ebrei tedeschi, a partire dal 1933. Quindi, segnaliamo la successiva edizione di Ernst Leitz of Wetzlar: Helping the Persecuted, del 2010 [ FOTOgraphia, dicembre 2015].

Dr. Ernst Leitz II and the Leica Train to Freedom. Defying the Nazis with a Camera, di Taylor Beitzel, illustrazioni di Samantha Beitzel; 2015. Racconto della stessa vicenda di Ernst Leitz II, in linguaggio adatto alla comprensione dei bambini [ FOTOgraphia, settembre e dicembre 2015].

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1839-2019: centottant’anni di Maurizio Rebuzzini (Franti)

1839: DAL SETTE GENNAIO

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La data è ufficiale. Per quanto la fotografia così come l’abbiamo intesa per centottanta anni, e ancora l’intendiamo, perfino alla luce delle tecnologie che si sono succedute, ciascuna in regola e allineamento con i propri tempi (anche sociali), abbia origine e derivi dal processo calotipico negativo-positivo di William Henry Fox Talbot, la sua nascita deve essere conteggiata dall’annuncio del dagherrotipo: 7 gennaio 1839, con successiva presentazione il diciannove agosto. Tra le due date, tanti accadimenti, ai quali fa seguito la prima Relazione pubblica italiana, di Macedonio Melloni, il dodici novembre [in un successivo numero di FOTOgraphia, sempre per questo anniversario tondo]. Con rispetto e senso del dovere ricordiamo la breve relazione con la quale l’accademico François Jean Dominique Arago, matematico, astronomo e fisico, ma soprattutto influente uomo politico della Francia del primo Ottocento, offrì a Louis Jacques Mandé Daguerre il crisma ufficiale della sua invenzione. Così che, datiamo la nascita della fotografia (in forma di dagherrotipo) da quel lunedì 7 gennaio 1839 dell’annuncio di Arago all’Académie des Sciences, di Parigi, al quale annuncio sarebbe poi seguita la presentazione del successivo diciannove agosto (ci torniamo). Dunque: 1839-2019 fanno esattamente centottanta anni. A questo proposito, per diritto di anagrafe, e qualcosa d’altro, non necessariamente di più, ricordiamo bene quanto tanto fu organizzato in tutto il mondo per i centocinquanta anni della successione di date 1839-1989. In tutto il mondo, furono predisposte e svolte imponenti retrospettive storiche, accompagnate da immancabili cataloghi di spessore e profondità. Per non parlare, ancora, delle monografie a tema, estese anche a visioni parzializzate: alle quali, oggi e qui, sommiamo una sostanziosa quantità/qualità di celebrazioni in misura filatelica (quella che sta alla base dell’ambizioso progetto di Fotografia nei francobolli, avviato cinque anni fa, nel Duemilaquindici, e arenatosi di fronte ad avversità di carattere finanziario ed economico: ma non dispe-

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Centocinquanta anni della Fotografia (1839-1989): emissione filatelica della Repubblica Popolare Cinese, del 15 ottobre 1989; peraltro, l’unica ad aver sottolineato -nel proprio soggettoil simbolo ufficiale che fu coniato per l’occasione, nel quale la fatidica data/cifra “150” simula un apparecchio fotografico, qui portato all’altezza dell’occhio.

(pagina accanto) I tre soggetti filatelici con i quali, il 6 settembre 1989, Suriname ha celebrato i centocinquanta anni dall’annuncio e presentazione della Fotografia: apparecchio per dagherrotipia, Niépce e Daguerre.

riamo... mai). Sommiamo qui, in illustrazioni di accompagnamento. In Italia, in mancanza di mezzi e interlocutori illuminati, le celebrazioni furono oggettivamente sottotono, lasciate soprattutto alla buona volontà di identificati personaggi, che agirono soltanto per propria caparbietà, più che per consenso riconosciuto.

CENTOCINQUANTA ANNI Ricordiamo con piacere questi autentici sforzi sovrannaturali, e non chiedeteci i nomi (occupano un posto d’onore nella nostra memoria), almeno quanto rammentiamo anche la stoltezza di chi, in posizione opportuna, privilegiata e favorevole, non fece nulla. Proprio nulla. Clamoroso (oltre che stupido): c’è stato addirittura chi osò affermare di non celebrare volontariamente il centocinquantenario, perché (testuale!, per testimonianza diretta) «la fotografia è stata inventata prima...» (da non credere!). Certo, non tutto si è concentrato in quel sette gennaio, e date conseguenti, e ovviamente ci sono stati studi ed esperimenti cadenzati indietro negli anni, perfino nei decenni e nei secoli.

Ma! Ma dobbiamo pure ricondurci e riferirci a date ufficiali. E comunque, accettando e seguendo la logica secondo la quale “la fotografia sarebbe stata inventata prima”, nulla fu neppure fatto, in date precedenti alla combinazione 1839-1989 dei centocinquant’anni, per le ricorrenze delle eliografie di Joseph Nicéphore Niépce, sulla cui primogenitura concordiamo tutti: copia a contatto su lastra di peltro spalmata di bitume di Giudea del ritratto del 1610 del cardinale di Reims Georges d’Amboise (1826, oppure 1822? -per i francesi, 1822-; tra l’altro, primo esempio di riproduzione fotomeccanica); Veduta dalla finestra di Gras, prima “fotografia” ottenuta per esposizione con camera obscura (1826 o 1827: otto ore di posa). [Questa eliografia, di Joseph Nicéphore Niépce, di 16,2x20,2cm (altrove, 16,5x 20,3cm), che si conteggia come la prima fotografia in assoluto della Storia, ritrovata nel 1952 da Helmut Gernsheim, è stata donata alla University of Texas, di Austin, dove è ora conservata in una cornice 25,8x29cm]. È stata altrettanto ignorata la straordinaria figura di sir John Frederick Wil-


ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (4)

liam Herschel. Nel 1819, quando molti esperimenti di altri pionieri si infrangevano contro il muro delle superfici che rimanevano sensibili alla luce anche dopo il processo di sviluppo, annerendo miseramente le copie faticosamente ottenute, scoprì la proprietà dell’iposolfito di sodio di sciogliere i sali d’argento (sensibili alla luce): in questo modo, l’immagine sviluppata non è più alterabile dalla luce. Il fissaggio è uno degli elementi fondamentali del processo fotografico, e questa scoperta consentì agli sperimentatori di rendere stabili le immagini realizzate e ottenute con i propri procedimenti. Né qui, né ora, intendiamo registrare alcuna delle polemiche che si raccontano in tutte le storie della fotografia, sia in quelle più accreditate -e non sono poche-, sia in quelle più cialtrone, che sono altrettante, se non già di più. Soltanto, non possiamo evitare di sottolineare l’assurdità dell’esclamazione sbalordita con la quale il pittore Paul Delaroche accolse il primo dagherrotipo che vide [ammesso che l’abbia veramente detta; a questo proposito, Diego Mormorio è lapidario e la nega, in uno dei capitoli della sua ot-

tima Storia essenziale della fotografia, pubblicato da Postcart, a fine 2017, in nostra presentazione/recensione, lo scorso settembre]: «Da oggi la pittura è morta!», avrebbe sentenziato; e così hanno registrato tutte le storie. Quindi, accettandola per buona, quantomeno ai fini di ragionamento a seguire, fu profezia completamente sbagliata, oltre che priva di senso per chiunque sappia in cosa consiste un’espressione estetica. Tanto è vero che dall’invenzione della fotografia -modalità per realizzare automaticamente immagini, senza la dipendenza da alcuna abilità nel disegno-, a partire dall’Impressionismo, la pittura ha potuto imboccare e percorrere strade nuove, che hanno dato acclamato vigore alla sua stessa espressività creativa ed artistica. Comunque, rimanendo nel solo ambito originario dell’immagine del vero (della “natura che si fa di sé medesima pittrice”, straordinaria descrizione del processo che più prosaicamente oggi definiamo “fotografia”, e ormai soprattutto “imaging”), l’infelice e infame epitaffio attribuito a Paul Delaroche esprime bene ed esattamente la costernazione diffusasi tra i pittori e gli incisori


1839-2019: centottant’anni del tempo, che -comprensibilmentetemettero di perdere il proprio mezzo di sussistenza, visto e considerato che con il dagherrotipo chiunque avrebbe potuto realizzare in poco tempo ciò che a un artista costava giornate di lavoro. Difatti, i primi fotografi professionisti furono proprio pittori e incisori convertiti alla novità tecnica.

Più avanti, registriamo le reazioni all’annuncio del sette gennaio. In particolare, pur riconoscendo l’ufficialità della data e nascita con il dagherrotipo, non possiamo ignorare la sacrosanta rivendicazione di William Henry Fox Talbot; così come va ricordata la personalità di Hippolyte Bayard, funzionario del ministero delle Finanze francese, un altro degli sperimentatori che hanno agito simultaneamente per lo stesso scopo, ognuno all’oscuro dell’esistenza degli altri. Fu messo da parte dal potere politico e scientifico, altrimenti indirizzato e alleato (con Daguerre). Comunque, Hippolyte Bayard aveva realizzato sia un processo autopositivo (come Daguerre) sia un processo negativo-positivo (come Fox Talbot), entrambi su carta. Ma è proprio il dagherrotipo che detta legge nelle prime settimane del 1839, all’indomani del fatidico lunedì sette gennaio. Addirittura, è glorificato anche a spese di Joseph Nicéphore Niépce, liquidato in fretta come un semplice realizzatore di silhouette che richiedevano lunghe pose, nell’ordine di almeno dodici ore (?!). Forte della propria posizione di prestigio alla Camera dei Deputati, di Parigi, lo stesso Arago fu capofila di una ben orchestrata pantomima a favore di Daguerre. Soprattutto, poneva l’accento sui brevi tempi di esposizione del suo procedimento, conteggiati in «dieci o dodici minuti con il cattivo tempo invernale. [...] D’estate, questo tempo di esposizione può essere ridotto alla metà». Inoltre, sentenziava Arago, «il dagherrotipo non richiede una sola manipolazione che non sia assolutamente facile per chiunque. Non esige conoscenza del disegno [diavolo!] e non dipende da un qualsiasi genere di destrezza naturale. Rispettando poche semplici istruzioni, chiunque può riuscire con certezza a ottenere risultati pari a quelli conseguiti dall’autore dell’invenzione».

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ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2)

INGERENZA POLITICA

Per la propria emissione filatelica celebrativa dei centocinquanta anni di Fotografia (1839-1989), del 29 agosto 1989, la Bulgaria ha ricordato l’esperienza fotografica di Nadar (GaspardFélix Tournachon) dal pallone aerostatico, riproponendo la celebre litografia ironica di Honoré Daumier, del 1862, nella quale il fotografo parigino eleva la fotografia all’altezza dell’arte [nostra finalizzazione nel numero nero Vogliamo parlarne?, dell’aprile 2011]. In abbinamento, una visione della Cattedrale di Aleksandär Nevski, nella capitale Sofia, con dirigibile in volo.

Così che registriamo che Arago non è mai stato sfiorato dal pensiero che la fotografia, chiamiamola come la conosciamo (e come vorremmo sempre conoscerla), avesse diritto a uno status artistico ed espressivo. Cioè la pensò e descrisse sempre in subordine e supporto ad altro, senza intravederne possibili personalità espressive proprie e autonome. E in questo modo istruì coloro che poteva condizionare con l’esercizio del proprio potere. In ogni caso, Arago ha sempre declinato le possibilità del dagherrotipo all’interno del contesto di progresso scientifico e tecnico del proprio tempo. A questo proposito, registriamo una sua illuminante osservazione, pubblicata sulla Gazzetta Privilegiata di Milano, il venti novembre: «Certo, non è facile al primo apparire di una scoperta prevedere tutti gli usi a cui potrà servire, tutte le applicazioni che si potrà farne. Chi mai ai primi tentativi fatti per usar della potenza del vapore, avrebbe solo immaginato, e la rapidità dei viaggi sulle strade ferrate, e la facilità di navigare contr’acqua, e contro vento, e la innumerevole molteplicità delle macchine, per le quali l’operosità del-

l’uomo è a mille doppi aumentata». Chiamato alla corte di Arago-Daguerre, il chimico e fisico Joseph Louis Gay-Lussac, già noto e riconosciuto per ricerche sulle proprietà fisiche dei gas (e non per la legge trivialmente alterata dei tempi spensierati della scuola), riferì alla Camera alta francese che il procedimento dagherrotipico «dà origine a una nuova arte in un’antica civiltà, un’arte che potrebbe benissimo inaugurare un’era ed essere preservata come titolo di gloria. [...] Facciamo in modo che resti in evidenza come una splendida prova della protezione che la Camera, anzi l’intero paese, assicurano alle grandi invenzioni». La volata a un consistente riconoscimento economico per Daguerre era partita, e a tirarla sono stati eminenti scienziati. Ancora, Gay-Lussac ribadì l’eccellenza dell’invenzione con una affermazione perentoria, che non poté non suscitare stupore: «Il dagherrotipo rappresenta la natura inanimata con un grado di perfezione irraggiungibile dai normali procedimenti del disegno e della pittura, una perfezione uguale a quella della Natura stessa». A Louis Jacques Mandé Daguerre


1839-2019: centottant’anni

venne corrisposto un vitalizio annuo, affinché la Francia potesse far conoscere «all’umanità questa prodigiosa invenzione». Una simile iniziativa non fu certo priva di senso politico; in quel modo, nell’anno del cinquantesimo anniversario della Rivoluzione (17891839), lo Stato francese mostrò quanto grande fosse lo spirito d’iniziativa della nazione tutta.

NEL QUOTIDIANO Immediatamente, e in assenza di vincoli (che invece comprometteranno il cammino del calotipo di William Henry Fox Talbot, detentore del proprio brevetto), in Francia e in tutta Europa vengono avviati svariati laboratori di dagherrotipia, che crescono rapidamente in numero per tutto il decennio dei Quaranta. Di fatto, i prezzi delle prestazioni professionali, considerevolmente inferiori a quelli della pittura, resero il dagherrotipo accessibile a un vasto pubblico. Con tutto, l’accoglienza che l’Accademia delle Belle Arti riserva al dagherrotipo è, invece, piuttosto ostile. La realizzazione apparentemente meccanica delle immagini rompe con il po-

stulato sul quale si fonda tutto l’insegnamento accademico basato sull’imitazione degli antichi maestri. Al contrario, i membri della stessa Accademia delle Belle Arti si pronunciano a favore del procedimento messo a punto da Hippolyte Bayard e simile a quello di William Henry Fox Talbot, che stiamo per incontrare: «Agli occhi degli intenditori, i disegni di Bayard rivelano l’aspetto dei disegni degli antichi maestri», è l’asserzione ufficiale. Tuttavia, sul finire del 1839, alcuni dagherrotipi sono presentati nell’ambito di mostre d’arte. Nell’autunno, un dagherrotipo realizzato dall’inventore Daguerre, raffigurante il Jardin des Tuileries, viene esposto a Edimburgo, nel corso di una mostra nella quale le creazioni artistiche sono alternate e frammiste a oggetti fatti a mano (manufatti con intenzioni esplicitamente artistica). Nell’ambito della stessa mostra, sono altresì esposti trenta disegni fotogenici di Fox Talbot. A Parigi, durante la mostra dei Prodotti dell’Arte e dell’Industria, del successivo 1844, una serie di dagherrotipi è esposta accanto agli strumenti per artisti e alle litografie. In questo modo,

Due i soggetti filatelici polacchi per i centocinquanta anni della Fotografia (1839-1989), emessi il 27 novembre 1989. Questo, del valore di quaranta złoty, riprende una evidenza fotografica, con apparecchio e treppiedi, per ricordare l’autorevole fotografo polacco Maksymilian Strasz (1804-1885). L’altro, non visualizzato, da sessanta złoty, sintetizza l’iride delle lamelle del diaframma al centro di un occhio fisiologico stilizzato (analogo/identico al logotipo della rete televisiva statunitense Cbs Television).

la severa e autorevole giuria sancisce l’ingresso del dagherrotipo nella sfera artistica. Tuttavia, l’ammissione della fotografia nella lista delle belle arti procede lentamente. Difatti, bisognerà attendere il 1859 prima che le fotografie su carta, dopo la scomparsa del dagherrotipo, siano mostrate, come le pitture e le sculture, nel corso dei Salon di Parigi (per intenderci, è l’edizione che provoca l’avversione ufficiale ed esplicita di Charles Baudelaire, spesso riferita dalle Storie della fotografia, che relazionò per la Révue Française, del dieci giugno e venti luglio. Soprattutto, dal nostro punto di vista mirato e viziato, è celebre il secondo capitolo del suo pamphlet Salon de 1859, intitolato Il pubblico moderno e la fotografia, nel quale il poeta esprime tutta la propria ostilità alla nuova arte. Ma forse, rileggendolo con più attenzione, oggi le conclusioni potrebbero essere anche diverse).

IN ITALIA (CIRCA) Con ardito salto temporale, precisiamo che l’ufficialità del dagherrotipo in Italia data alla Relazione che il fisico Macedonio Melloni legge alla Reale

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1839-2019: centottant’anni Accademia delle Scienze di Napoli, nella tornata del dodici novembre, riferendo appunto intorno al dagherrotipo, alla luce dell’annuncio del sette gennaio e della presentazione del diciannove agosto. E sulla Relazione, ci impegneremo a breve. Al proposito, è doverosa una avvertenza (nostra): per quanto da registrare in virtù della propria personalità iniziale e originaria, la Relazione è di una noia abissale! In date coincidenti, anticipiamo anche che il primo apparecchio italiano per dagherrotipia è fabbricato a Torino, da Enrico Federico Jest, in ottobre. L’otto del mese, si registra il suo primo esperimento: Veduta della Gran Madre di Dio (dagherrotipo oggi custodito e conservato nella Galleria Civica d’Arte Moderna del capoluogo piemontese). Di un suo secondo dagherrotipo si ha testimonianza diretta dalla Gazzetta Piemontese, dell’undici ottobre: «Noi intanto porgiamo vive grazie al sig. Jest della sua nobile prova, e facciam voti che a questa sola ei non limiti il suo potente intelletto e la sua industre meccanica: imperocché il Daguerrotipo francese è già per lui renduto italiano, e forse per alcuni aspetti superiore al francese medesimo [...] con quella sua veduta così chiara ed esatta, ottenuta in sì pochi momenti [...]. Chi di noi non griderà agli italiani: Coraggio! L’esempio del fisico francese ci inanimi a diuturni sforzi per emularlo». Dal successivo novembre, il milanese Alessandro Duroni importa i primi apparecchi Daguerre-Giroux, in vendita a Parigi dal dieci agosto. In anticipo su tutto questo, registriamo cronache giornalistiche a tema. Una prima notizia sul dagherrotipo si legge nella Gazzetta Privilegiata di Milano (quotidiano Coi tipi e a spese di Angiolo Lambertini estensore ed editore), del quindici gennaio. Solo sei giorni dopo la pubblicazione sui giornali di Parigi, la Gazzetta Privilegiata dà una breve notizia sull’invenzione, richiamando un articolo del Moniteur Parisien, del nove gennaio, peraltro successivo all’anticipazione della Gazette de France, del precedente sei gennaio (il giorno prima dell’annuncio di Arago). Immediatamente a seguire, si accoda la Gazzetta Privilegiata di Venezia (quotidiano di Tommaso Locatelli), che il diciotto gennaio si rifà allo stesso Moniteur Parisien. Da febbraio, la notizia dilaga su tutti

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Altri francobolli celebrativi dei centocinquanta anni di Fotografia (1839-1989) / 1 [a seguire, alle pagine 13 e 16]. Anzitutto, in casellario, richiamiamo le emissioni filateliche singole, o quasi, distribuite nel mondo, in alfabetico: Brasile, del 14 agosto 1989, con evocazione dei pionieri Niépce, Daguerre, Fox Talbot e Bayard, ai quali si aggiunge il francese Antoine Hércules Romuald Florence (1804-1879), emigrato in Brasile, del quale -recentementesono stati ritrovati studi originari della natura che si fa di sé medesima pittrice (da tornare sull’argomento); Finlandia, del 6 febbraio 1989; Guyana, del 15 aprile 1989; Turchia, in due valori, del 17 ottobre 1989; e Ungheria, del 15 giugno 1989. Ovviamente, tutti questi francobolli, come quelli illustrati in queste pagine e quelli richiamati anche alle pagine 13 e 16, sono presenti nel nostro archivio, e sono previsti nell’apposito capitolo Passa il Tempo... Centocinquanta anni, uno dei ventisei della rievocazione commentata Fotografia nei francobolli, di Maurizio Rebuzzini, che potrebbe concludersi a tempi medi.

i quotidiani italiani. Alcuni tengono anche conto e riferiscono del neonato dualismo con l’analoga invenzione di William Henry Fox Talbot. Così, proseguendo nelle settimane, si incontra una significativa relazione della Gazzetta Piemontese, del sei marzo: prima pagina, con occhiello Varietà: Scoperta Daguerre - Carta Talbot; una sorta di polemica sull’invenzione e sulla carta fotogenica. Leggiamo. Da due o tre mesi in qua i giornali e le accademie, tratto tratto di altro non risuonano che della maravigliosa scoperta del sig. Daguerre parigino, scoperta per mezzo della quale non più l’uomo, ma la natura stessa è fatta di sé medesima pittrice, e col semplice apparato conosciuto sotto il nome di camera oscura [obscura], esponendolo ai raggi di un limpido sole ed applicandovi nel fondo un foglio di carta preparata con certo artificio, la prospettiva abbracciata dal campo della lente viene in poco d’ora a tratteggiarsi, nitida, mirabilmente nitida, in chiaro scuro, sopra questa carta misteriosa. A chi conosce alquanto di chimica non occorre aggiungere che la sostanza di cui la carta debb’essere spalmata è una di quelle sulle quali la luce ha un’azione potentissima e che in proporzione della gagliardia dei raggi che le percuotono cambiano il natio loro colore. Finora per altro, mentre a Parigi sostiensi che il trovato è cosa francese, Berna che ell’è invenzione svizzera, in Germania ed in Inghilterra che essa è scoperta alemanna o britannica, il metodo pratico di preparare la mirabil carta spacciavasi per un segreto, per altro affidato, affine di non perderlo, a due gerofanti dell’accademia francese, i quali dichiarano nel medesimo tempo che il segreto è segreto e non segreto, vale a dire che basta solo il dirne una parola per rivelarlo, divolgarlo, cosmopolizzarlo. Mentre adunque stiamo aspettando questa desiderata propalazione, ecco quello che il Globe inglese del 23 di febbraio dice in piane e semplici parole intorno ad un modo pratico di preparare la carta, alla quale in Londra si dà il nome di fotogenica. «II sig. Talbot ha presentato una carta fotogenica alla società regia di Londra. Ed eccone la preparazione: Egli prende carta da lettere sopraffina,

molto compatta e levigata; la intinge in una debole soluzione di sal marino, ed asciutta la soffrega ben bene perché il sale trovisi uniformemente distribuito pel foglio. Sparge quindi sovra una faccia soltanto una soluzione di nitrato d’argento e la fa seccare al fuoco. Questa soluzione non debb’essere satura, ma allungata in sei o sette volte tant’acqua. La carta così rasciutta è in punto per l’uso. Nulla di più perfetto delle immagini di fiori e di frutti che vi si ottengono sopra coll’aiuto della camera oscura [obscura] ad un bel sole d’estate. La luce sbattuta dalle foglie e dai petali ne disegna le più minute nervature. Se la soluzione del sal marino fosse troppo forte (soprattutto se si serbasse la carta alcune settimane prima di adoperarla) l’impressività ne sarebbe notabilmente scemata, talora anche annientata. Ma se vi si stende sopra una nuova soluzione d’argento, la carta acquista proprietà fotogeniche ancora più sorprendenti. La preparazione più volte ripetuta accresce la sensitività della carta alla luce solare. «Per conservar le immagini, il sig. Talbot spalma la pittura fotogenica di una soluzione d’iodito di potassa, con che formasi un iodito d’argento assolutamente inattaccabile ai raggi del sole; ma l’operazione è molto delicata. Una soluzione troppo forte attaccherebbe le parti più cariche del disegno. «Il sig. Talbot pratica pertanto abitualmente un altro metodo, che consiste nell’immergere il disegno in una forte soluzione di sal marino, asciugarne l’umidità superflua e far seccare la carta. Il disegno così lavato e seccato prende, quando lo si espone al sole, una tinta d’un lillà pallido nelle parti bianche, la quale cancellasi tuttavia col tempo. «I disegni conservati coll’iodito sono sempre d’un giallo di primarosa pallidissimo, che avvivasi esposto al fuoco, ma torna al suo color primitivo raffreddandosi. Sir John Herschel ha fatto molti sperimenti di questo trovato servendosi della luce ottenuta colla grande batteria galvanica di Danieli: e se n’è pure occupato sir David Brewster».

ANCORA ITALIA Tutti i primi articoli sono concordi nell’annunciare e presentare la Grande scoperta, piuttosto che La Camera


1839-2019: centottant’anni ottica di Daguerre, o l’Importanza della scoperta di Daguerre. Tra i tanti, ancora una testimonianza diretta, appassionante nella propria declinazione. Dal Messaggero Torinese, del ventitré febbraio: Il Dagherrotipo, all’interno del quale si intravedono i richiami per i quali il direttore Angelo Brofferio avrebbe intitolato Il dagherrotipo: galleria popolare enciclopedica il settimanale di tono progressista e a finalità divulgative da lui avviato il successivo 2 gennaio 1840. II nostro secolo, che già si è arricchito di tante e sì utili scoperte, si è abbellito testé d’un’invenzione più prodigiosa forse di queste, e che occupa attualmente la pubblica attenzione. Il sig. Daguerre, abile pittore, e profondo chimico, che già offrì a Parigi le meraviglie del suo Diorama, a forza di perseveranza ottenne questo risultamento. Egli ha composto una vernice nera che si stende sovra una tavola qualunque. Esposta detta tavola ad una viva luce, la terra od il cielo, o l’acqua corrente, il duomo che si perde nelle nuvole, il lastricato, l’impercettibile granello di sabbia, tutte queste cose grandi o piccole, e che sono eguali pel sole s’imprimono in un momento in questa specie di camera oscura [obscura] che conserva tutte le impronte. A tanto non giunsero mai i più grandi maestri. Il sole stesso introdotto questa volta come l’agente onnipossente d’un’arte novella produce tale incredibile lavoro. Or non è più lo sguardo incerto d’un uomo che scopre da lungi l’ombra o la luce, non è più la sua mano tremolante che disegna su mobile carta la scena fuggevole di questo mondo; non è più necessario di passare tre giorni sotto un medesimo punto di cielo per ritrarne appena una dubbia immagine, poiché il prodigio si opera in un momento pronto come il pensiero e rapido come un raggio solare. Le torri della chiesa di Nostra Signora di Parigi hanno ubbidito a Daguerre che un dì le portò con sé, dalla loro pietra fondamentale sino all’esile guglia che s’innalza nell’aria. In questo modo si videro ancor riprodotti i più gran monumenti di quella città, il Louvre, l’Istituto, le Tuileries, il Ponte nuovo, il selciato della Grève, l’acqua della Senna, il cielo che copre santa Genoveffa, e in cia-

scuno di questi capolavori la stessa inconcepibile perfezione. Ma questa pittura non è uniforme come potrebbe sembrare a prima giunta. Al contrario niuno di questi dipinti eseguiti col medesimo mezzo rassomiglia al precedente: l’ora del giorno, il colore del cielo, la limpidezza dell’aria, il rinesso dell’acqua si riveggono meravigliosamente in siffatti portentosi quadri. Epperciò con una serie di essi creati col Dagherrotipo si vide Parigi illuminata da un caldo raggio di sole, e poscia Parigi sotto un velo di nugoli quando la pioggia cade tristamente goccia a goccia. In questo modo non si ritraggono solo con una fedeltà inesprimibile i particolari dell’oggetto, ma si rappresenta ancor vivamente la luce. Noi giungeremo perciò a distinguere al primo colpo d’occhio il pallido sole di Parigi e l’ardente d’Italia: una fresca valle della Svizzera e il deserto di Saara, il campanile di Firenze e le torri di Notre-Dame col solo aspetto dell’aria in cui s’elevano questi grandiosi monumenti. Ciò che poi ancor più ammirabile si è che impressionata la tenue vernice dal sole o da debole luce, quantunque si esponga da una vivida luce, ella è durevole, inalterabile come un’impressione sull’acciajo. Nella camera oscura [obscura] si riflettono gli oggetti esteriori con una fedeltà senza pari, ma questa non rimanda nulla per se stessa. Essa non è un dipinto, ma uno specchio su cui nulla rimane. Immaginiamoci ora che questo specchio abbia conservato l’impronta degli oggetti che vi si sono riflessi, ed avremo un’idea quasi esatta del Dagherrotipo. La luna stessa col suo splendore mobile ed incerto, pallido riflesso del sole, si riflette nello specchio di Daguerre. Quante saranno le applicazioni di questa importante scoperta che sarà forse l’onore del nostro secolo! Sottomettete al microscopio solare l’ala d’una mosca, e il Dagherrotipo così possente come quello ve la rappresenterà colle sue dimensioni incommensurabili. Esso vi riprodurrà gli aspetti della natura e dell’arte, come a un dipresso la stampa, i capolavori dello spirito umano. È un’incisione alla capacità di tutti, una matita ubbidiente come il pensiero, uno specchio in cui si fissano

Altri francobolli celebrativi dei centocinquanta anni di Fotografia (1839-1989) / 2 [dopo la pagina 12; a seguire, ancora alla pagina 16]. Il caso delle poste canadesi è estremamente complesso, tanto da richiedere approfondimenti qualificati (da parte di chi?), che possano fare luce sulle innumerevoli emissioni filateliche che richiamano il centocinquantenario, riferendolo alla fotografia canadese, raccolte in fogli Souvenir da tre a cinque valori ciascuno. Dal 22 marzo 2013, di origine (forse) certa, ne sono stati realizzati una mezza dozzina. È probabile, ma non certo, che l’ultimo sia stato pubblicato nel 2017, ma, poi, sono state realizzate ulteriori raccolte in miscellanea. In ogni caso, mai la fotografia attraverso sue simbologie di richiamo, ma sempre e soltanto fotografie attribuite ad autori storici, perfino contemporanei. Insomma: da ristudiare con attenzione e dedizione, magari le nostre di sempre.

le immagini. Il Dagherrotipo sarà compagno inseparabile del viaggiatore, e renderà comuni le più belle opere dell’arte di cui non si hanno che copie a caro prezzo ed infedeli; si avranno i quadri di Raffaello e di Tiziano. In fine esso provvederà a tutti i bisogni dell’arte e ai capricci della vita. Il signor Daguerre spera ancora di ottenere il ritratto delle persone; trovata una macchina che renda l’oggetto perfettamente immobile, egli vi dipingerà lo sguardo, l’aggrottar delle ciglia, la menoma ruga della fronte, la menoma ciocca de’ capelli. Il sig. Arago farà in breve una proposizione alle Camere per dare a questo insigne scienziato una ricompensa nazionale.

SOPRATTUTTO LUI! Per tanti motivi, sorvoliamo sulla vicenda dello sfortunato Hippolyte Bayard, tenuto a distanza dal Potere francese, che ha abbracciato l’invenzione di Daguerre. Comunque, ricordiamo che, oltre i meriti di sperimentatore, ne ha conquistati tanti altri come fotografoautore; tra l’altro, è stato uno dei cinque convocati per la Mission héliographique, voluta e organizzata nel 1851 dalla Commission des monuments historiques, ente governativo francese dipendente dalla Administration des Beaux-Arts, la prima campagna di documentazione fotografica del paesaggio (del territorio, come diciamo da qualche decade): con lui, anche Gustave Le Gray, Édouard Baldus, Henri Le Secq e Auguste Mestral, tutti conteggiati e considerati nelle storie evolutive del linguaggio fotografico. E poi, gli si deve riconoscere il primo autoritratto fotografico della Storia, realizzato nel 1840, peraltro paradossale e oggettivamente “impossibile”: ironicamente realizzato in posa da affogato, perché lo Stato francese, complice l’affarista François Jean Dominique Arago, ha finanziato Daguerre e lui è rimasto senza un soldo. Spostiamo invece l’attenzione sulla figura di William Henry Fox Talbot, dal cui processo calotipico deriva la fotografia come l’abbiamo sempre intesa: matrice dalla quale ricavare copie in quantità potenzialmente illimitata. All’indomani dell’annuncio con il quale, il 7 gennaio 1839, l’astronomo Arago comunicò all’Accademia delle Scienze, di Parigi, il processo di Louis

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1839-2019: centottant’anni Jacques Mandé Daguerre, dal quale si conteggia la nascita ufficiale della fotografia (ovverosia della “natura che si fa di sé medesima pittrice”, in forma di dagherrotipo), l’inglese William Henry Fox Talbot vantò una legittima priorità “fotografica”. Prontamente, Fox Talbot afferma che già nel precedente 1833 aveva esposto al sole una foglia a contatto con carta imbevuta in soluzione di sale da cucina e nitrato d’argento, ottenendone un disegno bianco su fondo nero. Quindi, nell’estate 1835, nella propria residenza di Lacock Abbey, nel Wiltshire, dove ora ha sede il museo a lui intitolato, con una piccola camera obscura dotata di obiettivo, aveva esposto il suo materiale sensibile alla luce (carta al nitrato e cloruro d’argento), ottenendo il negativo (di circa 6x6cm) di una finestra, che conteggiamo come il primo “negativo” della Storia. In origine, definisce i suoi risultati “disegno fotogenico”, e sarà calotipia -processo perfezionato rispetto la chimica del “disegno fotogenico” originario-, quando verrà depositato il brevetto (1841); allo stesso momento, rivela la possibilità di ottenere copie positive in quantità, stampando nuovamente a contatto, carta su carta, il negativo di partenza. Ecco perché reputiamo William Henry Fox Talbot padre della fotografia così come la intendiamo. Una volta ancora, e una di più: stampabile in copie multiple, teoricamente infinite, a differenza (sostanziale!) dalla copia unica del dagherrotipo, sul quale l’immagine si forma sulla sottile e delicata lamina d’argento esposta in ripresa. Il ventinove gennaio, William Henry Fox Talbot scrive una lettera all’accademico François Jean Dominique Arago, padrino di Daguerre, nella quale rivendica la priorità dei propri esperimenti; e il successivo trentuno gennaio tiene una relazione sui suoi disegni fotogenici alla Royal Society, dopo che il precedente venticinque Michael Faraday, al quale si deve la scoperta dell’induzione elettromagnetica, li aveva già mostrati ai membri della Royal Institution. Curiosamente, la relazione della seduta del trentuno gennaio precede la pubblicazione del manuale di Daguerre, dell’agosto 1839, in coincidenza con la presentazione ufficiale del diciannove del mese, in seduta pubblica congiunta delle Accademie delle

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I centocinquanta anni di Fotografia (1839-1989), in celebrazione filatelica sovietica, con emissione del 24 maggio 1989, riconducono al concetto (e valore!) di negativo/positivo. Se vogliamo vederla così, in individualità di pensiero nostro... magari forzato, potremmo ipotizzare una presa di distanza dalla nascita ufficiale in forma di dagherrotipo (in copia unica, su sottile e delicata lamina d’argento esposta in ripresa), a favore del processo calotipico di William Henry Fox Talbot, appunto con negativo dal quale ricavare copie positive in quantità ufficialmente illimitata, che -a tutti gli effettideve essere considerato come l’effettivamente originario della Fotografia, come l’abbiamo sempre intesa e come continuiamo a considerarla e interpretarla, ancora oggi, quando il file digitale ha sostituito il negativo chimico.

Scienze e Belle Arti, di Parigi (Historique et Description des procédés du Daguerréotype et du Diorama, stampato in parecchie edizioni immediatamente successive e subito tradotto in inglese, tedesco, spagnolo, svedese e italiano), offrendosi come primo autentico testo di “fotografia”. [Segnaliamo che la traduzione italiana Descrizione pratica del nuovo istromento chiamato il daguerrotipo è stata riproposta in anastatica da Photographica, di Perugia, nel 2003. Quindi, registriamo l’anastatica dell’originale inglese Some account of the Art of Photogenic Drawning, relazione della lettura di William Henry Fox Talbot del 31 gennaio 1839, in edizione Rara photographica: centoquattro esemplari numerati, a cura di Cesare Saletta, libraio d’antiquariato a Bologna, del luglio 1980. Infine, annotiamo anche, e ancora, la relativa traduzione italiana dalle trascrizioni in tre numeri successivi di The Athenaeum, del due, nove e ventitré febbraio, Metodo per eseguire sulla carta il fotogenico disegno rinvenuto dal signor Fox Talbot, a cura di Gaetano Lomazzi, del 1839 (in data sconosciuta, da marzo ad agosto, co-

munque antecedente l’edizione italiana del manuale di Daguerre), presso l’editore milanese Giuseppe Crespi: in anastatica Rara photographica, di Cesare Saletta, del gennaio 1981 (per quanto in dimensioni ridotte, in replica in 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita; Graphia, 2009)]. A William Henry Fox Talbot (circa, questa volta) dobbiamo anche il termine “fotografia”. Fusione delle parole greche “phos” (luce) e “grapho” (scrittura), in alternativa alla “eliografia”, di Joseph Nicéphore Niépce, e al dagherrotipo (che si riferisce soltanto a se stesso), l’identificazione “fotografia” è declinata per la prima volta da sir John Frederick William Herschel in una lettera a Fox Talbot del 28 febbraio 1839. Digressione d’obbligo: figlio di sir Frederick William Herschel, che nel 1800 scoprì la radiazione infrarossa, come già annotato, John Herschel è una delle figure discriminanti per la nascita della fotografia, sul cui cammino ci si era avviati già nel corso del Settecento, ottenendo risultati che annerivano alla luce. È lui che, nel 1819, scopre che l’iposolfito di sodio scioglie i sali d’argen-


1839-2019: centottant’anni ha eguali in nessuna precedente analisi (non soltanto “lettura”). Dall’incipt della premessa, che subito precisa di trovarsi di fronte a un’opera di fondazione (appunto, The Pencil of Nature): «Tra i numerosi “protofotografi”, [...] William Henry Fox Talbot occupa una posizione di primissimo piano sia per l’ampiezza, completezza e continuità della ricerca tecnica (dalla registrazione fotochimica su carta dell’immagine fino ai primi passi della sua riproduzione fotomeccanica a inchiostro, sempre su carta), sia per la consapevolezza delle implicazioni scientifiche, estetiche e socioculturali del nuovo mezzo comunicativo e artistico» [FOTOgraphia, marzo 2008].

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2)

ANCHE FOTOGRAFO

to, stabilendo così il princìpio del fissaggio dell’immagine fotografica. A completamento, rileviamo anche che, nel 1840, lo stesso John Herschel coniò i termini “negativo” e “positivo”. Tornando al pionierismo di William Henry Fox Talbot, ricordiamo i perfezionamenti al suo processo originario, con codifica dei princìpi dell’immagine latente delle carte sensibili allo ioduro d’argento, del 1840, e il brevetto del processo calotipico, depositato l’8 febbraio 1841: la cui negativa su carta al nitrato d’argento e ioduro di potassio richiede tempi di esposizione variabili da sessanta a centoventi secondi.

THE PENCIL OF NATURE Non ci si può riferire a William Henry Fox Talbot senza richiamare e sottolineare il valore storico della sua edizione di The Pencil of Nature, il primo libro illustrato con fotografie applicate, avviata all’indomani dell’apertura di uno studio fotografico a Reading, l’attuale Baker street di Londra: edizione originariamente apparsa in fascicoli (di nessun successo commerciale, va rilevato), dal 29 giugno 1844 al successivo aprile 1846.

Anche qui, richiami di sostanziale attualità. Di The Pencil of Nature esistono almeno due edizioni moderne in anastatica, che danno peso e spessore soprattutto alla consecuzione dei calotipi originari: la prima è quella di Da Capo Press, New York, 1969, con introduzione di Beaumont Newhall, allora direttore della George Eastman House (autore di storie della fotografia, tra le quali amiamo soprattutto, o forse soltanto, L’immagine latente, storia dell’invenzione della fotografia pubblicata in Italia da Zanichelli, nel 1969); l’altra è quella di Hogyf Editio, di Budapest, del 1998. Quindi, segnaliamo che Fabio Augugliaro, ai tempi giornalista di settore, aveva tradotto e commentato le annotazioni ad alcune tavole: in Reflex, del febbraio 1983. Soprattutto, onore e merito alla titanica opera di analisi e commento Alle origini del fotografico - Lettura di The Pencil of Nature (1844-46) di William Henry Fox Talbot, di Roberto Signorini, pubblicato da Clueb - Cooperativa Libraria Università Editrice Bologna, alla fine del 2007 (cinquecentoventotto pagine 17x24cm). Si tratta di un approfondimento che non

Sostanzialmente anonima, oltre che generica, la celebrazione del centocinquantenario della Fotografia (1839-1989) in emissione filatelica della Repubblica di Nauru, del 19 novembre 1989. In identificazione geografica, precisiamo che si tratta di un piccolo stato insulare dell’Oceania della Micronesia (filatelicamente acclamata, la Micronesia, per una sua emissione con Leica originaria [tante e ripetute le nostre evocazioni al proposito]), con diecimila abitanti.

Sottolineiamo ancora la personalità di infaticabile ricercatore, ricordando che, nel 1851, sfruttando una potente scintilla elettrica, William Henry Fox Talbot fotografò nitidamente una pagina del Times fissata su un supporto in movimento rotatorio (per l’esattezza, proprio una ruota). Intellettuale attivo nel mondo delle scienze, della matematica (per la cui competenza, dal 1831, fu membro della Royal Society), dell’astronomia, dell’archeologia e della politica (parlamentare dal 1832 al 1834), personalità più importante nel processo che portò all’invenzione della fotografia (non ci stanchiamo di rilevarlo), William Henry Fox Talbot è stato una figura chiave del Diciannovesimo secolo, durante il quale ha rivolto la propria attenzione all’elaborazione e diffusione degli innovativi processi fotografici, che hanno trasformato la visione del mondo. Oltre gli esperimenti preistorici, definiamoli così, a partire dall’attività dello studio professionale avviato a Londra, nel corso della vita, William Henry Fox Talbot ha realizzato/scattato oltre cinquemila immagini, che includono affascinanti visioni della sua casa di Lacock Abbey, ritratti di amici e famigliari, still life di elementi botanici, tessuti e oggetti di vario tipo. A conti fatti, ha rivelato una raffinata e colta espressività d’autore. Senza dubbio, le sue fotografie, raccolte e presentate in eleganti monografie a noi contemporanee, riflettono la società e il mondo culturale del tempo, e si rivelano immagini affascinanti, in grado di emozionare ancora oggi (soprattutto oggi) [presentazione

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1839-2019: centottant’anni della selezione William Henry Fox Talbot, a cura di Geoffrey Batchen, in edizione Phaidon Press, del 2008, in FOTOgraphia, del maggio 2008].

DICIANNOVE AGOSTO Come commentato e certificato, le note ufficiali della nascita della fotografia partono dalla relazione con la quale l’accademico François Jean Dominique Arago, matematico, fisico e astronomo, ma soprattutto influente uomo politico della Francia del primo Ottocento, offrì a Louis Jacques Mandé Daguerre il crisma ufficiale della sua invenzione. Da cui, in ripetizione, datiamo la nascita della fotografia (in forma di dagherrotipo) dal lunedì 7 gennaio 1839 dell’annuncio di Arago all’Académie des Sciences, di Parigi. La comunicazione originaria è stata poi seguìta dalla presentazione ufficiale del successivo diciannove agosto. Tra le due date, tanto è successo, e qualcosa va ancora ricordato. Riprendiamo almeno tre elementi fondamentali e discriminanti, che abbiamo appena richiamato; ma la ripetizione si impone. Anzitutto, all’indomani dell’annuncio del sette gennaio, si registra la sacrosanta rivendicazione di priorità scientifica di William Henry Fox Talbot (ventinove gennaio, con una lettera inviata ad Arago), il cui processo positivo-negativo sta alla base della fotografia, così come l’abbiamo sempre intesa, e ancora l’intendiamo (il dagherrotipo si è presto esaurito in se stesso). Quindi, va ricordata la personalità di Hippolyte Bayard, sfortunato funzionario del ministero delle Finanze francese, un altro degli sperimentatori che hanno agito simultaneamente per lo stesso scopo, ognuno all’oscuro dell’esistenza degli altri. Infine, il ventotto febbraio, in una lettera a Fox Talbot, per la prima volta, John Herschel ha usato e declinato il termine “fotografia”. Per la fotografia, l’estate 1839 è stata adeguatamente “calda”: una data è assoluta, il diciannove agosto; un’altra è anticipatoria. In successione. Sabato dieci agosto, François Simon Alphonse Giroux (Au Coq Honoré, dal 1799 al civico 7 della rue du Coq St Honoré, a Parigi: da forniture per artisti a mobili e accessori di arredamento), parente della moglie di Daguerre, inizia a vendere l’apparecchio per dagherrotipia con proprio marchio, sua garanzia e firma di Daguerre.

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Altri francobolli celebrativi dei centocinquanta anni di Fotografia (1839-1989) / 3 [dopo le pagine 12 e 13]. Concludiamo con casi da trattare a sé, ciascuno per sé, in ordine di esposizione logica (forse). L’Austria non ha emesso alcun francobollo per il nostro cinquecentenario, ma ha realizzato annulli dedicati (siamo a conoscenza di due, rispettivamente datati 13 e 19 agosto 1989). Analogo è il caso delle Nazioni Unite, attraverso una busta personalizzata International Photographic Council, con logotipo ufficiale (quello utilizzato anche dalla Cina [a pagina 8]) e francobollo raffigurante il palazzo dell’Onu, a New York City, specificato da fotografia 6x17cm Fujifilm. Il Booklet svedese di tre valori, emesso il 6 ottobre 1990, richiama simbologie fotografiche schematizzate. Il 12 settembre 1991, l’Uruguay ha celebrato il centocinquantesimo della “Prima fotografia realizzata a Río de La Plata / 1840-1990”. Quindi, in chiusura, al pari del Canada [a pagina 13], anche Bermuda e Australia hanno onorato e glorificato la fotografia nazionale: quattro autori moderni per l’Australia, il 13 maggio 1991; sei immagini storiche, l’11 maggio 1989, per Bermuda. A quanto ci risulta è tutto. Speriamolo.

Questo primo apparecchio fotografico ufficialmente disponibile per l’acquisto è lungo ben 26,7cm, in posizione di riposo, e si estende fino a 50,8cm, al massimo allungamento; all’altezza di 31,1cm, corrisponde una larghezza di 36,8cm; per lastre full plate 16,4x21,6cm; obiettivo costituito da una lente a menisco, o piano-convessa, di 406mm di lunghezza focale e 83mm di diametro; il diaframma fisso di 23,8mm riduce l’apertura di lavoro all’equivalente del diaframma f/17. Si è sempre saputo che negli stessi giorni di metà agosto, a Parigi, era disponibile un altro apparecchio per dagherrotipia, del tutto identico a quello di Giroux, del quale si erano perse le tracce per decenni: fino alla primavera 2007, quando è stato rinvenuto un esemplare dei Susse Frères (eccolo qui, il secondo modello: dei fratelli Susse, 31 place de la Bourse). In tutto e per tutto identico a quello di Giroux, ha un valore storico e collezionistico oggi ben superiore, in quanto pezzo unico; mentre di quello di Giroux ne sono noti almeno una dozzina di esemplari, conservati in musei internazionali. Tanto che è stato aggiudicato in una sessione d’asta a quasi seicentomila euro (588.613,00 euro, per la precisione). Questo apparecchio per dagherrotipia, costruito a Parigi dai Susse Frères (fratelli Susse), e commercializzato dai giorni immediatamente precedenti la presentazione ufficiale del procedimento (diciannove agosto), è stato venduto da WestLicht, di Vienna, a fine maggio 2007, in una sessione d’asta via Internet. È in tutto e per tutto identico a quello di Giroux. Così come è stata raccontata, la sua storia è curiosa, e ricalca quella di molti altri ritrovamenti straordinari. Di proprietà del professor Max Seddig (1877-1963), direttore dell’Institut für Angewandte Physik della Johann Wolfgang Goethe Universität, di Francoforte, fu regalato al suo assistente Günter Haase, successivamente docente universitario. Dimenticato nella soffitta di un appartamento di Monaco, alla sua morte (20 febbraio 2006, all’età di ottantotto anni) è stato scoperto dal figlio, professor Wolfgang, che si è fortunatamente rivolto a una galleria competente. Altrimenti, avrebbe potuto essere anche distrutto, privando così la Storia della tangibile testimonianza di qualcosa che si sape-

va essere esistito, senza però averne prova concreta. Torniamo in cronaca. Preparatosi commercialmente, oltre che garantito dal vitalizio di seimila franchi l’anno, che re Luigi Filippo d’Orléans gli ha appena stanziato (sette agosto; senza dimenticarsi di riconoscere anche il valore degli esperimenti di Niépce), lunedì diciannove, Daguerre affronta gli accademici di Scienza e Belle Arti in riunione congiunta. Questa combinazione è sintomatica. Il sette gennaio, François Arago ha riferito alla sola Accademia delle Scienze, sottolineando così il valore tecnologico dell’invenzione (della fotografia): l’unico che poteva aver concepito. A distanza di sette mesi, già si registrano posizioni diverse, che si allargano alla possibile espressività della “natura che si fa di sé medesima pittrice”: Accademie delle Scienze e Belle Arti, in seduta comune. Ancora lontani da polemiche e diatribe che sarebbero maturate appena dopo, e che ancora perdurano ai nostri giorni, centottanta anni dopo!, la realizzazione apparentemente meccanica delle immagini rompe comunque con il postulato sul quale si fonda tutto l’in-


ARCHIVIO FOTOGRAPHIA

1839-2019: centottant’anni

segnamento teorico basato sull’imitazione degli antichi maestri.

GIORNI FONDAMENTALI All’indomani dell’annuncio di François Arago, del sette gennaio, nel corso del 1839, si registrano date discriminanti. 20 gennaio (Parigi): Hippolyte Bayard migliora la sua tecnica della ripresa positiva diretta su carta (per certi versi, analoga ai princìpi del dagherrotipo su lamina). 25 gennaio (Londra): Michael Faraday mostra ai membri della Royal Institution i disegni fotogenici di William Henry Fox Talbot. 31 gennaio (Londra): alla Royal Society, di Londra, William Henry Fox Talbot tiene una relazione sui suoi disegni fotogenici. 9 marzo (Monaco): la tecnica di Fox Talbot giunge all’Accademia delle Scienze bavarese. Partono i primi esperimenti tedeschi di Franz von Kobell, professore alla Ludwig-Maximilians-Universität, di Monaco, e del fisico Carl August von Steinheil. 20 marzo (Parigi): utilizzando il proprio metodo positivo diretto, Hippolyte Bayard raggiunge risultati no-

tevoli (ignorati dall’ufficialità che ha sposato la causa di Daguerre). 2 maggio (Parigi): François Jean Dominique Arago scrive al ministro degli Interni per raccomandare Joseph Nicéphore Niépce (mancato nel 1833, nella figura del figlio Isidore) e Louis Jacques Mandé Daguerre; meritano un sussidio. Lo Stato propone un vitalizio in cambio della pubblicazione di tutti i segreti del dagherrotipo. 20 maggio (Usa): Samuel F. B. Morse, l’inventore del telegrafo, esegue la prima immagine dagherrotipica americana. Maggio-giugno (Parigi): dopo dimostrazioni alla Camera dei Deputati e dei Pari, il governo francese acquista i diritti dell’invenzione di Daguerre e ne liberalizza l’uso. 14 luglio (Parigi) [cinquantenario dalla Rivoluzione del 1789]: in polemica con François Arago, Hippolyte Bayard espone in mostra trenta immagini realizzate con il suo metodo positivo su carta. Estate (Birmingham): William Henry Fox Talbot allestisce una imponente mostra, composta da novantatré disegni fotogenici.

Balzo temporale indietro, rispetto la cadenza dei centocinquanta anni di Fotografia (1839-1989), per una unica celebrazione del centenario: 1839-1939. Ovviamente francese, in orgoglio nazionale: francobollo emesso il 24 aprile 1939, in un tempo nel quale ben altri erano i pensieri che attraversavano l’Europa e il Mondo. Richiamo palese alle lunghe ombre di guerra che maturarono di lì a qualche mese, conteggiando al primo settembre 1839 dell’invasione tedesca della Polonia, da cui oltre cinque anni di Seconda guerra mondiale.

7 agosto (Parigi): re Luigi Filippo d’Orléans firma il decreto per l’acquisto e la pubblicazione delle tecniche di Daguerre: seimila franchi l’anno per lui e quattromila per Isidore Niépce, erede di Joseph Nicéphore, il “pioniere” per eccellenza. 14 agosto (Londra): il procedimento di Daguerre viene brevettato, con il numero 8194. 19 agosto (Parigi): in concomitanza con la presentazione pubblica del dagherrotipo, William Henry Fox Talbot protegge con un brevetto francese il suo procedimento fotogenico (che sarà calotipo più avanti). Ottobre (Torino): Enrico Federico Jest fabbrica il primo apparecchio italiano per dagherrotipia (con il figlio Carlo gestisce una delle più note produzioni torinesi di strumenti scientifici; nel 1845, Carlo tradurrà il trattato sulla dagherrotipia di Marc-Antoine Gaudin). Novembre (Milano): Alessandro Duroni importa i primi apparecchi Daguerre-Giroux. 12 novembre (Napoli): all’Accademia delle Scienze, Macedonio Melloni, direttore dell’Osservatorio Meteorologico e del Conservatorio di Arti e Mestieri, e ricco di altre onorificenze nazionali e internazionali (tutte certificate nel frontespizio del documento originario), tiene la prima Relazione in Italia sul dagherrotipo. Le sue sono le prime parole italiane pubbliche e ufficiali sulla fotografia, che riporteremo su uno dei prossimi numeri della rivista. Per quanto noiosa, quantomeno nella sua esposizione ottocentesca, la Relazione di Macedonio Melloni è affascinante, tutta da leggere (avendone la forza e il coraggio di farlo: comunque, anche e già in 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita). Non si tratta di una banale ripetizione delle note riportate nel manuale di uso, compilato da Daguerre per accompagnare la vendita degli apparecchi prodotti dal parente Giroux, e neppure della ripetizione dei due pronunciamenti pubblici di Arago, il sette gennaio in annuncio e il diciannove agosto in presentazione. È una conferenza del tutto autonoma e originale, che racconta fatti e antefatti, che affronta la fisica e la chimica della formazione e registrazione di immagini, che analizza la personalità della “natura che si fa di sé medesima pittrice”, che si avventura in ardite previsioni. ❖

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Cinema

di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

PRE 1839... DI FANTASIA

N

Nel maggio 2011, abbiamo presentato e commentato il brioso film Ladri di cadaveri - Burke & Hare. Quindi, abbiamo replicato nel febbraio 2014, per i centosettantacinque anni dall’annuncio e presentazione della fotografia (1839-2014); e ancora torniamo, qui e ora, per il centottantesimo anniversario (1839-2019), peraltro sottolineato e celebrato con un altro intervento pubblicato in questo stesso numero, in anticipo su quanto potremmo ancora fare nel corso dell’anno. La vicenda narrata si basa anche su un avvincente retrogusto fotografico, di assoluta fantasia... pre 1839.

Fotografia (?) nel film Ladri di cadaveri, del 2010, di John Landis. Il proto fotografo Nicéphore (in omaggio a Niépce ?) fotografa un cadavere per contribuire alla creazione della mappa del corpo umano ambìta dal dottor Robert Knox, dell’autorevole Università di Edimburgo: nel 1828 (!).

Sia chiarito subito: la Storia la si legge altrove, sui libri e, perché no?, sulle riviste specializzate, la nostra tra le altre. Invece, al cinema va concessa una certa dose di invenzione e fantasia, congeniale alla sua stessa narrazione. Che poi, come nel caso specifico, questa sia in contrasto con la realtà, e persino con la Storia, è questione assolutamente marginale e secondaria. Addirittura, non è neppure una questione. Brillante film di John Landis (il regista di cult cinematografici quali Animal House, del 1978, e The Blues Brothers, del 1980, entrambi con John

Belushi, e del videoclip più famoso e costoso, Thriller, di Michael Jackson, del 1983), Ladri di cadaveri - Burke & Hare vanta numerosi meriti, sia per l’ottima scenografia e ricostruzione scenica, sia per la vivace sceneggiatura. Anticipato e rivelato dal titolo italiano, ufficialmente, il film tratta un argomento oggettivamente spinoso: la sottrazione di cadaveri ad uso anatomico e universitario. Ufficiosamente, la vicenda è risolta in modo garbato, oltre che acuto. Siamo a Edimburgo, in Scozia, nel 1828, in un luogo e tempo nei quali le locali facoltà di medicina vantavano

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Cinema visioni e interpretazioni di assoluta avanguardia: osservate con attenzione dal mondo intero e valutate per l’originalità delle discipline. Alla resa dei conti, mentre i docenti in antagonismo serrato tra loro, tutti alla ricerca di un attestato regale, rimangono a bocca asciutta, il film attribuisce a William Hare, leggendario ladro di cadaveri assieme all’amico William Burke, l’idea originaria di organizzare esequie e seppellimenti a pagamento, con relativa attestazione pubblica.

CON PRE-FOTOGRAFIA Ma non è questo che ci interessa, quantomeno nel nostro ambito redazionale-giornalistico di osservazione della fotografia e delle proprie fenomenologie, soprattutto oggi, nel richiamo esplicito e ricercato alle celebrazioni dei Cento ottanta anni di Fotografia. Neppure ci interessano le ottime interpretazioni di tutti i protagonisti della intricata e controversa vicenda di compra-vendita di cadaveri: Simon Pegg e Andy Serkis, nei panni dei serial killer a scopo lucrativo William Burke e William Hare; Tom Wilkinson e Tim Curry (il leggendario dottor Frank-N-Furter dell’epocale The Rocky Horror Picture Show, di Jim Sharman, del 1975), nei panni dei dottori antagonisti Robert Knox e Monro. E neanche stiamo qui a sottolineare l’ottimo impianto scenico e la brillante sceneggiatura, che antepone al 1828 usi, costumi e malcostumi dei nostri giorni. In tutti i casi, qualità di ordine cinematografico sulle quali non siamo autorizzati a intervenire. Quello che ci interessa, al solito e come sempre, e oggi in misura addirittura mirata e finalizzata, è la presenza della Fotografia, che fa capolino nella garbata sceneggiatura, stravolgendo un poco i propri tempi storici (ribadiamo, siamo nel 1828, undici anni prima delle date ufficiali del 1869; sette gennaio e diciannove agosto: di annuncio e presentazione pubblica del dagherrotipo, procedimento originario della fotografia). Già... la fotografia nel 1828! Assoluta libertà cinematografica, che osserviamo con il sorriso sulle labbra, senza alcun rimprovero storico. Lo ribadiamo, confermandolo: è cinema; la storia la leggiamo e studiamo altrove. È cinema, che si concede allegre appropriazioni indebite, che non fanno alcuna vittima, né danno.

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EVOCAZIONI SUADENTI

Intenzionato a compilare una autentica e oggettiva mappa del corpo umano, più fedele e precisa di quanto possa essere disegnata (ma quanto lungimiranti sono state le raffigurazioni leonardesche, tra le tante del passato remoto!), l’accademico Robert Knox si affida all’opera di un amico francese, guarda caso di nome Nicéphore (garbata citazione di Niépce), che avrebbe tra le mani una (sua) nuova invenzione: la natura che si fa di sé medesima pittrice, ovverosia le cose così come sono (a prestito dai pionieri della fotografia e in richiamo a e da quanto annotato dal filosofo sir Francis Bacon, all’inizio del Seicento). Nel film, Nicéphore, interpretato dall’attore Allan Corduner, vanta i pregi della sua eliografia («Eliografia?», osserva il dottor Knox; «No, sarebbe più opportuno definirla fotografia»: ancora evviva, nonostante la completa fantasia del dialogo sceneggiato), con la quale si possono realizzare riproduzioni fedeli della realtà, senza inter-

Consueto siparietto finale di molti film, che si concludono con l’epilogo delle esistenze successive dei protagonisti (come anche in Animal House, dello stesso regista John Landis). Dopo le vicende di Edimburgo (1828), in Ladri di cadaveri, il proto fotografo Nicéphore torna in Francia, dove mette a frutto la sua invenzione: fotografia di gruppo familiare (cameo: in posa, la famiglia del regista Costa-Gavras).

vento manuale, ma con la fantastica oggettività dell’osservazione ottica. Certo, l’ipotesi è cinematograficamente fantasiosa, sia perché antepone i risultati fotografici della ricerca pionieristica, sia perché traspone i personaggi, sia perché approda a risultati fantastici (copie seppia su carta di straordinaria nitidezza), con tempi di esposizione decisamente improbabili (otto secondi, in un interno illuminato dalla luce solare che arriva dalle finestre; per i dagherrotipi delle origini, in esterno soleggiato, si posava fino a dieci minuti, almeno). Però! Però, quanto fascino in questa collocazione della fotografia come supporto alla ricerca scientifica, undici anni prima della relazione con la quale, nell’agosto 1839, François Jean Dominique Arago presentò, commentandole, le possibilità implicite nell’applicazione della fotografia. Ancora, come già altrove, in un prossimo numero, con altro riferimento analogamente pertinente, riprenderemo dalla Relazione di Macedonio


Cinema Melloni, del dodici novembre [in 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita]: «Tante perfezioni, riunite alla somma facilità e prontezza del metodo, hanno destato un entusiasmo universale. Dappertutto si ripetono le sperienze del Dagherrotipo, ognuno vorrebbe avere tra le mani questo prezioso strumento, ognuno bramerebbe impiegarlo, il più presto possibile, a ritrarre, non solo stampe, disegni, statue, monumenti, ma i quadri ad olio de’ nostri più celebri artisti, i più bei mazzi di fiori, e le vario-pinte farfalle. Invano si disse dell’Arago, dal Gay-Lussac, che il Dagherrotipo non poteva servire a copiare gli oggetti colorati; moltissimi sperano tuttavia ottenere sulle lamine dagherriane, se non i vivi e svariati colori che ci presentano la natura ed il genio delle arti, almeno le loro traduzioni esatte in chiaroscuro. Anzi abbiam udito non pochi pittori proporsi di studiare queste copie con gran frutto rispetto alle intensità relative delle tinte, ed ai punti ove devon figurarsi nelle loro composizioni ad olio la massima e la minima illuminazione».

ANCHE IN NARRATIVA Comunque, tornando alle libertà che si concede la sceneggiatura cinematografica, al fine di raccontare le proprie avvincenti storie, non possiamo sorvolare su una sostanziosa corrispondenza letteraria. Dunque, richiamiamo anche qui Luce proibita, romanzo di David Rocklin che ruota attorno esperimenti primitivi della fotografia [in questa pagina, al centro]. È narrativa. Non è un saggio, né uno studio approfondito sulla materia, ma soltanto una narrazione di pura fantasia, estranea a qualsivoglia obbligo storico e/o temporale. A conti fatti, la fotografia nascente non è soltanto il collante di una vicenda di altro profilo (nella quale sovrasta l’idea di impero britannico alla conquista di Ceylon, alla vigilia della metà dell’Ottocento), ma è proprio il motivo conduttore, al quale tutto il resto fa soprattutto riferimento. Con fantasia, l’autore retrodata di qualche decennio la personalità fotografica di Julia Margaret Cameron (1815-1879), che vi si dedicò dal 1863, riferendola alla protagonista Catherine Colebrook e al 1836 e poco oltre, assegnandole

Luce proibita, di David Rocklin; Neri Pozza Editore, 2011; 336 pagine 14x21,5cm; 17,00 euro. In copertina: Tristezza (ritratto dell’attrice Ellen Terry), di Julia Margaret Cameron; 1864.

altresì un ruolo sperimentale e pionieristico di pura fantasia. Subito rilevato che le affinità tra Julia Margaret Cameron e la protagonista del romanzo Catherine Colebrook non si esauriscono nella sola visione fotografica, seppure reinventata (come stiamo per vedere), ma si estendono su tutto il racconto: anche Catherine Colebrook è moglie di un funzionario britannico, agisce a Ceylon (dove Julia Margaret Cameron è mancata, il 26 gennaio 1879) e si trasferisce all’Isola di Wight (dove la famiglia Cameron visse dal 1860). Anche Dimbola, la residenza di Ceylon di Catherine Colebrook, è derivata/ispirata a Dimbola Lodge, la residenza dei Cameron sull’Isola di Wight, che oggi ospita un museo ed esposizioni permanenti di Julia Margaret Cameron. A differenza della realtà, Luce proibita, di David Rocklin, racconta degli esperimenti primigeni di Catherine Colebrook, considerata e riferita come uno dei pionieri alla ricerca della natura che di fa di sé medesima pittrice, che già lei intende come “fotografia” (che, invece, sappiamo essere termine coniato e suggerito, nel corso del 1839, da John Frederick William Herschel, al quale dobbiamo anche il “fissaggio”). E questi salti temporali, queste alterazioni/modifiche

non ci scompongono minimamente, neppure dal punto di vista mirato (e viziato) della nostra competenza in materia: infatti, non si tratta di un resoconto storico, ma di una narrazione di pura fantasia. Probabilmente, di straordinaria fantasia. In ogni caso, Luce proibita è un romanzo appetibile e gradevole, che si legge con piacere e si segue con attenzione. Lasciando perdere le nostre preparazioni specifiche, che qui riguardano le alterazioni fotografiche (che si estendono a improbabili condizioni di ripresa, soprattutto alla vigilia del fatidico 1839 di nascita), il resto scorre via bene: con il colonialismo inglese a fare da padrone. Come rivela il titolo, adeguata interpretazione dell’originario The Luminist, la visione trasversale del racconto riguarda soprattutto la capacità del giovane tamil Eligius -servo/aiutante di Catherine- di dominare e guidare la luce, sapientemente finalizzata alle esigenze della fotografia. A seguire, si rincorrono osservazioni e valutazioni sulla nuova arte, che qui viene dibattuta decenni prima della sua effettiva disputa, in ovvia contrapposizione all’arte pittorica. A questo proposito, tante e (anche) sostanziose le rilevazioni che si potrebbero estrarre. Una, sopra tutte; una, per tutte: «Credo che non sia facile capire in che modo vogliamo mostrarci», osserva Julia, figlia di Catherine, divisa tra le tele del promesso sposo George Wynfield, altezzoso figlio del governatore di Ceylon, e gli esperimenti fotografici della madre. Catherine Colebrook è determinata e risoluta. È interamente presa dalla propria opera e convinta del suo agire; sottolinea il proprio punto di vista, in risposta a obiezioni, che non disconosce: «Non intendo denigrare gli apprezzati talenti [dei pittori]. Tuttavia, ogni istante contiene qualcosa in grado di sorprendere l’occhio e il cuore. Non può essere altrimenti. Un dipinto cerca di creare una sintesi di diversi momenti. Io, invece, mi sforzo di cogliere l’istante. Punto la fotocamera [sic] e aspetto, fiduciosa di riuscire a vedere. Cercherò di migliorare il processo. Quando riuscirò a perfezionarlo, posso farvi un ritratto?». Già... magia della fotografia. Luce, e poco d’altro. Da centottanta anni. ❖

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FOTOGRAFIE EPOCALI

NASA

Dopo lungo prologo, volontario prima che consapevole, approdiamo a una Fotografia memorabile che ha influito in tempo reale sulla società tutta. In anticipo su quanto dovrà essere celebrato il prossimo luglio, nel cinquantenario del primo allunaggio di Apollo 11 (20 luglio 1969), rimaniamo al recente cinquantenario, poco ricordato -va rilevato- delle fotografie della Terra realizzate dalla precedente missione Apollo 8, la prima che si allontanò dall’orbita terrestre per circumnavigare la Luna. Era il Natale del Sessantotto, e quelle visioni indussero il nostro pensiero verso Casa: come, quando e per quanto la Fotografia incide sulla Vita... con doppio accompagnamento. Per l’appunto, in premessa e continuità di pensiero. Nostro


(pagina precedente) La Terra sorge sopra l’orizzonte lunare. Questa visione si è presentata per la prima volta agli astronauti di Apollo 8 (21-27 dicembre 1968), i primi a raggiungere la Luna, allontanandosi dalla Terra tanto da poterla inquadrare tutta intera sullo sfondo nero. Raggiunta l’orbita lunare, dopo aver sorvolato l’emisfero nascosto, il comandante Frank Borman vide e fotografò la Terra che “sorgeva” sopra la Luna [anche e ancora a pagina 26]. Nel testo centrale, si racconta il gustoso retroscena di quella prima volta, alla quale altre ne sono seguite, fino alla missione Apollo 17, l’ultima allunata (7-19 dicembre 1972).

(doppia pagina seguente) Ancora la Terra che sorge dalla Luna. Accanto una delle fotografie dalla sequenza originaria di Apollo 8, passante tra la pagina 26 e 27, altre visioni della Terra. Quel dicembre 1968, cinquanta anni fa, per la prima volta nella Storia, l’Uomo si allontanò dalla Terra tanto da poterla inquadrate tutta intera sullo sfondo nero. Attenzione: con questo primo controcampo, lo sguardo umano non si volgeva più verso l’infinito, bensì verso il luogo finito, lì dove c’erano le radici. Quella piccola sferetta bianca-azzurraverde-giallina, sospesa sopra il deserto lunare, apparve in tutta la sua preziosa anomalia. Teschi corrosi, come quelli della Luna, dovevano essercene molti nel Cosmo; la Terra era forse unica. Forse non si sarebbe mai visto un posto più bello.

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di Maurizio Rebuzzini

Q

ualunque altra opinione contraria avete potuto sentire al proposito, parole e idee possono cambiare il mondo, anche solo il nostro personale. Non leggiamo, scriviamo e fotografiamo (e non ci occupiamo di fotografia) perché è bello farlo. Noi leggiamo, scriviamo e fotografiamo perché siamo vivi, membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. In completezza di prologo, riveliamo -però- di non essere tanto ingenui, e nemmeno altrettanto stupidi, da non sapere che poche parole e ancora meno fotografie hanno effettivamente agito in diretta, lungo una linea retta tra causa ed effetto. Tanto che, per dirla meglio, oltre la nostra convinzione appena espressa, sappiamo bene che l’ipotesi di “cambiamento” non è né repentina, né immediata: parole e fotografie cambiano nulla, pur influendo sulle coscienze, magari. E da questa somma di interiorità sorgono i presupposti delle metamorfosi a seguire. In questo senso, siamo soliti prendere le distanze da quelle raccolte, più speculative che altro, più spettacolari che altro, che promettono di riunire e presentare “Fotografie che hanno cambiato il mondo”. Molte monografie così declinate sono state pubblicate a fine Novecento, in sintesi di Secolo (e Millennio); altrettante selezioni sono presentate in Rete, in analogo compendio. Insieme, queste pubblicazioni librarie e virtuali non riuniscono ciò che promettono -“Fotografie che hanno cambiato il mondo”-, ma, più oggettivamente, presentano “Fotografie di avvenimenti che hanno cambiato il mondo”. E la differenza è sostanziosa, oltre che essenziale (e, sulla stessa lunghezza d’onda, c’è anche un titolo analogo, dell’autorevole editore statunitense Prestel Publishing, indirizzato a Arte, Architettura, Design e Fotografia, ulteriore alla sua Photos that Changed the World, in riedizione fino al 2006, che recita Paintings that Changed the World, in riedizione del 2011). Tanto è vero che già la copertina dell’appena menzionato Photos that Changed the World (Prestel Publishing, dal 2000) presenta e offre una fotografia sconosciuta, sia al pubblico generico, sia tra gli addetti: un afroamericano, che pochi riconoscono, che ancora meno hanno modo di riconoscere, parla a una folla in dimensione di moltitudine. Come appena annotato, è una fotografia ignota, che non possiede -certo- i crismi della “Fotografia che ha cambiato il mondo”, pur essendo, ribadiamolo, confermandolo, il presupposto di “Fotografia di avvenimento che ha cambiato il mondo”: è Martin Luther King, leader del movimento per i diritti civili degli afroamericani, che, il 28 agosto 1963, tiene un discorso al Lincoln Memorial, di Washington DC, al termine di una marcia di protesta per i diritti civili, nota come Marcia su Washington per il lavoro e la libertà. Esprimendo la speranza che un giorno la popolazione di colore statunitense avrebbe goduto degli stessi diritti dei bianchi, Martin Luther King iniziò il proprio discorso affermando «I have a dream» (Ho un sogno). Questo stesso discorso, ripreso in tante occasioni successive, sempre in tema di diritti civili, è uno dei più famosi e conosciuti del Ventesimo secolo... ma la sua “fotografia” è sconosciuta.

E lo stesso, scorrendo le pagine delle monografie così declinate e promesse, lo possiamo rilevare per tante e tante fotografie, diciamo anche per tutte o quasi tutte... che fa lo stesso.

DUE FOTOGRAFIE (IN PREMESSA) Ciò detto, come e quando, se è successo, si sono incontrate fotografie che hanno autenticamente influito in tempi immediati? È accaduto in poche occasioni, diciamo due, che poi diventano tre (e stiamo per riferirne), magari svincolate dall’imponenza del soggetto (in due su tre, almeno); ed è accaduto quando e per quanto la Fotografia ha espresso un’emozione e/o un sentimento, svolgendo il proprio linguaggio/lessico. Due i casi fondamentali, entrambi dalla guerra in Vietnam: Saigon, Vietnam del Sud, Primo febbraio 1968 (cinquantuno anni fa), per strada, il capo della polizia nazionale Nguyễn Ngọc uccide Loan Nguyễn Văn Lém, un sospetto vietcong, sparandogli alla testa (fotografia di Eddie Adams / The Associated Press [World Press Photo of the Year 1969, sul 1968, e Premio Pulitzer 1969]); Trangbang, Vietnam del Sud, 8 giugno 1972, bambini ustionati fuggono in seguito al lancio di napalm sul loro villaggio (fotografia di Nick Ut [Huỳnh Công Út] / The Associated Press [World Press Photo of the Year 1973, sul 1972; e, soprattutto, è iconica la bambina Phan Thị Kim Phúc, che corre nuda al centro dell’inquadratura; FOTOgraphia, dicembre 2004]). Entrambe queste situazioni sono “fotografiche”, ovvero raccontate con il lessico e linguaggio della fotografia. Non raffigurano accadimenti eccezionali, quantomeno in termini consueti di guerra, il cui svolgimento non manca certo di esecuzioni sommarie e bombardamenti dal cielo, ma rappresentano momenti emotivamente forti... in termini squisitamente e perfettamente “fotografici”. Nonostante le intenzioni originarie del fotografo Eddie Adams, l’esecuzione sommaria non sollecitò un maggior impegno statunitense in Vietnam, che lui aveva ipotizzato e sperato, ma, ben al contrario, per la prima volta nella Storia dell’Uomo, innescò un pensiero contro la guerra: che è nato qui, e da qui si è evoluto. Infatti, per quanto gli americani siano statisticamente favorevoli alla pena di morte, qui raffigurata, la loro coscienza era talmente vicina ai linciaggi di neri (perpetuati fino agli anni Sessanta... del Novecento) da farli dissentire da una applicazione estranea a un legittimo percorso giudiziario. Allo stesso modo, come ha rilevato John G. Morris, l’allora photo editor di Life, autore di una emozionante e coinvolgente autobiografia professionale (Sguardi sul ’900 - Cinquant’anni di fotogiornalismo; Le Vespe, 2000 [FOTOgraphia, dicembre 2000]; in edizione Get the picture; Contrasto, 2011), la fotografia di Nick Ut ha accelerato il processo di pace nella guerra in Vietnam. Allo stesso tempo, forse provocatoriamente, ancora John G. Morris ha annotato che «per fortuna, la bambina non aveva peli pubici», altrimenti, per il codice di autocensura americano, la fotografia non sarebbe stata pubblicata. E, chissà: se la bambina avesse avuto i peli, la guerra sarebbe durata di più? [a completamento, ricordiamo che John G. Morris è mancato il 28 luglio 2017, sei mesi dopo aver compiuto cento anni; abbiamo relazionato in FOTOgraphia, del settembre 2017].


In tempi altrettanto vicini, o lontani (?), una terza fotografia ha influito sul pensiero collettivo, agendo immediatamente. Ed è questo, dopo tanto prologo/preambolo, il senso effettivo di questo nostro intervento redazionale, in ricordo e analisi. Da qui, parole e considerazioni dell’autorevole Piero Raffaelli, riprese dalla loro stesura originaria, per FOTOgraphia, del luglio 1994, in nostro avvio di edizione, per il venticinquesimo anniversario dell’allunaggio di Apollo 11, e dalla successiva riproposizione, nel luglio 2009, di quarantesimo anniversario. Fummo costretti a tenere gli occhi aperti, quella notte di luglio di [cinquanta] anni fa, aspettando che le zampe di Eagle si posassero sulla Luna. La data è fatidica, spiegavano i commentatori in diretta, manca poco, pochissimo al momento epocale; dopo, la Luna non sarà più quella di prima. La Luna, ricordavano, era stata una divinità alla pari con il Sole, le si rivolgevano preghiere, sguardi adoranti, domande metafisiche... tutto ciò finirà tra poco, pochissimo... Il sonno era stato cacciato da domande ansiogene: ci sarà un altro “Chiaro di Luna”? Come si canterà “oh Luna rossa”? Quale Leopardi chiederà “Che fai tu Luna in ciel, silenziosa Luna?”? [...] Dopo aver visto Buzz ripreso da Neil e Neil ripreso da Buzz, potemmo andare a dormire. La Luna era rimasta quella di prima, silenziosa. Da allora, è cambiata molto di più la Terra, e proprio in conseguenza dell’avventura spaziale e delle fotografie distribuite dalla Nasa. Le impronte dei doposcì di Armstrong e Aldrin simboleggiarono la Conquista, la bandiera Usa che sventola con l’aiuto di un filo di ferro annunciò la Vittoria Finale, esattamente come la bandiera issata dai marine sul cocuzzolo di Iwo Jima. La lezione delle Midway e della Normandia era stata chiara: chi domina il cielo, vincerà poi le battaglie sulla terra e sul mare. Avendo dominato nella battaglia virtuale della Luna, gli americani mostravano di poter vincere le battaglie reali, se si fossero combattute, e anche la guerra, a meno che... (continua a pagina 28)

EDDIE ADAMS / THE ASSOCIATED PRESS NICK UT (HUỳNH CÔNG ÚT) / THE ASSOCIATED PRESS

TERZA FOTOGRAFIA (LA TERRA)

VÜ BÍCH HÔNG (HONG ROSY)

Quindi, la domanda che ci poniamo è se veramente si possa attribuire a una immagine una forza di tale e tanta potenza. Osiamo risposte o forse solo opinioni, che ribadiscono la propria urgenza, soprattutto oggi, in questo periodo storico durante il quale torna vivo il bisogno dell’emblema, immortalato in una fotografia, di una guerra-simbolo da dimenticare, ma che nell’attualità ripropone -invece- le proprie analoghe logiche, con l’insondabilità dei cosiddetti cicli e ricicli della Storia. Certamente, le immagini detengono potere, e a volte lo manifestano anche. Non ci piove. Potere tanto grande quanto è grande la funzione verso la quale sono state preposte. Le immagini alle quali è attribuito il compito più difficile, più controverso, sono le immagini di attualità, che devono documentare, interpretare o semplicemente riprendere fatti e momenti da sottoporre poi all’osservatore, in un certo senso vittima passiva, in attesa di strumenti per alimentare e modellare la propria coscienza morale e politica, o per consentire un’opinione che guidi le sue azioni.

Due fotografie che hanno cambiato il mondo, proprio in quanto “fotografie”, entrambe dalla guerra in Vietnam: Saigon, Vietnam del Sud, Primo febbraio 1968 (cinquantuno anni fa), per strada, il capo della polizia nazionale Nguy ễn Ngọc uccide Loan Nguy ễn Văn Lém, un sospetto vietcong, sparandogli alla testa (fotografia di Eddie Adams / The Associated Press [ World Press Photo of the Year 1969, sul 1968, e Premio Pulitzer 1969]); Trangbang, Vietnam del Sud, 8 giugno 1972, bambini ustionati fuggono in seguito al lancio di napalm sul loro villaggio (fotografia di Nick Ut [Huỳnh Công Út] / The Associated Press [ World Press Photo of the Year 1973, sul 1972; e, soprattutto, è iconica la bambina Phan Thị Kim Phúc, che corre nuda al centro dell’inquadratura; FOTOgraphia, dicembre 2004 / in fotoricordo con Nick Ut e Maurizio Rebuzzini, nell’autunno 2012]. Entrambe queste situazioni sono “fotografiche”, ovvero raccontate con il lessico e linguaggio della fotografia. Non raffigurano accadimenti eccezionali, quantomeno in termini di guerra, il cui svolgimento non manca certo di esecuzioni sommarie e bombardamenti dal cielo, ma rappresentano momenti emotivamente forti... in termini squisitamente “fotografici”.

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NASA (4)


ARCHIVIO FOTOGRAPHIA

Numero speciale di Life, del 10 gennaio 1969 (cinquanta anni fa), due settimane dopo la missione spaziale Apollo 8, della fine del dicembre precedente (dal ventuno al ventisette). Non ci siano dubbi (storici): il fatidico Sessantotto -qui evocato come The Incredible Yearha proposto e offerto innumerevoli accadimenti, che dalla Cronaca si sono presto proiettati sulla Storia... non stiamo qui a ricordarli, ancora e ancora. Ma l’icona della Terra è stata subito intuita e declinata come Epocale: come effettivamente è. Se anche così volessimo considerarla, se anche così volessimo leggerla, lezione di giornalismo, che non si limita all’apparenza spettacolare a tutti visibile, ma è capace di andare sottotraccia, per raccontare la Storia. Da cui, perché studiare la Storia? A differenza di altre visioni codificabili (per esempio, fisica e matematica), la Storia non consente / non è un mezzo per esprimere previsioni accurate. Noi studiamo la Storia non per conoscere il futuro, ma per ampliare i nostri orizzonti, per capire che la nostra situazione presente non deriva/dipende da leggi naturali e non è inevitabile; di conseguenza, abbiamo di fronte a noi molte più possibilità di quante ne possiamo immaginare.

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(continua da pagina 25) A meno che l’ultimo giorno, dal paese quasi sconfitto, non riescano a partire missili intercontinentali verso il paese quasi vincitore (la guerra nucleare può riservare più sorprese di un tie-break). Che fare in questo caso? Anni fa, Ronald Reagan trovò la risposta: «Noi abbiamo lo scudo stellare: i raggi laser sparati dalle nostre basi orbitanti intercetteranno tutti i missili in volo». Era un bluff. Lo scudo era meno che virtuale, non esisteva proprio. Una rivista scientifica americana scrisse che non era realizzabile. Però, la bandiera Usa sventolava indisturbata a base Tranquillity. E, comunque, l’Unione Sovietica non aveva più i soldi per continuare a giocare la guerra virtuale nello Spazio. Un anno prima dell’allunaggio, ci arrivarono dallo Spazio altre immagini. Non furono gasate da una diretta televisiva, ma si imposero ugualmente nella memoria di tutti. Nel corso della missione Apollo 8, gli astronauti si allontanarono dalla Terra tanto da poterla inquadrate tutta intera sullo sfondo nero. E poi, raggiunta l’orbita lunare, dopo aver sorvolato l’emisfero nascosto, videro e fotografarono la Terra che “sorgeva” sopra la Luna. Con questo primo controcampo, lo sguardo umano non si volgeva più verso l’infinito, bensì verso il luogo finito, lì dove c’erano le radici. Quella piccola sferetta bianca-azzurra-verdegiallina, sospesa sopra il deserto lunare, appariva in tutta la sua preziosa anomalia. Teschi corrosi, come quelli della Luna, dovevano essercene molti nel Cosmo; la Terra era forse unica. Forse non si sarebbe mai visto un posto più bello. Tutti gli esploratori, Cristoforo Colombo compreso, espressero meraviglia per i nuovi luoghi scoperti. Gli astronauti Frank Borman, James Lovell e William Anders si commossero nel guardare la Terra. Il migliore luogo del Cosmo era “home”, come poi avrebbe scoperto anche ET, l’omuncolo extraterrestre di Spielberg. Guardando la sferetta colorata, si poteva immaginare che tutte le creature viventi ci potessero vivere in simbiosi (John Lennon cantava Imagine). Gli allarmi ecologici che si sarebbero diffusi negli anni seguenti erano stati preparati da quell’impressione di delicatezza: era facile immaginare che il sottile alone azzurrino potesse bucarsi. Certi slogan politici non si sarebbero espressi come progetti “globali” se non ci fosse stato quello sguardo rivolto alla Terra da lontano. “L’uso razionale delle risorse”, “il governo mondiale”, “lo sviluppo sostenibile”, “l’indipendenza tra Nord e Sud” e altre utopie divennero credibili perché le fotografie arrivate dallo Spazio le aiutavano. Era il Natale del 1968, quando arrivarono. Ora siamo tornati giù, a guardare con la lente le carte geografiche della Bosnia e dell’Uganda [Kosovo, Est d’Europa, Medio Oriente e altro ancora].

LA FOTOGRAFIA... E NOI Come saremo obbligati (?) a rilevare il prossimo luglio, nel cinquantenario di Apollo 11, con allunaggio del venti luglio, sono avvincenti sia le fotografie posate, sia quelle riprese in orbita, attorno la Terra e attorno la Luna. In questo senso, come rilevato da Piero Raffaelli nella riflessione appena riportata, in ripetizione,

è esemplare e sintomatico il caso di Apollo 8 (21-27 dicembre 1968), la seconda missione con equipaggio del programma, la prima a raggiungere la Luna: due orbite attorno la Terra e le prime dieci orbite attorno la Luna, con debutto dell’Hasselblad 500EL/70, con motore elettrico incorporato e magazzino per pellicola 70mm a doppia perforazione (annotazione d’obbligo). Le fotografie riprese nel corso della missione ebbero un’importanza determinante nell’ambito dell’intero progetto Apollo. Agli astronauti Frank Frederick Borman II, James “Jim” Arthur Lovell Jr e William Alison Anders fu affidato anche l’incarico di fotografare la superficie della Luna, alla ricerca del punto più indicato per l’allunaggio programmato per la missione Apollo 11. In assoluto, quelle di Apollo 8, per importanza missione seconda soltanto all’allunaggio del 20 luglio 1969, furono le fotografie più affascinanti riprese dagli astronauti statunitensi. Una delle sequenze più belle riportate dai voli spaziali è giusto quella nella quale si vede il globo terrestre, d’un blu marmorizzato, sorgere a poco a poco sul desolato orizzonte lunare, per stagliarsi, infine, luminoso sullo sfondo nero profondo dello Spazio: in copertina di questo numero e in queste pagine. Aneddoto, leggenda, storia: questa celebre sequenza fotografica stava per non essere realizzata. Frank Borman, il comandante, vide che la Terra stava per sorgere e chiese a William Anders, l’esperto fotografico della missione, di scattare. Questi si rifiutò, affermando che quanto gli veniva richiesto non era previsto dal protocollo operativo. Lo stesso Borman prese allora l’Hasselblad di Anders e scattò lui stesso. A seguire, sulla Luna sono state realizzate fotografie esteticamente ed espressivamente affascinanti, fino all’ultima missione Apollo 17, la sesta sulla Luna, con abbondanza di veicoli lunari al lavoro. In assoluto, nel corso degli anni, si registra un sostanzioso miglioramento delle fotografie nel proprio insieme, oggi presentate e raccolte in numerose monografie celebrative. E poi, ci sono anche le fotografie spaziali dal telescopio orbitante Hubble, da poco riparato e proiettato a nuova vita [FOTOgraphia, novembre 2016], e quelle delle sonde che hanno raggiunto Marte.

DIETROLOGIA Noi viviamo e suscitiamo sentimenti, e i sentimenti se ne vanno. Sono ormai passati quasi cinquant’anni dallo sbarco dell’Uomo sulla Luna, al culmine del progetto spaziale statunitense Apollo: che appunto si proponeva di portare l’Uomo sulla Luna e riportarlo a Terra. Sono passati cinquant’anni dall’emozionante diretta televisiva, una delle prime ad ampio raggio. Cinquant’anni sono tanti, oppure pochi, dipende. In tutti i casi, per un numero crescente di adulti e per i giovani di oggi, l’avvenimento è lontano e irreale: appartiene alla Storia. Lasciamo ad altri i termini filosofici e scientifici della missione; in celebrazione di date, a luglio, il nostro personale punto di osservazione privilegerà l’aspetto fotografico di quell’avventura, a partire dai momenti antecedenti lo spettacolare allunaggio del modulo Eagle (aquila) di Neil A. Armstrong e Edwin E. Aldrin Jr. Per ora, la serie fotografica epocale di Apollo 8. Punto. ❖



BRUNO

E

KEN,

DI

MANIFESTO FLOWERS

Intensi ritratti di Marina Alessi che, con il passo proprio e caratteristico del più concentrato linguaggio fotografico, sottolineano il significato dei legami nella Vita e per la Vita. Un poco oltre: l’amore e la passione dell’autrice per e della fotografia le consentono di vivere felicemente la propria esistenza, concedendo anche a noi osservatori una consistente quantità e qualità di motivi per essere felici a nostra volta. Solo l’Amore si accorda con quella situazione di Verità che restituisce alla Vita la Bellezza che le è propria. Oltre che dovuta

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LEGÀMI di Angelo Galantini

P

SERGIO FANTONI, ATTORE,

CON

VALERIA LEPORE,

INTERIOR DECORATOR

asso indietro, per poi proseguire in avanti, in attualità di intenti. Il corrente allestimento espositivo di Legàmi, scandito su una coerente cadenza di ritratti della talentuosa Marina Alessi, eccelsa fotografa della scena teatrale italiana (altro discorso che non questo attuale), continua un progetto originario -stesso titolo-, esposto a fine Duemilaquindici al Teatro Carcano di Milano, uno dei palcoscenici storici del capoluogo lombardo. In quella occasione, a cura di Elisa Greco e la pubblicazione del testo dello spettacolo da parte di Mattia Visani, il Centro d’arte contemporanea Teatro Carcano si sintonizzò con la messa in scena dello spettacolo Due donne che ballano, del catalano Josep Maria Benet i Jornet, per la regia di Veronica Cruciani, con Maria Paiato e Arianna Scommegna che disegnano due solitudini generazionali, dando vita a un complicato rapporto di antitetiche figure femminili. (continua a pagina 34)

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VERONICA CRUCIANI,

REGISTA DI

DUE

DONNE CHE BALLANO, CON

MARIA E ARIANNA

NINA

FRANCESCA, VITTORIA E CHIARA

CON

CON

CSC VISION,

PACE, AVVOCATO,

PRESIDENTE

DE

FRANCESCA FREDIANI, PROGETTO LA GRANDE FABBRICA DELLE PAROLE, ASPETTANDO SOFIA

COSTANZA ESCLAPON,

ANNAMARIA BERNARDINI



LUCIANA, ELISABETTA E MARGHERITA CON

CREATIVITÀ, E

ELISA GRECO, COMUNICAZIONE

(continua da pagina 31) Per l’appunto, e in accordo intimo, con il passo proprio e caratteristico del più concentrato linguaggio fotografico, quegli originari Legàmi, di Marina Alessi, cadenzarono ritratti di dodici figure femminili che, a propria volta, sottolineano il significato dei legami nella Vita e per la Vita... in doppia maiuscola, volontaria oltre che consapevole. In un certo modo, in un certo bel modo (la qualità non è acqua), Marina Alessi replicò con Legàmi una delle cadenze proprie e caratteristiche dei suoi ritratti, sempre impeccabili nel contenuto, oltre la forma a tutti visibile. Tanto che va ricordata anche la serie presentata come Modello Unico/1, allestita ed esposta un anno prima: famiglie, amicizie e persone. Però, a ben considerare, è proprio la filosofia di Legàmi che stabilisce una cifra stilistica che va ben oltre l’apparenza manifesta della sua fotografia: per l’appunto confermata e ribadita nell’allestimento scenico dell’attuale mostra personale, in presentazione della quale qui e ora commentiamo. Marina Alessi è una fotografa che ama la propria professione, che è tale soltanto nelle istanze obbligatoriamente burocratiche del mestiere: altrimenti, è una passione intima che non si esaurisce nel solo svolgimento di incarichi assegnati. Così che, e in comunità di considerazione, andiamo in metafora: se volete essere felici per un anno, vincete alla lotteria. Se volete essere felici per tutta la vita, amate quello che fate. Questo è il senso della fotografia di Marina Alessi. Il suo amore e la sua passione per e della fotografia le consente di vivere felicemente la propria vita, concedendo anche a noi osservatori una consistente quantità e qualità di motivi per essere felici a nostra volta. Solo l’Amore si accorda con quella situazione di Verità che restituisce alla Vita la Bellezza che le è propria.

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Tra le tante condizioni dell’essere fotografo / fotografa, una è trasversale a tutte: missione di ciascuno è portare a buon fine la bellezza e la fraternità. Nell’animo di un buon fotografo / una buona fotografa (come di qualsiasi Uomo / Donna) alberga un poeta: solo i poeti sanno parlare della libertà, dolcissima e inebriante. Marina Alessi è un poetessa, che detiene il coraggio di ciò che veramente sa ed è. Il fascino estraniante e stregato della sua fotografia rimanda alla parola mai detta, all’infelicità mascherata, alla violenza esasperante della quotidianità mai affrontata. Noi, ora, osservatori di questa sua efficace azione, veniamo coinvolti in prima persona, fino a diventarne complici. Domanda d’obbligo: può la fotografia, nella semplicità della propria veste e complessità del proprio linguaggio, arrivare a tanto? Certamente! Soprattutto in questo caso, nel quale l’amore si manifesta in tutta la propria avvolgente ricchezza. Amore della mente, amore del cuore, amore fisico che trasuda da un omaggio visivo che scorre su un binario perlomeno e quantomeno doppio. A un tempo, i ritratti di Marina Alessi sono pretesto e fine. A un tempo, il soggetto conta e non conta. A un tempo, la fotografia svolge il proprio meraviglioso compito: quello di sollecitare il cuore che batte nel petto di ciascuno di noi. Nel momento in cui questo avviene, la Fotografia (anche qui in maiuscola consapevole e volontaria) raggiunge il proprio scopo. Non la natura che si fa di sé medesima pittrice, verso la quale ambivano i pionieri, ma la Vita che si rivela tra le pieghe della propria raffigurazione. Raccogliamo l’invito di Marina Alessi, la cui fotografia fa del nostro tempo un tempo migliore nel quale vivere e amare. ❖ Marina Alessi: Legàmi; a cura di Filippo Rebuzzini (Associazione Obiettivo Camera). Spazio Kryptos, via Panfilo Castaldi 26, 20124 Milano (www.obiettivocamera.it). Dal 7 febbraio al 22 febbraio; lunedì-venerdì, 16,00-19,30.



Attenzione... attenzione. Questo intervento redazionale, illustrato con tavole intere ed estratti dalle pagine della graphic novel Il fotografo di Mauthausen, è privo di fotografie a tema, peraltro ormai facilmente rintracciabili in Rete: magari, non tanto quelle di Francisco Boix, fotografo a Mauthausen, quanto quelle di Wilhelm Brasse, fotografo ad Auschwitz [a pagina 39], entrambi internati nei rispettivi Campi. Infatti, pur personalmente interessati alla fotografia antropometrica (nei Campi, in funzione identificativa e protocollare), che abbiamo anche affrontato su queste stesse pagine [per esempio, nel novembre 2010, ma non soltanto], non manchiamo mai di rispetto ai soggetti, siano colpevoli di reato o, a maggior ragione, perseguitati. È un princìpio di dignità! Per cui, prendiamo le distanze da certa spettacolarizzazione e speculazione diffusa di queste fotografie, da avvicinare solamente con intenzioni filologiche (argomento da affrontare, ma non ora, ma non qui), e ci chiamiamo fuori da tutto questo. Niente altro, niente di più. Niente di diverso. In ogni caso, diamo senso e valore a quella Coscienza dell’Uomo, sulla quale ci soffermiamo anche su questo stesso numero, da pagina 46, in chiusura di edizione.

di Antonio Bordoni

C

oncentrati in quella nostra convinzione -spesso rievocata, frequentemente richiamata-, secondo la quale il bene si raggiunge solo attraverso lo scambio di idee e opinioni, conferiamo valore di parola / pensiero a una quantità e qualità di espressioni che si manifestano ciascuna con propria personalità. Per questo, affrontando la graphic novel Il fotografo di Mauthausen, in edizione italiana Mondadori, dall’originale spagnola, riconosciamo la profondità del racconto illustrato, in questo caso evocativo di una vicenda storica che merita di essere conosciuta da più persone possibili, magari ciascuna raggiunta con passo adeguato: per l’appunto, dalla parola effettivamente tale all’illustrazione, alla fotografia... perché no? E qui, in dimensione di prologo allungato, precisiamo ancora un altro convincimento trasversale, oltre che mirato. Quando il ragionamento lo richiede, sia in forma privata -in discorsi tra conoscenti-, sia in mansione pubblica -quando e per quanto siamo invitati al dibattito-, sottolineiamo sempre un dovere diagonale di coloro i quali, con il proprio “mestiere”, si rivolgono al pubblico. Due sono i princìpi ai quali ognuno deve rispondere in prima istanza: anzitutto,

redditività di impresa; quindi, adempimento del mandato. Per esempio, un film, come anche una serie televisiva, deve soddisfare le aspettative finanziarie della produzione e appagare i desideri di evasione degli spettatori, non necessariamente in questo ordine. Guai a mancare una sola o entrambe le condizioni. Però, una volta assolti gli obblighi istituzionali, in compimento di considerazione, quando vogliono e se intendono farlo, gli autori possono aggiungere intenzioni supplementari, per esempio nel senso di trasmissione di idee e pensieri (e non ci riferiamo alla propaganda di qualsivoglia regime, per quanto anche questa attinga dalla stessa fonte, per propria natura originariamente rivolta al bene comune). In questo senso, gli esempi sono tanti, e -rimanendo con il cinema, inteso come modello a tutti comprensibile- riguardano quei registi e quegli sceneggiatori che, svolgendo il proprio mandato, aggiungono qualche spezia per coloro i quali -spettatori / pubblicohanno capacità e volontà di arricchire la propria mente, la propria esperienza: per cortesia, nessun nome, nessuna citazione; tanto, ci siamo già capiti. Tutto questo per sottolineare come la narrazione della graphic novel Il fotografo di Mauthausen (di Salva Rubio, Pedro J. Colombo e Aintzane Landa: rispettivamente, sceneggiatore, illustratore e colorista), qui e oggi in

EROISMO FOTOGRAFICO

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Il fotografo di Mauthausen, di Salva Rubio, Pedro J. Colombo e Aintzane Landa; Mondadori Comics, 2018; 120 pagine 21x28cm, cartonato; 12,99 euro.

In virtù delle proprie capacità fotografiche, acquisite come fotogiornalista, una volta internato a Mauthausen, Francisco Boix (Francesc Boix i Campo; 1920-1951) fu assegnato al laboratorio fotografico, con l’incarico di gestire la classificazione protocollare dei prigionieri (come da regolamento di tutte queste segrete naziste) e assistere il Rottenführer Paul Ricken, sistematicamente impegnato a documentare la vita, ma soprattutto la morte, nel Campo: una sorta di psicopatico che elucubrava sull’arte della morte e che concretizzava il proprio pensiero fotografando le barbare uccisioni che costituirono il motivo conduttore quotidiano dell’Olocausto.

Pubblicata in edizione italiana Mondadori, dall’originaria spagnola, la graphic novel Il fotografo di Mauthausen racconta l’eroica storia di Francisco Boix, matricola 5185 del Campo, che ha pianificato e realizzato il salvataggio di fotografie che documentarono gli eccidi perpetuati e il coinvolgimento attivo di burocrati e militari. All’indomani della Seconda guerra mondiale, le sue rievocazioni supportate dalle fotografie furono sostanziosa testimonianza al Processo di Norimberga. In forma di racconto illustrato, l’albo offre un avvicinamento individuale a una vicenda da conoscere e dalla quale imparare. Per non dimenticare. Mai 37


Nella propria follia individuale, coabitante e aggiuntiva con la follia assoluta del nazismo e dello sterminio, la ricerca sull’arte della morte condotta fotograficamente dal Rottenführer Paul Ricken, al Campo di Mauthausen, è stata scandita da cadenze mutuate da valori estetizzanti recuperati e (mal) interpretati dalla storia dell’arte: composizioni, posture, luce. Se vogliamo, al pari della Banalità del male, identificata da Hannah Arendt (in esplicito riferimento al burocrate Adolf Eichmann), questa altra Banalità aggiunge orrore all’orrore.

(pagina accanto, in alto) Ancora riflessione di Francisco Boix riguardo la tragica consecuzione che a Mauthausen passava dalle sofferenze degli internati, aggravate da crudeli esperimenti pseudo medici (come è accaduto anche in altri Campi, a partire da quelli effettuati dal criminale di guerra dottor Josef Rudolf Mengele, ad Auschwitz), alla loro registrazione fotografica: «Le foto[grafie] dovevano essere perfette».

(pagina accanto, al centro) Al culmine della propria follia psicopatica, il Rottenfhürer Paul Ricken ipotizza addirittura di fotografare la morte del suo assistente internato Francisco Boix: «Raffigurerò la morte... la tua morte. L’arte ci renderà immortali entrambi».

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passerella, sia brillante prova e dimostrazione di questo equilibrio tra dovere e volontà di racconto: è una storia ben raccontata e ben illustrata (dovere onorato), con retrogusto di scambio di idee -nello specifico in forma di rievocazione storica- che non può che votarsi al bene... qualsiasi cosa questo significhi per ciascuno di noi, come anche per gli autori in comunione di intenti e apprezzamenti (volontà assolta e risolta). Il titolo è esplicito: eroica storia del catalano Francisco Boix (Francesc Boix i Campo; 1920-1951), fotogiornalista, partigiano comunista, combattente nella guerra civile spagnola contro Francisco Franco, rifugiato in Francia, arruolatosi nell’esercito francese, catturato dai tedeschi e imprigionato nel campo di concentramento e sterminio di Mauthausen, in Austria. In internamento, per le sue capacità professionali, fu asse-

gnato al laboratorio fotografico, con l’incarico di gestire la classificazione protocollare dei prigionieri (come da regolamento di tutte queste segrete naziste) e assistere il Rottenführer Paul Ricken, sistematicamente impegnato a documentare la vita, ma soprattutto la morte, nel Campo (una sorta di psicopatico che elucubrava sull’arte della morte e che concretizzava il proprio pensiero fotografando le barbare uccisioni che costituirono il motivo conduttore quotidiano dell’Olocausto). Ora, nello specifico. Una volta apprezzata la forma di questa graphic novel, non ignoriamo il suo contenuto, ovverosia la sua portata istruttiva ed edificante. Anzi, è precisamente vero l’esatto contrario: eleviamo la sostanza dell’argomento oltre l’apparenza a tutti visibile dell’aspetto (in ripetizione, veicolo necessario ben declinato). Infatti, attirato dal racconto illustrato, magari


meno gravoso di un saggio storico (almeno ufficialmente, almeno in dipendenza delle pigrizie che spesso ci soggiogano), ognuno di noi avvicina una vicenda poco nota, ma fondamentale, ma straordinaria, della persecuzione nazista (che non si è limitata/contenuta allo sterminio degli ebrei, come troppo spesso si semplifica, ma ha mirato a una vasta serie di dissensi e pensieri: dalla religione a presunte diversità fisiche, dal pensiero politico all’appartenenza etnica... e ben oltre). Così, Il fotografo di Mauthausen dà fiato a quella coscienza di Francisco Boix, matricola 5185 del Campo, in base alla quale e in risposta alla quale fu raccolto, protetto e trafugato un consistente apparato fotografico certificatore dell’orrore che, in seguito, a Seconda guerra mondiale conclusa, fu parte determinante del Processo di Norimberga, del 1946, che giudicò i crimini nazisti

compiuti sugli internati e approvati da una quantità di burocrati militari e politici (qui identificabile), che negarono la propria partecipazione e, addirittura, regia. La graphic novel racconta giusto questo, romanzando la pianificazione e attuazione di un piano pericoloso, ma fortemente voluto. Oltre la trama principale, onore e merito agli autori, che nel proprio racconto hanno incluso anche quelle contraddizioni politiche del così definito “centralismo democratico” del Partito comunista, che -per altri equilibri- avrebbero anche voluto tacere su questo: ma la Coscienza dell’Uomo [anche da pagina 46] non può sottomettersi a nessuna prevaricazione della Vita e dell’Esistenza, neppure in nome di una Fede. Da cui, peripezie previste e odissee impensate. A complemento, alla sua conclusione libraria, l’albo illustrato Il fotografo di Mauthausen offre una serie

In parallelo con le considerazioni oggi espresse, in presentazione e commento della graphic novel Il fotografo di Mauthausen, ricordiamo anche la vicenda di Wilhelm Brasse, fotografo di Auschwitz, con matricola 3444 (anche alle dipendenze del famigerato criminale di guerra dottor Josef Rudolf Mengele, passato alla Storia per i crudeli esperimenti medici e di eugenetica che svolse usando i deportati come cavie umane, soprattutto bambini, per la sua orrida ossessione per i gemelli). L’edizione originaria di Il fotografo di Auschwitz, di Luca Crippa e Maurizio Onnis, è stata pubblicata da Edizioni Piemme, nel 2013 (296 pagine 13x21cm; 14,90 euro / eBook, 6,99 euro); in collana Pickwick, nel 2014. Il caso di Wilhelm Brasse, ad Auschwitz, non ha punti in comune con l’eroismo di Francisco Boix, a Mauthausen; è la storia di come si è salvato la vita grazie alle proprie capacità fotografiche. [Degli stessi autori Luca Crippa e Maurizio Onnis, sempre in Edizioni Piemme, segnaliamo anche L’archivista (sempre di Auschwitz): altra storia vera].

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Dopo aver eroicamente raccolto, protetto e trafugato un consistente apparato fotografico certificatore di ciò che accadeva nel Campo di Mauthausen, Francisco Boix è perplesso per la contradditoria accoglienza della sua testimonianza al Processo di Norimberga, del 1946, di giudizio dei crimini nazisti. La corte non crede ai testimoni che si sono salvati dallo sterminio. È una pasionaria che riconvoca la coscienza.

La stessa vicenda raccontata nella graphic novel oggi presentata è stata riportata nel film tv El fotógrafo de Mauthausen, realizzato nello scorso 2018 di edizioni librarie internazionali: regia di Mar Targarona; sceneggiatura di Roger Danès e Alfred Pérez Fargas; con l’attore Mario Casas nei panni di Francisco Boix (Francesc Boix i Campo). In distribuzione spagnola dallo scorso ventisei ottobre, è disponibile anche in versione internazionale The Photographer of Mauthausen.

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di chiarimenti e approfondimenti a tema; in questo ordine: Lessico, Introduzione, La deportazione dei repubblicani spagnoli nei Campi nazisti e la sorte dei sopravvissuti, Il campo di concentramento di Mauthausen-Gusen, Paul Ricken e il servizio di identificazione della sezione politica del campo di concentramento di Mauthausen, Quasi settant’anni dopo, in Spagna e, ovviamente, Gli autori. Dato lo spessore e la consistenza dell’argomento, divergendo da comportamenti redazionali precedenti, sia per riferimenti illustrati, sia per richiami cinematografici, evitiamo qui la menzione delle visualizzazioni tecniche (fotografiche) della graphic novel Il fotografo di Mauthausen, invitando alla lettura individuale. Allo stesso tempo, oltre queste note di presentazione, rimandiamo alla nostra selezione di illustrazioni in ac-

compagnamento, isolate dall’albo in presentazione e commento. E a questo proposito, riveliamo che non necessariamente le nostre parole hanno riportato tutta la profondità del racconto; anzi, con lievità volontaria (non trascuratezza), ci siamo limitati alla macrovicenda, che nel proprio cammino è cadenzata da molteplici microapporti. Così facendo, intendiamo convocare seriamente a un avvicinamento individuale a questo libro, a una lettura nell’intimità del proprio animo. Altrettanto vale per le illustrazioni a corredo: conseguentemente, non sono certo le più significanti, né in forma di tavola, né in estrazione di vignetta, ma sono state individuate su un passo che, a propria volta, convochi verso una stessa lettura nell’intimità del proprio animo. Sempre e comunque e imperiosamente: per non dimenticare. Mai. ❖


Dal 1991, i logotipi dei TIPA Awards identificano i migliori prodotti fotografici, video e imaging dell’anno in corso. Da ventotto anni, i qualificati e autorevoli TIPA Awards vengono assegnati in base a qualità, prestazioni e valore, tanto da farne i premi indipendenti della fotografia e dell’imaging dei quali potete fidarvi. In cooperazione con il Camera Journal Press Club of Japan. www.tipa.com


di Lello Piazza

Come certificato nel corpo centrale di questo intervento redazionale, in propria prima istanza assoluta, l’iconico Le Baiser de l’Hôtel de Ville , di Robert Doisneau, è stato pubblicato sul settimanale statunitense Life , con data di copertina 12 giugno 1950: due pagine e mezzo con otto fotografie di innamorati che si baciano nelle strade di Parigi, con il titolo dell’articolo esplicito di Speaking of pictures... In Paris young lovers kiss wherever they want to and nobody scems to care (traduciamo in A proposito di fotografie... A Parigi, i giovani innamorati si baciano dove vogliono e nessuno se ne prende cura ) [in alto]. In origine, l’unica rimasta famosa, tanto da meritare, indiscutibilmente, il valore di icona del Novecento, non spiccava per propri meriti particolari, oltre fare parte del servizio completo. La sua fama e notorietà è nata e cresciuta negli anni a seguire; e si segnala anche una campagna pubblicitaria Peugeot, che l’animò [ FOTOgraphia, maggio 2000 / al centro]. In ogni caso, in ulteriore dettaglio, oppure dietro-le-quinte, rileviamo che Robert Doisneau scattò a marzo, in uno di quei giorni d’inverno di Parigi nei quali il tempo (climatico) pare indeciso.

FOTOGRAFIA UMANISTA In passaggio italiano, lungo il proprio percorso espositivo internazionale, avviato all’autorevole Hôtel de Ville de Paris, il progetto fotografico Paris d’Amour, del francese Gérard Uféras, è ottimo esempio di fotografia umanista, svolta e realizzata con delicatezza e affetto. In questa declinazione, qui cadenzata sul ritmo visivo esplicito di sposi e loro ospiti, c’è amore, interesse per l’Uomo (e accordo sulla sua Esistenza), ritratto nello svolgersi della sua vita quotidiana, all’interno del proprio ambiente e in coincidenza con i propri affetti

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L’AMOUR TOUJOURS; 2010 (GÉRARD UFÉRAS / PHOTO OP)

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2)

A

ttraversando i mille e mille aspetti della fotografia contemporanea, senza stabilire scale gerarchiche di genere e soggetto, ho il piacere di presentare questo delizioso lavoro di Gérard Uféras dedicato al matrimonio: sua cerimonia e contorni di rito e tradizione. Ci sono voluti quasi due anni per la sua realizzazione. Nel 2010, una mostra a tema ha avviato il proprio ciclo espositivo nelle sale dell’autorevole Hôtel de Ville de Paris, nella capitale francese, e le immagini sono pubblicate nella monografia coeva Paris d’amour, in Édition Castor et Pollux, che replica il titolo della mostra parigina (duecentocinquantadue fotografie, con un Dvd di un film firmato da Pierre Schumacher; edizione dedicata alla memoria di Willy Ronis, l’eccellente autore francese mancato il precedente 12 settembre 2009, dopo aver compiuto novantanove anni [era nato il 14 agosto 1910]). Ora, in circuito internazionale, Paris d’Amour (in questa grafia), di Gérard Uféras, è allestita alla Villa Reale di Monza, fino al prossimo tre marzo. Non aspettatevi fotografie di matrimonio analoghe a quelle degli album commemorativi che conserviamo nelle nostre case, a memoria di uno degli eventi più importanti della vita degli umani. Si tratta piuttosto di un lavoro poetico, che ha la grazia della fotografia umanista, corrente culturale soprattutto francese. Osservando la delicatezza e l’affetto con i quali Gérard Uféras racconta i suoi sposi e i loro ospiti si può sentire cosa si intende per fotografia umanista: c’è amore, interesse per l’Uomo (e accordo sulla sua esistenza), ritratto nello svolgersi della sua vita quotidiana, all’interno del proprio ambiente. Con balzo di apparenza a tutti visibile, l’icona di questo genere di fotografia è rappresentata dalla famosissima immagine Le Baiser de l’Hôtel de Ville, di Robert Doisneau. Questa fotografia, ormai iconica, è stata pubblicata per la prima volta il 12 giugno 1950, sul settimanale statunitense Life, insieme ad altre immagini a tema dello stesso autore: tutte di innamorati che si baciano nelle strade di Parigi. Il titolo dell’articolo è esplicito: Speaking of pictures... In Paris young lovers kiss wherever they want to and nobody scems to care (traduciamo in A proposito di fotografie... A Parigi, i giovani innamorati si baciano dove vogliono e nessuno se ne prende cura) [qui accanto]; otto fotografie, distribuite in due pagine



ANNA E SOMANINN; 2009 (GÉRARD UFÉRAS / PHOTO OP) DI

MATRIMONIO

e mezzo (e l’unica oggi nota non era stata estrapolata dal servizio, nemmeno per l’apertura di articolo, ma ha acquisito fama e notorietà nei decenni a seguire, tracciandosi un cammino proprio). Oltre a Gérard Uféras e Robert Doisneau, è doveroso citare anche altri autori di questa corrente. Mi limito a quelli a me più cari: Édouard Boubat, Marc Riboud, Willy Ronis -grande amico di Gérard Uféras [da cui il ricordo in edizione libraria, appena citato]-, Hans Silvester, Brassaï (Gyula Halász), Izis (Israëlis Bidermanas), Dorothea Lange (l’autrice della celeberrima Migrant Mother ; quella della Farm Security Administration, agenzia del New Deal rooseveltiano, insieme a Walker Evans, Gordon Parks, Ben Shahn, Arthur Rothstein e tanti altri) e W. Eugene Smith. Un poco obtorto collo, aggiungo anche Henri CartierBresson, perché i libri di Storia lo impongono, per quanto -talvoltami è sembrato più a disagio in mezzo agli Uomini che un umanista. Tornando a Gérard Uféras, va rivelata la sua passione per il bello e l’arte, che l’accompagna da tutta la vita. Nato nel 1954, negli anni Ottanta del Novecento inizia la carriera professionale producendo reportage per il quotidiano Libération. Nel 1986, è tra i fondatori dell’Agence Vu, con Christian Caujolle, un mito della storia della fotografia francese [FOTOgraphia, giugno 2003]. Nel 1990, qualcosa cambia nella sua vita. È tra i vincitori del Prix Villa Médici hors les murs, riservato a francesi o residenti in Francia da almeno cinque anni, che siano produttivi nel campo di musica, letteratura, film, video, danza, teatro e altre arti. Si tratta di un premio

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istituito per consentire ai giovani di realizzare un progetto all’estero. Gérard Uféras lavora sul balletto e sull’opera. Da quel momento, realizza i suoi lavori più importanti, di uno dei quali aveva già cominciato a occuparsi anche prima del premio. Mi limito a citare la serie Un fantôme à l’Opéra (1988-2001), dedicata al mondo del teatro e dell’opera, L’Étoffe des rêves (2000), realizzato nel circuito delle sfilate di moda, e Un pas vers les étoiles: le Ballet de l’Opéra national de Paris (2003-2005), per l’appunto sul balletto dell’Opéra nazionale di Parigi, evocato in specifica di titolo completo. Nella primavera 2009, la Maison européenne de la photographie, di Parigi, gli dedica una imponente retrospettiva, intitolata États de Grâce, nella quale sono state allestite le sue immagini che celebrano la bellezza di artisti, ballerini e modelle. Per tutto questo, e altro ancora, Gérard Uféras è considerato uno dei più significativi e autorevoli fotografi di teatro del mondo. Ciò specificato, veniamo alle fotografie di matrimonio, così come le estrapolo dalla mostra Paris d’Amour, sistematicamente riproposta dopo il suo allestimento originario, in attuale passaggio italiano. Ovviamente, non sono e non desidero svolgere il lavoro che compete ai critici di mestiere e profilo. Perciò, non oso certificare quali siano le immagini che ritengo migliori. Non cerco neppure di spiegare perché in una fotografia si incontra un taglio di un certo tipo, perché c’è un’ombra qui o una luce là, se è stata rispettato o meno l’equilibrio del rapporto aureo


STÈPHANE; 2009 (GÉRARD UFÉRAS / PHOTO OP) E

YAÎLE DI

MATRIMONIO

(quello dei terzi, per intenderci). Né cerco di trasformare una immagine in una equazione con ascisse e ordinate. Preferisco che sia l’osservatore a perdersi davanti alle fotografie, a scegliere e a lasciare galoppare i propri sentimenti, le proprie emozioni. Con un’unica eccezione, per una inquadratura che trovo deliziosa. È il ritratto di un ragazzino che bacia una bimba mentre, alle loro spalle, un altro fotografo sta fotografando gli sposi, una specie di specchio immaginario della vita futura dei due adolescenti [qui sopra]. Concludo... quasi. Di ogni fotografia, l’unico valore che mi sta sempre a cuore è ricordare, prima a me stesso che ad altri, che molto di quello che c’è nell’opera di ogni fotografo è ciò che accade davanti ai suoi occhi. E, almeno in un certo tipo di fotografia, le reazioni a ciò che accade devono essere talmente rapide che l’autore della composizione non può che agire in modo istintivo. È vero, come era solito affermare Fulvio Roiter, che tutto inizia e finisce in un centoventicinquesimo di secondo, o -a volte- addirittura in un tempo ancora più breve. Ma, in ogni immagine, c’è il cuore di chi fotografa, la sua cultura visiva, gli anni e anni che ha dedicato a costruirla. Questo è il vero tempo di otturazione di ogni fotografia: anni e anni. Tornando all’allestimento scenico della mostra alla Villa Reale di Monza, alle porte di Milano, devo ricordare che in tre sale vengono riprodotti voci e suoni ripresi durante i matrimoni e che -alla fine del percorso, in un’altra saletta- si può assistere a un video, in francese con sottotitoli in inglese, dove Gérard Uféras parla del suo lavoro.

Infine, mi preme concludere con una citazione da una poesia di Jacques Prévert, Les enfants qui s’aiment (I ragazzi che si amano), musicata per Juliette Gréco e cantata anche da Ives Montand, dedicata all’amore. Il poeta, che ha lavorato con Robert Doisneau alla raccolta fotografica Rue Jacques Prévert, del 1992, così parla di Parigi e dei suoi ragazzi. I ragazzi che si amano si baciano in piedi Contro le porte della notte E i passanti che passano li segnano a dito Ma i ragazzi che si amano Non ci sono per nessuno Ed è la loro ombra soltanto Che trema nella notte [...] E, più avanti, conclude: I ragazzi che si amano non ci sono per nessuno Loro sono altrove ben più lontano della notte Ben più in alto del sole Nell’abbagliante splendore del loro primo amore. Fotografia umanista. ❖ Gérard Uféras: Paris d’Amour; a cura di Photo Op. Villa Reale di Monza, viale Brianza 1, 20900 Monza MB (www.villarealedimonza.it). Fino al 3 marzo; martedì-domenica, 10,00-19,00.

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Quella Coscienza di Angelo Galantini

OGNI UOMO A SE STESSO

P

Probabilmente, nel corso delle nostre esistenze, ciascuno di noi tende più a individuare conferme a propri pre-concetti (non necessariamente preconcetti in forma di pregiudizio) che cercare dialoghi che possano interessare l’approfondimento, magari influenzando altrimenti le nostre stesse opinioni originarie. Così facendo, si fa stereotipo di idee e opinioni, invece che archetipo di Vita e Visione (e Osservazione e Riflessione). E la differenza tra stereotipo e archetipo è profonda: separa la non cultura, entro la quale nasce e si alimenta lo stereotipo, o viceversa, dalla cultura, sulla quale si basa l’archetipo (e non si intende “cultura” in forma di nozionismo ed erudizione, ma come referente profondo e inviolabile della propria coscienza). In trasversalità di analisi, andando in lettura sotto traccia, il valore intimo e diagonale del programma fotografico Coscienza dell’Uomo, proposto a Matera nel corso del corrente Duemiladiciannove, esordito all’inizio dello scorso gennaio -stiamo per riferirne-, sta proprio nella distinzione netta e dovuta tra stereotipo e archetipo. Fortemente voluta da Francesco Mazza, che parte dalla personalità commerciale Cine Sud, a Catanzaro, in Calabria [FOTO graphia, dicembre 2016], e realizzata con il fattivo contributo di Antonello Di Gennaro, referente di Matera International Photography, la cadenza è scandita dalla direzione artistica (diciamola così) di Maurizio Rebuzzini, direttore di FOTOgraphia, qui in veste diversa dal suo giornalismo (oppure, in interpretazione coincidente... fa lo stesso). In che modo e quale misura Coscienza dell’Uomo propone archetipi, invece di spacciare stereotipi, tanto cari a visioni preconcette della Fotografia, soprattutto qui da noi, in Italia? Nel suo rispondere, prima di tutto, e forse soltanto, al mandato preposto, invece di frequentare complicità di comodo e interesse maturate altrove, e perfino estranee al dovere sovrastante di rivolgersi unicamente al pubblico potenziale, piuttosto che ad altre istanze conniventi. Ovvero, nel suo svolgere la materia proposta a testa alta: ovviamente, poi, a conti fatti, ciascuno ha il diritto/

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Da Le parteras. Le eroine delle Ande, di Danilo De Marco: Maria Ramona Vimos.

Da London & Daiquiri, di Gian Butturini: Militare inglese e donna a braccia conserte (Belfast, Irlanda del Nord; 1971).

Da Fahrenheit 451, di Franco Canziani e Marco Moggio: Richard Avedon, Observations; 1959 (Testi di Truman Capote).


Quella Coscienza

dovere di valutare la consistenza e validità della trattazione, per sé medesima, non in dipendenza di altre considerazioni aggiuntive e aggiunte.

IN COSCIENZA Dalla presentazione del progetto Coscienza dell’Uomo, che a Matera, in Basilicata, nel corso del Duemiladiciannove, accompagna la sontuosità istituzionale di Matera 2019 capitale europea della cultura (insieme con Plovdiv, in Bulgaria), riprendiamo passi che ne scandiscono la genesi, offrono le motivazioni ispiratrici, decifrano il percorso. Nel farlo, non scomponiamo le loro dal-

le nostre parole; ovvero, non stiamo qui a sottolineare con grafia opportuna -magari, virgolettando- i proprietari delle parole, perché (verba volant; anche e ancora su questo numero, a pagina quattro) proprietari siamo tutti noi, che le acquisiamo, facendole nostre e includendole nel nostro bagaglio di conoscenze e comprensioni. Soltanto, in forma di ulteriore prologo, non possiamo ignorare come e quanto questa Coscienza dell’Uomo risponda anche a quel pensiero espresso da Edward Steichen, autore statunitense dell’inizio del Novecento, secondo il quale «Missione della fotografia è spiegare

Da Contro la guerra. Ritratti dall’infanzia negata, di Pino Bertelli: Avete fatto un deserto di morti, e l’avete chiamato pace! (Baghdad; 2003).

l’Uomo all’Uomo, e ogni Uomo a se stesso» (che l’avrebbe espresso nel 1969, in occasione del suo novantesimo compleanno). Comunque sia, e con tanti altri richiami a pensieri alti, sulla premessa di un ciclo di allestimenti (mostre), presentate in spazi espositivi di Matera, nel corso dell’anno, con accrescimento sistematico del materiale proposto, Coscienza dell’Uomo ipotizza la predisposizione di una concentrata visione in forma fotografica che ripercorre temi e pensieri di un impegno di autori e interpreti italiani (soltanto italiani, e -più avanti- stiliamo una motivazione sovrastante) che, senza alcuna gerarchia, né soluzione di continuità, hanno scandito tempi sociali rilevanti, affrontato tematiche esistenziali considerevoli e (anche) osservato con lievità e concentrazione trasversalità fotografiche. Consapevoli che ognuno di questi istanti, in sedi espositive coerenti, è tassello di valori in profondità, viene certificato sia il senso di ciascuno, per se stesso, sia la propria appartenenza a un progetto complessivo coerente e mirato. Ogni allestimento prevede e presuppone una cadenza prestabilita in accompagnamento: cerimonia di inaugurazione; là dove richiesto, convegno a tema con partecipazioni qualificate; eventuali altri eventi collaterali. Anche quando e per quanto alcune messe in scena vengono compilate con opere formalmente mercantili, tutte le fotografie accreditate al cammino di Coscienza dell’Uomo (le cui motivazioni stanno per arrivare) esulano dai parametri consueti di “opera d’autore”, in senso mercantile e galleristico, ma sono sempre e soltanto intese per quella loro messa in pagina che scandisce un percorso e una direzione: con connotati lievi di propria riproduzione visiva, indipendente dal senso di “opera”; ovvero, come parte di un racconto e non estrazione asettica e sterile.

PENSIERO MERIDIANO Come appena accennato, il programma sottolinea la propria volontà di proporre una visione di stampo italiano. Non per provincialismo culturale e di esame, come troppo spesso accade, quando e per quanto si lamenta l’assenza del nostro paese da palcoscenici internazionali (dai quali non siamo esclusi per incapacità dei fotografi, ma per colpevole assenza di

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Quella Coscienza PRIMO TRIMESTRE

Nove mostre scandiscono l’avvio del programma fotografico Coscienza dell’Uomo, a Matera, in Basilicata, nel Duemiladiciannove. Dopo il primo trimestre (gennaio, febbraio, marzo), altre tante esposizioni definiranno l’intero percorso, probabilmente destinato a non esaurirsi alla conclusione dell’anno solare di riferimento (www.mat2019coscienzadelluomo.it). ❯ Pino Bertelli: Contro la guerra. Ritratti dall’infanzia negata . Ex Ospedale san Rocco / Piano terra, piazza san Giovanni, 75100 Matera. [dal 12 gennaio] Fino al 10 febbraio; 10,00-12,30 - 16,00-19,30. Elegia visiva... un portolano di sessanta ritratti di bambini, che hanno visto la guerra (la fame, la paura) e l’inviano a noi con i propri sguardi. Ci guardano con la loro Bellezza... estrema e ammaccata. Tutto qui: solo volti di bambini che accusano la malvagità di tutte le guerre. [...] La pace si realizza con la pace. ❯ Gianluigi Colin: Caos apparente. Ex Ospedale san Rocco / Piano terra, piazza san Giovanni, 75100 Matera. [dal 13 gennaio] Fino al 10 febbraio; 10,00-12,30 - 16,00-19,30. È l’assedio dell’immagine. Decine di migliaia di fotografie, quelle che arrivano ogni giorno ai grandi quotidiani, e che ritroviamo nelle pagine dei giornali, nei siti web, nei telegiornali. (Il collegamento espositivo della mostra Contro la guerra. Ritratti dall’infanzia negata, di Pino Bertelli, inserita nel percorso finale dell’allestimento di Caos apparente, di Gianluigi Colin, è identificato dal pensiero di Fai di ogni lacrima una stella ). ❯ Alberto Dubini: Visitors . Galleria Cine Sud, via Passarelli 29-31, 75100 Matera. [dal 12 gennaio] Fino al 24 febbraio; 10,00-12,30 - 16,30-19,30. Generalmente, oltre che genericamente, le inaugurazioni di mostre sono frequentate più per diffusa mondanità che per interesse effettivo. Insomma, si incontrano conoscenze e ci si fa vedere, per attestare sia la propria presenza fisica, sia la propria aderenza a una declinazione equilibrata della Società dello spettacolo [FOTOgraphia, maggio 2018]. ❯ Fabrizio Jelmini: Favela . Ex Ospedale san Rocco / Primo piano, piazza san Giovanni, 75100 Matera. [dal 13 gennaio] Fino al 10 febbraio; 10,00-12,30 - 16,00-19,30. Toccante reportage fotografico ispirato dalla capacità di riconoscere ciò che l’occhio guarda e la mente vede. In una favela di Salvador de Bahia, nel Nordest del Brasile, si svolge una intensa vita quotidiana, regolata da una indigenza che non priva gli abitanti della propria dignità. Vicenda minimale (forse), che solo il buon reportage ha modo di elevare a Storia raccontata. ❯ Nino Bartuccio: Nega . Galleria Arti Visive, via delle Beccherie 41, 75100 Matera. Dal 16 febbraio al 3 marzo; 10,30-12,30 - 17,30-19,30. Convegno: Chiesa del Cristo flagellato (piazza san Giovanni, 75100 Matera); domenica 3 marzo, 17,00. «Questa è una storia di cifre, del numero tre e di suoi multipli. Sono nato il 3 marzo 1969 (3-3-1969); la fotografia perfetta di Nega è stata realizzata il 6 settembre 2006 (6-9-2006), durante il mio terzo viaggio in Brasile. L’inaugurazione della mostra è il 3 marzo 2019 (3-3-2019), giorno del mio cinquantesimo compleanno. [...] Nega non è una fotografia, è la mia vita».

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❯ Danilo De Marco: Le parteras. Le eroine delle Ande . Università degli Studi della Basilicata, via del Castello, 75100 Matera. Dal 2 al 31 marzo; 10,00-19,30. Convegno: venerdì 29 marzo, 17,00. Tra le aree dell’Ecuador andino, il Cantone di Guamote, nella regione del Chimborazo, dal vulcano che porta lo stesso nome e la cui cima supera i seimila metri, è una delle più povere e abbandonate. Qui vivono gli indiani Quechua, contadini che coltivano rape, patate e altri legumi della sopravvivenza sui ripidissimi terreni che raggiungono i quattromilacinquecento metri. L’indice di povertà tocca il novanta percento della popolazione. Il tasso di mortalità infantile è uno dei più alti del paese; tra i minori di cinque anni, la mortalità è dell’85,7 percento. La maggior parte delle donne partorisce in casa -solo un dieci percento ricorre aIl’ospedale-, e un’alta percentuale non riceve alcun aiuto nel momento del parto. ❯ Franco Canziani e Marco Moggio: Fahrenheit 451. Galleria Cine Sud, via Passarelli 29-31, 75100 Matera. Dal 3 al 31 marzo: 10,00-12,30 - 16,30-19,30. Convegno: Del furore di avere libri; domenica 3 marzo, 11,00. Tra le tante visioni apocalittiche ipotizzate dalla fantascienza, quella di Fahrenheit 451, di Ray Bradbury, del 1953 (in Italia, dal 1956, anche con il titolo Gli anni della fenice [lontano dall’argomento: Fahrenheit 451 è la temperatura di combustione della carta]), è decisamente inquietante: racconta i tormenti morali, e quindi le controverse vicende esistenziali, di un “milite del fuoco”, chiamato -in un’era tecnologica avanzata- a bruciare libri e persone considerate come residui di barbarie, resti pericolosi di una concezione eversiva della vita. ❯ Franco Zampetti: Visioni zenitali . Ex Ospedale san Rocco / Primo piano, piazza san Giovanni, 75100 Matera. Dal 16 al 28 marzo; 10,00-12,30 - 16,00-19,30. Rigorose inquadrature dal basso (verso l’alto): perpendicolari al soggetto. Rappresentazioni che danno senso e risalto alle architetture, osservate da un punto di vista oggettivamente rigoroso, quanto soggettivamente coinvolgente. La fotografia applica la coerenza dei propri princìpi visivi per offrire ciò che la contemplazione dell’occhio fisiologico, che proietta alla mente (ma anche al cuore), ha già intuito per istinto ed esperienza [FOTOgraphia, settembre 2009 e luglio 2018]. ❯ Gian Butturini: London & Daiquiri . Ex Ospedale san Rocco / Piano terra, piazza san Giovanni, 75100 Matera. Dal 16 al 28 marzo; 10,00-12,30 - 16,00-19,30. Convegno: sabato 16 marzo, 18,00. A cura della Associazione Gian Butturini, la mostra comprende cinquanta fotografie 30x40cm tratte dai primi storici reportage di Gian Butturini (Brescia, 1935-2006). Le fotografie sono suddivise in ordine tematico e cronologico, dal 1969 al 1987. Il suo primo volume London by Gian Butturini, originalmente segnato dai trascorsi di designer dell’autore, è stato ripubblicato a cura e con prefazione di Martin Parr, presidente di Magnum Photos (Damiani, Bologna), che lo considera un «mirabile affresco di straordinario valore».


Quella Coscienza za, dal 1996], al quale tanta cultura italiana attinge oggi quell’idea di originalità nel confronti del Mondo che definisce, fino a caratterizzarla, una interpretazione della Vita della quale questo programma/progetto intende sottolinearne il contributo in forma fotografica. Dunque, non fotografi italiani in provincialismo di intenzioni, con integrazioni comunque mediterranee, ma in chiarimento di un modo di pensare e affrontare il quotidiano con pensiero umanamente proprio e definito: mai imperialista, mai colonialista, mai sovraccarico, mai violento, ma sempre nobilmente umile e rispettoso: soprattutto, del diverso (qualsiasi cosa ciò possa significare per ciascuno di noi). Proprio perché italiani, i fotografi italiani si sono sempre distinti per il proprio particolare pensiero umanista, sia in ambiti specifici della fotografia del vero e dal vero, sia in applicazioni apparentemente distanti dalla registrazione della Vita nel proprio svolgersi (dalla moda al design, senza alcuna soluzione di continuità).

“COME” E “PERCHÉ”

quei supporti infrastrutturali, soprattutto istituzionali, pubblici e privati, che, invece, sostengono e promuovono altre geografie). Ma per convinzione di offrire e proporre una interpretazione della fotografia, magari anche in un proprio percorso intellettivo, definita e determinata, per l’appunto, da un apporto culturalmente italiano. Ispirata a quella The Family of Man (La Famiglia dell’Uomo), con la quale e attraverso la quale, nel 1955, Edward Steichen [appena evocato] stabilì un punto fermo e assoluto, all’indomani della Seconda guerra mondiale, Coscienza dell’Uomo si prospetta come

punto di vista autorevole e autonomo. Una visione di apertura, non chiusura. Una visione che non intende dimostrare nulla, ma suggerire domande, invitare a ragionamenti, offrire prospettive esistenziali, sollecitare interrogazioni. Il filo ispiratore e conduttore della Coscienza dell’Uomo si richiama a quel pensiero meridiano di nobili origini (seminato da Albert Camus, Friedrich Wilhelm Nietzsche, Rainer Maria Rilke, Fernand Braudel, Pier Paolo Pasolini, Ernesto De Martino... e altri, ancora), che il filosofo Franco Cassano ha ben esposto e articolato nel suo saggio omonimo [Il pensiero meridiano; Later-

Da Nega. Alla ricerca della Bellezza, di Nino Bartuccio: Nega (Brasile; 2006).

Da Favela, di Fabrizio Jelmini: Localidade; Passagem dos Texeira (Salvador da Bahia; estrada principal).

In apparenza di fotografie tra loro simili, soltanto sulla superficie a tutti visibile, intenzione di Coscienza dell’Uomo è giusto quella di segnalare e sottolineare quel filo (rosso?) che distingue, ha sempre distinto, la fotografia italiana in un panorama internazionale adeguatamente vasto ed eterogeneo: sottolineando come -volente o nolente- il pensiero meridiano è implicito nell’essere italiani nel mondo e con il mondo. È un dono del DNA che ha stabilito anche una interpretazione fotografica. Ogni momento della Storia è un crocevia. Un percorso stradale unico porta dal passato al presente, ma una miriade di vie possibili si dirama verso il futuro. Alcune di queste strade sono ampie, lisce, ben segnate, e -perciò- sono quelle che più probabilmente verranno prese; ma, qualche volta, la Storia -o chi fa la Storia- compie svolte inaspettate. In propria missione, indipendentemente dall’eventuale evidenza e esuberanza del soggetto, e in maiuscola volontaria e consapevole, la Fotografia è una forma di comunicazione visiva che, in modo proprio, rivela e sottolinea questo che abbiamo appena definito “percorso stradale”, offrendo fantastici s-punti di riflessione. In alcuni casi, riesce a farlo meglio di altre forme di co-

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AURELIO AMENDOLA

Quella Coscienza

municazione; in altri, agisce insieme con altre forme di comunicazione. Nel contenitore di Coscienza dell’Uomo sono considerati soprattutto, e forse addirittura soltanto, passi fotografici autonomi e risolutivi per se stessi. In relazione al tema affrontato, individuato nell’Esistenza, piuttosto che tra sue pieghe, ognuno è esemplare nel rivelare come certi accadimenti si manifestano e nello spiegare perché si sia arrivati a questo. Da cui, una domanda è spontanea: qual è la differenza tra descrivere “come” e spiegare “perché”? e in che modo e misura la Fotografia è comunicazione opportuna per il doppio as-

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Allestimento di Caos apparente , di Gianluigi Colin. (in alto, a sinistra) Da Visioni zenitali, di Franco Zampetti: Teatro Comunale di Carpi (Carpi, Modena). (in alto, a destra) Da Visitors, di Alberto Dubini: Spazio Forma, Milano (gennaio 2014).

solvimento? Descrivere “come” significa ricostruire la serie di eventi specifici che hanno condotto ogni situazione da un punto a un altro. Spiegare “perché” significa individuare i nessi che dimostrano la consequenzialità degli eventi. Ancora: descrivere “come” è azione iniziale e originaria del fotografo, magari di tutti i fotografi; spiegare “perché” è impegno soltanto di quei fotografi (in pensiero meridiano) che non si fermano all’esuberanza visiva del proprio soggetto, ma approfondiscono sotto traccia. A conseguenza, spiegare il “perché” non è azione che si esaurisce al momento dello scatto, ma si estende

lungo l’iter di presentazione e visualizzazione della fotografia, magari in forma di allestimento in mostra. Quindi, spiegare il “perché” si basa e dipende da una partecipazione attiva del pubblico, che entra in sintonia con la fotografia: non con la sua ridondanza apparente, ma nei suoi contenuti compresi. Già... Coscienza dell’Uomo. Un invito a osservare, piuttosto di giudicare. Una esortazione a pensare, invece di credere. In conclusione, «Quale sarebbe la nostra comprensione del mondo, se non ci fossero le fotografie?»: da e con Susie Linfield, in La luce crudele. ❖




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