FOTOgraphia 246 novembre 2018

Page 1

Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano

ANNO XXV - NUMERO 246 - NOVEMBRE 2018

Rievocazione... forse EURA FERRANIA

Mario Carnicelli SGUARDO SU...

PHOTOKINA 2018 GIÀ... ALLA FIN FINE




prima di cominciare

BICENTENARIO. Il Toscano, che comprende una genìa scandita in tante proposte e interpretazioni, ognuna con proprie caratteristiche, nasce nel 1818, da cui l’attuale celebrazione dei clamorosi duecento anni. Le sue note storiche ufficiali partono con una leggenda. Appunto nel 1818, Ferdinando III, granduca di Toscana, fondò a Firenze una manifattura di tabacchi nella quale cominciarono a essere prodotti sigari fermentati, il cui tabacco, dopo essere stato accidentalmente bagnato da un acquazzone, nel 1815, fu messo ad asciugare e, per non essere disperso, venne usato per produrre sigari di basso costo, che incontrarono ben presto il favore dei fumatori, varcando i confini del Granducato. Nel 1982, nel centenario della morte di Giuseppe Garibaldi, fumatore del sigaro Toscano, fu coniata la serie Toscano Garibaldi, che da tempo accompagna il nostro cammino quotidiano -ed è anche per questo che oggi, e qui, lo consideriamo-. È un tipo di sigaro realizzato a macchina nella manifattura di Cava de’ Tirreni, in provincia di Salerno; lungo 155mm, da fumare dopo averlo tagliato in due, combina assieme tabacco Kentucky, in fascia, e tabacco Kentucky campano e tabacco importato, al suo interno. L’avvio di fumata si basa su un sapore dolce con punte acidule, che scompaiono nel corso di fumata e che lasciano consumare il sigaro senza alterare la sua impronta dolce. Gli aromi percepiti sono giocati su un registro di noce (presente) e legno (più lieve). La forza è leggera, contenuta su registri molto tenui. Dai ringraziamenti in introduzione e avvio di 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, di Maurizio Rebuzzini (Graphia, 2019): «Non dimentico i Toscani (non sigari generici, proprio Toscani), preziosi compagni di strada; quanti ne avrò fumati in questa tornata? La loro passività complice mi ha elargito conforto e sostegno a piene mani». mFranti

Però, attenzione: ci rimangono i ricordi: e questi, nessuno e nulla ce li può strappare. mFranti; su questo numero, a pagina 21 Insomma: tutto deve scaturire da ciò che è accaduto in precedenza, e tutto deve -a propria voltacondurre a qualcos’altro. Del resto, il mondo e le sue manifestazioni sono come ognuno le interpreta. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 33 Affrontare e approfondire il Tempo e il suo relativo Senso è altra questione. Per quanto sia legittima la considerazione secondo la quale a ciascuno, il suo, giornalismo è altro, dovrebbe essere altro, che la sola sequenza di parole in successione, il più delle volte neppure in corrispondenza grammaticale adeguata. Angelo Galantini; su questo numero, a pagina 17 Produttori minimi, non minori, che costellano con proprie brillantezze il cielo notturno che definisce e delinea l’intero arco costituzionale della Fotografia. Antonio Bordoni; su questo numero, a pagina 25 La fotografia non mente! Il fotografo sì! Dietro una grande Fotografia non ci può che essere un grande Uomo! Anche se non lo sa! Un grande Uomo è colui il quale, in ogni forma espressiva, mette la bellezza, la giustizia e il bene comune, e non ha abbastanza tempo per fare dell’arte un mercimonio e basta. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 48

Copertina Consueto autoritratto in ombra (con Toscano, è ovvio), in sintesi dell’autentica novità tecnico-commerciale che la fotografia ha espresso con l’occasione della Photokina 2018, l’ultima di un lungo cammino: le mirrorless professionali Canon Eos R e Nikon Z certificano una intenzione (svolta) senza ritorno. Quasi coincidenti i relativi richiami: rispettivamente, Capture the Future e Capture Tomorrow. Ne riferiamo da pagina 16, in forma di “reportage intimo”

3 Fotografia nei francobolli Dalla compendiosa analisi Fotografia nei francobolli, di Maurizio Rebuzzini, in corso d’opera e prossima pubblicazione, dettaglio da un foglio Souvenir celebrativo dei sessant’anni di Pippo (Goofy), personaggio Disney complementare a Topolino (Mickey Mouse) -ovviamente/immancabilmente in veste fotografica-, emesso da Grenada Grenadines, il 24 novembre 1992

7 Editoriale In forma lieve, riconosciamo come e quanto l’attualità dei nostri giorni stia alterando la fotoricordo. Altri tempi


NOVEMBRE 2018

RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA

8 Eura: sessant’anni fa 1958-2018: in rievocazione di una interpretazione fotografica epocale... per quanto non svolta senza ritorno

Anno XXV - numero 246 - 6,50 euro DIRETTORE

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

IMPAGINAZIONE

12 Credibilità Anche per quanto riguarda la presenza della fotografia al cinema, sono i dettagli che definiscono la plausibilità Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

Maria Marasciuolo

REDAZIONE

Filippo Rebuzzini

CORRISPONDENTE Giulio Forti

FOTOGRAFIE Rouge

16 Già... Photokina 2018 Non necessariamente riferiamo dallo svolgimento della Fiera, ma riflettiamo con noi stessi di Maurizio Rebuzzini (mFranti), Angelo Galantini e Antonio Bordoni, con Altin Manaf e Andreas Ikonomu e il supporto di Alcide Boaretto

18 Già... 2018 Non c’è più modo di ipotizzare una personalità internazionale

21 Già... innesto a baionetta Anche la declinazione delle parole ha un proprio senso

25 Già... onore a loro

SEGRETERIA

Maddalena Fasoli

HANNO

COLLABORATO

Pino Bertelli Alcide Boaretto Antonio Bordoni Guido Crepax mFranti Angelo Galantini Andreas Ikonomu Altin Manaf Lello Piazza Franco Sergio Rebosio Nils Rossi

L’autorevole dignità della propria personalità

29 Già... ritorno (e altro) Spunti utili e proficui sia al commercio sia all’espressività

33 Già... ritorno (e altro ancora) Incontriamo poesie in forma di immagine

34 [e 15] Con il contributo di Canon Senza alcuna interferenza sul testo e i contenuti

35 In movimento Pendulum - Merci e persone in movimento. Immagini dalla Collezione di Fondazione Mast, a Bologna di Antonio Bordoni

40 Questi ritratti Considerazioni sull’espressività della fotografia, a partire dalla intensa serie P.A.R.T.Y., di Nils Rossi di Angelo Galantini

46 Stereo su carta Con e dalla sovietica Sputnik, del 1960. In richiamo dalle Soltanto parole e Soltanto fotografie

48 Mario Carnicelli

Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.com; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 1027671617 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard e PayPal (graphia@tin.it). ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano

Rivista associata a TIPA

Sguardi su un fotografo da marciapiedi di Pino Bertelli Nella stesura della rivista, a volte, utilizziamo testi e immagini che non sono di nostra proprietà [e per le nostre proprietà valga sempre la precisazione certificata nel colophon burocratico, qui accanto: «È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo)»]. In assoluto, non usiamo mai propietà altrui per altre finalità che la critica e discussione di argomenti e considerazioni. Quindi, nel rispetto del diritto d'autore, testi e immagini altrui vengono riprodotti e presentati ai sensi degli articoli 65 / comma 2, 70 / comma 1bis e 101 / comma 1, della Legge 633/1941 / Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio.

www.tipa.com


Dal 1991, i logotipi dei TIPA Awards identificano i migliori prodotti fotografici, video e imaging dell’anno in corso. Da ventotto anni, i qualificati e autorevoli TIPA Awards vengono assegnati in base a qualità, prestazioni e valore, tanto da farne i premi indipendenti della fotografia e dell’imaging dei quali potete fidarvi. In cooperazione con il Camera Journal Press Club of Japan. www.tipa.com


editoriale L

ontano lontano nel tempo. Da e con Luigi Tenco (per l’appunto, incipit di Lontano, lontano, del 1966) e, da qui, riflessioni nostre, per quanto sostanzialmente allineate con il significato originario dell’autorevole cantautore genovese, che scrisse alla fine di un proprio amore importante. Con una certa differenza, ed escludendo qualsivoglia ulteriore intimità, anche noi scriviamo in un momento di fine di qualcosa, per quanto pubblico e a tutti visibile. Ci riferiamo all’esaurimento, se non proprio alla fine, di un lungo ciclo esistenziale e sociale scandito con il passo della fotoricordo, straordinaria declinazione intima e privata della Fotografia, della quale potremmo addirittura stabilire una data certa di nascita: una delle conseguenze dirette della Box Kodak di George Eastman, che, nel 1888, introdusse anche questa declinazione all’interno del capitolo ancora giovane della fotografia (dal 1839). In altro luogo, nella cadenza di 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, libro pubblicato nel centosettantesimo anniversario della Fotografia (l’anno prossimo, ricorrono centottanta stagioni), certificammo che la Box Kodak è stata una delle quattro svolte senza ritorno attraverso le quali la stessa Fotografia ha cambiato il proprio passo, influendo -al contempo- sulla società, nel proprio insieme e complesso. Ora, volendolo fare, potremmo ridefinire altrimenti lo stesso pensiero, in declinazione... biologica. Ammesso e concesso che anche gli apparecchi fotografici influenti sul linguaggio, e -dunque- sulla socialità, possiedano un proprio DNA, con tutti i relativi/rispettivi indotti, quello della Box Kodak è diverso da quanto l’ha preceduta, perché le sue trasformazioni invogliate sono sostanziali e hanno modificato radicalmente comportamenti e approcci. E lo stesso, eccoci qui (forse), è accaduto con la combinazione fotografica agli smartphone e dintorni, che -a propria volta- ha agito energicamente e definitivamente, non in semplice trasformazione utilitaristica, ma proprio nei comportamenti, negli atteggiamenti, nella condotta: da cui... evoluzione (?) della specie. Attenzione: smartphone e derivati, non semplice acquisizione digitale di immagini, che non ha influito sostanziosamente su molto, a parte aver offerto opportunità pratiche a profusione. Va detto esplicitamente: per quanto non si tratti di contrapporre nulla a null’altro, e non si debbano stilare giudizi di eventuali meriti e demeriti, qui e ora, per quanto stiamo valutando, è soltanto necessario prendere atto. Ovvero, prendere atto del retrogusto amaro che, trasformando la fotoricordo, la sta svalutando di valore e, forse, senso. Oggigiorno, sommersa da quantità di fotografie private possibili, in crescita esponenziale, la fotoricordo è vittima sacrificale di una presunta evoluzione tecnologica e sociale. Era l’estate 1964: estate, per l’abbigliamento; 1964, all’indomani della data di stampa della copia colore 9x13cm (circa) incisa sul bordo perimetrale. Avevo tredici anni, sono quello a sinistra dell’inquadratura, potrebbe essere il giorno del mio compleanno (quattordici luglio); con me, Italo, amico d’infanzia, sulla ringhiera di casa... in fotoricordo... lieve. Fine. Maurizio Rebuzzini

Un poco sfocata, come poteva accadere in quegli anni, stampa dai colori sbiaditi (moderatamente richiamati oggi, in post-produzione), copia standard 9x13cm (circa) con cornice bianca e incisione di data: “feb 65”, ovvero febbraio 1965. Considerato l’abbigliamento, deduzione facile: estate 1964, probabilmente nel giorno del mio compleanno (quattordici luglio; sono quello a sinistra); altrimenti, che altro motivo poteva esserci per scattare una fotoricordo? E non ho idea di chi abbia scattato. Sulla ringhiera di casa -e si intravede, a destra, la porta del gabinetto in comune a cinque famiglie-, con l’amico d’infanzia Italo. Lontano lontano nel tempo... Già... fotoricordo lieve (oggi, ormai, in fine annunciata?).

7


Rievocazione... forse di Maurizio Rebuzzini (mFranti)

EURA: SESSANT’ANNI FA

8

stanziosamente sulla storia evolutiva del lessico specifico, allungando le proprie ascendenze sulla società tutta. Come abbiamo rilevato in tante occasioni, e come ancora richiamiamo nell’Editoriale di questo stesso numero, a pagina sette, alcuni di questi apparecchi hanno influenzato in ragione di proprie prerogative utilitaristiche (ed è il caso anche dell’Eura Ferrania, oggi in ricordo), altri hanno radicalmente modificato gli approcci alla fotografia, in virtù e per merito di un proprio DNA specifico... in evoluzione della specie (biologia e contorni). Allo stesso momento, prima di approdare effettivamente alla Eura Ferrania, attuale soggetto annunciato e proposto, richiamiamo ancora anche quell’interpretazione della fotoricordo familiare, che ha ormai raggiunto la propria fine esistenziale: vittima sacrificale di attuali modi di intendere la registrazione fotografica della propria vita, influenzata e guidata dai social, alimentati da quantità impressionanti, oltre che superflue, di immagini da smartphone e dintorni. Di nuovo, dall’Editoriale di questo stesso numero. Ancora in anticipo, una ulteriore nota (amara). In una consuetudine che pretende di raccontare la storia degli apparecchi fotografici soprattutto alla luce delle configurazioni di più alto lignaggio, la poca considerazione riservata alle macchine fotografiche popolari è quantomeno colpevole. Da una parte, è legittima la Storia della Fotografia di riferimento massimo; però, d’altro canto, anche la quotidianità della fotografia familiare è socialmente determinante. Addirittura, nelle esistenze private, lo è addirittura di più. Punto.

EURA FERRANIA! Al giorno d’oggi, a sessant’anni di distanza dalla sua attualità tecnico-commerciale, la Eura Ferra-

nia anima in qualche misura il comparto fotografico che si basa sull’utilizzo volontario e consapevole di apparecchi giocattolo (a partire dal fenomeno planetario della Holga [tante le nostre considerazioni negli anni, tra le quali rimandiamo soprattutto al numero speciale Gioco o son desto?, del settembre 1998]). In questo senso, per quanto siano frequentabili molteplici soluzioni/interpretazioni tecniche, la Eura Ferrania rappresenta l’archetipo del possibile e potenziale territorio della fotografia con apparecchi di plastica, con apparecchi giocattolo. Esaurite le sue intenzioni originarie, che affondano le proprie radici nei tempi a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, l’italiana Eura Ferrania si ripropone oggi in una veste concettualmente nuova. Ed è soprattutto a questo che intendiamo riferirci, peraltro magari sollecitati a farlo da testimonianze che ne comprovano una prospera attualità... per quanto, in dimensioni di nicchia. È ovvio e scontato. Una delle prime volte che ci siamo giornalisticamente avvicinati al fenomeno planetario Holga (in FOTOgraphia, del lontano febbraio 1998, in anticipo su quanti si sono accodati in seguito, non sempre in maniera consona, adeguata e coerente), richiamammo proprio la Eura Ferrania, alle cui caratteristiche tecniche la stessa Holga 120S pare ispirata. Testuale: «[Prodotta nella Repubblica popolare cinese, la Holga 120S] È stata pensata in quanto alternativa economica alle più preziose Seagull e Pearl River, entrambe biottica, allo stesso modo in cui, nell’Italia fine anni Cinquanta, la Eura Ferrania fece la propria corsa sugli apparecchi più costosi. (A proposito: la Holga 120S è molto simile alla Eura Ferrania del 1958, della quale riprende sia la forma estetica, sia la configurazione tecnica del for-

mato di esposizione 6x6cm, dell’obiettivo f/8, dell’unico tempo di otturazione, della regolazione su quattro possibili distanze)». Dopo qualche mese, nel numero speciale Gioco o son desto?, del successivo settembre 1998, la Eura Ferrania divenne protagonista assoluta del nostro viaggio all’interno della creatività fotografica che si manifesta a partire dall’uso di apparecchi di plastica, di apparecchi giocattolo. Allora, non esisteva ancora un definibile fenomeno Eura Ferrania, perlomeno nei termini in cui in tutto il mondo si sono affermate sia la “fotografia Holga” sia la “Lomografia”. Dunque, le nostre considerazioni contribuirono, forse generosamente, a gettare le basi per la nascita ed evoluzione di una concreta ipotesi di “fotografia Eura”: alla cui essenza dedicammo l’intera edizione giornalistica.

OSTACOLI SUPERATI? La nostra voglia di lanciare la Eura Ferrania nell’Olimpo della creatività fotografica planetaria avrebbe potuto incontrare due difficoltà. Rileviamole subito, così ci togliamo il pensiero. Anzitutto, a differenza di Holga, Lomo e ogni altro fenomeno attuale di costume e cultura fotografica arbitraria, la Eura Ferrania non era (e non è ancora) sostenuta da alcun interesse economico contingente. L’apparecchio è fuori produzione da decenni, e la sua eventuale reperibilità è limitata alle bancarelle degli innumerevoli mercatini antiquari, che fino a qualche stagione fa si svolgevano con ritmo più che serrato (da qualche anno, anche queste manifestazioni sono in declino... dei tempi, propri e altrui). In secondo luogo, la nostra crociata partì svantaggiata dalla collocazione logistica del nostro paese, tanto estraneo al circuito internazionale della fotografia crea-

ANTONIO BORDONI

T

Tra i tanti e tanti possibili, due accadimenti dell’autunno 1958 vanno ancora ricordati. A proprio modo, ciascuno per sé, entrambi sono stati significativi sulla socialità italiana. Con valori e misure propri, quanto diversi e autonomi, hanno influito sostanzialmente sugli usi e costumi (anche, malcostumi): uno, il più grande e generale, ha segnato un punto di svolta collettivo e pubblico che ha chiuso un’epoca, aprendone però un’altra che, con il senno di poi, potremmo anche definire peggiore, quantomeno lungo la scala presa in considerazione; l’altro, settoriale e intimo al nostro micro-macrocosmo, ha impresso un’impronta indelebile nel lungo cammino della fotografia familiare, ovverosia della fantastica, seducente e affascinante fotoricordo. Per motivi ovvi, che ci imporrebbero la sola concentrazione verso la nostra materia istituzionale (la fotografia), liquidiamo subito il sessantesimo anniversario della promulgazione della Legge numero 75, di “Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui”, meglio conosciuta, e così storicizzata, come Legge Merlin, dal nome della senatrice socialista Lisa Merlin che impegnò anni e anni della sua vita per la sua stesura e approvazione parlamentare. Due le date sostanziali: venti febbraio di emanazione ufficiale; mezzanotte del diciannove settembre di chiusura dei cinquecentosessanta postriboli distribuiti sul territorio nazionale (per la quale si racconta di clamorosi festeggiamenti, a un tempo allegri e tristi). Invece, e più dettagliatamente, ricordiamo la fantastica Eura Ferrania, dello stesso autunno 1958 (altrove, dell’inizio 1959), considerandola secondo quel capitolato, che ci è caro, delle macchine fotografiche che hanno influito so-



Rievocazione... forse tiva. Casi isolati a parte, che si possono conteggiare utilizzando neanche tutte le dita di una mano, l’Italia è ai bordi della cultura fotografica che conta, se non già ne è assolutamente e totalmente estranea: fuori dalla veicolazione delle grandi mostre (a parte sporadiche iniziative, niente affatto significanti), l’Italia non partecipa neppure alle collettive a tema che animano il fervente territorio della fotografia d’autore esposta negli altri paesi europei, negli Stati Uniti e nel lontano Oriente. Nonostante questi disagi e queste difficoltà originarie, impegnammo energie e fiato per dar vita a una ipotesi concettuale di “fotografia Eura”. Prima di tutto, per far nascere un fenomeno creativo dichiaratamente italiano, e poi per rendere anche omaggio -noi di FOTOgraphia, che stiamo in equilibrio tra le logiche tecniche e i valori estetici e contenutistici dell’immagine- a una delle più nobili e significative aziende nazionali: (Cappelli), Ferrania, evolutasi in 3M Italia e nell’allora attuale Imation SpA. Poi, fine.

PER L’APPUNTO! Sostanzialmente assente dalle più accreditate storiografie internazionali, la produzione fotografica italiana è stata sapientemente analizzata e catalogata da Mario Malavolti (prematuramente scomparso alla fine del 1997, al quale va il nostro commosso ricordo). Dopo la stesura di una originaria classificazione Made in Italy, redatta a quattro mani con Marco Antonetto, Mario Malavolti ha pubblicato una compendiosa La produzione delle fotocamere italiane: entrambe le monografie sono state edite da Fotocamera (viale Beatrice d’Este 48, 20122 Milano; 0258303288; www.fotocamera.it), rispettivamente nel 1983 e 1994 (quest’ultimo volume è stato presentato in FOTOgraphia, del novembre 1994). A seguire, Mario Malavolti ha poi compitato una serie di storie di marchi italiani, nella cui collana si segnala Le Ferrania (Fotocamera, Milano 1995), utile alle nostre considerazioni odierne (e d’allora).

10

Dalla qualità di questi autentici casellari della produzione fotografica italiana, rileviamo i valori storico-cronologici della Eura Ferrania, in nostra ipotizzata beatificazione. Prodotta a partire dal 1958, esattamente sessant’anni fa, la Eura Ferrania fu il più luminoso esempio di semplificazione della ripresa fotografica, che all’alba degli anni Sessanta cominciò il proprio cammino verso una ricercata espansione commerciale (venduta a 2650 lire, nel 1958, raggiunse il prezzo di 6500 lire nel 1964/1965). Oltre i più nobili e costosi apparecchi, oltre le configurazioni economicamente meno onerose, ma ugualmente indirizzate a un pubblico medio-alto, la banalizzazione tecnica dell’Eura Ferrania fu esemplare; tant’è che la Eura Ferrania divenne ben presto capostipite di una genìa immediatamente seguita da altri costruttori, analogamente interessati a incrementare la propria penetrazione verso un pubblico sistematicamente più ampio. Allo stesso tempo, “Eura Ferrania” divenne sinonimo di apparecchio fotografico semplice e affidabile. [Ricordiamo qui che Ferrania fu anche una autorevole testata pubblicata dalla stessa casa chimica, dal 1947 al 1967. Storia da raccontare; per ora, basti il rimando a www.fondazione3m.it/page_rivi staferrania.php, da cui si accede agli indici di tutte le annate].

TECNICAMENTE? Di certo non possiamo parlare di sofisticazioni tecniche, né di soluzioni tecnologiche avveniristiche. L’adeguata qualità delle fotografie Eura si deve non tanto a una applicazione ottica raffinata (anche se l’obiettivo non è da sottovalutare del tutto), quanto a scelte di campo intelligenti: formato di esposizione 6x6cm su pellicola a rullo 120, minimo ingrandimento dal negativo e collocazione curva della pellicola sul fuoco, in modo da minimizzare ogni possibile e potenziale distorsione/aberrazione residua dell’obiettivo. Questi valori semplificati dei decenni scorsi, tanto semplificati da rappresentare il minimo stret-

tamente indispensabile per lo scatto fotografico, si trasformano oggi nella solida base tecnicoconcettuale della creatività degli apparecchi di plastica/giocattolo, nata negli Stati Uniti -come più volte rilevato e raccontato- e propagatasi in tutto il mondo. Per quanto sia possibile farlo, limitatamente alla effettiva reperibilità dell’apparecchio, la Eura Ferrania entra a pieno diritto nella logica delle macchine di plastica/giocattolo che tracciano i confini attuali della più moderna e disincantata fotografia arbitraria: obiettivo 85mm f/8, con secondo valore a f/12; messa a fuoco da due metri e scala metrica di regolazione, otturatore che scatta a 1/50 di secondo (circa) e presa per la sincronizzazione lampo. I valori dell’esposizione -1/50 di secondo a f/8 o f/12- consentono riprese in buona luce con pellicola da 100 Iso. Dunque, scattando in bianconero, non sottovaluteremmo l’ipotesi di fotografare in 400 Iso con un bel filtro rosso di contrasto!

ESPRESSIVITÀ! I valori tecnici minimi della più comune fotoricordo (straordinario capitolo della Storia della Fotografia... mai raccontata; forse non raccontabile), territorio originario delle proposte fotografiche nell’ordine di idee della Eura Ferrania e derivati, sono oggi considerati gli elementi formali di partenza della più attuale ricerca espressiva della fotografia. Sfuggite dalle mani dei potenziali consumatori originari, ormai approdati alle logiche automatizzate dell’acquisizione digitale di immagini e dello smartphone e derivati, le macchine fotografiche di plastica sono ancora sostanziosamente usate da professionisti (statunitensi soprattutto) e da fotografi creativi e arbitrari, che danno più peso al senso dell’immagine che non ai propri connotati esteriori: a parte, poi, riservare una cura estrema, e quasi maniacale, alla qualità delle stampe bianconero e a colori, sempre realizzate con inviolata maestria.

Per motivi diversi, alcuni personali e altri collettivi, gli autori che hanno fatto nascere quella che è ormai identificata come “fotografia con apparecchi giocattolo” hanno nobilitato la scarsa qualità formale delle immagini, in modo da poter dare peso e valore soprattutto alla forza concettuale delle sensazioni individuali (dell’apparecchio tenuto tra le mani), e poi delle composizioni e delle inquadrature: libere e liberate da qualsiasi convenzionalità tipica della comune ripresa fotografica. Come tutta la fotografia con apparecchi giocattolo, anche la “fotografia Eura”, che allora invitammo a frequentare e applicare, è cosciente del proprio rifiuto tecnico, e i suoi interpreti privilegiano -appunto- l’emozione personale, ovvero il presentimento visivo. Come abbiamo più volte scritto, riferendoci principalmente al fenomeno Holga, «Il paragone è quasi eretico, nella propria provocazione, ma non è tanto lontano dal vero. Fotografare con la [Eura Ferrania] equivale a pensare alla maniera di Robert Frank (addirittura!): si punta l’obiettivo su quanto colpisce l’attenzione, si inquadra sommariamente e si scatta senza altri pensieri tecnici, ma con la sola concentrazione concettuale ed espressiva. Non conta più il rapporto formale con le linee diritte, con i toni di grigio perfettamente scanditi, con l’efficace distribuzione di luci e ombre. Contano altri valori che dall’animo di ciascun autore (non soltanto “operatore”) arrivano direttamente all’osservatore». Noi siamo stati i primi a presentare in Italia il fenomeno Holga (primato del quale andiamo fieri e orgogliosi). A distanza di tempo, non sconfessiamo quelle parole, ma aggiorniamo ancora e anche i concetti alla luce della Eura Ferrania, a favore di una ipotizzata “fotografia Eura”. Con un pizzico di orgoglio nazionale (nazionalistico) ci farebbe piacere aver contribuito al grande dibattito sulla fotografia creativa contemporanea, andando ad aggiungervi un elemento operativo italiano. Tanto è! E basta, per ora. ❖



Cinema

di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

Il film Fur. Un ritratto immaginario di Diane Arbus, di Steven Shainberg, del 2006, si propone come flashback. Comincia là dove finisce la ribellione della celebre fotografa agli schemi precostituiti. Indipendentemente dalla sceneggiatura [ FOTOgraphia, novembre 2006], oggi sottolineiamo la credibilità Rolleiflex, che attraversa tutta la scenografia.

GUIDO CREPAX

(anche) dei film statunitensi e certo individuato squilibrio in molti film italiani. In questo senso, abbiamo considerato questa componente soprattutto in due occasioni, almeno due, che poi diventano tre. Nel settembre 2011, abbiamo analizzato l’accuratezza interpretativa con la quale gli attori americani in veste fotografica impugnano e gestiscono gli apparecchi che vengono ad avere Tra le mani (appunto), con secondo capitolo aggiunto, Tra le mani / 2, il successivo febbraio 2012. A seguire, in tempi a noi più prossimi, giusto lo scorso ottobre, ci siamo accostati a quelle che abbiamo identificato come Coerenze sce-

ANTONIO BORDONI

P

Perentorio: in un racconto, scritto piuttosto che in trascrizione cinematografica, con supporto scenografico, la credibilità deriva dai dettagli, che debbono essere vividi e realistici. Per quanto riguarda la presenza della fotografia nei film, sia in forma e misura solenni, sia in accompagnamento scenico, abbiamo più volte annotato come, quanto e quando questi stessi dettagli siano stati opportuni e confacenti. Altre volte, sulla stessa lunghezza d’onda, abbiamo -invece- rilevato l’esatto contrario: disarmonici, stonati e disordinati. Quindi, abbiamo tracciato anche una linea pretestuosamente discriminatoria tra la generale attenzione scenografica

CREDIBILITÀ

Raffinata estetica della biottica Rolleiflex, oggi intesa e declinata per la sua credibilità cinematografica nel film-biografia Fur. Un ritratto immaginario di Diane Arbus. In abbinamento, riprendiamo da una tavola di Guido Crepax, il cui personaggio Valentina utilizza spesso una biottica, alternativamente Rolleiflex e Polly Max di fantasia: avvincente sottolineatura dei raffinati dettagli della livrea attorno i due obiettivi sovrapposti (da La Marianna la va in campagna, del 1968).

12


Cinema nografiche, allungandoci anche e perfino sulla visualizzazione di una macchina fotografica più che di nicchia: l’artigianale Brooks-Veriwide 100 utilizzata dal dottor Peter Venkman, in Ghostbustes II (Acchiappafantasmi II), di Ivan Reitman, del 1989, nell’interpretazione dell’attore Bill Murray. Ora e qui, completando il discorso di un mese fa, in aggiornamento di Credibilità, riprendiamo un’altra presenza fotografica sostanziosa in un film esplicitamente indirizzato alla stessa fotografia, subito richiamata nel titolo (ammesso, ma non concesso, che il più ampio pubblico possa aver colto il senso e valore del personaggio evocato): Fur. Un ritratto immaginario di Diane Arbus, di Steven Shainberg, del 2006 [FOTOgraphia, novembre 2006 e richiami successivi]. Data la biografia della celebrata autrice newyorkese, una delle figure predominanti del secondo Novecento, ovverosia della fotografia espressiva sostanzialmente contemporanea, il film presenta e offre un consistente retrogusto fotografico, con diversi accostamenti scenici, tra i quali oggi ci limitiamo alla credibilità della biottica Rolleiflex, qui accreditata all’inizio della sua espressività in proprio, dopo gli esordi come assistente in sala di posa per il marito Allan Arbus (da cui, il cognome riconosciuto; nata Nemerov). Forse la Rolleiflex è intenzione scenografica, considerato che i ritratti di Diane Arbus con macchina fotografica, in tempi susseguenti al suo successo pubblico -avviato con trenta immagini allestite nella fantastica selezione New Documents, del 1967, presentata al Museum of Modern Art, di New York, con la quale il curatore John Szarkowski stabilì i termini della nuova fotografia contemporanea (nella collettiva, anche Lee Friedlander e Garry Winogrand)-, la raffigurano sempre con biottica Mamiya C33 (deduciamo C33, ma poco conta se si tratta di altro modello della stessa famiglia fotografica). Del resto, in richiamo necessario, motivando le biottica Rolleiflex e Polly Max (di fantasia) del suo personaggio Valentina, il superlativo autore di storie a fumetti Guido Crepax (1933-2003) fu esplicito. A domanda «All’inizio, Valentina ha avuto diverse macchine fotografiche; come mai, poi, usò soprattutto la fantasiosa Polly Max, tipo Rolleiflex biottica?», Guido Crepax rispo-

(pagina accanto) Simbolo ed emblema della ribellione di Diane Arbus, la Rolleiflex biottica, così diversa rispetto gli apparecchi del lavoro professionale con il marito Allan, è tenuta nascosta sotto il letto, pronta per essere usata per le escursioni verso la Vita (altrui e propria). Immancabilmente, concessione scenografica più che utilità fotografica, la Rolleiflex di Diane Arbus è sempre dotata di proprio affascinante flash a lampadina. Oltre la concretezza fotografica del racconto, il film Fur offre e propone avvincenti dettagli di inquadratura con protagonista l’immancabile Rolleiflex. Come ha annotato Guido Crepax, riferendone per la sua Valentina, la Rolleiflex è proprio fotogenica [pagina accanto].

ISTRUZIONI ALL’USO?

Proprio così... in dimensione di Credibilità scenografica e narrativa. Giusto istruzioni all’uso, che paiono riprese dalle sequenze esplicative che hanno accompagnato i libretti di istruzione delle Rolleiflex biottica. Chi ha vissuto questa esperienza conosce le attenzioni per caricare il rullo 120 all’interno, con passaggio obbligato attraverso un labirinto adeguatamente intricato. Chi ha vissuto questa esperienza è consapevole di individuate difficoltà di caricamento, sostanzialmente estranee alle facilitazioni di altri sistemi fotografici, rivolti al grande pubblico. La Rolleiflex biottica no. Indirizzata a utilizzatori consapevoli e convinti, diversamente da altri passi, era/è estranea a qualsiasi semplificazione. Aperto il dorso e inserito il rullo 120 nel proprio vano, la carta di protezione va indirizzata con attenzione, fino ad agganciarsi al rocchetto ricevitore, dopo aver percorso un tragitto prestabilito e, come già rivelato, tortuoso. Quindi, si richiude il dorso e si blocca la chiusura con l’apposita leva sul fondo, coassiale all’attacco filettato per treppiedi. Ecco qui, la sequenza cinematografica da Fur, la cui sceneggiatura sottolinea l’ossessione fotografica di Diane Arbus, che si esprime anche con la consapevole finalizzazione della composizione quadrata della Rolleiflex, attraverso le quali (composizione quadrata e Rolleiflex) si manifesta la sua ribellione dagli schemi della famiglia e della fotografia commerciale.


RIVISITAZIONE... IMMEDIATA

Nel corso della recente Photokina 2018, per il cui svolgimento riferiamo da pagina 16, su questo stesso numero, senza peraltro approdare ad alcuna segnalazione tecnica (va detto), la tedesca Rollei, erede di una lunga e nobile storia, ha presentato la brillante proposta tecnico-commerciale Rolleiflex Instant Camera, che riprende il design della biottica 6x6cm in una configurazione per filmpack a sviluppo immediato Fujifilm Instax Mini (immagine 46x62mm su supporto 54x86mm). In questa combinazione -rilevata da Rollei dal progetto originario Mint InstantFlex TL70-, le caratteristiche proprie della pellicola si combinano con un aspetto volontariamente rétro, che scandisce passi e sapori di stagioni della tecnologia fotografica del passato, addirittura remoto. Anche l’uso è altrettanto “antico”, con regolazione manuale sia dell’apertura del diaframma (sui valori di f/5,6, f/8, f/16, f/22 e Bokeh), sia della messa a fuoco (da 48cm, con accomodamento dall’obiettivo superiore di visione e controllo). L’obiettivo di ripresa asferico da tre lenti ha una focale 61mm, equivalente all’inquadratura medio grandangolare 35mm della fotografia 24x36mm. Tempi di otturazione da un secondo a 1/500 di secondo, con posa B fino a dieci secondi; flash integrato (https://it.rollei.com/; robertodatti@outlook.it).

14

se: «Era la più bella da disegnare, tutto lì. Aveva belle forme e poi era bella da tenere tra le mani; se si potesse dirlo, era fotogenica. Poi, mi piaceva anche perché lasciava libero il viso, mentre altre macchine fotografiche si debbono portare all’altezza dell’occhio. La Polly Max era congeniale alle esigenze del disegno» [da un’intervista rilasciataci nel 1989, e ripresa all’indomani della scomparsa del celebre autore [FOTOgraphia, settembre 2003]. Quindi, a parte le considerazioni sul film, con evocazione della personalità di Diane Arbus (interpretata da una poco credibile Nicole Kidman), altrove esaurite, a partire dalla prima recensione/riflessione del novembre 2006, in cronaca temporale, ci concentriamo sull’allestimento scenico, da un punto di vista diverso, che dà spessore e risalto a un’altra ossessione trasversale a tutta la sceneggiatura, oltre la principale per i definiti “freaks”: quella di Diane Arbus per la propria Rolleiflex biottica (in rappresentanza della Mamiya C33?). Il film ne è pieno, il film ne fa prezioso elemento visivo. In una cura scenografica addirittura magistrale, come lo sono spesso (sempre?) quelle statunitensi, in Fur. Un ritratto immaginario di Diane Arbus compaiono elementi fotografici adeguati ai tempi del racconto, che si distribuisce tra l’inizio degli anni Cinquanta e i secondi anni Sessanta: apparecchi fotografici, obiettivi, accessori e pellicole sono in perfetta armonia e, soprattutto, sono allineati ai tempi narrativi e inseriti in misura e modalità credibili. Eccoci qui! Trasversale, come appena rilevato, è la presenza ossessiva della biottica Rolleiflex, che materializza la fuga di Diane Arbus dalla fotografia commerciale, dalla quale si allontana consapevolmente per abbracciare una propria esigenza esistenziale di creatività visiva e interpretativa. Nel film, la Rolleiflex biottica finisce per diventare -addirittura- motivo conduttore della ribellione dagli schemi, anche da quelli della ricca famiglia di origine, formalista oltre ogni possibile sopportazione individuale. Quindi, la incontriamo e ritroviamo con incessante... ossessione. Appunto, dalle prime scene del film, mentre scorrono i titoli di testa (il racconto è una sorta di flashback), fino all’inquadratura finale. Con tanto tra i due estremi. ❖


Nelle prossime diciotto pagine: annotazioni dalla Photokina 2018, alla Koelnmesse, in Germania, dal ventisei al ventotto settembre, con richiami e riferimenti che non si esauriscono con il solo svolgimento della Photokina. Riflessioni, Osservazioni e Commenti sulla Fotografia: spunti utili e proficui sia al comparto tecnico-commerciale sia al mondo della fotografia espressiva e creativa.

Il dettagliato intervento redazionale è pubblicato grazie al supporto di Canon. La realizzazione di questo “reportage intimoâ€?, ma non privato, è stata aiutata senza alcuna interferenza sul testo, peraltro conosciuto preventivamente soltanto dalla redazione di FOTOgraphia. Delle opinioni espresse e dei commenti collegati e conseguenti sono responsabili soltanto gli autori Maurizio Rebuzzini, Angelo Galantini e Antonio Bordoni (con mFranti), che, come sempre del resto, hanno agito senza alcuna interferenza o ingerenza esterna. Il testo e le illustrazioni che lo accompagnano (soprattutto, di Altin Manaf e Andreas Ikonomu) riflettono esattamente il loro pensiero sulla Fotografia, pur non riportando necessariamente tutti i loro pensieri sulla Fotografia.


GIÀ... PHOTOKINA

Non necessariamente riferiamo dallo svolgimento della Fiera, a Colonia, in Germania, dal ventisei al ventinove settembre scorsi; ma -molto più probabilmente- riflettiamo con noi stessi, sollecitati da questo appuntamento tecnico-commerciale, volenti o nolenti riferimento primario e d’obbligo di mille e mille equilibri e condizioni esistenziali della stessa fotografia. Da parte nostra, nessuna novità tecnica, ampiamente anticipate da altri, dalla Rete, in un capitolato al quale -ormai- affidiamo addirittura la nostra Vita, ma solo accenni e richiami finalizzati al ragionamento comune (casomai, nei prossimi mesi, avremo modo di dire la nostra). Comunque, consapevoli di come e quanto la Vita vera si svolga altrove, e con altri passi, non ignoriamo l’attualità del nostro micro-macrocosmo di richiamo e appartenenza: la Fotografia, qualsiasi cosa questa significhi per ciascuno di noi 16


2018 I

ALTIN MANAF

ANDREAS IKONOMU (2)

di Maurizio Rebuzzini (mFranti, Angelo Galantini e Antonio Bordoni), con Altin Manaf e Andreas Ikonomu e il supporto energico (e indispensabile) di Alcide Boaretto

nevitabile, forse: per anagrafe (ventitreesima visita, dalla prima nostra, nel 1974, per Photo 13 ), per evoluzione/crescita individuale (? dagli apparecchi agli utensili, agli strumenti), per pensiero (dai valori tecnici alla socialità, al costume e alle filosofie implicite, da decifrare ed esprimere), per maturazione (ancora?) dall’Io al Noi, agli altri e verso gli altri (soprattutto in considerazione del diverso da sé, in qualsiasi modo sia e possa essere “diverso”). Scrivere di Photokina 2018, a Colonia, in Germania, dal ventisei al ventinove settembre scorsi, impone anche un passo individuale, per motivare il quale è necessario un prologo sovrastante che definisca i termini entro i quali è doveroso esprimersi. Giornalismo, prima di tutto. Cos’è il giornalismo e come si deve comportare? A quale etica deve rispondere, a chi si deve riferire? E richiamare? Non ci sono risposte univoche, che assecondano e decifrano una sola definizione, un solo significato... ma considerazioni e crediti che rispondono a una intimità di concetto e riflessione che ciascuno trova soltanto in se stesso. Però, in riferimento all’uso della parola, qualsiasi cosa questa significhi per ciascuno di noi, e proprio per questo, bisogna tenere anche/soprattutto conto della realtà dei nostri giorni, definita da molteplici personalità che si riconducono al “giornalismo”, alterandone i termini identificatori originari. Giornalismo ha nulla da spartire con l’attualità dei blogger e influencer, che oggi riscuotono successo esprimendosi dalla discarica dei social, il cui gradimento si basa su utilitarismo di maniera e sudditanza di comodo. Magari, alcuni di loro sono perfino qualificati sulla materia affrontata e svolta; ma, diamine, affrontare e approfondire il Tempo e il suo relativo Senso è altra questione. Per quanto sia legittima la considerazione secondo la quale a ciascuno, il suo, giornalismo è altro, dovrebbe essere altro, che la sola sequenza di parole in successione, il più delle volte neppure in corrispondenza lessicale e grammaticale adeguata. Da tempo, lo subiamo tutti, ognuno per se stesso: una profonda crisi economica sta attraversando la nostra vita. Nel microcosmo della fotografia, entro il cui territorio noi agiamo e al quale ci riferiamo, la crisi è stata devastante, sia in termini commerciali (vendita di attrezzature), sia in ambito di diffusione professionale. Vittima sacrificale di tanto, in Italia, la fotografia tutta ha subìto ulteriori disastri: in questo senso, è emblematico il cammino del commercio al minuto, sfigurato e deturpato da una cronica assenza di Stato, che consente l’azione di aziende che agiscono in Rete aggirando le leggi e frodando sia lo stesso Stato, sia le filiere commerciali ossequiose delle legislazioni. Così, stabilendo sedi fiscali in indirizzi di comodo (nello specifico, dalla Repubblica di San Marino, che si è specializzata nel lavaggio dell’Imposta sul Valore Aggiunto / Iva, e non soltanto in questo), compromettono i termini della vendita al minuto. Ciò rilevato, dobbiamo rivelare perché e per come siamo stati alla Photokina 2018 e ne abbiamo fatto ri-

Già... Photokina 2018. Segno dei tempi (e il Tempo va avanti, con o senza di noi), senza recriminazioni, né graduatorie: in una edizione ufficialmente conclusiva del format biennale (con intenzione internazionale, esordito nel lontano 1954) e, allo stesso momento, ufficiosamente anticipatoria del ritorno alla cadenza annuale originaria e locale, dal 1950 al 1952 (la prossima primavera 2019, dall’otto all’undici maggio), registriamo due coesistenze che stabiliscono certe attualità della Fotografia, qualsiasi cosa questa significhi per ciascuno di noi. Sempre nello spirito secondo il quale osserviamo, piuttosto di giudicare, e pensiamo, invece di credere, due fenomenologie, almeno due, caratterizzano i nostri tempi fotografici, distinguendoli dai precedenti (e successivi?). Uno, lo sdoganamento, originariamente tecnologico, del maschilismo dell’esercizio fotografico non professionale, con relativo sostanzioso approdo di autrici al femminile e, anche, coinvolgimento familiare, non più limitato all’uomo di casa (con figli al seguito, mai incontrati in nessuna delle precedenti ventitré edizioni visitate, dal 1974 di nostro esordio); poi e due, intenso uso dello smartphone in funzione fotografica, anche in versione (ahinoi!) selfie. Quindi, in simultanea, questa seconda considerazione si abbina proprio alla Photokina in declinazione annuale e locale: fiera di richiamo e svago. Ovvero, fascinazione delle animazioni estemporanee e spettacolari, a margine del soggetto sostanziosamente principale... almeno, fino a ieri l’altro: le passerelle tecnologiche e gli incontri commerciali negli stand allestiti dai produttori, qui in veste di espositori autorevoli. Già... Photokina 2018.

17


Già... in chiave dimessa? A differenza delle sontuose edizioni precedenti della Photokina, quando e per quanto il mercato fotografico era brillante e appagante (oggi, lo è sostanzialmente meno), nel corrente 2018, sono mancati richiami solenni all’ingresso dei padiglioni espositivi [pagina accanto, in basso]. Comunque, magari a certificazione di appelli locali, anticipatori della prossima cadenza annuale, dal maggio 2019, non sono mancati rimandi cittadini, in forma di affissione stradale [qui sopra e pagina accanto, in alto] e di servizio di trasporto pubblico dedicato, dalla città alla Koelnmesse [centro pagina].

18

torno (da e con Alla Photokina e ritorno, pubblicato dieci anni fa: testo attraversato da visioni e previsioni che si sono puntualmente verificate... purtroppo).

GIÀ... 2018 Come già anticipato, un motivo, sopra tutti, ha messo in dubbio la nostra partecipazione alla Photokina 2018: senza imbarazzo, palesiamo che l’impegno economico della trasferta è -oggigiorno- sostanza della quale tenere conto. In contraltare, a favore della partecipazione sono stati considerati tre vigorosi fattori; senza alcuna scala gerarchica, oltre una certa interpretazione del proprio dovere (giornalistico): presenza all’ultima edizione di una manifestazione che, in passato soprattutto, è stata declinata come unità di misura e linea di demarcazione del mercato fotografico (dall’anno prossimo, con date anticipate alla primavera, da mercoledì otto a sabato undici maggio, si torna alla cadenza annuale originaria, delle edizioni dal 1950 al 1952, precedente a quella biennale, e internazionale, dal 1954); mantenimento di un “primato” che ci fu riconosciuto lo scorso 2016, attestante il maggior numero di accrediti giornalistici consecutivi; e, ancora, volontà di non concludere a ventidue edizioni visitate, per approdare a ventitré... numero dispari, più piacevole, altresì numero primo. Sì, la annunciata cadenza annuale, invece della biennale, certifica l’ammissione ufficiale che non c’è più modo di ipotizzare una personalità internazionale dell’appuntamento, sostituita dall’accettazione e riconoscimento di un convegno nazionale. Dunque, la Photokina 2018 ha stabilito un punto di arrivo, tanto

quanto quella del 1954 ne deliberò uno di partenza. Con una quantità ridotta di espositori, la Photokina 2018 ha occupato cinque padiglioni della Koelnmesse, contro gli undici allestiti fino a due anni fa. All’interno, le presenze più sostanziose e appetibili al pubblico hanno confermato la propria presenza esuberante (Canon, Fujifilm, Nikon, Olympus, Panasonic, Sigma, Sony... e Cewe / album fotografici in Rete, in proiezione internazionale dalla Germania di partenza). È giocoforza ipotizzare che questo, qui anticipato, sarà il format espositivo della Fiera annuale, dalla prossima primavera 2019. Perché tante assenze? Gli allontanamenti stanno a indicare considerazioni finanziarie delle quali è obbligatorio tenere conto. In un conteggio individuale, da parte di aziende produttrici, ognuno ha valutato con punto di vista realistico l’attuale consistenza e potenzialità del mercato. Diciamola più chiaramente, forse: dovendo stabilire una linea di confine tra spesa e investimento, alla luce del commercio attuale della fotografia, l’ago della bilancia, che un tempo poteva indirizzarsi verso l’ipotesi di investimento, si è prepotentemente indirizzato verso il presupposto di spesa. Da cui... Come dar torto a coloro i quali -ormai penalizzatihanno inevitabilmente dovuto rinunciare a una propria passerella, a questo punto esplicitamente locale e nazionale? No, non si può colpevolizzare nessuno, a fronte di un commercio sempre più in esaurimento di quantità e redditività di impresa. Dunque, e a conseguenza, interpretiamo la Photokina 2018 sia per la propria ufficialità (ultima edizione di un format biennale a proiezione teoricamente planetaria), sia per la altrettanto


19

ANTONIO BORDONI (4)


20


ANDREAS IKONOMU (4)

propria identità esplicita e dichiarata (anticipazione di un ulteriore format nazionale, se non già regionale). E qui, e con questo, dichiariamo finita un’epoca, addirittura gloriosa, durante la quale, a partire da una luminosa identità tecnica, si sono concretizzati brillanti effetti a caduta sulla Fotografia tutta. Del resto, come spesso sottolineiamo, il Tempo va avanti, con o senza di noi. In termini individuali, potremmo rimanerne frustrati, in misura di come e quanto ne veniamo guastati. Se non che, confessione d’obbligo, in questa trasformazione esistenziale (per noi, che anche di questo viviamo) ci viene in aiuto e dà sostegno la nostra scala di valori, entro la quale molto d’altro precede la sola Fotografia: comunque, sempre intesa come fantastico e privilegiato s-punto di partenza, piuttosto che arido punto di arrivo. Però, attenzione, ci rimangono i ricordi : e questi, nessuno e nulla ce li può strappare.

GIÀ... INNESTO A BAIONETTA Come è ovvio che sia, non soltanto debba essere, le mirrorless in proiezione professionale Canon Eos R e Nikon Z, anticipate nelle settimane precedenti lo svolgimento della Photokina 2018, per ovvio e legittimo richiamo del pubblico, autentico destinatario, intendono agire nel comparto commerciale che da tempo sta premiando altri marchi: ci permettiamo di identificare, Sony, in primis, e Fujifilm, non certo in subordine. Questo proposito commerciale ha portato Sony a sottolineare la (presunta) non necessità di un ampio innesto degli obiettivi intercambiabili, che caratterizza sia la Canon Eos R sia le Nikon Z, che i rispettivi progetti

declinano con mille motivazioni, compresa la possibilità di utilizzare obiettivi originariamente reflex, tramite opportuni anelli adattatori dedicati. Da cui, in evidente contrapposizione con le quantificazioni di obiettivi intercambiabili di sistema (da reflex a mirrorless), la stessa Sony ha coniato una definizione costitutiva a proposito del proprio sistema ottico, composto da “obiettivi nativi”... sinceramente bella, plausibilmente efficace. Con tali dichiarazioni di princìpio, esposte a chiare lettere alla stampa internazionale, convenuta alla conferenza di esordio, la Photokina 2018 si è incamminata verso la sottolineatura dell’innesto degli obiettivi. E qui, in parentesi, è necessario un ritorno al passato: alle stagioni, sinceramente lontane (ahi... l’anagrafe), durante le quali ferveva il dibattito sull’innesto degli obiettivi intercambiabili, con contrapposizione tra quelli a vite (Leica 39x1; Zeiss 42x1, dal 1938, quindi Praktica, e, poi, Pentax, capofila di una lunga genìa) e quelli a baionetta (a ciascuno, la propria). Molte riviste declinavano “attacco a baionetta”, che -personalmente- abbiamo sempre contrastato (anche la declinazione delle parole ha un proprio senso). Infatti, “attacco a baionetta”, invece del nostro preferito “innesto a baionetta”, introduce un richiamo imbarazzante: all’attacco a baionetta, caratteristico degli scontri corpo-a-corpo di guerre lontane, fino alla Prima mondiale. Battuta facile: attacco a baionetta, in commemorazione dell’imminente centenario dalla fine della Grande guerra 1914-1918? Comunque, quello dell’innesto degli obiettivi è stato tema/argomento trasversale alla recente Photokina 2018, che -in ogni caso- ha sancito anche una indica-

Già... onore a loro. Oltre i riferimenti espositivi di più alto richiamo tecnico-commerciale, tutti facilmente intuibili e scontati, celebriamo il coraggio e la volontà di quelle produzioni fotografiche minime, per quanto non minori, che si presentano a Colonia, in Germania, per un appuntamento internazionale (?), con produzioni estranee agli interessi fotografici del pubblico più ampio. In proposte di nicchia: interpretazioni stenopeiche in grande formato compatto [qui sopra, Char Ieen Guo, di Guangzhou Shansheng Trading]; sistema grande formato in legno, fino al fuori quota 12x20 pollici / 30,5x50,8cm [centro pagina, Stephen Zhang, di ShenHao, di Shangai]; combinazione digitale dal dorso 4x5 pollici [pagina accanto, in basso]; e Rollei Lensball, in tre diametri, 60mm, 90mm e 110mm [pagina accanto, in basso, al centro].

21


Già... in complemento. Qualcosa di aggiuntivo e integrativo di quanto ogni produzione fotografica propone per proprio mandato tecnico-commerciale: l’High-Speed Cinebot su base Nikon reflex [qui sopra] e le dotazioni professionali del fotogiornalista Paolo Pellegrin, da reflex Canon a infrastrutture del proprio mestiere [pagina accanto, in alto]. Quindi, in integrazione di pensiero e considerazione, come valutare e misurare l’annunciata Zenit M, digitale a telemetro su evidente base Leica M, inavvicinabile fisicamente, proposta soltanto sotto teca, in configurazione con il medio grandangolare Zenitar 35mm f/1, più che accattivante? Per certi versi, sempre che accada qualcosa di concreto, riproposizione attuale della leggendaria produzione russa (in origine, sovietica) di Krasnogorsk, alle porte di Mosca.

22

zione tecnologica futuribile (mirrorless professionali e a tutto campo, con l’arrivo anche di Canon e Nikon), alla quale abbiamo appena accennato, che -forse- sta per decretare l’imminente preannunciata (?) fine della reflex piccolo formato (a partire dalla pellicola 35mm, per esposizioni 24x36mm), così come la concepiamo da tempo e tempo, e come l’abbiamo sempre intesa. Nota storica, doverosa per coloro i quali -come noinon si accontentano di nozioni rimediate, ma sono consapevoli delle progressioni storiche e sociali che hanno scandito il Tempo fotografico (magari, con proiezione dalla tecnica alla socialità... e oltre). Nel 1932, la tedesca Ihagee progettò e produsse una reflex (ai tempi) compatta: l’originaria Exakta-A, con pozzetto di visione, messa in commercio dal 1936. Dal crollo dell’Unione Sovietica, questa primogenitura è contesa da un’altra reflex, fino allora sconosciuta in Occidente: la Sport (Cnopm), prodotta negli anni Trenta dalla Gosudarstvennyi Optiko-Mekhanicheskii Zavod, di Leningrado (Gomz). Il suo prototipo, definito Gelveta, fu realizzato dall’ingegner A. O. Gelgar, tra il 1934 e il 1935, rifacendosi -addirittura- a una misteriosa Mine, progettata nel 1929 dall’ingegner A. A. Mine. Nel 1939, la tedesca Veb Pentacon firma la Pentacon originaria con prisma intercambiabile. Per quanto brevettato nell’Ottocento, in reflex “moderne”, il pentaprisma fu introdotto per la prima volta dalla rivoluzionaria Rectaflex italiana [Rectaflex, la Reflex Magica, di Marco Antonello, in FOTOgraphia, dell’ottobre 2002], subito seguìta dalla tedesca Contax S (Spiegel), nel 1949. La Rectaflex fu il sogno del romano Telemaco

Corsi, che sperò e credette nella propria idea di realizzare una reflex 35mm in Italia. Annunciata alla Fiera Campionaria di Milano, del 1947, ai tempi vetrina privilegiata -ancorché unica- dell’anticipazione tecnica e del relativo commercio al minuto, la Rectaflex cominciò ad essere venduta a partire dal successivo 1948. L’originaria Rectaflex 1000 fu la prima reflex 35mm al mondo con pentaprisma a tetto. Anche se la tedesca Contax depositò un brevetto analogo già nel 1941, otto anni prima di applicarlo alla Contax S, del 1949, l’italiana Rectaflex nacque subito con il pentaprisma a immagine raddrizzata, a differenza dei precedenti pentaprismi di Porro, tipo quello della sovietica Sport, a immagine rovesciata. Nel 1954, la giapponese Asahiflex (da cui, Asahi Pentax e, poi, soltanto Pentax) introdusse la prima reflex a pozzetto con il ritorno automatico dello specchio; nel 1957, approdò al pentaprisma, definendo la sua reflex Asahi Pentax AP, antesignana delle moderne reflex giapponesi. In realtà, il pentaprisma nelle reflex era stato introdotto, l’anno precedente, da Miranda, con la sua T. Successivamente, nel 1959, con la Nikon F, per la prima volta, veniva offerto un sistema completo, a partire -per l’appunto- dal pentaprisma intercambiabile. Nel 1963, la Topcon RE Super introdusse la prima lettura esposimetrica attraverso una misurazione TTL. A seguire, nel 1967, fu presentata la prima reflex automatica a priorità di tempi, la Konica Autoreflex T: scelto il tempo di otturazione, l’esposimetro comanda automaticamente il diaframma. In contrapposizione (?), nel 1971, Asahi Pentax presentò una reflex con otturatore elettronico e priorità di diaframmi: la Pentax ES (Electro Spotmatic).


23

ANDREAS IKONOMU

ALTIN MANAF (3)


24 ANTONIO BORDONI (2)


ANDREAS IKONOMU

Tornando in attualità, l’odierna concentrazione sull’innesto degli obiettivi (da tempo, soltanto a baionetta) è sancita anche dall’accordo strategico tra Leica, Panasonic e Sigma per l’innesto a baionetta L-Mount, a beneficio previsto dei propri clienti: obiettivi e apparecchi fotografici. Facili profeti, non possiamo non registrare la convenienza commerciale soprattutto a beneficio di Sigma, sempre più “produttore di obiettivi”... e basta; sempre meno “produttore di obiettivi universali”, in definizione del passato, ormai fuori luogo e tempo. Quindi, in conclusione di considerazioni peculiari, che -come già rivelato-, qui e oggi, escludono qualsivoglia annotazione specifica di novità tecnologiche, ampiamente presentate in Rete, in tempo reale, secondo quel capitolato che governa i nostri giorni, non possiamo ignorare come e quanto la novità annunciata dalla tedesca Zeiss, che torna alle macchine fotografiche, sia degna di attenzione: per se stessa, in margine di valutazione, e per quanto significa, in ipotesi futuribile. La Zeiss ZX1 è una full frame a obiettivo fisso, che stabilisce un nuovo passo della Fotografia, che potrebbe indicare un cammino da percorrere, da qui in avanti. Dotata di Android e Lightroom, si propone come un tutto-incluso, che scandisce e assolve lo scatto, la post-produzione e la condivisione attraverso i canali preposti. Questa Zeiss ZX1 è stata presentata nei giorni della Photokina 2018, all’esterno dei suoi padiglioni (disertati e abbandonati dal nobile e storico marchio tedesco), in un incontro serale riservato alla stampa e ai distributori nazionali (con relativo premio di miglior distributore dell’anno al russo Light Style [l’italiana Fowa lo fu

nel 2015]). Comunque, la sua nascita può e deve essere iscritta nel protocollo della stessa Photokina 2018, dal cui palcoscenico, oltre assolvere se stessa, stabilisce un innovativo parametro della tecnologia futuribile della fotografia, soprattutto in termini non professionali... ma non si sa mai, ma non sia mai detto!

GIÀ... ONORE A LORO Per quanto -come appena rilevato-, se si dovesse comparare l’edizione Photokina 2018 con qualcuna degli anni passati, magari senza neppure retrocedere troppo indietro nel tempo, si potrebbe rilevare e osservare come e quanto le attuali assenze sopravanzino, in un eventuale contro-catalogo, le presenze registrate, dobbiamo sempre e comunque considerare con serenità e armonia gli attuali equilibri commerciali del mercato. Ripetiamo, confermandolo e ribadendolo, che ogni produttore ha fatto i propri conti, posizionando a conseguenza l’ago della bilancia che stabilisce la separazione tra costo e investimento. E nulla è rimproverabile a nessuno. Però, e in nostra visione personale, prima che passionale, vanno distribuiti onori e meriti a qualche partecipazione, oltre quelle scontate e di pragmatica. Ovviamente, guidati anche dal cuore, ma -forse- soprattutto dal cuore, ci rivolgiamo a quei produttori minimi, non minori, che costellano con proprie brillantezze il cielo notturno che definisce e delinea l’intero arco costituzionale della Fotografia commerciale. Sono stelle splendenti, a volte perfino sfavillanti, che conciliano molti animi a dispetto di molte volgarità contemporanee (il nostro animo, magari prima di tanti altri ancora).

Già... miscellanea e dintorni. Esauriti da tempo i momenti (luminosi e scintillanti) del genio solitario che pensa, sogna e inventa (per quanto ci riguarda, almeno due menzioni, George Eastman / Kodak e Edwin H. Land / Polaroid), la progettazione dipende da staff affiatati e competenti: celebrazione del team dei cento Megapixel del sistema Fujifilm GFX, con relative indicazioni di nome-cognome e funzioni [qui sopra]. In abbinamento consapevole e volontario, altre due proiezioni dal passato al presente: la coreana Arte di mano / dal maestro artigiano, con complementi in cuoio per dotazioni fotografiche del passato... perfino remoto [pagina accanto, in alto]; richiamo sentimentale al grande formato fotografico, in accompagnamento di un allestimento scenico [pagina accanto, in basso].

25


ANDREAS IKONOMU

Già... segno dei tempi. Come è scontato che ormai debba essere, controllo di sicurezza all’ingresso dei padiglioni espositivi della Photokina 2018 [qui sopra]. In supplemento, una considerazione personale: la nostra prima Photokina 1974 si svolse in clima di anni di piombo (tedeschi), con manifesti di ricercati affissi nei locali pubblici (tutti affiliati alla Rote Armee Fraktion, altrimenti identificata Banda Baader-Meinhof); ora, il clima è di tolleranza religiosa [pagina accanto, in alto, sala di accoglienza omnicomprensiva all’aeroporto di Köln-Bonn]. Infine, ancora altri tempi: mockup in dimensioni generose per il lancio della Leica M3, la prima con innesto a baionetta degli obiettivi intercambiabili, alla Photokina 1954, la prima biennale e internazionale [pagina accanto, in basso].

26

Ciò precisato, ci indirizziamo in particolar modo verso la fotografia grande formato, della quale auspichiamo un Ritorno ragionato e motivato [FOTOgraphia, luglio, settembre, ottobre 2014 e giugno 2015... e altro, ancora], magari in aspetto formale elegante e garbato, e alla camera oscura. In questo stesso ordine. Esaurita da tempo la sostanziosa proposta di apparecchi a banco ottico e folding, in configurazioni moderne e pratiche e utilitaristiche, via via svuotate del proprio senso tangibile, fino alla scorsa edizione Photokina 2016, l’antico blasone è stato sostenuto dall’efficacia dei sistemi Arca-Swiss (banco ottico) e Linhof (folding)... le ultime grandi formato in attualità tecnico-commerciale. Gli altri marchi europei e giapponesi (Cambo, Fatif, Horseman, Plaubel, Sinar, Toyo) se ne sono andati da tempo, per non parlare degli statunitensi (Calumet e, per certi versi, Deardorff). Così, al giorno d’oggi, quando pure si segnalano ulteriori iniziative artigianali (ancora!), che agiscono localmente, onore e merito a coloro i quali hanno ribadito la propria esistenza e identità ancora alla recente Photokina 2018... finale e conclusiva. Come non apprezzare coloro i quali, come i riferimenti che stiamo per rilevare, sono ancora capaci di esporre in pochi metri quadri, con l’autorevole dignità della propria personalità, in una kermesse che celebra altri grandi riferimenti, in esuberanza di presenza scenografica? Dal fronte del grande formato fotografico (residuo e rimasto), tre i nomi da celebrare e onorare. Anzitutto, passerella d’onore, per il cinese ShenHao, che, per l’occasione, oltre la propria gamma standardizzata (diciamola anche così) di folding in legno dal

6x9cm all’8x10 pollici / 20,4x25,4cm e le fantastiche interpretazioni panorama 6x17cm, 6x24cm, 4x10 pollici / 10,2x25,4cm, 5x12 pollici / 12,7x30,5cm, 5x17 pollici / 12,7x43,2cm, conferma anche l’esubero verso l’11x14 pollici / 30x36,6cm, novità 2016; e poi, udite udite, si è spinto a dimensioni di negativo ancora superiori: 12x20 pollici / 30,5x50,8cm, altrettanto accompagnato da propri châssis portapellicola (e le pellicole piane sono ancora offerte da case chimiche residue, perfino Eastman Kodak, su ordinazione). Quindi, in accostamento ideale, altrettanto onore e merito alla linea Chamonix, in distribuzione Jobo (storico e nobile produttore tedesco di attrezzature di trattamento chimico). Le prerogative progettuali Chamonix stanno nella combinazione produttiva con legno e carbonio e nell’accostamento della pellicola fotosensibile con processi originari (a partire dal collodio, ottocentesco), con relativi châssis appositi e dedicati. Ovviamente, in gamma dal 4x5 pollici all’8x10 pollici / dal 10,2x12,4cm al 20,4x25,4cm. Infine, ecco anche la cinese Guangzhou Shansheng Trading, con la propria avvincente e convincente linea di apparecchi grande formato compatti e autoconclusi (non a soffietto) con foro stenopeico: che coraggio espositivo! A margine, annotiamo ancora che lo stesso produttore / espositore ha ospitato presso di sé l’obiettivo cinese per grande formato KangRinpoche 600mm f/11,5, un quattro lenti che copre ben oltre l’8x10 pollici / 20,4x25,4cm (massima dimensione standard), stile Schneider Xenar dei decenni passati, capace di colmare un vuoto produttivo ormai certificato.


27

KOELNMESSE

ANTONIO BORDONI


28 ALTIN MANAF (2)


ANTONIO BORDONI

Da qui, alla camera oscura, alla caparbietà e fermezza con la fotografia argentica (altrove, analogica). Vivace, oltre che apprezzata, la presenza a Photokina 2018 di Ars-imago, di Roma (www.ars-imago.com), che mantiene un profilo concentrato, che si estende dai materiali agli utensili. Proprio in questo senso, citazione d’obbligo per l’efficace Lab-Box, tank daylight multiformato, per pellicole dal 35mm al rullo 120/220. Ancora e in conclusione... onore e merito al pubblico, agli identificati clienti potenziali (del commercio fotografico). Per accedere alla Fiera, i circa duecentomila visitatori hanno sborsato ciascuno una cifra sostanziosa (prossima ai cinquanta euro a testa), a dimostrazione di una fedeltà per tanti versi ostinata e solida, che il mercato vorrebbe fosse soltanto fidelizzazione. Ribadiamo, onore massimo: magari anche in relazione a un contatto personale casuale con un appassionato di fotografia, ampiamente gratificato nella propria vita individuale e professionale (in odore di massimi riconoscimenti planetari!), che all’interno della Photokina 2018, al cospetto della passerella tecnico-commerciale, ha rivelato un entusiasmo, che sfocia nell’emozione ed eccitazione. Quando mai, il commercio ne tiene conto? Quando mai, il commercio dà per quanto riceve? Altro discorso: non ora e non qui, ma da considerare e affrontare, in prologo sul piagnisteo generale (con cause, ma anche colpevoli e vittime).

GIÀ... RITORNO (E ALTRO) Dieci anni fa, nel Duemilaotto, a fronte (o a monte) di una esigenza di approfondimento che ritenemmo do-

vuto, prima che doveroso, compilammo una riflessione articolata, addirittura in forma di libro. Ancora oggi, fatti salvi quei riferimenti tecnici temporali, che -ovviamente- si sono stemperati, Alla Photokina e ritorno (compilata con richiami e riferimenti che non si esauriscono con il solo svolgimento della Fiera in riferimento) potrebbe essere lettura che, come da considerazione originaria, offre spunti utili e proficui sia al comparto tecnicocommerciale sia al mondo della fotografia espressiva e creativa. Ma! Ma... lasciamo perdere... ormai. L’attuale Ritorno è stato diverso: è intervenuto il cuore, innescato con una serie di coincidenze e casualità del tipo di quelle che rivelano che la vita possa anche avere un qualche senso. Con Altin Manaf e Andreas Ikonomu, partner da tre edizioni della Photokina (l’attuale Duemiladiciotto compresa) [soprattutto, in FOTOgraphia, del novembre 2014], abbiamo spezzato in due tappe il viaggio in automobile da Colonia a Milano. Abbiamo riservato la mattina di sabato ventinove alla visita a una concentrata quantità e qualità di mostre fotografiche in città, inserite nell’autorevole programma Internationale Photoszene Köln Festival (in cartellone dal ventuno al trenta settembre; gli anni scorsi, rileviamolo, era allungato su un mese completo: da accettare, acconsentendo alla trasformazione dei tempi). Poco da commentare, per la mostra Doing the Document, dichiaratamente vicina a quell’influente New Documents, con la quale, nel 1967, l’accreditato John Szarkowski avviò stagioni successive della fotografia, segnalando le personalità di Diane Arbus (1923-1971),

Già... musei e gallerie. Tappe d’obbligo, una volta che si è a Colonia, magari per la Photokina: mostre fotografiche allestite nell’ampio e qualificato contenitore Internationale Photoszene Köln Festival, dal cui intenso programma estrapoliamo la fantastica selezione 24 Vintages by August Sander (selezionati dal nipote Gerd Sander nello spirito del lavoro e della vita del nonno), presentati alla Galerie Julian Sander... quotati tre milioni di euro [pagina accanto]. Per i musei, è sempre indispensabile la visita al Ludwig Museum, in equilibrio tra mostre temporanee (nello specifico, Doing the Document, con la fotografia degli anni Sessanta e Settanta) e la Collezione permanente: al cui interno si trova il War Memorial, di Ed Kienholz, del 1968, comprensivo della bandiera issata a Iwo Jima, dalla fotografia di Joe Rosenthal [qui sopra].

29


ANDREAS IKONOMU (3)

Già... in viaggio, in ritorno. «Qualsiasi viaggio nella vita, se non fosse intrapreso per ragioni umane e con comprensione e amore, sarebbe un viaggio assolutamente inutile» (da e con l’incipit a Alla Photokina e ritorno, di Maurizio Rebuzzini, del 2008). Probabilmente, le casualità e coincidenze sono gli unici accadimenti che rivelano che la vita possa avere un qualche senso: in sosta a Colmar, in Francia, nel viaggio di ritorno dalla Photokina 2018, ci siamo imbattuti nella Librairie Lire et Chiner (antiquaria). Due incontri “storici” di qualità: Histoire de la photographie, di Raymond Lecuyer, del 1945 [pagina accanto]; e una sostanziosa quantità di monografie illustrate di Le Point (revue artistique et littéraire), tra le quali una copia rara di Bistrots, del 1960 [in alto].

30

Lee Friedlander (1934) e Garry Winogrand (1928-1984), in prima esposizione al prestigioso Museum of Modern Art, di New York (MoMA). A partire da una retrovisione congiunta degli stessi tre autori, in un percorso scandito da stampe dalla Collezione della famiglia Bartenbach, il cammino della fotografia contemporanea è risultato più che efficace. Sia tale scientificità, sia la patente offerta dal Museum Ludwig, di allestimento scenico (fino al prossimo sei gennaio), sono garanzie che si esprimono da sole, senza alcun altro accompagnamento. Altrettanto vale, su scala ben diversa, per le Peter Gowland’s Girls, dell’autore californiano, decenni fa celebrato come il più significativo fotografo del genere, in rigorosa messa in scena al Makk / Museum für Angewandte Kunst Köln, dallo scorso nove maggio (!). Soltanto, per conoscenza personale, riteniamo doverose due precisazioni: autore di manuali fotografici specifici [FOTOgraphia, aprile 2005], per decenni, attorno ai Cinquanta-Sessanta, Peter Gowland (19162010) ha firmato la rubrica Glamour per il mensile statunitense Popular Photography. Ancora, ricordiamo la sua produzione artigianale di una serie di apparecchi fotografici 4x5 pollici, in configurazione biottica: Gowlandflex, in nostra passerella nel giugno 1999. Ma ciò che, sabato ventinove settembre (seduti in quel caffè...), ci ha più coinvolti è stata la presentazione di ventiquattro fotografie dal portfolio/diario personale di August Sander (1876-1964), che, tra le due guerre mondiali, compilò un fantastico atlante del Ventesimo secolo, proprio a Colonia e dintorni. La sua statura nella Storia è fuori discussione, e dunque a questa ci atte-

niamo (e questo portfolio di ventiquattro stampe vintage e personali, presentato alla Galerie Julian Sander, è quotato tre milioni di euro... sì, avete letto giusto). Però, con l’occasione, ci permettiamo di certificare senso e significato della identificazione vintage (stampa realizzata in coincidenza di date con lo scatto, o lì nei dintorni), prendendo le distanze dall’abuso che si sta facendo di questa qualifica, qui in Italia: dove e quando si considerano vintage stampe fotografiche del passato... casuali e dimenticate nei cassetti. Spesso, addirittura, si tratta di copie mal stampate, che si sarebbero dovute gettare da tempo; sempre, è fonema di spettacolarizzazione, privo di qualsivoglia valore e significato. Poi, ci si lamenta della poca considerazione internazionale della nostra fotografia nazionale e dei nostri punti di vista! E mai si prende atto delle nostre cialtronerie, che condizionano la nostra stessa reputazione. Così la pensiamo e diciamo... anche. Partiti da Colonia, verso sera, abbiamo fatto tappa in Francia, appena varcato il confine tedesco, a Colmar: dove abbiamo, peraltro, appreso che ha dato i Natali allo scultore Auguste Bartholdi (1834-1904), che progettò la Statua della Libertà, issata a Parigi e New York -le due opere si guardano, se solo potessero farlo-, nella realizzazione con l’ingegner Gustave Eiffel, quello della Tour/Torre, a Parigi, dall’Esposizione Universale del 1889. A Colmar, una replica 2004, alta dodici metri. Per programma, domenica mattina trenta settembre, ci saremmo dovuti fermare a Basilea, in Svizzera, per uno dei tanti musei della città. Soltanto che -casualità? cuore? fortuna? amore? gli altri avanti a noi?-, lungo


31


32

ANTONIO BORDONI MFRANTI

ALTIN MANAF (2)


la strada abbiamo incontrato un cimitero di guerra, con le sue lapidi in coinvolgente ordine geometrico (e grafico). Niente più Basilea, e la mattina trascorsa in quel silenzio, in quella armonia, in quell’amore per la Vita perseguito anche a scapito della propria. Sosta non prevista, né programmata, ma la lievità del cimitero ci è venuta incontro, chiamandoci e coinvolgendoci: una tappa, una pausa che è valsa l’intero viaggio (utilità formali a parte; Photokina 2018 e dintorni).

GIÀ... RITORNO (E ALTRO ANCORA) “Morti per la Patria” recitano le lapidi. E ci domandiamo: morti per la nostra (successiva) libertà? Guardandoci attorno, ascoltando parole, soprattutto dalla politica nazionale, c’è di che indignarsi (da e con Stéphane Hessel, di Indignatevi!; Add editore, 2011 [l’autore è al di sopra di ogni sospetto: diplomatico francese, ex partigiano, diploma all’École normale supérieure, di Parigi, e amico di Walter Benjamin, autore dell’indimenticabile L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica]). «Non vi esasperate, ma sperate e indignatevi! La peggiore abitudine è l’indifferenza. Indignarsi è il primo passo per impegnarsi», annota nel testo Stéphane Hessel. E, poi, prosegue: «Ci rivolgiamo alle giovani generazioni perché facciano vivere, trasmettano, l’eredità della Resistenza e i suoi ideali. Diciamo a voi: Prendete il testimone della staffetta, Indignatevi!». Monito finale... perentorio e assoluto: «A tutti coloro che faranno il Ventunesimo secolo, diciamo con affetto: Creare è resistere. Resistere è creare». Insomma, tutto deve scaturire da ciò che è acca-

duto in precedenza, e tutto deve -a propria voltacondurre a qualcos’altro. Del resto, il mondo e le sue manifestazioni sono come ognuno le interpreta. Intendiamo dire che, se crediamo a tanti equilibri naturali e sociali, allora si vive e ci si comporta di conseguenza. Infatti, ognuno percepisce attorno a sé soltanto nei limiti circoscritti di idee e immagini preconcette. Nessuno vive in un vuoto: per quanto ci riguarda, nell’abitare in Fotografia e con la Fotografia, incontriamo poesie in forma di immagine, vera o ipotizzata che sia. Nella quiete del Necropole Nationale di Colmar, scandito dalle sequenze 1914-1918 e 1939-1945, il pensiero si libera di altri fardelli e impegni: da e con Fabrizio De André... Dormono, dormono sulla collina. Da cui, qualcosa di nostro. Voi, qui soli, per quanto insieme con. Voi, qui a memoria, ma... ormai. Voi, qui immobili, siete monito e onore. Voi, qui e non più altrove, cosa state dicendoci? Voi, che non avete potuto vivere, per far vivere noi. Voi, che non avete vissuto, cosa speravate per noi? Voi, qui per un sogno e una speranza. Voi... chi siete? Voi... chi siete stati? Voi... chi avreste potuto essere? E noi, chi siamo, potendo essere? Voi siete tutti qui con me, nel mio cuore. Il vostro sacrificio sia la nostra esistenza. mFranti Già... Photokina 2018. Osservare, piuttosto che giudicare. Pensare, invece di credere. ❖

Già... in ritorno... e poi? Con Altin Manaf e Andreas Ikonomu, in autoritratto in ombra [pagina accanto, in basso]: alla Photokina 2018 e ritorno. Quindi, casualità? cuore? fortuna? amore? gli altri avanti a noi?, lungo la strada di ritorno -per l’appunto-, abbiamo incontrato un cimitero di guerra, con le sue lapidi in coinvolgente ordine geometrico [in alto]. La mattina trascorsa in quel silenzio, in quella armonia, in quell’amore per la Vita perseguito anche a scapito della propria. Voi... chi siete? Voi... chi siete stati? Voi... chi avreste potuto essere? E noi, chi siamo, potendo essere? Voi siete tutti qui con me, nel mio cuore. Il vostro sacrificio sia la nostra esistenza. Una pausa che è valsa l’intero viaggio. Poi, ancora, a conclusione di tanto, per quanto non di tutto: ultimo giro di giostra [pagina accanto, in basso, al centro].

33


ALTIN MANAF

Nelle precedenti diciotto pagine: annotazioni dalla Photokina 2018.

Come certificato e rivelato, il dettagliato intervento redazionale è stato pubblicato grazie al supporto di Canon. La realizzazione di questo “reportage intimo”, ma non privato, è stata aiutata senza alcuna interferenza sul testo, peraltro conosciuto preventivamente soltanto dalla redazione di FOTOgraphia.


di Antonio Bordoni

Q

Edgar Martins: Reparto verniciatura, Bmw Group, Monaco, Germania; 2015.

© EDGAR MARTINS

uante le domande che affollano la nostra mente? Tante... forse, troppe (ed è altro discorso. Quante le considerazioni che accompagnano il nostro cammino con e per la Fotografia (qualsiasi cosa questa significhi per ciascuno di noi)? Altrettante... forse, corrispondentemente troppe. Qui e ora, una sopra tutte, in duplice declinazione, con coniugazione identica: in quanti e quali modi si possono considerare le fotografie

avvicinabili? in quanti e quali modi si possono accostare tra loro fotografie realizzate le une indipendentemente dalle altre, ma approssimabili le une alle altre, le une assieme alle altre? È questa la domanda spontanea, che si è formata genuinamente al cospetto dell’ennesima lettura dal proprio archivio fotografico composta e articolata dal Mast / Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia, di Bologna: Pendulum - Merci e persone in movimento. Immagini dalla Collezione di Fondazione Mast, a cura di Urs Stahel, (ovviamente) alla Mast Gallery, fino al prossimo tredici gennaio.

Avvalendosi di fotografie storiche e contemporanee della Collezione della Fondazione Mast (in richiamo di titolo), la mostra Pendulum - Merci e persone in movimento. Immagini dalla Collezione di Fondazione Mast illustra visivamente la forza che impieghiamo nel moto perpetuo della vita e la genialità con la quale abbiamo progettato navi, automobili, camion, ferrovie, aerei e autostrade digitali per conquistare il mondo e porre al centro della nostra esistenza l’economia, il commercio, la produzione, la vendita e il trasporto (circa, da Urs Stahel, curatore)

IN MOVIMENTO

35


CALIFORNIA (GIFT OF PAUL S. TAYLOR) OF

© THE DOROTHEA LANGE COLLECTION / THE OAKLAND MUSEUM © MIMMO JODICE

Mimmo Jodice: Stazione Centrale, Milano; 1969 (stampa ai sali d’argento 29x19,3cm).

(centro pagina, in alto) Dorothea Lange: La nuova California, costruzione di un’autostrada vicino a Hercules; 1956 [dettaglio] (stampa ai sali d’argento 24x37,5cm).

36

A partire dalla sua fondazione e creazione [FOTO graphia, dicembre 2013], a proposito del Mast abbiamo scritto in tante occasioni. Probabilmente, per cortesia e gentilezza, abbiamo riservato a questa personalità più attenzioni di quante concesse ad altre manifestazioni italiane della fotografia in esposizione di se stessa (?); sicuramente, per interpretazione giornalistica senza compromessi, abbiamo registrato ogni passo compiuto, ogni segnale lanciato [tante e molteplici, le partecipazioni Mast a queste stesse pagine]. Ora, in presenza dell’attuale allestimento espositivo, torniamo a riferirne. Personalmente, nonostante il valore delle motivazioni e presentazioni (che stiamo per richiamare), oggi e qui dobbiamo scandire passi che appartengono alla nostra frequentazione e considerazione della Fotografia, che potrebbero apparire come lontani dalla sostanza della materia... ma non è vero... ma non è affatto così. Infatti, ben considerata la capacità del curatore Urs Stahel di leggere e interpretare la Fotografia, per quanto in dimensione di quanto raccolto e custodito nella Collezione

di Fondazione Mast, non vogliamo ignorare come e quanto la Forma sia qui indispensabile alla Sostanza (da e con Vasilij Vasil’evič Kandinskij). Precisamente, e poi lasciamo la parola, oltre lo specifico delle singole fotografie raccolte e presentate nell’attuale sintesi/registro Pendulum - Merci e persone in movimento. Immagini dalla Collezione di Fondazione Mast, tutte di profilo più che alto, tutte ampiamente motivate (sia per se stesse, sia nella loro combinazione con), ciò che fa l’inevitabile differenza è giusto e proprio l’accostamento scenico alla autorevole Mast Gallery, di Bologna, che accompagna la loro visione, percezione e, perché no?, accoglienza. Da qui, il testo motivazionale del curatore Urs Stahel, in propria versione integrale. Il mondo di oggi è una sfida alla memoria e alla forza di gravità. Tutto sembra essere in movimento. Allo sviluppo seguono la produzione, il trasporto, la vendita, la diversificazione, la cessione, la riacquisizione, il cambiamento di nome, la delocalizzazione, la sostituzione di quadri e dirigenti e -infine- la fusione.


MARTIN MUNKÁCSI / COURTESY HOWARD GREENBERG GALLERY, NEW YORK OF

© ESTATE © O. WINSTON LINK / COURTESY ROBERT MANN GALLERY

E poi il gioco ricomincia da capo, con velocità doppia, rischio più elevato e migliori potenzialità di profitto. Ogni business plan vede la luce già provvisto della data di scadenza. Maggiore è la distanza tra il luogo della produzione e quello della vendita e maggiore sarà in genere il profitto. E tra questi due punti fanno la spola gigantesche navi da carico che solcano le onde in un viavai continuo, città galleggianti fatte di container che, per il semplice fatto di coprire tratte tanto lunghe, trasformano il lavoro di sarti pagati due euro in abiti che ne costano duemila. Se la merce è deperibile, si allestiscono rotte aeree e catene del freddo. E, mentre è ancora in viaggio, si scommette in Borsa sul loro carico, come se il mondo fosse un gioco, una corsa che pare non voler mai finire. È un ciclo ininterrotto, una gara alla quale partecipiamo tutti: gli uni realizzando profitti o subendo perdite; gli altri percorrendo tragitti lunghi e faticosi per recarsi al lavoro. In entrambi i casi, da decenni, si

continua ad aumentare il ritmo e la velocità: la crescente accelerazione dei processi economici e sociali è iniziata ai primordi della rivoluzione industriale, fino a toccare oggi livelli vertiginosi. Il solo fenomeno che ci spinge a rallentare il passo, a cercare persino di fermare tutto, è quello delle migrazioni. Le uniche barriere esistenti sono quelle che frenano i perdenti locali e globali della modernità. Infatti, sappiamo quanto forti siano il potere seduttivo della pubblicità e l’eco degli abusi del colonialismo, e come la prospettiva di margini di guadagno riesca a imprimersi a fondo nella mente di tutti, a qualsiasi latitudine. Il pendolo [dal quale l’attuale sintesi Pendulum Merci e persone in movimento. Immagini dalla Collezione di Fondazione Mast ] simboleggia il passare del tempo. Il suo oscillare è anche sinonimo di cambiamenti improvvisi d’opinione, di convinzioni che si ribaltano nel proprio esatto contrario. Inoltre, evoca il traffico pendolare, intendendo i milioni di persone che la mattina presto raggiungono il lavoro nel centro delle

Martin Munkácsi: Nelle Pampas argentine, strade accidentate, buche; 1932 circa (stampa ai sali d’argento 33,3x26cm).

(centro pagina, al centro) O. Winston Link: Licenza al treno a doppia trazione; 1959 [dettaglio] (stampa ai sali d’argento 39x48,8cm).

37


RUDOLF HOLTAPPEL OF

© ESTATE

Rudolf Holtappel: Condotto di gas d’altoforno, regione della Ruhr, Germania; 1958-1962 (stampa ai sali d’argento 34,5x34cm).

38

città e la sera tornano stanche ai loro quartieri dormitorio. Ma il pendolo è anche un simbolo valido per i traffici in genere, per quel perenne scambio di merci, a fronte di altre merci, di denaro, di promesse. Nel 1851, il fisico Léon Foucault [francese; 1819-1868] riuscì a dimostrare la rotazione della Terra in modo sorprendentemente semplice: per mezzo di un pendolo sospeso a grande altezza e libero di oscillare pian piano in tutte le direzioni. “Eppur si muove!”, pare avesse esclamato Galileo Galilei, ma la Terra non ruota solo intorno al Sole, come lui e Niccolò Copernico avevano dimostrato, bensì anche intorno al proprio asse, e Léon Foucault era stato in grado di provarlo. Ruotare intorno al proprio asse è un’azione che, in sostanza, implica un enorme dinamismo, lo stesso che da due/tre secoli gli esseri umani producono sulla Terra con i propri congegni, strumenti e macchinari. Avvalendosi di fotografie storiche e contemporanee della Collezione della Fondazione Mast [in richiamo di titolo], la mostra Pendulum - Merci e persone in

movimento. Immagini dalla Collezione di Fondazione Mast illustra visivamente la forza che impieghiamo in questo moto perpetuo e la genialità con la quale abbiamo progettato navi, automobili, camion, ferrovie, aerei e autostrade digitali per conquistare il mondo e porre al centro della nostra esistenza l’economia, il commercio, la produzione, la vendita e il trasporto. Ma [allo stesso momento e tempo] descrive anche il nostro ruotare senza posa su noi stessi, una piroetta a velocità supersonica che finirà per conficcarci nel terreno o farci toccare il cielo. Una volta ancora, una di più, mai una di troppo e -soprattutto- non certo per l’ultima volta... Missione della Fotografia. ❖ Pendulum - Merci e persone in movimento. Immagini dalla Collezione di Fondazione Mast; a cura di Urs Stahel. Mast Gallery (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia), via Speranza 42, 30133 Bologna; www.mast.org. Fino al 13 gennaio 2019; martedì-domenica, 10,00-19,00. ❯ Catalogo di 52 pagine 17x17cm.



Fatto salvo il profondo rispetto per ciascuna delle convocazioni verso le quali indirizza il bravo Nils Rossi, non bisogna commettere l’errore di sopravanzare il singolo richiamo al lessico. Ovvero, limitandoci alla socialità dei rispettivi soggetti, si perderebbero di vista quelle considerazioni sull’espressività della fotografia che sono fondanti per il suo e del suo linguaggio: per il quale, visualizziamo la serie P.A.R.T.Y. / Pride And Revolution To Youth

QUESTI RITRATTI di Angelo Galantini

A

vvicinandoci alla poesia, dobbiamo necessariamente sintonizzarci con il suo soggetto implicito? Avvicinandoci alla narrativa, dobbiamo obbligatoriamente partecipare all’intimità del protagonista? Avvicinandoci al cinema, dobbiamo conseguentemente condividere i tormenti della vicenda? Pur amando la poesia, spesso siamo staccati dal suo soggetto tacito (ci interessa poco/nulla la collocazione geografica dell’ermo colle, per quanto ci coinvolga e commuova il pensiero che sprofonda in quest’immensità... ed è dolce naufragare in questo mare, da e con Giacomo Leopardi, di L’infinito); pur affezionati alle indagini seriali del commissario Maigret, di Georges Simenon, non ci interessano affatto le sue inclinazioni alimentari; pur seguendo il cinema, andiamo più spesso sottotraccia, nello stesso momento nel quale soprassediamo sulle apparenze a tutti visibili. Eccoci! Giovane fotografo milanese, Nils Rossi ha una formazione nel fotogiornalismo e dintorni. Da qui, in proprio cam-

40

mino individuale, da tempo, sta riservando sue particolari attenzioni al ritratto, come espressione di esistenze e condizioni. In questo senso, vanno doverosamente segnalati almeno due suoi progetti recenti, entrambi in divenire, entrambi in continua crescita, rivolti alla Vita nel proprio svolgersi, da cui Humans, e alla comunità russa in migrazione, identificata come Pobeda (in cirillico, пoбeдa, con propria pronuncia diversa dalla trascrizione latina: “Vittoria”). Allineandoci all’attuale incipit, per questa sua fotografia, che, poi, manifesta altri e ulteriori indirizzi tematici, è clinicamente doveroso divergere per un attimo dalla personalità dei soggetti, ognuno dei quali invita a considerazioni sociali di spessore, per concentrarci sulla stessa Fotografia. Infatti, fatto salvo il profondo rispetto per ciascuna delle convocazioni verso le quali indirizza Nils Rossi, non bisogna commettere l’errore di sopravanzare il singolo richiamo al lessico. Ovvero, limitandoci alla socialità dei relativi soggetti, si perderebbero di vista quelle considerazioni sull’espressività della fotografia che sono fondanti per il suo e del suo linguaggio: da raffigurazione a rappresentazione, il balzo è determinante. (continua a pagina 44)



42


43


(continua da pagina 40) I ritratti di Nils Rossi, per i quali, oggi e qui, visualizziamo una ulteriore serie, forse altrettanto in progress, P.A.R.T.Y. / Pride And Revolution To Youth (che esula dall’obbligo di tematiche profondamente sociali), è talmente efficace, talmente conoscitiva, talmente penetrante da iscriversi in una Storia radicata (non solo della Fotografia), che si separa da quel recente abuso narrativo del ritratto, illegalmente sostitutivo del racconto fotogiornalistico. A questo proposito, corre l’obbligo riprendere considerazioni trasversali al dibattito fotografico, che hanno animato riflessioni di una decina di anni fa, quando e per quanto il fenomeno del ritratto surrogato invase il fotogiornalismo internazionale (per quanto il riferimento di Nils Rossi scarti a lato una propria proiezione sullo stesso fotogiornalismo). Per dare a questi ritratti la propria identità efficace e per sottolineare come e quanto il ritratto possa essere racconto di vita -e nel caso di Nils Rossi lo è proprio-, partiamo da una osservazione di Jean-François Leroy, inventore e direttore del festival di Perpignan Visa pour l’Image,

44


straordinaria celebrazione del fotogiornalismo dei nostri tempi. In una realtà consolidata di fotografie che non raccontano il mondo, ma lo ripetono alla nausea, Jean-François Leroy rileva (e afferma) che il fotoreportage potrebbe morire di noia. Quindi, aggiunge che «non ne posso più di tutti questi ritratti, ritratti, e ritratti di gente che ha in mano ritratti» [FOTOgraphia, febbraio 2009]. Però, eccoci qui!, ci sono ritratti e ritratti. Infatti, a volte, come è per questo P.A.R.T.Y. / Pride And Revolution To Youth, di Nils Rossi (e torniamo al linguaggio fotografico), un volto e una postura possono raccontare, di riflesso, il senso di ciò che sta accadendo: in questo caso, si tratta di un ritratto rubato dal fotografo, nel quale il soggetto inconsapevole tradisce le emozioni profonde, i soprassalti del pensiero, la sorpresa, il piacere e tutti i segni rivelatori del carattere e dello stato d’animo, connotati che vengono cancellati appena il soggetto si accorge di essere guardato e si rimette la maschera opaca o riflettente come occhiali a specchio. Volti di esistenze. ❖

45


Nello specifico di Antonio Bordoni

È stato notato che il richiamo all’apparecchio stereo sovietico Sputnik, del 1960, sia l’unico a essere stato compreso nelle due riflessioni consecutive Soltanto parole e Soltanto fotografie, rispettivamente presentate gli scorsi giugno e luglio. Qualcuno lo ha rilevato, andando altresì a decifrare una delle trasversalità che hanno caratterizzato quelle edizioni. Allo stesso momento, siamo stati sollecitati a specificare le condizioni da noi intuite per la corretta stampa a contatto di fotogrammi stereo 6x6cm accostati, dai relativi negativi realizzati con la Sputnik: con testo e immagini dal maggio 1999, in messa in pagina attuale, in ripetizione, Stampa su carta. Siccome la trasposizione dei fotogrammi stereo esposti con la Sputnik si basa sulla stampa a contatto su lastra di vetro, l’eventuale stampa su carta presenta qualche problema. Come evidenzia la sequenza illustrata, nella stampa su carta da negativo bianconero (che noi abbiamo sostituito con una coppia di diapositive a colori), si viene a realizzare una indesiderata inversione dei fotogrammi: quello di destra si presenta a sinistra, e viceversa. Se si vuole usare direttamente la stampa contatto, bisogna aggirare il problema. Noi consigliamo questa soluzione, di nostra invenzione. Invece di ritagliare un formato di carta sensibile 6x13cm, appunto adatto ad accogliere la combinazione stereo che nasce dai due fotogrammi accostati 6x6cm, si ritagli una striscia 6x26cm, larga esattamente il doppio. Le estremità vanno piegate su se stesse, con il lato emulsionato all’esterno: una superficie completa 6x13cm si combina con un’altra superficie ugualmente 6x13cm formata dalle due estremità ripiegate. Quindi, si espongono per contatto i due negativi stereo su ognuna delle due singole facciate 6x13cm. Alla fine del trattamento, la stampa asciutta va tagliata a metà e, come mostra la nostra sequenza, si ottengono due stereofotografie corrette: con la porzione destra collocata a destra e quella sinistra a sinistra. Niente di diverso. ❖

46

1-2. La coppia di fotogrammi stereo esposti dalla sovietica Sputnik è identificata. Dopo lo sviluppo, il fotogramma con numerazione dispari sul bordo è quello di sinistra (simuliamo la situazione con una coppia di diapositive a colori).

3. Nella stampa a contatto da negativi bianconero o colore (per motivi estetici, qui visualizzati con una coppia di diapositive) si realizza una malaugurata inversione dei fotogrammi, che impedisce la corretta visione stereo: quello di destra si presenta a sinistra, e viceversa.

4. Con il sistema da noi inventato, si ottengono coppie di fotogrammi stereo corretti (destra-sinistra). Invece di lavorare con carta sensibile tagliata nel formato 6x13cm, si parte da una striscia raddoppiata 6x26cm piegata su se stessa.

5-6. Con le esposizioni a contatto delle due superfici 6x13cm della striscia 6x26cm con le estremità ripiegate su se stesse (con l’emulsione all’esterno), si ottiene una doppia coppia di fotogrammi stereo corretti destra-sinistra.

ANTONIO BORDONI (3)

È

STEREO SU CARTA

1 2

3

SINISTRA

DESTRA

DESTRA

SINISTRA

4

SIN ISTR A2

2 TRA DES

DESTRA 1

SINISTRA 1

DESTRA 1

SINISTRA 1

DESTRA 2

SINISTRA

DESTRA

5

SINISTRA 2 6

6

SINISTRA

DESTRA



Sguardi su

di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 15 volte ottobre 2018)

MARIO CARNICELLI

A

Al tempo della civiltà dello spettacolo, nel quale la disperazione dei molti si trascolora in amarezza e incapacità di contrastare una minoranza di saprofiti, che hanno saccheggiato l’immaginario collettivo e istituito una sociologia delle tenebre... la fotografia dominante fa il proprio gioco, e si prostra alla sconvenienza della pletora di mercanti d’illusioni... senza capire mai che sono la grazia, la bellezza e la verità che annientano la celebrazione della perfezione in ogni forma d’arte... e portano a riflettere su molta fotografia spettacolarizzata che fa di un bambino ammazzato dalle bombe delle democrazie consumeriste e dei governi “comunisti” un’occasione per aggiudicarsi un premio prestigioso, un passaggio in televisione o, peggio ancora, una passerella trionfante in gallerie dove ciò che più conta è la firma sull’assegno dei padroni dell’apparenza. Un po’ poco. Essere ricchi non significa, necessariamente, essere fotografi: non è il denaro che fa la fotografia, ma l’Uomo che cerca di raccontare il mondo con un utensile come un altro... se poi è anche ricco, che importa! La fotografia non mente! Il fotografo sì! Dietro una grande Fotografia non ci può che essere un grande Uomo! Anche se non lo sa! Un grande Uomo è colui il quale, in ogni forma espressiva, mette la bellezza, la giustizia e il bene comune, e non ha abbastanza tempo per fare dell’arte un mercimonio e basta. Un fotografo di talento non teme di passare dal salotto alla strada (e viceversa) e disvelare i nuovi barbari travestiti da ideologi e missionari finanziari, che incarnano l’autorità dei puri e dei fanatici e -sotto una falsa tolleranza- difendono solo i propri privilegi, conniventi sempre con affari criminali e guerre insensate; il loro dileggio non sarà mai abbastanza, fino a quando ciascuno e tutti, di fronte

48

all’insorgenza della platea, saranno costretti a mettere fine alla commedia: abolite l’istrionismo dei potentati, stanate le loro paure di perdere il dominio sugli Uomini e vedrete che sono solo una piccola manica di delinquenti.

SULLA FOTOGRAFIA COME MALATTIA DELL’ENTUSIASMO Non ci stancheremo mai di dichiararlo, a costo dell’emarginazione e del silenzio: la fotografia mercatale è un modo di pensare, prima, di fare, poi. La vanità della fotografia, nel proprio insieme, investe molto di più di quel che vale, perché è spontanea e, per que-

margine (ma non marginale) che contiene un poeta sconosciuto o un genio in ebollizione; e, senza piangere né ridere, riesce a definire attraverso le immagini il carattere dell’Uomo e cosa fa (e subisce) sulla faccia della Terra. Nessun Mito della fotografia è un grand’Uomo, per il suo cameriere! Essere celebri non basta! Ciò che conta è sconfiggere il vaniloquio dei potenti che tengono a catena cortigiani e clienti, e disprezzare quanto basta e andare ancora più a fondo, fino all’estrema unzione della fotografia -tutti i feticci del mercato delle idee- e fare della propria Vita un’opera d’arte.

«Il potere è divenuto un potere consumistico, infinitamente più efficace nell’imporre la propria volontà che qualsiasi altro potere al mondo. La persuasione a seguire una concezione edonistica della vita ridicolizza ogni precedente sforzo autoritario di persuasione» Pier Paolo Pasolini sto, assurda, quando non scema! La fotografia come malattia dell’entusiasmo riguarda fotografi, critici, storici, galleristi, docenti e sociologi della demenza accettata: dissertano su tutto, in convegni e master-show di alto o basso profilo... su cos’è la fotografia oggi, cos’è stata e cosa sarà. Macchine fotografiche eccezionali, pixel fantastici, post-produzioni memorabili... la fotografia diventa (e così è sempre stato) un’occasione mondana per parlare solo di se stessi e niente del linguaggio fotografico. Sovente, la verità sta in quella fotografia del

Insistiamo! Nei fasti della fotografia mercatale e insegnata ci sono devozioni sospette: quando si è sensibili alla gloria, lo si è anche per l’infamia... come il capitalismo parassitario, la storia delle chiese e quella delle guerre insegnano! In mezzo agli assassini, la corruzione chiede l’aiuto della barbarie! I fotografi che hanno inseguito il risarcimento adeguato per la propria prostrazione restano affamati di verità e s’affogano nei dettagli! I pochi che restano sono passatori di confine, e non si fanno regnanti a prova di rimorso... respingono il ritegno e la dissimulazione

e -costi quel che costi- si spingono fino all’estremo della vivenza: fanno fotografia non solo per suscitare passioni, ma per provarle. Non abbiamo mai creduto ai “grandi” fotografi, ma a quelli straordinari: randagi d’ogni frontiera, che non hanno mai temuto di screditare l’ordine costituito e fare della fotografia un invito al viaggio della bellezza, della libertà e della giustizia. In fondo, anche Luigi XVI «sul patibolo faceva la sua figura; ma non bisogna dargliene merito; sin dall’infanzia, i re sono educati a dare spettacolo»... diceva. Proprio come i fotografi, anche le puttane di corte sono più regali della marea montante di fotografi della stupidità conclamata: magnificenza e grettezza tengono strette le chiavi del successo! Qui tutti servono, e nessuno osserva! Non era Talleyrand (Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord, principe di Benevento, vescovo cattolico, politico) che in tempi non sospetti scriveva «Gli spiriti di prim’ordine, che fanno le rivoluzioni, scompaiono; quelli di second’ordine, che delle rivoluzioni profittano, rimangono»? Tuttavia, questo principe del camaleontismo ha tradito tutti i governi e non ne ha innalzato, né rovesciato, neanche uno! (ci racconta finemente Emil M. Cioran). Quell’aria da borghesuccia della fotografia imperante figura quell’idea di finitezza che non porta al compimento di alcunché... se non l’edificazione di un gusto forsennato per il consenso e di uno splendore da servi che non ascolta, né dice, la mia parola è no!: che sono le palinodie (ritrattazione di parole o idee precedentemente espresse) dei vigliacchi e dei cattivi. Fuori dal rancore ordinario dei mediocri, la fotografia può essere il linguaggio del disinganno, e -attraverso la de-spettacolarizzazione della sofferenza e dell’ingiustizia- sollevare i sentimenti nobili della disobbedienza civile.


Sguardi su La fotografia non si insegna, come la fierezza, si trova nella strada. Forse... sicuramente!

DAI FUNERALI DI TOGLIATTI AD AMERICAN VOYAGE... La fotografia è più della vita, perché destina la vita al disincanto e alla schiavitù. Non c’è fotografia senza attenzione e interrogazione della vita quotidiana: e questo è ciò che più fuoriesce dal portolano fotografico di Mario Carnicelli. A scorrere le sue note biografiche, si legge che nasce ad Atri (Abruzzo), nel 1937; vive e lavora a Pistoia. È stato fotogiornalista e inviato speciale per Popular Photography, Espresso, Panorama, Corriere della Sera, Il Giorno; ha collaborato con l’Istituto di Etnologia dell’Università di Perugia, e ai lavori di fotografia documentaria affianca ricerche personali. Nel 1964, fotografa i funerali di Palmiro Togliatti, segretario dell’allora Partito Comunista Italiano; nel 1966, riceve il Primo Premio Nazionale per fotografi professionisti Ferrania (borsa di studio negli Stati Uniti, con tutor in accompagnamento: l’autorevole Giuseppe Turroni). Dal 2010, Bärbel Reinhard cura il suo archivio, e collabora con Marco Signorini per esposizioni e progetti editoriali. Dal 2015, ha una sala dedicata alla sua fotografia nel Palazzo Fabroni, Museo di Arte Contemporanea / Museo del Novecento e del Contemporaneo, a Pistoia. Nel 2014, pubblica C’era Togliatti (Danilo Montanari Editore); e, nel corso del corrente Duemiladiciotto, American Voyage (RAP / Reel Art Press e David Hill Gallery, di Londra). Mario Carnicelli è conosciuto anche come rilevante imprenditore della fotografia. Il suo negozio in piazza del Duomo, a Firenze, è stato punto di riferimento per generazioni di fotografi [FOTOgraphia, ottobre 2014: Domande in attesa di risposta]. Lascia la fotografia sul campo negli anni Settanta, ma continua a lavorare su aspetti più intimi e privati; ancora oggi, s’avverte nella curiosità del suo sguardo ciò che è essenziale nel fotografo, cioè che la fotografia non ha nulla

a che fare con la disumanità! La fotografia è contaminazione della disumanità che rovescia in storia dell’Uomo liberato. La fotografia sulla vita comunitaria, di Mario Carnicelli, non è sfornita di asciutte bellezze estetiche, né pedanteria, né enfasi, né altro che uno stile leggero, anche lento, trabocca dal suo fare-fotografia: una poetica d’innocenza e tenerezza, che è un modo di “ascoltare” la Vita... e s’accorda col diritto all’uguaglianza (o alla differenza), senza scusanti. Lo spirito popolare (non populista) si riflette nelle sue immagini prese nella strada, capaci di provare affetto quanto di suscitarlo in coloro che s’avvicinano alla fotografia e ne schiudono il mistero! Il mondo è un teatro improvvisato, e le tragedie di maggiore successo rappresentano solo il peggio del vero! Ci sono fotografi, però, che si fanno interpreti di realtà minute, e per questo infinite (Mario Carnicelli è uno di questi), che ricercano la ragione nei princìpi di tutte le cose e l’anima del mondo nella strada.

DAI FUNERALI DI TOGLIATTI AD AMERICAN VOYAGE ... DI UN FOTOGRAFO DA MARCIAPIEDI

La fotografia e il dissidio sono un’unica identica cosa: Friedrich Nietzsche, Franz Kafka, Fëdor Dostoevskij e Albert Camus c’entrano sempre... Pier Paolo Pasolini, anche... e l’asino Platero... quando si parla di architettura della fotografia. Siccome c’è qualcosa di marcio nell’idea dell’industria culturale, specie fotografica, c’è sempre un conflitto tra quello che siamo e quello che sentiamo. La fotografia corrente non si presenta come un’affabulazione stregata dal giusto, dal buono e dal bello, ma come risultato e residuo di certezze volte al consenso: tutta roba che ha a che vedere con la chiacchiera (e la servitù volontaria), mai con l’arte... ecco perché ci piace intrattenerci con disadattati, analfabeti, folli e bambini con i piedi scalzi nel sole e la pioggia sulla faccia. Perché il contatto è immediato, e la fotografia è solo un mezzo per frugare nelle ferite della Storia.

A che servono i corsi di fotografia? A niente! Lo sanno tutti, perfino nelle scuole di polizia lo dicono! Se non a perfezionare l’idiozia generalizzata! Una fotografia che lascia l’“ascoltatore” uguale a com’era prima è una fotografia mancata. La fotografia si “ascolta”, non si legge: s’entra nella sua passionalità e commozione attraverso l’“ascolto”, il timbro della sua visione, la melodia delle sue forme, e la biografia che ne consegue. Non si capisce nulla di fotografia se non si rinnega il sistema di speranze sulle quali si fonda... e, da perfetti imbecilli, non si rovescia e decontestualizza il linguaggio dei suoi codici e valori. È per tutto questo che, sin dalla nascita della “fotografia civile”, alcuni randagi (Lewis W. Hine, Jacob A. Riis, Eugène Atget, E. J. Bellocq, Lewis Carroll...) hanno portato l’attenzione sulle diseguaglianze sociali e sull’urgenza di porvi rimedio, sottraendola a discussioni di minorati mentali. L’utopia è stata quella di restituire dignità, rispetto e bellezza alle Genti, senza nulla chiedere in cambio che un’oncia di giustizia: sapevano che il potere è una cosa terribile, ed è terribile come un fotografo riesca a diventare famoso. Quando la fotografia è una cosa da bottegai non figura altro che la sua maledizione. La cartografia fotografica di Mario Carnicelli che abbiamo preso in esame è quella dei Funerali di Togliatti e di American Voyage. Ora, a parte ciò che pensiamo di Palmiro Togliatti, oscuro burattinaio del Partito Comunista Italiano e burattino nelle mani insanguinate di Stalin, un “padre della patria” o funesto demiurgo della sinistra burocratica e autoritaria, quanto i processi agli eretici di santa romana chiesa, l’uomo che ha approvato l’invasione dei carri armati sovietici nell’insurrezione popolare di Budapest nel 1956; ha fatto il doppio gioco nella Rivoluzione sociale di Spagna (gli assassinii di trotskisti, anarchici e dissidenti portano la firma dei suoi bravacci) e non è stato esente da colpe nemmeno sulla morte di Antonio Gramsci; ha ricevuto funerali da re, papa e

capo di Stato che si meritava: quello degli impostori che, come i santi, gli eroi e i martiri, eleggono le proprie dissennatezze a supremazia della storia... sarebbero riusciti sicuramente meglio nell’arte deliziosa del giardinaggio [nota]. Il 25 agosto 1964, tra la messe di fotografi, cronisti, operatori cinematografici che documentavano i funerali di Togliatti, c’era un ragazzo ventisettenne (Mario Carnicelli), che si aggira con la macchina fotografica tra echi e rimpianti infiniti per qualcosa che è stato e non è più. Non c’è cerimoniale, né oleografia, né altro che compassione nelle sue fotografie: un grande amore per la gente semplice. In una intervista al sito Fotografiasutela, Mario Carnicelli rileva: «Un’Italia che ha uno sguardo che non esiste più. Bastava quello, più dei simboli, più della falce e martello, per sfilare davanti al feretro e rendere omaggio. E la folla viveva il proprio dolore, così autentico, rimanendo immobile, dignitosissima, in silenzio. La politica era anche questo, esserci, restare in piedi, resistere e testimoniare con la propria storia una storia più grande. E Togliatti, che aveva redatto negli ultimi giorni della sua vita il memoriale di Yalta, dando inizio alla via italiana al socialismo, aveva trasmesso questo senso di appartenenza almeno a tre generazioni. La compostezza divenNota. Contrariamente al nostro rispetto per il pensiero altrui, qualunque questo sia (circa), e a dispetto delle nostre consuetudini, per un inciso espresso a proposito della morte di Palmiro Togliatti, e indipendentemente dal riferimento al personaggio, ma in riguardo alla persona, interveniamo redazionalmente, editiamo non solo lievemente, tagliamo, forse -addirittura- censuriamo... coscientemente. Per quanto, ormai, viviamo in un tempo e in un mondo nei quali si concedono eccessivi insulti e insolenze/villanie pubbliche verso gli altri, caro Pino / Pinocchio non voglio che anche tu e noi ci esprimiamo come coloro che biasimiamo e disapproviamo. Non ci abbassiamo al loro lessico! Con immutata stima, il tuo mFranti.

49


Sguardi su ne oceanica, un milione di persone in piazza San Giovanni. A un certo punto, si alzarono i pugni chiusi e fu un gesto liberatorio che ruppe la tensione di quella lunghissima attesa. E fu anche una delle mie ultime fotografie». Tutto vero. Il fotografo si mescola alla folla commossa, avverte l’intimità di Uomini e Donne con il loro capo, che non vivono più il suo destino. La percezione fraterna di un fotografo da marciapiedi, come Mario Carnicelli, s’addossa a volti, corpi, atteggiamenti della gente ammutolita per la perdita dell’idolo infranto... li fissa sulla pellicola con discrezione, accoglienza, condivisione... i cappelli nelle mani degli anziani, le cartelle della scuola dei ragazzi, la dolcezza intristita di una ragazzina in mezzo ai genitori e i ritratti presi nella camera funebre non sono reportage “puro”: oltre a raccontare una storia, affermano anche altro... la trasfigurazione di un’intera vita che passa attraverso le lacrime. L’immaginario fotografico di Mario Carnicelli va al fondo del momento e, credo, oltre il rituale del “padre spirituale” dei comunisti italiani scomparso. Il fotografo bandisce le effigi di realtà e, attraverso un linguaggio lirico, più del bisogno di dire, esprime il desiderio di far capire... figura la linea d’ombra tra immagine e silenzio e non si lascia divorare dall’estetismo occasionale dell’evento. Sa bene che la fotografia, quando è grande, conserva il profumo di sangue, carne e amore di un’epoca. Va detto. Renato Guttuso, pittore comunista, nel 1972, realizza l’insigne quadro (dicono): per l’appunto, Funerali di Togliatti (acrilico su tavola, 340x440cm). Invero, un’opera apologetica, perfino un po’ sciatta. All’interno della cornice ci sono tutti: operai mesti, pugni alzati, bandiere rosse al vento, cieli puliti; tra tanti “anonimi”, fuoriescono Lenin, Luigi Longo, Leonìd Il’ìč Brèžnev, Enrico Berlinguer, Nilde Iotti, Gian Carlo Pajetta, Stalin, Luchino Visconti, lo stesso Renato Guttuso, con gli occhi abbassati... e Mario Carnicelli, che impugna la macchina fotografica.

50

Ora, al di là del valore di “capolavoro realista”, che i critici di sinistra hanno attribuito all’opera, ci piace sottolineare che questa pittura si colloca tra l’ingenuo e l’eroico. I protagonisti sono figure compassate attorno a una bara coperta di fiori: se non si vuol soccombere all’imbecillità, la sola scelta possibile è il simulacro... ma solo la lucidità intellettuale, liberata da ogni canone predicatorio, porta al superamento del reale per la ricerca del vero... come dicevano Blaise Pascal, Giacomo Leopardi e Charles Baudelaire (anche Michail Aleksandrovič Bakunin). Colui che ha “visto” è considerato un traditore o un folle, perché si è avvicinato troppo al fuoco della conoscenza, e -per questo- viene punito col discredito, l’emarginazione e l’eliminazione... tipica nomenclatura dei “comunisti” al potere (ieri come oggi). Ogni fede porta in sé il patibolo dell’incoscienza, e la storia degli Uomini è scritta col sangue degli eretici e l’assoluzione dei potenti. La grandezza della fotografia è di essere un ponte, e non uno scopo. Con la borsa di studio vinta nel 1966, Mario Carnicelli sbarca negli Stati Uniti (col fratello Vincenzo); inizia una flânerie fotografica in diverse città americane, e ne esce American Voyage, (oggi) una mostra e una monografia che riportano in luce lo sguardo antropologico del fotografo in quegli anni che già contenevano la rivoluzione della gioia che scoppierà nel Sessantotto (e da questo sconvolgimento culturale e politico, nessuno potrà tornare mai più indietro). Le giovani generazioni dettero l’assalto alle cittadelle del potere, sconfissero i pregiudizi, liquidarono i modelli e, meglio ancora, portarono l’amore nelle strade, cercarono con ogni mezzo utile di rovesciare un mondo rovesciato... alcuni presero anche le armi, alla maniera partigiana, forse [?] sbagliando. Ma ciò che volevano conquistare era una società più giusta e più umana: quella generazione maledetta è stata sconfitta, però avevano ragione. Nelle fotografie di American Voyage si respirano i dipinti Edward

Hopper, la musica di George Gershwin e film come Fronte del porto, di Elia Kazan (con Marlon Brando), annota Mario Carnicelli da qualche parte. Però, ciò che più sborda dal suo reportage sono i contrasti tra ricchezza e povertà, libertà e solitudine, smarrimento e normalità ignuda delle città attraversate (New York, San Francisco, Dallas, Buffalo, Detroit, Chicago). Il fotografo lavora con il medio formato sei-per-sei, ma si muove con leggerezza e curiosità nelle situazioni che incontra (che non costruisce). Fotografa manifestazioni, insegne, barbieri, ristoranti, officine, fermate d’autobus... neri, ispani, bianchi... tutti col medesimo garbo: qualcosa che mescola il documento alla fotografia di strada. Mario Carnicelli, e si vede bene, non cerca l’immagine... l’aspetta su un marciapiedi, davanti a un hotel o in mezzo a una contestazione per il Vietnam. La scoperta del vero lo allontana dall’abituale menzogna turistica, e la realtà viene elevata al grado di verità, senza orpelli artistici, né insegnamenti linguistici. Il fotografo s’accosta alla realtà urbana con gli stessi parametri discorsivi di Robert Frank, Joel Meyerowitz e Vivian Maier; sa bene che tutto ciò che è categoria, sistema, schema e formalismo è mancanza di contenuti, sterilità espressiva, e l’umanesimo che mette nelle proprie immagini è coscienza e conoscenza della vita autentica. Dopo il bianconero dei Funerali di Togliatti, negli Stati Uniti, il suo uso del colore è alto, tenue, quasi a schivare i veli mistificatori dell’eccesso giornalistico e concettuale. Il tono dell’immagine è anche lo stile del fotografo, ed è un vero e proprio livello di comunicazione che sorge nel riconoscimento dell’altro... un piccolo poema per immagini, che accompagna lo svelamento del falso reale: il particolare diventa Mondo e il Mondo cade in una fotografia! I rossi, i marroni, i gialli si dispiegano nelle fotografie di Mario Carnicelli fuori dalla filosofia delle accademie, tantomeno del fotoamatorialismo del vaniloquio: lui inquadra la gente

comune come protagonista della propria esistenza nel bene e nel male -non importa-; restituisce loro rispetto e riscatto dalla sofferenza, quanto dall’illusione. Forse, sembra dire, nessun Uomo è buono o cattivo... il male dell’Uomo è nell’ingiusto che governa l’universo. L’amorevolezza fotografica di Mario Carnicelli si coglie nella ritrattistica degli ambienti, delle cose come nelle persone: a Chicago, una famiglia afroamericana è ferma a un semaforo... due donne e quattro bambini sono osservati di spalle, ma ciò che più conta è che il fotografo racconta la loro riservatezza in uno scatto. Davanti a un ristorante con le insegne rosse, passano persone ben vestite e non si accorgono di un uomo seduto, forse affamato, che guarda la loro indifferenza. A Detroit, la straordinaria immagine Retired trade union workers, questa in bianconero, rivela una profonda sedimentazione del cinema: qui, il fotografo restituisce una coralità visiva di grande potenza emotiva, e ricorda non poco certe inquadrature sublimi di Billy Wilder (L’appartamento) e King Vidor (La folla). La fermezza intuitiva di Mario Carnicelli figura un’altra verità, quella inviolabile e sacra che privilegia l’umanità dell’Uomo che spesso sfugge alla Storia o la tradisce nel ridicolo degli idoli. «Le cose buone, non ti pare che siano anche cose belle?», si chiedeva Platone. Ecco la chiave di lettura di American Voyage: il bello come manifestazione del Bene e del Vero... una fenomenologia della riflessione fotografica come intuizione sensibile e percettiva del piacere che vi si accompagna. Al fondo della fotografia di Mario Carnicelli c’è una sorta d’armonia che riunisce ciò che è separato, credo: il concetto di giustizia che si contrappone (senza gridarlo mai) all’ingiustizia; inoltre, e ancora, l’educazione alla verità di una visione del mondo liberata da ogni inadeguatezza e, più ancora, la vissutezza creativa della bellezza come avventura e ricerca interiore della felicità. ❖




Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.