FOTOgraphia 245 ottobre 2018

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ANNO XXV - NUMERO 245 - OTTOBRE 2018

John McCain AVERCENE!

Mauro Vallinotto DALLA PARTE DEGLI ALTRI

LIVIO SENIGALLIESI L’UOMO... E POI


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prima di cominciare CINQUECENTENARIO. Cominciamo a prepararci: il prossimo due maggio (2019), ricorrerà una data sostanziosa per la storia dell’arte, per la cultura dell’Uomo, per la sua evoluzione, per tanto altro che ognuno può trovare in se stesso e nel proprio rapporto con la Vita. Il prossimo due maggio sarà celebrato il cinquecentesimo anniversario (1519-2019) dalla scomparsa di Leonardo da Vinci, mancato nel Maniero di Clos-Lucé, ad Amboise, in Francia, a sessantasette anni (era nato a Anchirano, frazione di Vinci, il 15 aprile 1452)... e non mancheranno, di certo, commemorazioni e acclamazioni pubbliche, anche in forma libraria. Ne siamo più che certi. In acconto di date, anticipiamo una nostra precisazione dovuta, magari a correzione di quanto potremo leggere nelle rievocazioni spettacolari. Per quanto, in una confusione di idee e buona volontà, Leonardo da Vinci sia spesso indicato e avvalorato da molti come l’inventore della camera obscura, non è assolutamente vero. Infatti, le descrizioni dello strumento vanno inequivocabilmente indietro di secoli: almeno, al 1027 di Alhazen (Abū ’Alī al-Hasan ibn al-Hasan ibn al-Haytham; 965-1039 o 1040; uno dei più importanti e geniali scienziati del principio del Secondo millennio, considerato l’iniziatore dell’ottica moderna). Per non parlare, poi, della conoscenza dell’azione della luce e formazione delle immagini: nel IV secolo aC, Aristotele osserva che i raggi del sole che passano per una piccola apertura producono un’immagine circolare; un secolo prima (V secolo aC), anche il cinese Mo-Ti aveva annotato lo stesso fenomeno. Del resto, Leonardo dedica alla camera obscura qualche centinaia di schemi, soprattutto riferiti alla dimostrazione di un certo numero di fenomeni ottici di base, quali l’inversione e la non interferenza delle immagini, oppure la loro proprietà di essere «tutte in tutto e tutto in ogni parte». Poiché la camera obscura simula le funzioni di base del processo visivo, per Leonardo, il suo confronto con l’occhio fisiologico assume un significato fondamentale, consistente in una serie di affermazioni basate su studi empirici. La camera obscura gli serve per dimostrare una lunga e differenziata serie di caratteristiche della visione. La prima è che la pupilla, come il foro stenopeico, capovolge e inverte da destra a sinistra le immagini del campo visivo (ed è poi il cervello che le raddrizza). Le prime considerazioni al proposito risalgono al 1483-1485, e il princìpio dell’inversione viene successivamente descritto in altri fogli, fino al 1487 circa. In numerosi schemi, compaiono sia l’occhio sia la camera obscura, per evidenziarne le affinità di funzionamento [per approfondimenti individuali: L’ottica di Leonardo tra Alhazen e Keplero; di Linda Luperini; Skira, 2008].

Avercene! mFranti; su questo numero, a pagina 8 Non c’è realtà possibile senza considerazione dell’altro: il battesimo del clamore consacra; la villania della realtà tutta intera è il risultato della magnificenza che lo stile, il giusto e la discrepanza esigono... per conferire la dignità che ne consegue solo agli artisti senza guinzagli. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 50 Dopo l’allenamento, mentre ci si fermava a bere una aranciata nel bar del piccolo stadio dell’hockey, ascoltavamo incantati Santino che raccontava storie demenziali, ma soprattutto lo ascoltavamo cantare all’infinito «La farfalla su quel sasso, su quel sasso la farfalla». Era pazzo? Lello Piazza; su questo numero, a pagina 21 Pensiamo che si possa raggiungere il bene -qualsiasi cosa questo significhi per ciascuno di noisoltanto attraverso il libero scambio di idee. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 34 Senza diritti non vi è vera libertà. Giorgio Gallino; su questo numero, a pagina 22 Da e con Giorgio Gaber e Sandro Luporini: «Io non mi sento italiano / ma per fortuna o purtroppo lo sono». Angelo Galantini; su questo numero, a pagina 12 Le cose, come i luoghi, hanno un proprio significato. Antonio Bordoni; su questo numero, a pagina 46

Copertina Fotografia di Livio Senigalliesi, dalla sua raccolta Memories of a war reporter, nella quale riflette sul suo fotogiornalismo svolto sui fronti caldi del mondo: a Abu Dis, villaggio palestinese in territorio governato da Israele, un palestinese mostra i ruderi della casa distrutta dall’esercito israeliano per costruire il Muro (2009). In portfolio commentato, da pagina 26

3 Fotografia nei francobolli Dalla compendiosa analisi Fotografia nei francobolli, di Maurizio Rebuzzini, in corso d’opera e prossima pubblicazione, dettaglio con colorazione proditoria da una emissione filatelica del 17 ottobre 1989, realizzata dalle poste turche, per il centocinquantenario della fotografia (1839-1989). In celebrazione

7 Editoriale Tema tecnologico della fotografia del presente, in proiezione futuribile (?): innesto degli obiettivi


OTTOBRE 2018

RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA

8 Avercene! In ricordo del senatore statunitense John McCain, mancato a fine agosto, suoi pensieri etici e apprezzati

Anno XXV - numero 245 - 6,50 euro DIRETTORE

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

IMPAGINAZIONE

10 Prima i Meriti... poi È curioso che, al giorno d’oggi, e nel nostro paese, anche le scoperte scientifiche vengano spettacolarizzate di Angelo Galantini

Maria Marasciuolo

REDAZIONE

Filippo Rebuzzini

CORRISPONDENTE Giulio Forti

FOTOGRAFIE Rouge

14 Coerenze scenografiche Trasversalità della presenza della fotografia al cinema, con rilevazione di citazioni opportune... anche no Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

18 Dalla parte degli altri Tra diverse manifestazioni di fotografia umanitaria, svolta con cuore e amore (in pensiero meridiano ), incontriamo il passo con il quale il fotogiornalista Mauro Vallinotto ha affrontato e svolto le condizioni esistenziali dei considerati malati di mente di Lello Piazza (con nota di Giorgio Gallino)

26 L’Uomo... e poi Attento e concentrato fotogiornalista, Livio Senigalliesi affronta e svolge il proprio impegno sui fronti caldi del mondo. Da cui, la sua retrovisione personale Memories of a war reporter. Emozionante e coinvolgente di Pio Tarantini

33 Cento anni fa Il consistente apparato fotografico che illustra la monografia Italy around 1900. A Portrait in Color si offre e propone come affascinante documento visivo di Maurizio Rebuzzini

42 A conti fatti Forse, analizziamo i risultati di due sessioni d’asta. Consapevoli di come e quanto la vita vera si svolga altrove, valutiamo il significato delle cose di Antonio Bordoni

48 Ernst Haas

SEGRETERIA

Maddalena Fasoli

HANNO

COLLABORATO

Pino Bertelli Antonio Bordoni mFranti Angelo Galantini Giorgio Gallino Lello Piazza Franco Sergio Rebosio Livio Senigalliesi Pio Tarantini Mauro Vallinotto Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.com; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 1027671617 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard e PayPal (graphia@tin.it). ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano

Rivista associata a TIPA

Sguardi sul linguaggio fotografico dell’immaginale di Pino Bertelli Nella stesura della rivista, a volte, utilizziamo testi e immagini che non sono di nostra proprietà [e per le nostre proprietà valga sempre la precisazione certificata nel colophon burocratico, qui accanto: «È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo)»]. In assoluto, non usiamo mai propietà altrui per altre finalità che la critica e discussione di argomenti e considerazioni. Quindi, nel rispetto del diritto d'autore, testi e immagini altrui vengono riprodotti e presentati ai sensi degli articoli 65 / comma 2, 70 / comma 1bis e 101 / comma 1, della Legge 633/1941 / Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio.

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editoriale M

ettiamoci d’accordo sull’uso della parola e suo significato, che nei nostri controversi giorni è sempre più alterato da applicazioni quantomeno illecite, come minimo strumentali: con lezioni che -in questo senso- partono dall’altro, per proiettarsi, a cascata, sulla vita quotidiana. Per diritto di anagrafe, personalmente, arriviamo da altri tempi, durante i quali siamo stati educati con una istruzione formale quantomeno pedagogica. In stagioni antecedenti l’attuale, guidata e condizionata da frenesia e rapidità, invece di inviare email ed esprimerci in passo social, scrivevamo lettere (e ancora ne scriviamo, inviolabilmente con penna stilografica, ineluttabilmente con inchiostro verde): lo facevamo quando e per quanto avessimo avuto qualcosa da dire, e declinavamo anche la forma corretta per esprimerci. Oggi, tutto è impazienza, e la comunicazione ne ha subìto conseguenze. Attenzione: va bene così; è giusto che sia così. Infatti, come spesso annotiamo, con tanti altri riferimenti, alcuni perfino profondamente fotografici, il tempo va avanti, con o senza di noi. Dunque, rimaniamo fedeli a quel princìpio (antico?) secondo il quale accettiamo ogni volontà altrui, per quanto diversa e divergente dalla nostra, accogliendola nello spirito della reciprocità: l’altrui velocità insieme alla nostra lentezza e riflessione. Una volta precisato questo, l’accordo sulla parola e suo significato, evocato in incipit, diventa chiaro ed esplicito: a ciascuno, il proprio... tempo e ritmo, in armonia di intenti. Così, a integrazione delle notizie in tempo reale che hanno affollato la Rete nei momenti della recente Photokina di Colonia (dal ventisei al ventinove settembre scorsi), volente o nolente richiamo e riferimento obbligato della tecnologia fotografica (per quanto...), il nostro passo rimane lo stesso: modulato e ponderato. Del resto, due condizioni sociali sono imperanti: da una parte, la segnalazione giornalistica è assolta altrimenti, per l’appunto dall’immediatezza della Rete; dall’altra, oggigiorno, le partecipazioni emotive alle novità sono quantomeno stemperate. Insomma, sono esauriti i tempi nei quali ogni rivista cartacea di settore correva per informare al più presto e in anticipo su ogni altra testata (e l’anticipo non coabita con i tempi di messa in pagina e stampa). Non avendo più bisogno di tutto questo, e lasciando ad altre velocità il casellario di novità, pixel, lunghezze focali, dimensioni di sensore e affini, rimandiamo al prossimo novembre le nostre considerazioni, che -ovviamente- esuleranno dallo specifico dei singoli prodotti, ormai tanto noti da non essere già più notizia, né novità, entrambe sostituite da altre notizie e ulteriori novità, per andare sottotraccia in termini filosofici... diciamola anche così. Tuttavia, una rilevazione va subito anticipata: trasversalità dell’innesto degli obiettivi intercambiabili (in originale anglosassone, linguaggio tecnico universalizzato, “mount”), a monte e dispetto di tanti altri equilibri tecnologici in proiezione pratica e di contenuto, che dallo specifico fotografico è spesso approdata alla socialità della fotografia... come e quanto influisce / ha influito sulla Vita. Ne riparleremo tra un mese. Circa. Maurizio Rebuzzini

Tema tecnologico trasversale all’attuale stagione degli utensili fotografici (apparecchi e obiettivi), l’innesto al corpo macchina sta per caratterizzare i prossimi momenti. Si parla e si sta per parlare di diametri, compatibilità, proiezioni futuribili e collegamenti al passato. Stiamo per vederne delle belle.

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Parole e propositi di Maurizio Rebuzzini (mFranti) e John McCain

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AVERCENE!

Già... avercene di personalità politiche di tale e tanta statura. Per quanto (magari) schierato su posizioni diverse dalle nostre, ma perseguite con integrità, chiarezza e coerenza, il senatore repubblicano statunitense John McCain è stato un politico di straordinaria levatura, sicuramente onesto, sia formalmente sia intellettualmente, che ha elevato alla massima potenza il concetto di statista (ammesso e non concesso che l’equilibrio degli Stati moderni possa ambire a qualsivoglia merito sociale). Perché ce ne occupiamo qui, dove e per quanto dovremmo limitarci alla Fotografia? Risposta facile, almeno per noi, per il nostro modo di intendere la nostra presenza nella Fotografia: per quel concorso di sollecitazioni e influenze che contribuiscono a creare Coscienza, Conoscenza, Consapevolezza e Comprensione da spendere ovunque si intenda farlo. Magari anche in Fotografia e con la Fotografia [e, sulla stessa lunghezza d’onda, richiamiamo la commemorazione, per certi versi parallela, del cosmologo, fisico, matematico, astrofisico, accademico e divulgatore scientifico Stephen Hawking, dello scorso aprile]. Ovvero, in ulteriore replica e conferma: la parola, anche quella scritta, ci ha insegnato ad ascoltare le voci. La vita ci ha chiarito la parola: osservare, piuttosto che giudicare (magari, fino al linguaggio fotografico, straordinaria combinazione di regole logiche e usi arbitrari). Ricordiamo la personalità del senatore John McCain all’indomani della sua scomparsa, lo scorso venticinque agosto, quattro giorni prima del suo ottantaduesimo compleanno (era nato il 29 agosto 1936). Lo commemoriamo e celebriamo per sue parole, coerenti alle sue azioni. Attenzione, però: non erigiamo alcun monumento a fatti contingenti, anche recenti, che ci possono aver fatto piacere (per esempio, il suo voto determinante a favore dell’Obama Care, altrove Obamacare, legge di spessore sociale, che l’attuale presidente -altrettanto repubblicano- Donald Trump avrebbe voluto far abrogare). Cioè, lo commemoriamo e celebriamo anche alla luce delle personalità politiche italiane con le quali dovremmo avere a che fare. A seguire, quindi, riportiamo il discorso tenuto da John McCain

G

Grazie, grazie amici miei. Grazie per essere venuti, in questa bellissima serata dell’Arizona. Amici miei, siamo arrivati alla fine di un lungo viaggio. Il popolo americano ha parlato, e ha parlato chiaramente. Poco fa, ho avuto l’onore di telefonare al senatore Barack Obama per congratularmi con lui. Per congratularmi con lui di essere stato eletto come presidente della nazione che entrambi amiamo. In una competizione così lunga e così difficile come è stata questa campagna, il suo successo -da solo- esige il mio rispetto per la sua abilità e perseveranza. Ma il fatto che ci sia riuscito dando ispirazione alla speranza di così tanti milioni di americani, che credevano erroneamente di essere così poco in

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gioco o di avere una influenza minima sull’elezione di un presidente americano, è qualcosa che io ammiro profondamente e la cui riuscita merita il mio encomio. Questa è una elezione storica, e io riconosco lo speciale significato che ha per i neri e lo speciale orgoglio che deve essere il loro questa notte. Ho sempre pensato che l’America offra un’opportunità a chiunque abbia solerzia per afferrarla. Il senatore Obama crede lo stesso. Ma entrambi riconosciamo, a dispetto del lungo tratto percorso dalle vecchie ingiustizie che un tempo macchiavano la reputazione della nostra nazione e che negavano ad alcuni americani la completa benedizione della cittadinanza, che la memoria di ciò ha ancora il potere di ferire.

la sera del 4 novembre 2008, quando gli scrutini elettorali sancirono la vittoria del democratico Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti (primo di suoi due mandati): 69.498.516 voti contro 59.948.323 (52,9 percento contro 45,7 percento), con corrispondenza di trecentosessantacinque grandi elettori contro centosettantatré (365 / 173, con relative percentuali di 67,8 e 32,2 percento). Prima di farlo, riassumiamo due paragoni italiani, almeno due: in una tornata elettorale di una decina di anni fa, durante la quale il candidato di centro-destra sopravanzò quello di centro-sinistra, il vincitore rispose a una domanda giornalistica affermando che non aveva alcuna intenzione di comunicare con l’avversario; in questi giorni di confusione istituzionale, l’attuale ministro degli Interni non esprime il proprio ruolo, ma continua a comportarsi da segretario di partito... addirittura, indossando una polo (!) con il simbolo di partito (e la dicitura “Prima gli italiani”) durante le conferenze stampa. A completa differenza, il repubblicano statunitense John McCain, e con lui altri statisti (ancora, ammesso e non concesso che l’equilibrio degli Stati moderni possa ambire a qualsivoglia merito sociale), ha interpretato le regole del gioco con lealtà verso il proprio mandato, sia quello ottenuto dagli elettori, sia quello respinto dagli stessi elettori. Testuale: «Il popolo americano ha parlato, e ha parlato chiaramente», e, poi, i doveri nei successivi quattro anni di presidenza democratica... che, poi, sono diventati otto. Che lezione! Discorso del senatore (per lo stato dell’Arizona) John McCain, candidato repubblicano sconfitto alle elezioni presidenziali 2008, ai propri sostenitori, convenuti nel suo quartier generale di Phoenix, immediatamente dopo la certezza della vittoria del senatore democratico (dell’Illinois) Barack Obama, che il 20 gennaio 2009 ha giurato come quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti d’America. Parole di un candidato sconfitto. Una lezione di civiltà, etica, morale e cultura politica (ed esistenziale). Un esempio per tutti noi... magari, anche in Fotografia. M. R. (mFranti) Un secolo fa, l’invito per una cena alla Casa Bianca del presidente Theodore Roosevelt a Booker T. fu considerato come oltraggioso da molti ambienti [nato in schiavitù, il 5 aprile 1856, Booker Taliaferro Washington fu pioniere del sistema educativo statunitense; il 16 ottobre 1901, fu invitato alla Casa Bianca; è mancato il 5 novembre 1911, a cinquantacinque anni]. L’America oggi è lontana un mondo dalla crudele e spaventosa bigotteria di quel tempo. Non c’è migliore evidenza di questo che l’elezione di un nero alla presidenza degli Stati Uniti. Che non ci siano più ragioni che impediscano a nessun americano di onorare la propria cittadinanza in questa, la più grande nazione sulla Terra.

Il senatore Obama ha ottenuto una cosa grandiosa per sé e per la sua nazione. Lo applaudo per questo e gli offro la mia più sincera compassione per il fatto che la sua amata nonna non sia vissuta a sufficienza per vedere questo giorno. Però la nostra fede ci assicura che riposa in presenza del nostro creatore, così orgogliosa del buon uomo che ha aiutato a crescere. Il senatore Obama e io abbiamo le nostre differenze e le abbiamo dibattute; e lui ha prevalso. Non c’è dubbio che queste differenze rimangano. Questi sono momenti difficili per il nostro paese. E io, questa notte, prometto a lui di fare tutti ciò che è in mio potere per aiutarlo a guidarci attraverso le molte sfide che andremo a incontrare.


Parole e propositi Raccomando a tutti gli americani che mi hanno sostenuto non solo di unirsi a me nel congratularsi con lui, ma di offrire al nostro prossimo presidente la nostra buona volontà e i più onesti sforzi per scoprire le strade che ci aiutino a trovare i necessari compromessi per stabilire dei contatti tra le nostre differenze, così da aiutarci a ripristinare la nostra prosperità, difendere la nostra sicurezza in un mondo pericoloso e lasciare ai nostri figli e ai nostri nipoti un paese migliore di quello che abbiamo ereditato. Qualunque siano le nostre differenze, siamo tutti (compagni) americani. E, per favore, credetemi quando dico che nessuna comunanza ha avuto un significato maggiore per me di essa. È normale. È normale, questa notte, essere delusi. Ma domani dobbiamo superare la delusione e lavorare insieme per fare sì che il nostro paese ricominci a progredire. Abbiamo lottato, abbiamo lottato con tutta la nostra forza. E anche se non ce l’abbiamo fatta, il fallimento è mio, non vostro. Sono così profondamente grato a tutti voi per il grande onore del vostro sostegno e per tutto ciò che avete fatto per me. Avrei sperato in un risultato diverso, amici. La strada era difficile sin dall’i-

nizio, ma il vostro sostegno e la vostra amicizia non mi sono mai venuti a mancare: non posso esprimere in modo adeguato il mio profondo debito per voi. Sono grato in particolare a mia moglie Cindy, ai miei figli, alla mia cara madre e a tutta la mia famiglia, e ai tanti vecchi e cari amici che mi hanno accompagnato attraverso i tanti alti e bassi di questa lunga campagna. Sono sempre stato un uomo fortunato, ma mai così tanto che per l’amore e l’incoraggiamento che mi avete dato. Sapete, le campagne elettorali sono spesso più dure per le famiglie dei candidati che per il candidato stesso, ed è stato vero in questa campagna. Tutto ciò che posso offrire come compensazione è il mio amore e la mia gratitudine, e la promessa che i prossimi anni saranno più tranquilli. Ovviamente, sono anche molto grato alla governatrice Sarah Palin, una delle migliori attiviste (elettorali) che abbia mai visto, e una impressionante nuova voce nel nostro partito al servizio delle riforme e dei princìpi che sono sempre stati la nostra forza; a suo marito Todd e ai loro stupendi cinque figli per la loro instancabile dedizione alla nostra causa, e per il coraggio e la generosità mostrate

nella durezza e nella confusione di una campagna presidenziale. Guardiamo con estremo interesse al suo futuro servizio per l’Alaska, per il Partito Repubblicano, e per il nostro paese. A tutti i compagni della campagna, da Rick Davis, Steve Schmidt e Mark Salter, fino all’ultimo volontario che ha lottato duramente e valentemente, mese dopo mese, in quella che in alcune circostanze è sembrata la campagna più combattuta dei tempi moderni, grazie davvero. Un’elezione persa non conterà mai più del privilegio della vostra fede e amicizia. Non so, non so, cosa avremmo potuto fare di più per provare a vincere questa elezione. Lascerò questa valutazione ad altri. Tutti i candidati fanno degli errori, e io sicuramente ho fatto la mia parte di essi. Ma non passerò un solo momento in futuro per rimpiangere ciò che sarebbe potuto essere. Questa campagna è stata e sarà il più grande onore della mia vita, e il mio cuore è pieno di gratitudine per questa esperienza, e per il popolo americano che mi ha concesso questa tribuna prima di decidere che il senatore Obama e il mio vecchio amico Joe Biden avrebbero avuto l’onore di guidarci per i prossimi quattro anni. Non sarei un americano degno di questo nome se mi la-

mentassi con la sorte che mi ha concesso lo straordinario privilegio di servire questo paese per mezzo secolo. Oggi ero candidato per il più alto ufficio della nazione che amo così tanto. E stanotte rimango al servizio di essa. Ciò è un benedizione sufficiente per chiunque, e ringrazio il popolo dell’Arizona per avermi accordato questa possibilità. Questa notte, più che in ogni altra notte, conservo nel cuore nient’altro che amore per questo paese e per tutti i suoi cittadini, che abbiano sostenuto me o il senatore Obama. Che abbiano sostenuto me o Obama. Auguro le migliori cose all’uomo che era il mio avversario e che sarà il mio presidente. E chiedo a tutti gli americani, come ho spesso fatto durante questa campagna, di non disperare delle nostre presenti difficoltà, ma di credere sempre- nella promessa della grandezza dell’America. Perché niente è inevitabile, qui. Gli americani non si danno mai per vinti. Noi non ci arrendiamo mai. Noi non ci nascondiamo mai alla storia. Facciamo la storia. Grazie, Dio vi benedica e Dio benedica l’America. Grazie, grazie davvero. John McCain


Accanto a noi di Angelo Galantini

PRIMA I MERITI... POI

S

Senza scomodare altre teorie di fisica astronomica, o quello che è o può essere, qui e ora ci accordiamo alla convenzione che quantifica in nove i pianeti del Sistema Solare al quale appartiene la nostra Terra, e al quale -volente o nolente- si riconducono i nostri concetti di Vita ed Esistenza, in base a una evoluzione della specie che ci fa essere quelli che abbiamo (avremmo?) la coscienza e consapevolezza di essere. Per motivi ovvi, che esulano da altre discipline specifiche e mirate, qui e ora, ci basti la sequenza a partire dall’epicentro Sole, senza alcuna descrizione analitica di diametri, distanze e fasi orbitali: quindi, senza prendere in considerazione altre teorie scientifiche, che approderebbero a dodici, considerando pianeti corpi celesti che generalmente (e genericamente) si conteggiano come satelliti (ed è un dibattito che interessa altri, che non noi... specificamente staccati dalla materia), Mercurio, Venere, Terra, Marte, Giove, Saturno, Urano, Nettuno e Plutone. In allungo, e deviazione consapevole, proprio la “vicinanza” della Terra a Venere e Marte, verso il Sole e più lontano da questo, ha sollecitato richiami fantastici della letteratura fantascientifica del passato remoto, innanzitutto, priva di competenze specifiche, assiduamente approdata a invasioni aliene, per l’appunto da Venere (venusiani) e Marte (marziani, spesso sinonimo di extraterrestre), per certi versi a portata di mano e plausibilmente assimilabili a forme di vita a noi simili. In questo senso, va ricordato sopra tutto, lo straordinario racconto La guerra dei mondi (The War of the Worlds), di H. G. Wells (Herbert George), originariamente pubblicato a Londra, in nove puntate, da aprile a dicembre 1897, sul periodico Pearson’s Magazine, e, in contemporanea, su The Cosmopolitan (in Italia, dal 1901), considerato e conteggiato come uno dei primi romanzi del genere fantascientifico -probabilmente, il primo in assoluto-; comunque sia, l’opera più celebre e celebrata del chimerico autore. Ancora, e in anticipo su due note e conosciute trasposizioni cinematografiche successive (un originario La

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(pagina accanto) Immagini fotografiche in traduzione cromatica compatibile con i concetti visivi più diffusi, selezionate tra le tante divulgate dall’Agenzia Spaziale Italiana (Asi). Il corpus completo di tante fotografie ha accompagnato la divulgazione delle straordinarie conclusioni alle quali sono giunti gli scienziati italiani che hanno interpretato dati forniti dal radar -ancora italianoMarsis, installato a bordo della sonda dell’Agenzia Spaziale Europea Mars Express, lanciata nello spazio il 2 giugno 2003, dal Cosmodromo di Baikonur, in Kazakistan. Le analisi degli scienziati italiani sono arrivate alla conclusione che su Marte esiste acqua salata, dunque esiste un elemento fondamentale della Vita. La “nicchia biologica” ha un valore stravolgente nel lungo percorso dell’evoluzione, a partire dal Big Bang che, tredici miliardi e mezzo di anni fa, produsse materia ed energia (inizio della fisica) e fece apparire atomi e molecole (inizio della chimica). Ancora, conteggiamo a quattro miliardi e mezzo di anni fa la formazione del pianeta Terra e a oltre tre miliardi di anni fa la comparsa dei primi organismi (inizio della biologia).

guerra dei mondi / The War of the Worlds, di Byron Haskin, del 1953, e un più recente remake La guerra dei mondi / War of the Worlds, di Steven Spielberg, del 2005, con i due lontani protagonisti in veste di cameo: Gene Barry / dr Clayton Forrester e Ann Robinson / Sylvia Van Buren, nei panni dei nonni di famiglia), va ricordato l’anticipatorio e avveniristico adattamento del giovane Orson Welles (1915-1985), non ancora regista, che il 30 ottobre 1938 narrò per radio, emittente Cbs, in forma di cronaca: in modo tanto realistico, che una larga parte degli ascoltatori statunitensi cedette realmente che stesse avvenendo un’invasione dallo Spazio, rimanendone scossa e turbata (in alcuni casi, addirittura, con conseguenze anche tragiche). Comunque sia, questo precedente letterario ha consegnato all’immaginario collettivo l’ipotesi di marziani ostili, propensi all’invasione del nostro pianeta, con quanto ne è conseguito nella letteratura e nel cinema nei decenni a seguire, fino a ieri l’altro... certamente. Accantonato da tempo qualsivoglia interesse scientifico per Venere (semplifichiamola così), l’orientamento dei programmi spaziali si è sempre più rivolto a Marte: sia per “vicinanza” oggettiva, sia per presunte e possibili affinità con la formazione della Terra (ancora, la stiamo proprio semplificando). Anche in questo caso, prima di approdare all’argomento ispiratore e in considerazione, richiamiamo consistenze letterarie: a partire dalle Cronache marziane, di Ray Bradbury (1920-2012 [il profetico racconto Rombo di tuono, in FOTOgraphia, del giugno 2017]), del 1950, raccolta di ventotto racconti di fantascienza legati tra loro dal tema comune della futura esplorazione e colonizzazione di Marte, per l’appunto. E rimandiamo alla miriade di sceneggiature a tema, soprattutto recenti: a ciascuno, la propria indagine specifica. Concretezze scientifiche a parte, che non appartengono di certo al nostro quotidiano (tantomeno a quello fotografico di nostra appartenenza e frequentazione), l’ipotesi di Marte è -comunque- parte consistente di un

certo immaginario generalizzato. Tanto che le informazioni divulgate al proposito sono sempre accolte con attenzione e interesse (per quanto, troppo spesso in forma e misura di Società dello spettacolo, da e con Guy Debord, che analizza ben altro, e in compagnia di Pino Bertelli, altrettanto diversamente orientato rispetto la nostra semplificazione attuale).

IN CRONACA In stretto ordine temporale, registriamo con piacere la notizia diffusa lo scorso venticinque luglio, relativa all’individuazione di acqua liquida e salata, per tanti versi elemento fondamentale della Vita, su Marte. Al culmine (?) di decenni di ricerche mirate, un team di scienziati italiani ha decodificato con questa conclusione, traducibile in “nicchia biologica”, dati forniti dal radar -ancora italiano- Marsis, installato a bordo della sonda dell’Agenzia Spaziale Europea Mars Express, lanciata nello spazio il 2 giugno 2003, dal Cosmodromo di Baikonur, in Kazakistan, specificatamente per studiare Marte, pianeta certificato nella propria denominazione. Prima di altre considerazioni -al solito, nostre!-, alle quali approderemo immediatamente a seguire, rimaniamo ai valori scientifici della scoperta. Adeguatamente elaborati e interpretati, i dati raccolti da Marsis indicano che l’acqua è salata, poiché alla profondità di un chilometro e mezzo, dove è stata individuata/identificata, la temperatura è ben al di sotto di Zero gradi Celsius (0°C). Per conseguenza deduttiva, i sali, che probabilmente sono simili a quelli che la sonda Nasa Phoenix Lander, in esplorazione su Marte dal 25 maggio 2008, dopo il suo lancio del precedente quattro agosto, ha trovato nel ghiaccio della zona circumpolare nord, agiscono da “antigelo”, mantenendo l’acqua allo stato liquido. Come anticipato, ripreso e riportato dalla stampa lo scorso venticinque luglio, il clamoroso annuncio, scientificamente favoloso, è stato divulgato nel corso di una autorevole conferenza stampa internazionale congiunta dell’Agenzia Spaziale Italiana (Asi), dell’Isti-


Accanto a noi tuto Nazionale di Astrofisica (Inaf) e dell’Università Roma Tre, convocata nella sede della stessa Asi, in via del Politecnico, a Roma, per illustrare e commentare le conclusioni dello studio, pubblicate sull’accreditato periodico Science (curato dall’autorevole American Association for the Advancement of Science, è considerato una delle più prestigiose riviste in campo scientifico al mondo): Radar evidence of subglacial liquid water on Mars (Prova radar di acqua liquida subglaciale su Marte). Attenzione, ancora prima delle forme di vita evoluta richiamate dalla fantascienza, nella realtà, acqua, sali, rocce e protezione dalla radiazione cosmica sono ingredienti che gli scienziati ritengono potrebbero far pensare a “una nicchia biologica”. «Tutto questo ci fa comprendere che le precondizioni per trovare vita su Marte ci sono», ha affermato Enrico Flamini, Chief Scientist dell’Agenzia Spaziale Italiana, in una dichiarazione ufficiale rilasciata all’agenzia di stampa Adnkronos. Preveggenze fantascientifiche a parte, che appartengono ad altro territorio, «Ora sappiamo che Marte è più adatto ad ospitare vita di quanto pensavamo. Ora sappiamo che acqua liquida c’è, ed è stabile da centinaia di milioni di anni. Siamo a un passo, siamo più vicini a pensare che ci possa “essere vita” sul pianeta rosso», è la fragorosa e impressionante conclusione.

Le rilevanze scientifiche di questo studio sono fuori discussione. Se non dipendessimo, ormai, da altre scale di valori, che non quelle meritorie e -in misura quantificabile, oggettive-, dovremmo elevarle ben al di sopra delle doti che, al giorno d’oggi, sono imperanti: la maggior parte delle quali alimentate in quella bizzarra socialità che predilige l’apparenza scandalistica a tutto il resto. Se non che, così non è. Tanto è vero che, ricordiamolo con amarezza, nella primavera Duemiladodici, i quotidiani italiani titolarono all’ennesima sterile disputa tra partiti (d’accordo tra loro a prenderci perennemente in giro: complice il giornalismo nazionale), mentre tutti i giornali del mondo dedicarono la notizia di apertura delle rispettive prime pagine all’esperimento attraverso il quale l’acceleratore Lhc, del Cern (Large Hadron Collider, del Conseil européen pour la recherche

ASI / AGENZIA SPAZIALE ITALIANA (3)

SPETTACOLO!

nucléaire / Organizzazione europea per la ricerca nucleare), rilevò per la prima volta il Bosone di Higgs, teorizzato dal 1964 (da molti semplificato, banalizzato e spettacolarizzato in Particella di Dio: Bosone elementare, massivo e scalare, che svolge un ruolo fondamentale all’interno del Modello standard, la teoria fisica che descrive tre delle quattro forze fondamentali note). Qual è la differenza scientifica tra le due vicende qui accostate, acqua salata su Marte e Bosone di Higgs? Facile risposta: il tasso di possibile e potenziale spettacolarizzazione dell’una rispetto l’altra. Tasso di spettacolarizzazione che si basa sul richiamo al team italiano, declinato non per i propri meriti scientifici (che ci sono, e sono indiscutibili), ma per l’appartenenza anagrafica: traducibile in spettacolo a tutti accessibile. Infatti, un mese prima della rivelazione autorevolmente sintetizzata e divulgata dal periodico Science (fine luglio: Radar evidence of subglacial liquid water on Mars / Prova radar di acqua liquida subglaciale su Marte), altrettanta enfasi è stata riservata, dal giornalismo italiano, a fotografie di Marte inviate a Terra dal CaSSIS (Colour and Stereo Surface Imaging System), della stessa Agenzia Spaziale Italiana, collocato all’interno di un satellite della missione europea ExoMars. Sì, ne conveniamo: sono fotografie spettacolari, in restituzione tridimensionale (3D), almeno tanto quanto lo sono tutte le immagini dallo Spazio; a questo proposito, rimandiamo alla presentazione della fantastica monografia Expanding Universe. Photographs from the Hubble Space Telescope, pubblicata da Taschen Verlag, che abbiamo commentato nel novembre 2016. No, dissentiamo: non sono le prime fotografie 3D del pianeta, cronologicamente precedute da tante altre, di diversa origine e provenienza (soprattutto, Nasa: ente spaziale statunitense), tra le quali spiccano quelle pubblicate da National Geographic Magazine, nell’agosto 1998, con relativo accompagnamento di occhialini anaglifici rosso-blu di restituzione visiva tridimensionale [se servisse, nostra modesta segnalazione nel luglio 2002]). Ancora in domanda: qual è la differenza tra le attuali fotografie e quelle precedenti. Ancora in risposta: la loro patente italiana, con slittamento spet-

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NASA / NATIONAL AERONAUTICS AND SPACE ADMINISTRATION (3)

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA

Accanto a noi

tacolare... che ci ha letteralmente saturati (in completo disgusto). Sia chiaro, per quanto in materia di sport, per quanto in modesta frequentazione, continuiamo a prediligere qualsivoglia gesto atletico specifico rispetto altre forme di tifo irrazionale, raramente, preferiamo che abbiano la meglio atleti e compagini italiane. All’interno di stadi, campi di calcio (e baseball!), piste di atletica e via confabulando si manifestano frangenti di vita autonoma, svincolati spesso dalla Vita

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Prima dell’annuncio dell’individuazione di acqua salata su Marte, la stampa italiana esaltò un primato scientifico nazionale... niente affatto tale, ma così interpretato per spettacolarizzazione. Fotografie 3D di Marte furono realizzate dalla Nasa decenni fa. Ne testimoniamo.

autentica, dall’Esistenza quotidiana (e dall’Evoluzione della Specie): in questi spazi, ci potrebbe essere fratello / sorella colui il quale / colei la quale ci sono anche geograficamente vicini e affini. Per il resto della Vita, quella vera, prima vengono i meriti e i valori (nel caso odierno scientifici), poi -forse- i richiami anagrafici e nazionali. Altrimenti, a dispetto delle cronache giornalistiche di inizio agosto, anche queste declinate soprattutto in geografia prima del resto e dei Meriti, che valore può avere la

Medaglia Fields assegnata al matematico trentaquattrenne Alessio Figalli? A dispetto delle note ufficiali -del calibro “certificazione del valore degli istituti accademici italiani” (ma quando mai?!)-, onore al vincitore prima di tutto e sopra tutto e indipendentemente da tutto. Il suo essere italiano è marginale... e può provocare soltanto un sorriso. Nulla di più, né diverso. Da e con Giorgio Gaber e Sandro Luporini: Io non mi sento italiano / ma per fortuna o purtroppo lo sono. ❖



Cinema

di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

COERENZE SCENOGRAFICHE

T

Trasversale alla presenza della fotografia nel cinema, sia in proprie sceneggiature, sia in altre scenografie, sia in forma protagonista, sia in complemento oggetto, qui e oggi, registriamo un ulteriore aspetto del quale teniamo conto... particolare conto: l’attrezzeria degli oggetti di scena (diciamola così). Nello specifico e nella relativa distinzione, pensiamo alle macchine fotografiche visualizzate nei film, con particolare attenzione a quelle localizzate indietro nel tempo, in coerenza con i propri momenti... forse, ma non detto. In questo senso, una volta ancora, una di più, per quanto mai una di troppo, e -certamente- non per l’ultima volta, registriamo subito e presto come e quanto l’attenzione scenografica del cinema statunitense sia encomiabile per accuratezza, che escludiamo sia riservata alla sola fotografia, ma faccia parte di una professionalità selettiva che stabilisce la linea di confine dello stesso professionismo. Da qui, redigiamo in forma di casellario casuale, scandito e ritmato, oltre che con dovuti rimandi a interventi precedenti, per quanto non in quantità esaustiva (in dimensione enciclopedica, che non ci compete e, neppure, interessa), e limitato a un sereno e tranquillo giornalismo di settore. Il nostro di sempre. Nella miniserie televisiva in otto episodi di 22/11/63 (in italiano), del 2016, sceneggiata sulla base del romanzo (circa) omonimo di Stephen King [FOTOgraphia, settembre 2016], una certa macchina fotografica è obbligatoria e inevitabile, quantomeno in dipendenza di un buon modo di intendere il proprio professionismo: quello degli «artisti e artigiani del passato remoto che non si concedevano scorciatoie» (sempre, da e con Harry G. Frankfurt, professore emerito di filosofia morale all’Università di Princeton, Stati Uniti). Per il ritratto di Lee Harvey Oswald (interpretato dall’attore Daniel Webber), prescelto/predestinato (!) assassino del presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy, la moglie Marina (l’attrice Lucy Fry) usa una biottica Imperial Reflex 620, identica a quella vera

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Straordinaria citazione fotografica al cinema (scenografia): nel film Ghostbusters II (Acchiappafantasmi II), di Ivan Reitman, del 1989, nei panni del dottor Peter Venkman, il protagonista Bill Murray utilizza una artigianale Brooks-Veriwide 100.

Nel film The Notorious Bettie Page ( La scandalosa vita di Bettie Page), interpretando la fotografa Paula Klaw, alla quale dobbiamo l’iconografia di Betty Page, l’attrice Lili Taylor utilizza una adeguata Speed Graphic [ FOTOgraphia, maggio 2006 e aprile 2013].

(pagina accanto) Tre Argus a telemetro, in genìa anni TrentaSessanta, in presenze scenografiche più che apprezzabili, in relazione alle rispettive sceneggiature: Peter Falk, nei panni del tenente Colombo, nell’espisodio londinese Scacco matto a Scotland Yard, del 1972 [ FOTOgraphia, luglio 2011]; da Harry Potter e la camera dei segreti, del 2002; e Gwyneth Paltrow, nei panni della fotogiornalista Polly Perkins, nel film Sky Captain and the World of Tomorrow, del 2004 [ FOTOgraphia, dicembre 2005].


Cinema e originaria conservata negli archivi dell’Fbi. Per rulli 620, questo apparecchio fotografico in bachelite e plastica era molto economico, come si riscontra anche negli annunci pubblicitari di quegli anni statunitensi, a cavallo dei Sessanta: 5,79 dollari, nel 1955. Sulla stessa lunghezza d’onda, per quanto svincolata da qualsivoglia legame storico certificato, come è per il caso appena riferito, nella propria scenografia, la sceneggiatura della trasposizione cinematografica della biografia di Ray Charles (per l’appunto, Ray, di Taylor Hackford, del 2004, che è valso l’Oscar all’interprete Jamie Foxx [FOTOgraphia, settembre 2005]) scandisce passi tecnici/tecnologici della fotografia coerenti ai tempi della narrazione. I momenti fotografici sono presto identificati. Prima di tutto, c’è un attimo personale, durante il quale fa capolino una Kodak Brownie biottica (anni Cinquanta), che l’amico/consigliere Jeff Brown (sullo schermo, l’attore Clifton Powell) usa per fotografare il primogenito di Ray Charles, appena nato; e poi, fa lo stesso quando Ray Charles e la moglie entrano nella loro nuova casa. A seguire, registriamo una successione di fotoreporter attorno a The Genius, come è stato ribattezzato il celebre musicista: all’arrivo in Georgia (1960), per un concerto che verrà annullato causa la segregazione razziale, e costerà a Ray Charles l’espulsione dallo Stato; al primo arresto per uso di sostanze stupefacenti (1961); e durante la cerimonia pubblica di solenne riammissione di Ray Charles in Georgia (7 marzo 1979). In tutte queste circostanze, registriamo la pertinente dotazione tecnica dei reporter, armati di Speed Graphic con flash a bulbo e reflex Nikon F, Nikkormat e Nikon F Photomic (in successione) con elettronico Strobomatic. Perfetto, ottima cura del dettaglio, pertinente consecuzione tecnico-storica delle macchine fotografiche. All’opposto e contrario, alcune scenografie italiane sono state poco accurate, approdando perfino all’errore storico e all’uso improprio della macchina fotografica. Due citazioni sopra tutte: per La chiave, di Tinto Brass, del 1983 [FOTOgraphia, aprile 2009], e Gino Bartali. L’intramontabile, fiction televisiva italiana, di Alberto Negrin, del 2006 [FOTOgraphia, settembre 2014]. In questo ordine.

Sceneggiata dall’omonimo romanzo di Junichiro Tanizaki (Jun’ichirō o Junichirô Tanizaki, 1886-1965), del 1956, la vicenda di La chiave è ad alto tasso fotografico. Ovverosia, la fotografia è sostanzialmente trasversale alle vicende a sfondo sessuale ed erotico che compongono l’ossatura della trama e dello svolgimento. Oltre una abbondante presenza Leica, nel film si ritaglia uno spazio particolare alla originaria Polaroid Model 95, la prima della genìa, avviata ai Grandi Magazzini Jordan Marsh, di Boston, Massachusetts, il 26 novembre 1948 [soprattutto, FOTOgraphia, novembre 2008). Se non che la sceneggiatura è ambientata anni prima, a Venezia, in tempi di Seconda guerra mondiale. Comunque, per quanto ci riguarda, si tratta di un peccato veniale, perché la fotografia a sviluppo immediato è assolutamente congeniale al racconto, all’evocazione di situazioni ed emozioni visive conseguenti la copia pronta un istante dopo lo scatto. E, poi, nota di costume, interpellato al proposito, il regista Tinto Brass ha potuto vantare un valore aggiunto di profilo più che alto, vertiginoso addirittura. La Polaroid 95 che appare nel film era di proprietà della moglie, Carla Cipriani, sorella di Arrigo, del marchio veneziano di ristorazione, mancata nell’agosto 2006. Si tratta di un apparecchio donato ai Cipriani da Edwin H. Land in persona, durante un suo soggiorno italiano, commosso e appagato dal trattamento ricevuto alla Locanda Cipriani. Diversa è la “disattenzione” nella fiction italiana Gino Bartali. L’intramontabile, che identifica una declinazione del professionismo lontana dagli «artisti e artigiani del passato remoto che non si concedevano scorciatoie», in ulteriore richiamo e replica. Nelle scene nelle quali Gino Bartali, interpretato da un plausibile Pierfrancesco Favino, viene circondato da cronisti e fotogiornalisti, molti di questi, armati di Rolleiflex, con immancabile flash, ruotano la biottica per inquadrature verticali... sul formato inviolabilmente quadrato, 6x6cm! Nessun costumista, nessun assistente alla scenografia ha avuto qualcosa da ridire. Comunque e ovviamente, sono le visioni che osservano indietro negli anni che meritano la nostra maggiore attenzione, nello spirito -già sottolineato- della coerente combinazione tec-

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Cinema

Sinar a banco ottico, rispettivamente “f” e Norma: da L’œil de l’autre, del 2005 [ FOTOgraphia, aprile 2015] e da Fur. Un ritratto immaginario di Diane Arbus, del 2006 [ FOTOgraphia, novembre 2006 e giugno 2010].

Due imperfezioni scenografiche italiane, la prima grave, la seconda perdonabile: Rolleiflex in inquadratura rovesciata (6x6cm!), nella fiction televisiva Gino Bartali. L’intramontabile, del 2006 [ FOTOgraphia, settembre 2014]; e Polaroid nei primi anni Quaranta, in La chiave, del 1983 [ FOTOgraphia, aprile 2009].

Coerente biottica Kodak Brownie anni Cinquanta nella scenografia del film-biografia Ray (Ray Charles), di Taylor Hackford, del 2004 [ FOTOgraphia, settembre 2005].

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nica con la fotografia. Quindi, registriamo la pertinente Nikon S a telemetro tra le mani dell’attore Sean Penn, che, nel film Milk, di Gus Van Sant, del 2008, interpreta Harvey Milk, consigliere comunale a San Francisco, il primo componente delle istituzioni statunitensi apertamente omosessuale, ucciso il 27 novembre 1978. Nella vita privata, Harvey Milk gestisce Castro Camera, un negozio di sviluppo e stampa fotografica [FOTOgraphia, giugno 2013]. In prosecuzione ideale, ancora Sean Penn (peraltro anche fotografo Sean O’Connell, con Nikon F2/T, nel commovente e ammirevole I sogni segreti di Walter Mitty, di e con Ben Stiller, del 2013 [FOTOgraphia, maggio, giugno e dicembre 2014]) usa una Kodak Instamatic 124 per fotoricordo di famiglia, nei panni dello psicopatico Samuel J. Bicke, che progetta di uccidere il presidente Richard Nixon: in sceneggiatura, nel film The Assassination, di Niels Mueller, del 2004 [ancora, FOTOgraphia, giugno 2013]. Telemetro d’annata (giusta) per telemetro di analoga annata (altrettanto giusta), come non registrare la Canon IVSB, del 1952, la prima esportata negli Stati Uniti, dalla costituzione della filiale, nel 1955, evocata nella struggente storia di amore omosessuale, nella New York degli anni Cinquanta, che racconta dei tormenti esistenziali di una donna dell’alta società sposata e di una commessa dei grandi magazzini, rispettivamente la raffinata Carol Aird, interpretata dall’attrice Cate Blanchett, da cui il titolo del film (per l’appunto, Carol, di Todd Haynes, del 2013), e l’esuberante Therese Belivet, interpretata dall’attrice Rooney Mara, Palma d’oro al Festival di Cannes del 2015. Proprio una Canon IVSB è il regalo che la ricca signora fa alla propria amante, commessa per necessità, ma fotografa per desiderio e intenzione. Questa Canon a telemetro sostituisce l’originaria Argus... ben più economica e, dunque, alla portata della giovane promessa. In coerenza diretta, registriamo altre Argus 35mm a telemetro, altrettanto della carismatica e iconica serie C, che dalla fine degli anni Trenta si è allungata fino ai Sessanta, visualizzate in scenografie di film statunitensi, in retrovisione, piuttosto che in diretta. Quattro sono le citazioni d’obbligo, che certificano sia la coerenza scenica sia una

certa cinegenia, che esauriamo in rapidità. Subito, richiamiamo l’episodio Pin Up Girl, della serie televisiva Cold Case - Delitti irrisolti, il nono della sesta stagione, della fine del 2008, avvicinato giusto lo scorso settembre, con relative escursioni in lungo e largo. All’inizio degli anni Cinquanta, prima di approdare a una consistente Leica IIIa, la modella Rita Flynn, interpretata da Erin Cummings, usa, per l’appunto, una Argus (presumibilmente C3). Stessa Argus C3 o C2, esteriormente identiche, per il tenente Colombo (Peter Falk [FOTOgraphia, luglio 2011]), turista con fotoricordo, nell’episodio in trasferta londinese Scacco matto a Scotland Yard (Dagger of the Mind, del 1972), e per la giornalista Polly Perkins, interpretata dall’attrice Gwyneth Paltrow, di Sky Captain and the World of Tomorrow, del 2004 [FOTOgraphia, dicembre 2005], laddove l’apparecchio fotografico si allinea anche alla scenografia Art Deco del film, affiancandosi ai newyorkesi Empire State Building e Radio City Music Hall. Infine, altrettanta Argus C3 o C2 in Harry Potter e la camera dei segreti, del 2002. Riprendendo ancora l’episodio Pin Up Girl, della serie televisiva Cold Case - Delitti irrisolti, appena citato, e richiamato dallo scorso settembre, non possiamo ignorare le sessioni in sala di posa, per fotografia statunitense maliziosa degli anni Cinquanta, con Speed Graphic 4x5 pollici su treppiedi (del fotografo Zip Fellig, interpretato dall’attore Todd Grinnell), coerentemente visualizzata, ancora su treppiedi, piuttosto che a mano libera anche nel film The Notorious Bettie Page, di Mary Harron, del 2005, che in Italia è stato trasmesso in televisione come La scandalosa vita di Bettie Page [ FOTOgraphia, maggio 2006 e aprile 2013]. Ovviamente, è Speed Graphic 4x5 pollici per la fotografa Paula Klaw, interpretata da Lili Taylor. E, poi, nel cinema statunitense, tante altre Speed Graphic in funzione fotogiornalistica. Così come si registrano altrettante Nikon, soprattutto Nikon F, nelle rievocazioni delle guerre del secondo Novecento, sopra tutte il Vietnam, che -però-, qui e ora, tralasciamo bellamente, perché le abbiamo più e più volte già incontrate, commentate e approfondite: nessuna ripetizione, per


Cinema

Sceneggiata dall’omonimo romanzo di Stephen King, la miniserie televisiva in otto episodi 22/11/63 (in italiano), del 2016, richiama e propone il momento di un ritratto familiare di Lee Harvey Oswald, prescelto e predestinato assassino del presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy, entrato nella Storia contemporanea (qui, a sinistra). Nella scenografia, l’attore Daniel Webber posa per la moglie Marina, interpretata dall’attrice Lucy Fry, che usa una biottica Imperial Reflex 620, identica a quella vera e originaria conservata negli archivi dell’Fbi [ FOTOgraphia, settembre 2016].

piacere; al caso, rimandiamo al casellario di Nikon al cinema, compilato in occasione del novantesimo anniversario e del più recente centenario [rispettivamente, in FOTOgraphia, del dicembre 2007 e novembre 2017]. Invece, restiamo in ambito grande formato per due Sinar di sostanza. Nel biografico Fur. Un ritratto immaginario di Diane Arbus, di Steven Shainberg, del 2006, una antica Sinar Norma 13x18cm, su consistente stativo, accompagna le sessioni fotografiche in sala di posa di Allan Arbus, marito di Diane (nata Nemerov), negli anni di loro professionismo commerciale (e questa è una delle maggiori consistenze del film [FOTOgraphia, novembre 2006 e giugno 2010]). A seguire, nel film francese L’œil de l’autre, di John Lvoff, del 2005, Julie Depardieu, figlia d’arte, interpreta la fotografa Alice, incaricata di documentare le Alpi francesi. Nella sua rilevazione del paesaggio montuoso della Haute Provence, fotografa con Sinar-f 4x5 pollici (ma il film è molto più profondo di questo [FOTOgraphia, aprile 2015]). La chiudiamo qui, anche perché -altrimenti- si potrebbe proseguire all’infinito, sempre in forma lieve e giornalistica, mai, proprio mai, in presunzione accademica e enciclopedica. Soltanto, non possiamo ignorare, né sottovalutare, una presenza cinematografica della tecnica fotografica autorevolmente elegante, tanto da approdare a una citazione colta e prestigiosa. Richiamiamo, quindi, la presenza di una Brooks-Veriwide 100 tra le mani di Bill Murray, nei panni del dottor Peter Venkman, in Ghostbusters II (Acchiappafantasmi II), di Ivan Reitman del 1989. Si tratta di una produzione artigianale newyorkese datata dal 1959 al 1965, finalizzata alla fotografia grandangolare: con Schneider Super-Angulon 47mm f/8 su elicoide e otturatore centrale SynchroCompur (stile Hasselblad), per esposizioni 6x9cm (56x92mm) su pellicola a rullo 120. La cifra “100” identifica l’angolo di campo approssimativo sulla diagonale, equivalente alla visione della focale 18mm sul piccolo formato 24x36mm; mirino ottico esterno Leica 21mm, oppure, come in questo esemplare, mirino del 50mm del sistema Mamiya Press. E... basta. ❖

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DALLA PARTE DEGLI ALTRI N (pagina accanto) Collegno, alle porte di Torino (1969): due degenti nel Reparto 13 del manicomio di Collegno. Uno di questi è in regime di contenzione.

Milano (2018). Alberto, un paziente seguìto dagli psichiatri della ASL TO2, è in grado di gestirsi autonomamente, ed è un instancabile camminatore e viaggiatore... dalle valli torinesi al Mar Ligure, alla Milano dei grattacieli.

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di Lello Piazza

on so cosa sia la pazzia. Trattandosi di come si comporta un umano, mi interessano poco le definizioni cliniche. Mi interessa, invece, la qualità della mia interazione con il pazzo. Riesco a comunicare? È pericoloso per me e per gli altri? È pericoloso per se stesso? Tutti i giorni, ho a che fare con persone diverse, a volte molto diverse, da me. Sono matti? Talvolta penso: quello lì è matto, quello lì è un cretino, quello lì dovrebbero ricoverarlo. Mi sembra evidente che le comunità degli Uomini abbiano stabilito, ciascuna secondo proprie convinzioni, abitudini e cultura, quali siano i confini oltre i quali uno di loro debba essere isolato dagli altri. Questo confine è stato anche uno strumento di prevaricazione sociale e politica. Ho avuto esperienza diretta di comportamenti umani anomali: si trattava di pazzia? Nell’Ottocento, le persone di cui sto per riferire sarebbero state ricoverate e sottoposte a elettroshock, docce gelate, torture da parte di infermieri sadici? [e qualcosa di simile esiste e persiste ancora... per testimonianza diretta]. I miei genitori dovettero far ricoverare mia nonna in una casa di cura (non un manicomio), a Brugora, a nord di Milano, nell’attuale provincia di Monza e della Brianza, perché in tarda età aveva dato di matto. Aveva un comportamento molto aggressivo con mia mamma


Per quanto possa farlo, possa averlo fatto, in certi momenti e frangenti, la Fotografia è stata accanto a quelli che sono stati definiti e identificati come malati mentali. Tra diverse manifestazioni di questa fotografia umanitaria, svolta con cuore e amore (in pensiero meridiano), qui e oggi, incontriamo il passo del talentuoso fotogiornalista Mauro Vallinotto, che si estende sui decenni, dai servizi originari di cinquant’anni fa (nel fatidico Sessantotto e dintorni) alla Legge Basaglia, di dieci anni dopo, all’attualità. Comprensione del diverso, non sempre e non necessariamente visibile, in uno spirito che eleva il pensiero e l’azione.

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(sua nuora) e cercava di picchiarla. Ce l’aveva un po’ anche con me (ero piccolo, avevo cinque o sei anni). Quando morì, mio nonno aveva ottant’anni. Cominciò a sragionare anche lui. Ma non voleva picchiare nessuno e sapeva “badare a se stesso”. Quindi, i miei lo lasciarono nella sua casa. Si limitava a dire che tutti gli volevano male e aveva paura di non avere più di che vivere. Perciò, si mise a girare per Monza chie-

GENESI DI UN CAMMINO

«Ricordo molto bene che in quel reparto si andava a dormire verso le quattro del pomeriggio, fino alla mattina, ore otto. Fu una vita molto dura e triste. Si mangiava un po’ di minestra, poi a letto, chiuso in una cella con due fettucce, una a un piede, l’altra alla mano. Si rinchiudeva la porta, e fino alla mattina non si apriva più. Era come se io lasciavo [lasciassi] un Mondo Chiuso per finire nel Nulla». Scritta nel 1970, da un uomo ricoverato per quasi tutta la vita nel manicomio di Collegno, nei pressi di Torino, questa testimonianza autobiografica venne pubblicata nel primo libro che denunciò gli orrori consumati negli ospedali psichiatrici torinesi: La fabbrica della follia, a cura dell’Associazione per la lotta contro le malattie mentali. Quella porta che si chiude per non aprirsi che dopo sedici ore di isolamento, legati al letto, gli occhi sbarrati, prima sul vuoto, quindi nel buio, è in realtà l’atroce diaframma che separa la vita dalla non-vita, l’umanità dalla disumanità, l’innocenza dal peccato, la dignità dalla perversione. E si erge come un muro di silenzi, degrada come un parossismo di voci. Alla fine degli anni Sessanta, gli ospedali psichiatrici stavano conoscendo le prime aperture, sull’onda dei movimenti che sospingevano verso il recupero di diritti e riconoscimenti fino ad allora brutalmente negati. Si erano viste bruciare le camicie di forza. Si era dato vita al movimento di Psichiatria Democratica. A Gorizia, prima, e a Trieste, poi, Franco Basaglia, un giovane medico veneziano che contestava i fondamenti della scienza psichiatrica, così come venivano interpretati, e ne metteva in discussione l’efficacia terapeutica, eliminava ogni forma di contenimento, si aprivano i cancelli e, con la nascita di una comunità terapeutica, i pazienti tornavano ad essere Uomini. Mentre lo stesso Franco Basaglia, per sensibilizzare la società civile al problema dell’istituzione psichiatrica, chiedeva a Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin una documentazione fotografica, aprendo loro le porte dei manicomi di Gorizia e Colorno, in provincia di Parma, i cancelli delle tre sedi manicomiali torinesi (Certosa reale di Collegno, via Giulio in città e Villa Azzurra, di Grugliasco, riservata ai bambini) restavano inesorabilmente sbarrati, nonostante le denunce di soprusi e violenze portate dall’Associazione per la lotta contro le malattie mentali. In mancanza di prove documentali di queste quotidiane vessazioni, con l’aiuto della stessa Associazione, pensai di introdurmi nelle strutture torinesi per fotografare le vessazioni quotidiane alle quali erano costretti i malati. La prima occasione mi fu offerta da alcuni studenti del quinto anno di medicina, che avrebbero visitato alcuni reparti del manicomio femminile di via Giulio. Con la loro complicità, si era in pieno Sessantotto, entrai dal portone principale del manicomio con il camice bianco d’ordinanza, che nascondeva la Nikon F, lo specchio reflex sollevato e bloccato, legata in vita, e manovrata attraverso le tasche che erano state opportunamente tagliate. Scattai un paio di rullini Tri-X, a Ottocento Asa, con il grandangolare 28mm f/3,5 diaframmato a f/5,6, 1/60 di secondo e messa a fuoco fissa a due-tre metri. La stessa tecnica, con una prospettiva di inquadratura che si può definire “ombelicale”, fu adottata nei mesi successivi per documentare le condizioni dei ricoverati nel manicomio di Collegno. Qui, il camice bianco lasciava spazio a un impermeabile di ampia fattura

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dendo la carità. Mio papà mi chiese di seguirlo, qualche volta, con la mia biciclettina, e di dire alla gente che non aveva bisogno della carità, che si comportava così perché non stava bene. Si arrabbiava e mi rincorreva per scacciarmi: aveva un bastone da passeggio con un pomello d’argento e lo faceva roteare per aria, minacciandomi. Povero nonno. Quando morì, trovammo in casa decine di sacchi di iuta pieni di

che celava opportunamente la Nikon durante le visite domenicali che facevo, come finto parente, a malati particolarmente gravi. Il materiale raccolto, comprese le prove di violenze fisiche, fu pubblicato in più occasioni sull’Espresso e mostrato nel corso di un’assemblea, nel maggio 1969, che portò alla costituzione di una commissione di tutela dei diritti dei ricoverati. Quello fu il primo passo per inserire nella vita quotidiana dei ricoverati un livello minimo di controllo pubblico. Poi, l’anno successivo, alcune assistenti sociali, scandalizzate da quello che dovevano vedere, raccontarono cosa accadeva nell’ospedale dei bambini Villa Azzurra. Era luglio, il caldo insopportabile, entrai nella palazzina con la Nikon sotto la giacca, durante il cambio turno delle infermiere. Forse perché nei reparti riservati ai bambini c’era meno sorveglianza, riuscii a scattare in pochissimi minuti cinquantadue fotografie dei bambini legati mani e piedi alle sbarre di loro lettini, alcuni completamente nudi, le mosche che si posavano, indisturbate, sui loro piccoli volti. Pubblicato sul settimanale L’Espresso, il servizio fece scoppiare lo scandalo: la struttura fu progressivamente smantellata e la magistratura istruì un processo nei confronti del direttore, il dottor Giorgio Coda, soprannominato “l’elettricista”, perché era lo psichiatra che praticava, a Collegno come a Villa Azzurra, gli elettro-massaggi ai genitali con i predestinati al trattamento che gli si inginocchiavano piangendo ai piedi. “L’elettricista” sarà condannato, ma si salverà dal carcere, perché risultò che era giudice onorario del Tribunale dei minorenni. Questa conclusione non inficiò la vittoria dei malati di mente: il punto chiave, infatti, non era una sentenza di condanna, bensì la conquista rappresentata dal fatto che -per la prima voltale vittime del manicomio, questi Esclusi che erano stati i più esclusi di tutti, avessero avuto -finalmente!- coraggiosamente diritto a una voce, quella voce che nel maggio del 1978 trovava risposta nell’approvazione della Legge 180. A distanza di quarant’anni dalla sua entrata in vigore, e con il passaggio delle competenze alle ASL, la Legge Basaglia non ha risolto il problema di fondo della malattia mentale: dopo i primi anni di caos organizzativo, aggravato dal comportamento di quei primari contrari alla legge, che -provocatoriamenteavevano dimesso a decine, a centinaia, malati anche gravi in totale assenza di strutture alternative di accoglienza, sono progressivamente nate le comunità, le case famiglia, le associazioni di parenti dei malati, tra mille difficoltà e i continui tagli ai bilanci della sanità pubblica. Quindi, ho riannodato il filo del mio percorso nell’istituzione manicomiale attraverso un viaggio fotografico “digitale” nelle diverse realtà terapeutiche presenti sul territorio, dai pazienti accolti e seguìti nelle comunità terapeutiche a quelli che vivono in mezzo a noi la loro quotidianità non più da esclusi. Da Rita, una reclusa dell’ospedale di via Giulio, ritrovata dopo quarantanove anni nella sua casa popolare in un quartiere della cintura torinese, ad Alberto, che gestisce le sue crisi alternando gli studi di astronomia a viaggi in treno alla ricerca di un mondo migliore. Da Simona, scrittrice straordinaria, che emerge da un’infanzia terribile, a Monica, che nel lavoro in una pizzeria ha trovato finalmente una propria legittimazione. Mauro Vallinotto Senza più muri, sbarre, violenze.


Grugliasco, in provincia di Torino (1970). La piccola Maria, legata mani e piedi nel suo lettino del Reparto B dell’Istituto Villa Azzurra. Questa fotografia ha ispirato due romanzi di grande emozione e partecipazione. Quello che l’acqua nasconde, di Alessandro Perissinotto (Piemme / Pickwick, 2018). Edoardo Rubessi è un genetista di fama mondiale, un probabile premio Nobel. Quando, dopo trentacinque anni trascorsi negli Stati Uniti, torna nella sua Torino, tutti lo accolgono come colui che ha il potere di cambiare il destino dei bambini malati: tutti tranne il vecchio... La prima verità, di Simona Vinci (Einaudi, 2016; Premio Campiello 2016 e Premio Volponi 2016). «Chi non ha ancora letto questo libro complesso, contemporaneo e poetico, lo faccia. Resterà incollato alle sue pagine e scoprirà, se ancora non la conosce, una narratrice bizzarra, idiosincratica, lirica e affabulante. L’unica erede dalla Morante, in un paese che idolatra narratrici invisibili e le sue amiche geniali. Simona Vinci lo è molto di più, e a viso aperto» (Marco Belpoliti: L’Espresso, del 9 settembre 2016).

monete da cinque, dieci e cinquanta lire. Non trovammo più, invece, un servizio di posate d’argento che aveva più volte minacciato di nascondere da qualche parte per paura che mio papà glielo rubasse. Il nostro lessico familiare dice che sia sepolto da qualche parte nel Parco di Monza, ma nessuno di noi si è mai dato la briga di andarlo a cercare. Quando avevo quindici anni, cominciai a giocare a hockey con la gloriosa squadra dell’Hockey Monza. Agli allenamenti e alle partite “in casa” assisteva sempre un personaggio della Monza felice degli anni Cinquanta, una città dove si andava a dormire senza chiudere a chiave la porta di casa e si giocava al pallone in strada. Il personaggio si chiamava Santino (ma di strani ce n’erano altri, il simpaticissimo Girella,

per esempio, e il Ginetu Balota, che soffriva di un’orchite molto evidente). Dopo l’allenamento, mentre ci si fermava a bere una aranciata nel bar del piccolo stadio dell’hockey, ascoltavamo incantati Santino che raccontava storie demenziali, ma soprattutto lo ascoltavamo cantare all’infinito «La farfalla su quel sasso, su quel sasso la farfalla». Era pazzo? Questa è la marginale presenza della “pazzia” nella mia storia personale. Ma la pazzia nella storia dell’Uomo ha una presenza tutt’altro che marginale. Tutti conoscono l’Elogio della Follia (1509 / 1511; in latino), di Erasmo da Rotterdam, una delle opere più influenti sul pensiero della Civiltà Occidentale, dove la Follia parla in prima persona di sé, attribuendosi una natura divina. Molti meno conoscono la Storia della follia

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BREVI NOTE SULLA PSICHIATRIA ITALIANA

La psichiatria italiana si divide tra un prima e un dopo la chiusura dei manicomi. Luoghi di segregazione, isolamento, deumanizzazione, nei quali le persone diventavano prima diagnosi e poi numeri; nella maggior parte degli altri paesi del mondo sono andati incontro, al meglio, a un progressivo miglioramento delle condizioni di vita, quando non sono rimasti uguali a se stessi. In Italia, un movimento politico e culturale unico, culminato nel lavoro di Franco Basaglia, ha portato dapprima a metterne in discussione il ruolo, il senso, l’impossibilità di essere luoghi di cura, anche grazie al lavoro di giornalisti e fotografi capaci di raccontare e mostrare a tutti cosa accadeva tra quelle mura, e poi ad abolirli, nel 1978. Bastò, per così dire, una legge semplice, ma che stabilisce un princìpio fondamentale: gli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione relativi alle malattie mentali sono attuati di norma dai servizi psichiatrici extra ospedalieri. Il ricovero contro la volontà del paziente resta solo in condizioni del tutto particolari, con tutele speciali, ma soprattutto per brevi periodi. Una scelta così radicale ha posto l’Italia all’avanguardia nella tutela dei diritti civili dei pazienti psichiatrici, ma ha anche attribuito al Servizio Sanitario Nazionale (SSN) l’enorme responsabilità di dare a questi malati non solo il diritto di essere liberi, ma anche quello di essere curati. Compito che, da quarant’anni a questa parte, il SSN svolge con fatica, con luci ma anche con ombre, che causano sofferenza, non solo ai diretti interessati, ma anche alle persone che stanno loro intorno, in primo luogo i familiari, che troppo spesso si sentono soli con il proprio problema. Abbattere i muri dei manicomi è stata un’impresa eroica, il “Venticinque aprile” della psichiatria. Ma, come sempre, dopo aver vinto una guerra, bisogna ricostruire daccapo un modo di vivere quotidiano; ai partigiani della psichiatria sono succeduti, in maniera meno epica, ma con altrettanto impegno, i lavoratori dei servizi di salute mentale, che gestiscono una macchina estremamente complessa, con difficoltà e contraddizioni, ma spesso con enorme dedizione e impegno, anche con risorse insufficienti.

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Gli assistiti, in Italia, sono oltre ottocentomila (in media, centosei persone ogni diecimila abitanti), ai quali vengono erogate quasi dodici milioni di prestazioni l’anno. Nei servizi lavorano, in maniera congiunta per le situazioni più complicate, medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali, educatori, e varie altre figure professionali. Come è stato detto, i trattamenti contro la volontà delle persone rappresentano una minoranza, circa l’otto percento del totale dei ricoveri, e durano mediamente pochi giorni [dati dal Rapporto sulla Salute mentale - Anno 2016 - Ministero della Salute]. Il tipo di disturbi trattati si è trasformato nel corso dei decenni. Oggi, le malattie che più facilmente sono associate all’idea di malattia mentale, schizofrenia e altre psicosi rappresentano un terzo del totale dei pazienti, superate dalla depressione, mentre avanzano quelle che un tempo erano definite nevrosi, e i disturbi di personalità. Ne deriva la necessità, per i servizi, di differenziare la propria offerta, costruendo percorsi capaci di rispondere alla domanda di trattamento per i diversi disturbi mentali. Senza diritti non vi è vera libertà. Questo significa che, a fianco dei diritti civili, ai malati mentali devono essere riconosciuti diritti sociali: il lavoro, prima di tutto, e -di conseguenza- la possibilità di rendersi autonomi, per esempio con il diritto ad avere una propria abitazione. Risulta chiara, quindi, l’insufficienza della sola psichiatria a occuparsi dei pazienti psichiatrici che, in qualità di persone con particolari fragilità, devono essere tutelati dall’insieme delle scelte politiche. L’obiettivo del lavoro con i pazienti, e in particolare con quelli che presentano patologie gravi e persistenti, che incidono più fortemente sul funzionamento personale, è quello di innescare un processo di recovery, cioè di cambiamento, attraverso il quale migliorare la propria salute e benessere, per vivere una vita autodiretta. Non è forse l’obiettivo di tutti? Giorgio Gallino (Medico psichiatra, Direttore di Struttura Complessa, ASL Città di Torino)


Torino (1968). La sala mensa e le camerate della Sezione 6 del Manicomio femminile di via Giulio.

nell’età classica (1961), di Michel Foucault, filosofo francese del Ventesimo secolo, nella quale si afferma che «Non esiste cultura senza follia». Nella storia dell’arte, esiste anche un’iconografia della follia. Mi limito a citare opere famose, come La nave dei folli, di Hieronymus Bosch (1494 circa; olio su tavola, 58x33cm; Parigi, Museo del Louvre), che ha ispirato un saggio satirico omonimo di Sebastian Brandt, dello stesso anno, che -a propria volta- fu tra le più importanti fonti di ispirazione per l’Elogio di Erasmo. Oppure, i busti di Franz Xaver Messerschmidt (17361783), e La Casa de Locos (1812), di Francisco Goya, e i più vicini ritratti di Francis Bacon presentati nella mostra itinerante Il Museo della Follia, a cura di Vittorio Sgarbi, che ha concluso la sua tappa più recente il ven-

tisette maggio scorso, presso la Basilica di Santa Maria Maggiore alla Pietrasanta, nel centro di Napoli. Non chiudo questa mia introduzione all’eccellente lavoro fotogiornalistico di Mauro Vallinotto prima di citare un esempio di encomiabile giornalismo senza fotografie: quello di Nellie Bly, pseudonimo di Elizabeth Jane Cochran (1864-1922), la prima giornalista investigativa e creatrice del giornalismo sotto copertura. Proprio in questa veste, per le pagine dell’autorevole quotidiano New York World, di Joseph Pulitzer (sì, quello al quale è dedicato il premio giornalistico più importante del mondo), Nellie Bly svolse una delle sue inchieste più famose, che riguardava il Women’s Lunatic Asylum (manicomio femminile), nell’isola di Blackwell, a sud-est di Manhattan. Fingendosi pazza,

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Torre Pellice, in provincia di Torino (2016). Un paziente insieme a un’operatrice della comunità di recupero Du Parc (progettoduparc.it).

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nel 1887, riuscì a farsi internare. Fu liberata dopo dieci giorni, solo grazie all’intervento del giornale. La sua esperienza, conosciuta soprattutto attraverso il libro Ten Days in a Mad-House (accessibile nella edizione italiana Dieci giorni in manicomio; 128 pagine; Edizioni Clandestine, 2017; 6,50 euro), fu pubblicata sul New York World e destò grande scalpore. A seguito della pubblicazione, furono presi provvedimenti e le condizioni dei pazienti migliorarono. E non posso dimenticare l’intenso documento fotografico Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata di Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin, a cura di Franco e Franca Basaglia, edito da Einaudi, nel 1969 (e riproposto, in anastatica dell’originale, da Duemilauno, nel 2008 [FOTOgraphia, maggio 2009];

96 pagine 23,5x18cm): lungimirante e coinvolgente. Ora, vi lascio alle fotografie di Mauro Vallinotto e alla sua testimonianza. Come la giornalista statunitense Nellie Bly, Mauro Vallinotto non ha agito da embedded (inserito in una struttura sovrastante di partecipazione): tra la fine del 1968 e l’inizio del 1969, è entrato di nascosto nei luoghi di cura (?) fotografati, per svolgere il proprio compito di fotogiornalista. Nel manicomio femminile di via Giulio, a Torino, si è travestito da studente di medicina; nel manicomio di Collegno, alle porte del capoluogo Torino, si è finto “parente” di un degente; nell’ospedale di bambini Villa Azzurra, sempre a Torino, ha approfittato delle disattenzioni durante un cambio di turno delle infermiere. Sempre, con la Nikon F abilmente nascosta e camuffata. ❖




Oppure: Fotografia... guerra... passione. L’Uomo. Ma anche: Livio Senigalliesi: la fotografia, la guerra, la passione. L’uomo. E la sostanza non cambia. All’interno e al cospetto di inferni dei nostri giorni, attento e concentrato fotogiornalista, Livio Senigalliesi ha sempre cercato (e trovato!) quella porzione afferrabile di verità che sta dietro le versioni ufficiali: «Viaggiare in direzione ostinata e contraria», sostiene, citando un passaggio di Fabrizio De André, per rimarcare la sua diffidenza/estraneità verso i reportage preconfezionati. In questo senso, ha sempre considerato le ragioni delle (due) parti in conflitto. «La guerra non è mai finita», ripete continuamente, citando -ancora- una massima nota in letteratura e saggistica

L’UOMO...E POI di Pio Tarantini

L

ivio Senigalliesi (Milano, 1956) è un fotografo sistematicamente impegnato sui fronti caldi del mondo. Ma sarebbe riduttivo etichettarlo come “fotografo di guerra” (tout court ): nella grande e appassionante tradizione della Concerned Photography, che dalla fine degli anni Sessanta si è coerentemente e meticolosamente coordinata sul passo della vita nel proprio svolgersi, Livio Senigalliesi ha vissuto e vive la vita professionale e privata mettendo l’Uomo al centro del proprio interesse. Sempre in prima linea in situazioni tragiche e pericolose, non per sprezzo del pericolo, ma per esigenza di documenta-

zione, a partire dagli anni Ottanta, ha seguìto molti conflitti armati, e si è interessato anche a vicende non belligeranti, ma problematiche dei popoli del terzo mondo e delle vittime delle guerre e delle relative conseguenze. Sulla fotografia di guerra -o, comunque, sulla fotografia intesa a documentare situazioni drammatiche, tragiche e difficili- esiste una vasta letteratura, che da decenni colloca al centro della discussione alcune questioni costruenti: in particolare, il problema fondante sulla valenza della fotografia come documento oggettivo; e, poi, si registra subito appresso la questione relativa all’uso spettacolare -e, dunque, strumentale- che alcuni fotografi hanno fatto del linguaggio fotografico. (continua a pagina 30)

(pagina accanto) Berlino, 10 novembre 1989: il Muro nei pressi della Porta di Brandeburgo. Due Vopos montano la guardia; sul pennone sventola la bandiera sovietica. L’unificazione reale delle due Germanie avverrà il 3 ottobre 1990.

Berlino: Checkpoint Charlie; 10 novembre 1989.

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Striscia di Gaza (Palestina): Operazione Piombo fuso (campagna militare lanciata dall’esercito israeliano con l’intento dichiarato di “colpire duramente” l’amministrazione di Hamas), un palestinese tra le macerie della sua casa; 2008.

(pagina accanto, in alto) Kabul (Afghanistan): ospedale della Croce Rossa Internazionale; 2002.

(pagina accanto, al centro) Bunia, provincia di Ituri (Congo); 2003. Profughi in fuga dai combattimenti cercano rifugio presso una base delle Nazioni Unite.

Lira (Uganda Settentrionale): centro di recupero per bambini-soldato; 2005.

(pagina accanto, centro pagina) Mostar (Bosnia-Erzegovina); 1993.

(pagina accanto, a destra, in basso) Sarajevo (Bosnia-Erzegovina): case incendiate nel quartiere serbo di Grbavica; 1996.

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Blace, confine tra Kosovo e Macedonia: fuga di civili di etnia albanese; 1999.

(centro pagina, in alto) Ho Chi Minh City ([già Saigon] Vietnam): Tu Du Hospital, centro per la cura delle vittime dell’Agent Orange; 2006. L’Agent Orange [memoria dolorosa] è una definizione in codice utilizzata dall’esercito statunitense per un terrificante defoliante che fu ampiamente irrorato lungo il Sentiero di Ho Chi Minh, tra il 1961 e il 1971, durante la Guerra del Vietnam. L’Agent Orange è mutageno, e continua a causare orrende malformazioni tra la popolazione civile.

(centro pagina, al centro) Murambi (Ruanda): vestiti delle vittime del genocidio conservati per alimentare la memoria (nella scuola superiore di Murambi sono stati uccisi ventunomila tutzi); 2004.

(centro pagina, in basso) Idomeni, al confine tra Fyrom (Repubblica di Macedonia) e Grecia: campo profughi (dal reportage realizzato lungo la Balkan Route); 2016.

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(continua da pagina 27) Giusto a proposito di questo aspetto della questione -la spettacolarizzazione a fini mediatici della fotografia di eventi drammatici-, c’è da rilevare che le recenti, profonde trasformazioni, anche lessicali, anche di contenuto, che hanno investito la fotografia tutta, soprattutto alla luce del procedimento digitale e della conseguente diffusione della Rete, hanno messo totalmente in discussione antiche e originarie forme di produzione/realizzazione e fruizione della fotografia giornalistica. Ecco allora che -spesso- il fotografo, famoso o meno noto, è portato a concepire e realizzare fotografie nelle quali si ammicca un po’ troppo all’aspetto formale, abbandonando la classica impostazione da fotografia diretta (la teorizzata straight photography ), che è stata linea guida per intere generazioni di fotogiornalisti (e dintorni). Invece, e magari all’opposto, per quanto non al contrario, nella propria fotografia umanista (altra nobile lezione storica), Livio Senigalliesi si serve di un linguaggio diretto, senza nessuna concessione a derive estetizzanti: nella sua ormai consolidata storia di fotogiornalista ha sempre attraversato in prima linea molti conflitti dei recenti decenni, ed è stato presente in numerose situazioni umanitarie drammatiche e tragiche, soprattutto nel cosiddetto terzo mondo. Arrivato il momento, per lui, di mettere ordine nel proprio immenso lavoro, ma -soprattutto- di riflettere su questa enorme, importante produzione fotografica, si è dedicato alla realizzazione di una raccolta di immagini che riportasse, rivelandoli, i momenti più considerevoli e rilevanti della sua esperienza fotogiornalistica. In e con Memories of a war reporter, Livio Senigalliesi ha suddiviso il passo in ventitré capitoli, ognuno dedicato a una delle sue tante esperienze. Insieme a lui, si attraversano paesi e situazioni drammaticamente alla ribalta internazionale, dal conflitto nei Balcani alla caduta dei regimi comunisti in Europa Orientale, dal Kurdistan all’Afghanistan, dall’Africa al Guatemala, al Vietnam, alla Cambogia, al più recente esodo biblico dal Medio Oriente verso l’Europa, attraverso la rotta balcanica. Ho già accennato ai rischi del fotografo impegnato sui fronti caldi, da un punto di vista del linguaggio foto-


grafico: uno degli azzardi lessicali maggiori consiste -appunto- nel lasciarsi prendere dall’uso spettacolare del linguaggio, concepito soprattutto a fini di successo personale e individuale. Da questo punto di vista, Livio Senigalliesi risulta realmente e veramente una persona e un professionista singolare, uno dei pochi che ha sempre lavorato -e continua a lavorare- avendo come linea guida l’essenza della propria professione: cioè, l’intenzione di descrivere e raccontare visivamente i fatti del mondo senza compiacimenti estetici, badando alla sostanza dei fatti, con una partecipazione umana che mette in gioco tutto se stesso, non soltanto per i rischi sulla propria persona (anche questi), ma declinando la propria passione, la cultura, la visione del mondo. All’interno e al cospetto di questi inferni, Livio Senigalliesi ha sempre cercato (e trovato!) quella porzione afferrabile di verità che sta dietro le versioni ufficiali: «Viaggiare in direzione ostinata e contraria», sostiene, citando Fabrizio De André, per rimarcare la sua diffidenza/estraneità verso i reportage preconfezionati. In questo senso, ha sempre considerato le ragioni delle (due) parti in conflitto. «La guerra non è mai finita», ripete continuamente, in ulteriore citazione letteraria. Il male: «Livio, cosa è per te, che lo hai vissuto così intensamente in prima persona, il male?». «Il male è nella storia... ma è anche dentro l’Uomo, radicato nella personalità di molti di noi», aggiunge, e talvolta in misura da farci dubitare dell’attributo di sapiens che la scienza ha conferito alla razza umana nella propria evoluzione, dalle origini della Vita. Le guerre, il male, la Vita nella propria concretezza e durezza: per decenni, con le sue fotografie, questo ha raccontato Livio Senigalliesi, scevro da inutili formalismi, fedele a una fotografia diretta, senza compiacimenti estetici, una fotografia squisitamente politica nel senso alto del termine. Con Memories of a war reporter, ha compiuto un lungo percorso catartico di autocoscienza. Livio Senigalliesi racconta non solo con le immagini, ma con suoi robusti e dettagliati testi le vicende che lo hanno visto protagonista, come fotografo per missione, ma soprattutto come Uomo. ❖

Hakkâri (Anatolia Orientale, confine tra Turchia e Iraq): profughi curdi lottano per il pane. Prima guerra del Golfo; 1991.

Memories of a war reporter, di Livio Senigalliesi; edizione autoprodotta, distribuita via web con piattaforma blurb (http://it.blurb.com/ b/8558381-memoriesof-a-war-reporter), 2018; testo in italiano e inglese; 440 pagine 21x26cm, cartonato; 137,78 euro (e-book, 15,38 euro).

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MARC WALTER COLLECTION

CENTO ANNI FA

Il consistente apparato fotografico che illustra la monografia Italy around 1900. A Portrait in Color (ovvero, L’Italia intorno al Novecento), forte e potente di testi di profilo più che alto, si offre e propone come affascinante e coinvolgente documento visivo dell’Italia (al passato), che raccoglie e presenta fotocromie e stampe colorate d’epoca in personalità popolare (e stereotipata, forse) propria della fantastica cultura visiva della cartolina illustrata, che tutto perdona, che non pretende riflessione, ma offre soluzioni facili, semplici e comode. Oltre che fascinose 33


MARC WALTER COLLECTION (3)

Gaino, frazione di Toscolano Maderno, in provincia di Brescia, sul Lago di Garda.

(pagina precedente) Roma: Foro di Traiano con Colonna Traiana e le chiese settecentesche di Santa Maria di Loreto e del Santissimo Nome di Maria.

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di Maurizio Rebuzzini

S

ubito una precisazione d’obbligo, per quanto non richiesta... forse. A differenza di tanto che accade e si manifesta nei nostri giorni, quantomeno riferendoci al concetto ampio di comunicazione -in qualsiasi modo ciascuno la intenda-, là dove e quando il presente domina e sovrasta (sempre in attesa di un nuovo presente che scavalchi il precedente, fosse anche immediato), su queste pagine, si dà spesso valore e senso al passato, ovviamente in chiave statutaria di Fotografia. Ancora qui, stiamo per farlo, una volta esaurita la delucidazione. Però, va rivelato, nella sostanza, non si affronta e presenta e commenta mai il passato in chiave di inutile nostalgia, ma per quanto questo stesso passato offre opportunità di ragionamenti e considerazioni utili e proficue al presente, addirittura in proiezione futuribile. Ovvero,

pensiamo che si possa raggiungere il bene -qualsiasi cosa questo significhi per ciascuno di noi- soltanto attraverso il libero scambio di idee (per quanto noi ne abbiamo poche, ma confuse: da e con Ennio Flaiano). In ogni caso, guidiamo la nostra esistenza fotografica, la nostra partecipazione alla fotografia, consapevoli di dover guardare in avanti, a partire dal presente; ma, allo stesso tempo, sappiamo che non si deve perdere di vista lo specchietto retrovisore, capace di completare l’angolo di visione, il punto di osservazione, la cadenza delle opinioni in continua e costante crescita. Se così dobbiamo intenderla, questo è quanto. Quindi, alla somma di tanti altri precedenti sguardi indietro, per vedere davanti, incontriamo oggi una monografia a forte cadenza fotografica sulla quale è opportuno soffermarci. Anzitutto, precisiamo che la sostanza culturale di Italy around 1900 sta nella propria profondità di rilevazioni e rivelazioni esaminate dall’au-


torevole autore Giovanni Fanelli (professore di Storia dell’Architettura all’Università di Firenze, che ha già firmato numerose opere di storia architettonica, storia urbana, arti grafiche e fotografia, tradotte in diverse lingue; è stato direttore scientifico della Fondazione Ragghianti, di Lucca, ed è editor di serie per numerosi titoli pubblicati da Editori Laterza). Però, allo stesso tempo, non sottovalutiamo che il sottotitolo esplicito, A Portrait in Color, assegna personalità propria alla fotografia (delle proprie origini espressive), non tanto e solo di contorno, ma integrata e cadenzata sul passo affrontato... e risolto.

GIÀ... ITALIA In ordine con il capitolato proposto e promesso (dunque, assolto), l’apparato fotografico di Italy around 1900. A Portrait in Color completa il cammino intrapreso e lo visualizza in misura a dir poco superlativa. Una efficace ricerca ha individuato e selezionato una sostanziosa

qualità e quantità di immagini storiche, originariamente destinate a una comunicazione popolare (e, magari, stereotipata... ma va bene anche così), spesso in forma di cartolina illustrata, che oggi, a distanza di un secolo abbondante, offrono e propongono una lettura che dà senso e spessore alla lezione storica: dal passato al presente, magari per il futuro. A questo punto, va annotato che l’interpretazione/lezione di questo volume, in edizione multilingua (inglese, italiano e spagnolo), scorre su un binario quantomeno doppio, in frazionamento geografico e sociale. Da una parte, c’è l’Italia osservata dagli stranieri, e spesso mitizzata; dall’altra, ci sta il nostro punto di vista nazionale, che non può esaltare e venerare il nostro controverso quotidiano. Diciamola meglio (forse): c’è chi, straniero rispetto a noi, osserva in superficie e ne è appagato; e, poi, c’è chi, vivendo l’Italia giorno per giorno, può (continua a pagina 38)

Bordighera, in provincia di Imperia: cappella di Sant’Ampelio.

(in alto) Gardone Riviera, in provincia di Brescia, sul Lago di Garda.

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MARC WALTER COLLECTION (4)

Assisi: portico sud della Basilica di San Francesco. Venezia: Canal Grande e Ponte di Rialto. (pagina accanto) Genova: lavatoio pubblico a Santa Brigida.

(doppia pagina precedente) Torino: piazza Vittorio Emanuele I.

Gli autori della monografia. Giovanni Fanelli è professore di Storia dell’Architettura all’Università di Firenze; è autore di numerose opere tradotte in diverse lingue; è stato direttore scientifico della Fondazione Ragghianti, di Lucca; ed è editor di serie per Editori Laterza. Marc Walter è un graphic designer, fotografo e collezionista. È specializzato in fotografie vintage di viaggi, in particolare le fotocromie. Sabine Arqué è una documentarista, fotografa e autrice. Ha collaborato a numerose pubblicazioni fotografiche.

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(continua da pagina 35) non riuscire a vedere e apprezzare le nostre (presunte) eccellenze, compromesse da una socialità e politica a dir poco devastanti e deturpanti. Quindi, in onore dei nostri ospiti e visitatori, rispettiamo i loro sogni, le loro poesie, la loro partecipazione. E lasciamo perdere il resto... per ora, almeno.

ATTORNO AL NOVECENTO Specificando date e istanti del passato, la autorevole visualizzazione di Italy around 1900. A Portrait in Color (pubblicata in contemporanea a un a coincidente Germany around 1900: A Portrait in Colour ), scritta e illustrata, stabilisce un richiamo temporale inviolabile e definito: per l’appunto, tempi a cavallo del Novecento, di straordinario splendore geografico e artistico e culturale (momenti antecedenti gli indirizzi politici del secolo scorso, avviati in dittatura e proseguiti in prepotenza politica

simile, per quanto apparentemente diversa... ma!). Non a caso, quindi, la presentazione ufficiale della consistente monografia (cinquecentottanta pagine di dimensioni generose 29x39,5cm) richiama una considerazione del compositore Giuseppe Verdi, gigantesca personalità del passaggio di secolo: «Potrei possedere l’universo», affermò in misura lapidaria, «se potessi avere l’Italia». Tornando con il pensiero alla seconda metà dell’Ottocento, in avvicinamento al Novecento, come sappiamo, con il senno e le conoscenze di poi, il lessico passionale di Giuseppe Verdi si appellava a sentimenti patriottici di uno stato nazione emergente. Al culmine di decenni di conflitti e spargimenti di sangue, il Risorgimento trionfò, con la proclamazione dell’Unità d’Italia, del 1861, riunendo regni, territori e confini disparati che -fino ad allora- erano stati governati, soprattutto, dall’Austria, dal Regno di Sardegna e dallo Stato Pontificio.



MARC WALTER COLLECTION

Italy around 1900. A Portrait in Color / L’Italia intorno al 1900; a cura di Giovanni Fanelli, con la redazione di Marc Walter e Sabine Arqué; Taschen Verlag, 2018 (distribuzione: Inter Logos, strada Curtatona 5/2, 41100 Modena; 059-412648; www.books.it); in edizione multilingua inglese, italiano e spagnolo, oppure inglese, francese e tedesco; 580 pagine 29x39,5cm, cartonato con sovraccoperta; 150,00 euro.

Taormina: Capo Sant’Andrea.

Comunque, e riuscendo a comprendere come e per quanto siamo osservati e considerati al di fuori dei nostri confini nazionali, oggi, l’appello di Giuseppe Verdi risuona più brillantemente per gli altri, che per noi, afflitti da un quotidiano con il quale facciamo i nostri conti, giorno per giorno. A differenza, dal Mondo si osserva la superficie apparente del nostro paese, considerato terra di luce, arte e sensualità. A diretta consecuzione, Italy around 1900. A Portrait in Color si offre e propone come affascinante e coinvolgente documento visivo dell’Italia all’inizio del Novecento, che raccoglie e presenta fotocromie e stampe colorate d’epoca, ripetiamo, ribadendolo, in personalità popolare (e stereotipata, forse) propria della fantastica cultura visiva della cartolina illustrata, che tutto perdona, che non pretende riflessione, ma offre soluzioni facili, semplici e comode. Oltre che fascinose. Per cui, vediamola senza disturbi individuali: attraverso siti classici e meraviglie del Rinascimento, lungo

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incantevoli corsi d’acqua veneziani e tra i litorali screziati della costiera amalfitana, ogni immagine evocativa impaginata in Italy around 1900. A Portrait in Color impressiona tanto per la propria chiarezza cromatica quanto per la vivida evocazione di tempi passati. Come in un sogno incantato, si percorre una piazza San Marco, a Venezia, vuota e illuminata dal sole, si passeggia nell’ombreggiato cortile degli Uffizi, a Firenze, e si incontrano solo alcune carrozze trainate da cavalli di fronte al Pantheon, a Roma. Al posto di smartphone, guide e gruppi di turisti, ci si imbatte in commercianti e operai ordinari, scene di strada silenziose e insediamenti umili. Gli incanti illuminati dal sole e la realtà storica si combinano: il risultato è un quantità e qualità di fotografie senza contendenti di una giovane nazione che ha combattuto duramente per esistere e ha continuato a conquistare i cuori del mondo. In visione fotografica. ❖



di Antonio Bordoni oerentemente fedeli a una delle nostre intenzioni e attitudini giornalistiche e redazionali -puntualmente sottolineate, là dove e quando è lecito e opportuno/necessario farlo (per esempio, qui e ora)-, sullo scorso numero di marzo, tre argomenti autonomi sono stati affrontati e declinati in volontaria e consapevole consecuzione: da uno all’altro, in tragitto di andata-e-ritorno, in senso di marcia quantomeno molteplice (da-a, senza alcuna gerarchia o predominanza prestabilita). Autonomamente una dall’altra, ma in un certo modo collegate una all’altra, due riflessioni hanno anticipato lo svolgimento di una sostanziosa sessione d’asta fotografica a ritmo doppio e collegato (... forse): segnalazioni dettagliate dai lotti proposti alle coincidenti diciassettesima WestLicht Photographica Auction e trentaduesima WestLicht Camera Auction, a Vienna, rispettivamente svoltesi venerdì nove e sabato dieci marzo. A integrazione, abbiamo anche espresso valutazioni collezionistiche richiamate dall’allestimento scenico della imponente mostra The Radical Eye, alla Tate Modern, di Londra, dall’inverno 2016 alla primavera 2017, basata sulla Collezione di fotografie di sir Elton John. A giochi conclusi, dopo e oltre le nostre anticipazioni, alcune motivate altre in semplice registrazione, le aggiudicazioni delle due aste WestLicht -una di fotografie (e libri), l’altra di macchine fotografiche (e complementi)- impongono un ritorno: per l’appunto, questo, a commento dei valori economici/monetari raggiunti.

C Qui e oggi, commentiamo lo svolgimento delle sessioni d’asta WestLicht Photographica Auction e WestLicht Camera Auction battute lo scorso marzo, che anticipammo in cronaca temporale (per l’appunto, sul numero di marzo). Riferiamo di alcune aggiudicazioni, soprattutto di quelle di valore economico più consistente, richiamando previsioni e ipotesi già espresse: molte delle quali in conferma. Le prossime sessioni si svolgono il ventitré e ventiquattro novembre.

QUALCHE FOTOGRAFIA È più agevole liquidare subito la (diciassettesima) sessione WestLicht Photographica Auction, perché, per quanto articolata sull’eterogeneità di duecentosedici lotti di alta qualità formale e contenuti storici, alcuni dei quali, come abbiamo già sottolineato (lo scorso marzo), rivolti a quella Fotografia dell’Est europeo spes-

Forse, analizziamo lo svolgimento delle sessioni d’asta WestLicht Photographica Auction e WestLicht Camera Auction, del nove e dieci marzo scorsi, anticipate in attualità di date. Forse lo facciamo... ma non è detto. Più specificamente, prendiamo atto di un certo modo individuale di accompagnarsi alla Fotografia, qualsiasi cosa questa significhi per ciascuno di noi. Consapevoli di come la vita vera si svolga altrove, su altri palcoscenici e con altra scala di valori, non sottovalutiamo come e quanto, e senza temere smentite, si debbano fare i propri conti con altro, con ben altro. Le cose, come i luoghi, hanno un proprio significato, come le parole, e ognuno di noi può leggerle come se fossero (in) un libro. Pensiamo anche a un apparecchio fotografico, a un obiettivo, a un accessorio... ad altro: sono come frasi, che hanno un proprio significato

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A CONTI FATTI


WESTLICHT PHOTOGRAPHICA AUCTION (2)

René Burri (1933-2014): Death lotus flowers on the Kunming Lake Summer Palace; Beijin, 1964. Vintage silver print 19,6x28,9cm, con annotazioni su retro. Stimata da cinquemila a settemila euro (5000,00 - 7000,00 euro), e partita da duemilaottocento euro, è stata aggiudicata a ventiduemilaottocento euro (22.800,00 euro, diritti d’asta compresi, come per tutte le certificazioni oggi riferite).

Ansel Adams (1902-1984): Manly Beacon, Death Valley National Monument ; California, 1952. Gelatine silver print 39,5x49,4cm, firmata, del 1977. Stimata da venticinquemila a trentamila euro (25.000,00 - 30.000,00 euro), è stata aggiudicata a diciannovemiladuecento euro (19.200,00 euro). Opinione personale: ci auguriamo che il mito dell’autore, che giudichiamo sopravvalutato, si stia stemperando.

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Moritz Nähr (1859-1945): Gustav Klimt with his cat ; Vienna, 1912. Vintage silver print, contact print 22x16cm, annotata e datata sul retro. Stimata da ventiquattromila a ventottomila euro (24.000,00 - 28.000,00 euro), è stata aggiudicata a ventiseimilaquattrocento euro (26.400,00 euro).

Jaroslav Rössler (1902-1990): Vladislav Vanc̆ura, Uc̆itel a z̆ák (Abstraction); 1927. Vintage bromoil print, montata su cartoncino, 23,2x19cm. Stimata da diciottomila a ventiduemila euro (18.000,00 - 22.000,00 euro), è stata aggiudicata a trentaseimila euro (36.000,00 euro).

WESTLICHT PHOTOGRAPHICA AUCTION (3)

Theodore Lux Feininger (1910-2011): Gret Palucca at the home of Lyonel Feininger; 1928. Vintage silver print 24x18cm, creditata e annotata sul retro. Stimata da cinquemila a seimila euro (5000,00 - 6000,00 euro), è stata aggiudicata a ventottomilaottocento euro (28.800,00 euro).

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so poco e mal considerata da osservatori americanocentrici, non ha certamente incluso nulla di sconvolgente e “unico”, qualsivoglia sia l’unità di misura e giudizio adottata. Formalmente, il buon andamento dell’asta è certificato dall’aggiudicazione del settantaquattro percento dei lotti proposti. Da qui, valutazioni soggettive, oltre che trasversali. Prima di altro, va sottolineato il consistente apprezzamento riservato al corpus di fotografie europee dei primi decenni del Novecento, che lo scorso marzo conteggiammo per il loro allineamento geo-politico (in chiave fotografica) con le celebrazioni del modernismo, programmate a Vienna -non incidentalmente, sede d’asta- per tutto il corrente Duemiladiciotto: l’intenso protocollo Schönheit und Abgrund, traducibile in Bellezza e abisso, è centralizzato sulla figura del pittore Gustav Klimt (1862-1918), indiscutibilmente uno dei protagonisti di quel tempo; a cavallo del secolo, ha plasmato la capitale austriaca verso una personalità intellettualmente vibrante e cosmopolita. Da cui, le attuali celebrazioni si richiamano al centenario dalla sua scomparsa (sei febbraio). Nello specifico della diciassettesima WestLicht Photographica Auction, e in riferimento diretto, rileviamo che il ritratto Gustav Klimt with his cat (Vienna, 1912), di Moritz Nähr (1859-1945), nel quale il pittore posa in un momento intimo, diverso dalle posture ufficiali del proprio ruolo sociale (accarezza il suo gatto, rivolgendo lo sguardo in macchina, con occhi vivaci e affettuosi), è stato aggiudicato a ventiseimila quattrocento euro (26.400,00 euro): Vintage silver print, contact print 22x16cm, annotata e datata sul retro. Analogamente, e in coincidenza espressiva, Vladislav Vančura Učitel a žák, astrazione del 1927 del ceco Jaroslav Rössler (1902-1990), che mosse i suoi primi passi nello studio di František Drtikol (1883-1961), partita da novemila euro è arrivata a trentaseimila euro (36.000,00 euro): Vintage bromoil print, montata su cartoncino, 23,2x19cm; uomo con cappello, di fronte a un palcoscenico geometrico dell’artista Karel Teige (1900-1951; tra le personalità più rilevanti dell’avanguardia austro-ungarica, fondatore del movimento Devětsil, che ha preceduto il poetismo). Altre due impennate in aggiudicazione riguardano altre due fotografie che, come queste appena e chiamate, anticipammo lo scorso marzo: Gret Palucca at the home of Lyonel Feininger, del 1928, di Theodore Lux Feininger (1910-2011; figlio dell’artista, maestro del Bauhaus, e fratello del fotografo Lyonel), balzata da milleottocento euro di partenza a ventottomila ottocento euro di aggiudicazione (28.800,00 euro; Vintage silver print 24x18cm, creditata e annotata sul retro); e Death lotus flowers on the Kunming Lake Summer Palace (Beijin, 1964), di René Burri (1933-2014), arrivata a ben ventiduemila ottocento euro, dai duemilaottocento euro di avvio (22.800,00 euro; Vintage silver print 19,6x28,9cm, con annotazioni su retro).

RECORD “TECNICO” Lo scorso marzo, anticipando quanto proposto dalla trentaduesima sessione d’asta WestLicht Camera Auction (che ha aggiudicato il novantuno percento dei


WESTLICHT CAMERA AUCTION (3)

cinquecentotrenta lotti proposti; quasi il cento percento di quelli Leica), sottolineammo un senso e valore sul quale oggi torniamo, alla luce delle aggiudicazioni in vendita. Facili profeti (è come sparare sulla Croce Rossa; oppure, come dirla con e da Piero Chiara, in Il piatto piange, romanzo in edizioni dal 1962... ma è triviale: dunque, rimandiamo a identificazioni individuali), prevedemmo che l’esemplare Leica 0 / Nullserie, numero di identificazione 122, facente parte di quel leggendario lotto di circa venticinque prototipi realizzati, nel 1923, per testare il mercato, due anni prima dell’avvio della produzione, avrebbe superato i due milioni di euro. Così, puntualmente è stato: due milioni e quattrocentomila euro (2.400.000,00 euro), valore record, raggiunto in qualche minuto, a partire dalla quotazione originaria di quattrocentomila euro (due milioni di euro al martello, più il premio d’asta). Il precedente record assoluto per un apparecchio fotografico è analogo e coincidente: 2.160.000,00 euro (ancora comprensivi dei diritti d’asta), per un’altra Leica 0 / Nullserie, numero di identificazione 116, battuti alla sessione speciale 100 Years of Leica, di venerdì 23 maggio 2014, a Wetzlar, in occasione delle celebrazioni del centenario e inaugurazione della nuova sede aziendale [FOTO graphia, luglio e giugno 2014]. Del resto, piaccia o meno, così vanno le cose, quantomeno in questo ambito, che registra che si conoscono soltanto tre esemplari Leica 0 / Nullserie in condizioni originarie: questi due, appena ricordati, e un terzo che è ancora di proprietà della casa madre (forse). Ovviamente, anche l’attuale aggiudicazione, come la precedente, approda a un acquirente cinese (ufficialmente a un acquirente asiatico), secondo quel princìpio/capitolato odierno delle nuove ricchezze planetarie: che stanno conquistando il mondo a suon di contanti (squadre di calcio italiane comprese). Ovviamente, sollecitato al proposito, Andreas Kaufmann, proprietario della maggioranza di Leica Camera AG e presidente del consiglio di amministrazione, si è espresso in (entusiastici) termini del momento: «Questo valore record mondiale di due milioni e quattrocentomila euro dimostra il mito in corso e in continua crescita del marchio Leica». In questo senso, potremmo ricollocare i termini, scomponendo l’apprezzamento storico/collezionistico/antiquario da quello corrente di uso... ma non è il caso, perché è giocoforza accettare il concetto di “mito”. Tanto che, ritornando a una quantificazione scandita proprio a marzo, centonovantanove lotti su cinquecentotrenta della trentaduesima West Licht Camera Auction (Vienna, dieci marzo) hanno riguardato apparecchi fotografici, obiettivi e accessori Leica: trentasette percento del totale! Ancora, e in sovramercato, un altro risultato eccellente è stato ottenuto da un’altra Leica, proveniente dalla celebrata Collezione del designer James Jannard (Jim; fondatore della Oakley Inc, di Lake Forest, in California, Stati Uniti, sussidiaria dell’italiana Luxottica): una MP nera, del 1957, in perfette condizioni, numero di serie MP-89, aggiudicata a quattrocentocinquantaseimila euro (456.000,00 euro, diritti d’asta inclusi). Quindi, sullo stesso ordine di valori, una Leica MP-2 cromata, con Electric Motor, la prima M con motore aggiuntivo,

Facili profeti, lo scorso marzo avevamo previsto che la Leica 0, numero di identificazione 122 (in alto), sarebbe stata incoronata regina della trentaduesima sessione della WestLicht Camera Auction. Così è stato: due milioni e quattrocentomila euro, raggiunti in qualche minuto. Questo record assoluto si abbina a altre consistenti aggiudicazioni di apparecchi storici Leica: per esempio, quattrocentocinquantaseimila euro (456.000,00 euro) per una MP nera, del 1957; quattrocentotrentaduemila euro (432.000,00 euro) per una MP-2 cromata, con Electric Motor, del 1958.

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WESTLICHT CAMERA AUCTION (4)

Altra aggiudicazione Leica più che consistente: cinquecentoquarantamila euro (540.000,00 euro) per un prototipo della M3, con numero di identificazione 0040, del 1952. Extra Leica, comunque asse importante delle sessioni d’asta WestLicht Camera Auction, registriamo i quarantottomila euro (48.000,000 euro) raggiunti da un’Hasselblad Lunar Surface SWC, del 1968, da una fornitura di venticinque esemplari confezionati per le missioni spaziali statunitensi del progetto Apollo. Chiusura Leica: d’obbligo. IIIf nera “Swedish Army” del 1956, aggiudicata a sessantamila euro (60.000,00 euro).

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del 1958, in altrettante ottime condizioni, è stata battuta a quattrocentotrentaduemila euro (432.000,00 euro; numero di matricola 952.012). E poi, ancora, e in seconda posizione assoluta di prezzo/aggiudicazione: cinquecentoquarantamila euro (540.000,00 euro), per un prototipo della Leica M3, con numero di identificazione 0040, del 1952 [anticipato in previsione, in FOTOgraphia, dello scorso marzo]. Oltre Leica, scandita anche con obiettivi di pregio e coni speciali (per esempio, la IIIf nera “Swedish Army”, del 1956, da un lotto di cento esemplari, a sessantamila euro / 60.000,00 euro), i valori economici rientrano in quotazioni meno altisonanti... si fa per dire. Da cui, registrazione d’obbligo per i quarantottomila euro (48.000,00 euro) per un’Hasselblad Lunar Surface SWC, del 1968, ovviamente completa di proprio Carl Zeiss Biogon T* 38mm f/4,5, matricole TRW 8590 / 4165561, proveniente da una fornitura di venticinque esemplari che la Nasa (ente spaziale statunitense) commissionò per le proprie missioni Apollo, culminate con l’allunaggio di Apollo 11, del 20 luglio 1969 [FOTOgraphia, luglio 2009]. Queste sono registrazioni attuali, in attesa delle prossime sessioni WestLicht Photographica Auction e West Licht Camera Auction, del prossimo novembre. Ma!

Ma, prima di concludere, è opportuno ribadire, confermandoli, valori impliciti nel Significato delle cose [da e con FOTOgraphia, del marzo 2018, e altrove ancora]. Doverosamente premesso che stiamo parlando di sogni ed eccezioni, e che siamo consapevoli di come la vita vera si svolga altrove, su altri palcoscenici e con altra scala di valori, non sottovalutiamo come e quanto, e senza temere smentite, si debbano fare i propri conti con altro, con ben altro. Ciò che dobbiamo comprendere, fino a impararlo (forse), è che le cose, come i luoghi, hanno un proprio significato, come le parole, e ognuno di noi può leggerle come se fossero (in) un libro. Pensiamo anche a un apparecchio fotografico, a un obiettivo, a un accessorio: sono come frasi, che hanno un proprio significato. Perché no? Sano feticismo individuale, fondato sul culto tributato a oggetti materiali. Nello specifico... fotografici. Tanto è. ❖ Le prossime sessioni WestLicht Photographica Auction 18 e WestLicht Camera Auction 33, rispettivamente riservate a stampe fotografiche (e libri, in subordine) e apparecchi fotografici (e contorni, altrettanto in subordine), si svolgono venerdì ventitré e sabato ventiquattro novembre (WestLicht - Schauplatz für Fotografie, Westbahnstraße 40, AT 1070 Vienna, Austria; +43 1 5235659; www.westlicht-auction.com).


(Centro Commerciale Le Vele) via Nausica, 88060 Montepaone Lido CZ • 0967 578608 www.cinesudmegasgtore.com • info@cinesudmegasgtore.com

un negozio di terroni* per terroni** In un paese ed epoca in cui la forma apparente ha sostituito il contenuto, perché non agire per sovvertire questa tragica condizione, per tornare alla parola che sia se stessa, e sia densa di significati propri? Perché non considerare che il rispetto è valore concreto, da frequentare e perseguire? Perché non agire nella convinzione che etica e morale siano ancora qualità e doti, insieme con garbo, eleganza e grazia? Una volta ancora, una volta di più, non certo per l’ultima volta: vogliamo parlarne?

* Terróne (sostantivo maschile / terróna, al femminile). Derivazione da “terra”; probabilmente, tratto da denominazioni di zone meridionali, quali “Terra di Lavoro” (in Campania), “Terra di Bari” e “Terra d’Otranto” (in Puglia). Appellativo dato, con intonazione spregiativa (talvolta anche scherzosa), dagli abitanti dell’Italia settentrionale a quelli dell’Italia meridionale [Enciclopedia Treccani ]. Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato in tono dispregiativo (talvolta in tono scherzoso, a seconda del contesto) per designare un abitante dell'Italia meridionale. Ha diverse varianti piuttosto diffuse e riconoscibili nelle lingue locali: terún, terù, teron, tarùn, tarù (lombardo); terún (ligure); terù, terún, tarún (piemontese); tarùn, taroch, terón (veneto, friulano); teròch, tarón (emiliano-romagnolo); terón, terró (marchigiano); teróne, taròne in altri idiomi dell'Italia settentrionale, mentre rimane terrone in toscano e romanesco [Wikipedia ].

** L'espressione politicamente corretto (traduzione letterale dell'inglese politically correct) designa una linea di opinione e un atteggiamento sociale di attenzione al rispetto generale, soprattutto nel rifuggire l'offesa verso determinate categorie di persone. Qualsiasi idea o condotta in deroga più o meno aperta a tale indirizzo appare, quindi, per contro, politicamente scorretta (politically incorrect ). L'opinione, comunque espressa, che voglia aspirare alla correttezza politica dovrà perciò apparire chiaramente libera, nella forma e nella sostanza, da ogni tipo di pregiudizio razziale, etnico, religioso, di genere, di età, di orientamento sessuale, o relativo a disabilità fisiche o psichiche della persona [Wikipedia ].


Sguardi su

di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 24 volte giugno 2018)

È

È quando non si riesce più a ridere che si comincia a uccidere, anche con la fotografia: ecco perché le turbe dei fotografi (professionisti o non professionisti, fa lo stesso), che inseguono il successo e il consenso, sono pronti a vendere la propria madre per avere un posto in società. Il riconoscimento dei media (specie se è televisivo) rende i fotografi più stupidi dei santi... si può prevedere il destino da valletto di un fotografo, un docente e un esperto in affari fotografici dal numero di workshop, letture di portfolio e stage che ha perseguito; sono in molti a non aver ancora compreso che ciò che è veramente straordinario in fotografia è bere una birra sul mare, con un amico, e mandare a fare in culo tutte le chiacchiere filistee sulla fotografia, sulla vita e sul mondo, che affermano sia il migliore dei mondi possibili. Ha avuto ragione Emil M. Cioran: «È meglio fare la Francia in bicicletta, che una tesi di dottorato»... e con chi farla, la tesi? con chi sostiene il segretariato delle emozioni? i salotti di buona condotta? la grandezza della fotografia alla portata di un barboncino? I fotografi, come gli scemi del villaggio, si smedagliano tra loro e leccano il culo a chi pensano ne sappia più di loro... tutti parlano di macchine fotografiche, obiettivi, pixel... pochi (nessuno?) di fotografia. Almeno, i buffoni di Shakespeare sapevano sputare nel piatto del re... questi non riuscirebbero a sopravvivere a cinque minuti verità (non solo della fotografia); scollati come sono dalla vivenza e dalla pelle del reale, non si accorgono nemmeno di essere le scimmie obbedienti della civiltà dello spettacolo... dissertano sul bianconero, sul colore, sul mosso, lo sfocato, il crop, il boken... tutta roba da fanatici del nulla e consumatori del vuoto. Millantatori di simulacri e mitologie, non sanno (né vogliono sapere) che i padroni dell’im-

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ERNST HAAS

maginario fotografico sono i medesimi che fabbricano armi, foraggiano lo sport, saccheggiano continenti delle proprie ricchezze e, con il terrorismo della Borsa, tengono a catena. Governi, partiti, mafie, mercati... la fascinazione dell’obbedienza incarcera ogni poetica del dissidio; e una società incapace di generare utopie, denunciare le disuguaglianze sociali

e l’urgenza di porvi rimedio è -a lungo andare- destinata alla sclerosi e alla rovina. Tutti gli imbecilli finiscono per giocare a bocce, adorare uno sport, seguire la moda, dissertare sulla cucina e debuttare in politica. I più imbecilli si aggrappano a una macchina fotografica e sgambettano da qualche parte, per addivenire artisti o soltanto consuma-

«Continuo a non capire tutte queste problematiche discussioni sul bianconero e il colore. Amo sia l’uno sia l’altro, ma parlano lingue diverse nello stesso ambito. Sono entrambi affascinanti. Il colore non significa bianconero più colore, come il bianconero non è solo un’immagine senza colore. Ciascuno di questi mezzi richiede una diversa sensibilità nel vedere e, di conseguenza, una diversa disciplina. Ci sono gli snob del bianconero, e ci sono gli snob del colore. Incapaci di usare bene entrambi, si mettono sulla difensiva e militano in campi opposti. Non bisognerebbe mai giudicare un fotografo dal tipo di pellicola che usa, ma solo da come la usa» Ernst Haas

tori della fotografia del narcisismo industriale. La fotografia non si legge, né si vede... si ascolta, si sente: il fotografo non parte da ciò che ha letto, ma da ciò che ha vissuto. La grande fotografia contiene un’imperdonabile insolenza, è epifania di un sogno e testimonianza di una creatività ricevuta in sorte. Non tutti i “grandi” fotografi sono, allo stesso tempo, uomini eccezionali o -in qualche modoappassionanti o -più semplicemente- amabili. Occorre sapere che molti sono sgradevoli, noiosi e addirittura stupidi; alcuni hanno messo nella fotografia l’anima e la carne delle umane cose (Giacomo Leopardi diceva), ed è per questo che sono i magnifici randagi (o gli immortali) della storiografia fotografica.

LA FOTOGRAFIA ESISTE, ME L’HA DETTO FRANTI! La fotografia esiste, me l’ha detto Franti! [nota]... e dev’essere vero, visto che per essere autori di spessore non importa fotografare bambini buttati nella spazzatura, o bambini bruciati dal Napalm, o bambini in attesa di essere mangiati da un avvoltoio. A volte, basta un uso intelligente del colore (o del bianconero) per mostrare che il vero uccide la vita, che solo l’amore rende possibile. A volte, ci sono fotografi che guardano la realtà con altri occhi e anche altri cuori... transfughi dell’ordine, della norma e dell’impostura... colpevoli di una qualche ingenuità, forse: affabulano immagini gnostiche, scettiche, a volte ciniche... tuttavia, sempre impiantate in quello stile aforistico che non canta la storia, ma la sua fine. Sanno che ogni progresso mercatale implica più distruzioni, e ogni ascesa politica inaugura nuove fosse comuni. Lo scandalo supremo è la libertà! e solo un maelström dell’agire (con qualsiasi strumento utile) può portare a un’altra ridefinizione del mondo.


Sguardi su Uno dei fotografi ritenuto da molti di grande talento estetico (a dire il vero non è proprio uno dei nostri cattivi maestri, ma abbiamo sempre apprezzato la sua onestà intellettuale), è Ernst Haas. Nasce a Vienna, nel 1921, e scompare a New York, nel 1986. In gioventù, voleva diventare pittore (come tanti altri fotografi, uno per tutti Henri Cartier-Bresson); negli anni Quaranta, inizia a studiare medicina, ma ha un difetto (ha origini ebraiche), e da quelle parti, in quel tempo, c’era un caporale viennese con inclinazione alla macelleria, che -appena eletto capo del parlamento tedesco- intende eliminare l’intera razza ebraica (lo scemo con i baffetti da topo si dà da fare... ne stermina quasi sette milioni... poi vuole allargarsi alle nazioni che un tempo lo finanziavano, e così perde la guerra e la complicità di un popolo disattento al fumo dei camini dei Campi di sterminio, che sporcava i panni stesi ad asciugare nei cortili). Però, Ernst Haas fa in tempo ad arruolarsi nell’esercito tedesco (?) e vedere da vicino l’assurdità della guerra. A conflitto finito, inizia a fotografare il rientro dei prigionieri di guerra austriaci e, siccome è bravo, attira l’attenzione di Life, che lo metterebbe sotto contratto. Ernst Haas rifiuta e difende la propria indipendenza.

Nel 1949, Robert “Bob” Capa lo invita ad entrare nella prestigiosa (per così dire) agenzia Magnum Photos, e avvia rapporti di amicizia con Henri Cartier-Bresson e Werner Bischof, due giganti della Fotografia. Nel 1951, si trasferisce negli Stati Uniti: è un curioso sperimentatore, e le pellicole Kodachrome (a ragione) attirano la sua attenzione. Prende a lavorare con il colore e, nel 1953, Life pubblica un suo notevole reportage su New York. Dieci anni dopo, nel 1962, il Museum of Modern Art, di New York, il celebre MoMA, gli dedica una personale ardita, per quei tempi di religione bianconerista: Ernst Haas: Color Photography (dal ventuno agosto al ventotto ottobre). Viaggia a lungo nel mondo, e i suoi reportage sono impaginati da Life, Vogue e altre riviste. Le quattro monografie pubblicate in vita, poi seguìte da ulteriori raccolte, restano a memoria di quanti hanno compreso che la fotografia è un linguaggio creativo o la mortificazione del pensiero, e insegna che ovunque si può morire o vivere per una virgola fuori posto! (The Creation, 1971; In America, 1975; In Germany, 1976; e Himalayan Pilgrimage, 1978), Nel 1986, anno della sua scomparsa, riceve il Premio Hasselblad.

Nota. Per i curiosi, non solo di cose fotografiche, Franti è un personaggio del libro Cuore, di Edmondo De Amicis, in prima edizione 1886: (Umberto Eco a parte, che ne ha tessuto le lodi, in un lungimirante Elogio, del 1962 [FOTOgraphia, dicembre 2013]) è malamente descritto soprattutto / soltanto come “Il cattivo, di una famiglia del sottoproletariato, che trema davanti ai ragazzi più grandi e se la prende con quelli più deboli di lui; alla fine, viene prima espulso dalla scuola e poi mandato in prigione, dopo una rissa con Stardi”. Franti è la figura dell’insubordinazione (che De Amicis racconta con parca amorevolezza)... il ragazzo non capisce (e De Amicis, nemmeno, forse) che la miseria non è ereditaria e la sua disperata vitalità è anche l’autobiografia di un escluso dalla vita sociale. A nostro avviso, è il ritratto più bello del libro, e Edmondo De Amicis -di famiglia benestante, allievo dell’Accademia Militare di Modena, direttore di Italia militare (organo ufficiale del Ministero di guerra), poi socialista, massone e molto altro ancora-, che non poteva comprendere fino in fondo l’imperitura pedagogia buonista di Cuore, ha fatto più vittime di Santa Romana Chiesa. Infatti, sotto le stigmate di Lavoro, Patria, Famiglia, Fede, Onore e Gloria si sono commesse più infamie delle calate dei barbari [ammesso, ma non certo concesso che la definizione “barbaro”, attribuita agli “altri” che non “noi”, abbia un qualsivoglia senso, e sia pertinente, in qualsiasi scala di valori sociali si prenda in considerazione]. Come è facile aver intuito, oltre la rivelazione ufficiale sul numero del dicembre 2013, appena evocato, il nostro Franti è Maurizio Rebuzzini, editore

Esaurite le necessarie annotazioni, passiamo ad altro... senza incappare, spero, in lezioni di lucidità dissennata. Giuro davanti alla statua di Gavroche (luminoso personaggio di I miserabili, di Victor Hugo), monello di strada, giovane ma furbo e smaliziato, perfettamente a proprio agio nei bassifondi parigini, che ha eletto a propria dimora, che muore sulle barricate di Parigi cantando (il 6 giugno 1832, in finale di La faute à Voltaire. La chanson de Gavroche): «Se balzano è il mio carattere, / La colpa è di Voltaire, / Se quattrini non ho, / La colpa è di Rousseau. / Se son finito in terra, / La colpa è di Voltaire, / Col naso nel canale finirò, / La colpa è di Rousseau». Ci sono molti (troppi) politici, ma pochissimi Gavroche. È questa la tragedia dell’umanità.

IL LINGUAGGIO FOTOGRAFICO DELL’IMMAGINALE La fotografia è un linguaggio dell’immaginale (e dell’immaginario), apolide, anche, per il quale Henry Corbin, il più grande studioso iranista europeo, tra i maggiori pensatori del Novecento, ha detto, da qualche parte, «Intendo provare a definire un ordine di realtà che corrisponda a un certo tipo di percezione, poiché la terminologia latina ha il vantaggio di fornire un punto di riferimento tec-

nico preciso, con cui confrontare i più o meno idonei equivalenti dei linguaggi moderni occidentali. [...] Al fine di incoraggiarci in questo cammino, dobbiamo domandare a noi stessi: cosa costituisce il nostro reale, cosa è reale per noi, e se lo lasciassimo, troveremmo qualcosa in più del semplice immaginario, dell’utopia?» (Pino Bertelli: dal Taccuino di un fotografo di strada; senza data, né origine della citazione). Tutte le belle domande feriscono, l’ultima uccide (a ricordo del film di Jean-Pierre Melville, Le deuxième souffle, del 1966, è una sorta di patto amicale tra banditi di una certa nobiltà). Più semplicemente, la fotografia è un messaggero d’amore alla portata di un barbone alcolizzato che inveisce contro l’immaginale tradito, mai piantato nella realtà. Non si può scattare nessuna fotografia, se non si è compreso Viaggio al termine della notte, di Louis-Ferdinand Céline, l’Ecclesiaste (Qohélet), l’asino Platero di Juan Ramón Jiménez o le puttane di Storyville di E. J. Bellocq. La macchina fotografica accende il discorso sul mondo e parla -o partecipa- al contraddittorio tra il male e il bene comune. Poiché non esistono regole senza eccezioni, come ogni forma d’arte, la fotografia può di-

e direttore di FOTOgraphia, rivista ereticale -anche- che parrebbe occuparsi di Fotografia, parlandone e dibattendone, per poi, eventualmente, fotografare!... ma non è necessario, né indispensabile farlo per davvero. Maestro in molte cose, Franti-Rebuzzini è un moralista fourieriano [da e con François Marie Charles Fourier (1772-1837), filosofo francese, che ispirò la fondazione della comunità socialista utopista chiamata La Reunion sorta presso l’attuale Dallas, in Texas, oltre a diverse altre comunità negli Stati Uniti d’America (tra le quali si ricorda Brook Farm, fondata, nel 1841, vicino a Boston e sciolta a seguito di un incendio, nel 1849)] o un comunista utopico, che nei suoi scritti, come nella sua esistenza, configura una filosofia delle passioni come passaggio dalla vita alienata alla vita autentica. Come François Marie Charles Fourier, sa che -in tutti luoghi e in tutte le epoche- solo i cortigiani sanno come muoversi a corte e, insieme ai buffoni, tengono alte le insegne del successo e del consenso... peccato che moriranno stupidi, senza sapere mai che l’epifania del meraviglioso è nella regalità del ragazzo che gioca e continua a giocare alla guerra con la spada di legno (qualche volta con la macchina fotografica). Fino a vent’anni, tutti scattano fotografie, poi restano i poeti (pochi) e gli imbecilli (molti / troppi). E sono i poeti che hanno presto capito che la cosa più importante da fare con l’oro (ripreso ai ladri delle banche) è fabbricare i vasi da notte o ridere fino a morirne di un’epoca mercatale che è stata tutto, tranne che intelligente! Ciao a te, Franti... mFranti.

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Sguardi su ventare il lasciapassare dell’amore perduto, o -come vediamoteatro di crudeltà inaudite che popolano il mercato degli idioti. Il mondo immaginale (o delle immagini sospese), termine introdotto da Henry Corbin, è una realtà indipendente dal soggetto: ha una propria geografia e si estende nella realtà senza essere influenzata dalla fantasia, ma è connessa con la profondità del pensiero. Nella mistica visionaria della filosofia Sufi, l’espressione che figura questa realtà è chiamata “Terra di Nessundove” (Na-Koja-Abad). La capacità di entrare in contatto col mondo immaginale dipende dall’immaginazione, che per Henry Corbin è una facoltà attiva, mediatrice, con funzione simbolizzante, capace di liberarci dall’ostacolo generato dal processo razionale che obbliga a scegliere tra materia e spirito, svolgendosi principalmente per analogia e consonanze tra simboli. Il mondo dell’immaginale è un passaggio spirituale, trasforma gli stati interiori dello spirito in stati esteriori, ovvero in visioni ed eventi che mettono in atto, simbolizzandoli, gli stati interni, come c’insegnano lo stesso Henry Corbin, Carl Gustav Jung e Gaston Bachelard (e perfino il boia di Londra). L’immaginazione creatrice, scrive Henry Corbin altrove [Henry Corbin: L’immaginazione creatrice. Le radici del sufismo; Laterza, 2005], è il luogo epifanico che supera la coscienza razionale, e in questa “Terra di Nessundove” si opera per il superamento della coscienza ordinaria... è qui che s’incontrano gli angeli che corrispondono agli esseri umani, anche: si tratta di vedere e “volare” al di là della storia e figurare sotto ogni Cielo il fantasma o l’inumanità del Vero. A sfogliare l’immaginale fotografico di Ernst Haas (non solo sul colore ma nell’insieme della sua opera) non è difficile cogliere la forza affabulativa del fotografo viennese. Per lui ciò che importa è la decostruzione del reale, riprendere e rivedere ciò che bi-

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sogna necessariamente cogliere di là dall’immaginario. Le fotografie scattate in Brasile, Giappone e Africa travalicano la situazione d’origine, e vanno a comporre una rapsodia visiva che riguarda la bellezza del mondo da difendere e preservare. In questo senso, la fotografia di Ernst Haas diventa archetipo e traccia di una luminosità della vissutezza, che esplode nella bellezza convulsiva del fotografato: cieli, mari, fiori, savane, coralli, cascate riportano alla sensualità dei trovatori... alla pratica dell’amore cortese verso il delicato, il fragile, l’indifeso. La dolcezza -non va dimenticato- è la capacità, non solo in fotografia, di differire, di associare il vero al giusto, di volere un piacere a venire. Non si può concepire nessuna relazione fra corpi e ambienti senza conoscere la dolcezza come virtù cardinale dell’esistenza. L’immaginale fotografico di Ernst Haas è un portolano di emozioni- Ogni immagine è gravida di senso, bellezza, nudità singolari. Il suo vocabolario della ricchezza visionaria si fa ascoltare senza fraintendimenti; che la sua macchina fotografica s’accosti a uomini, ambienti urbani, nature o composizioni geometriche, tutto ciò che ne esce è un disincanto, l’autonomia del significante che gli permette d’intrecciare l’immaginale con i gangli del reale. Non ci possono essere fotografie giubilatorie senza il coinvolgimento dei sentimenti, da una parte e, dall’altra, senza la loro realizzazione in forme alte del comunicare. Chi non vuol vedere, si espone a non essere inteso, e forse anche troppo bene! Ogni immagine, infatti, è menzogna estetizzante o un pezzo di futuro che avanza. I colori delle immagini mosse di Ernst Haas (toreri, cavalli, danze, gare sportive) rimaterializzano l’immaginale fotografico; non importa fotografare il contingente o colorare il movimento... ciò che vale è fare del colore un vivaio di situazioni costruite che non lusingano né violano, tantomeno celebrano. Qui, Ernst Haas si fa

demiurgo e iniziatore d’infanzie mai tramontate, e -attraverso un eccelso edonismo- riconduce l’immaginale a rileggere la memoria e l’indicibile dimenticato. L’intimità dello sguardo che trabocca fuori dagli obblighi sociali e dagli ordinamenti mondani della cultura fotografica... la geografia etica che fuoriesce da queste fotografie-movimento è una sorta di variazione del colore, della luce, dei suoni che sembra di toccare... vedere un invisibile che diventa forma, vita, ponte... un altrove che obbliga alla gentilezza, all’intersoggettività, che è la temperatura del bello, del buono e del giusto, a una morale egualitaria che diventa prossimo in ciascuno e in tutti. La ritrattistica in bianconero di Ernst Haas contiene la stessa prospettiva artistica dei lavori a colori. Le fotografie di star del cinema, della cultura, dello sport, della politica raffigurano sempre la persona, mai il mito. L’autore lavora sull’imperfetto per superare il fascino del momento; anche quando l’oggetto della fotografia è il più consumato commediante del proprio tempo (o un poeta geniale, mai asservito alla macchina/capitale), l’immaginale del fotografo s’affida all’eleganza, alla grazia, all’eccellenza di uno stile dove la preminenza dell’istante è una trasmutazione dei valori o -meglio ancora- è un chiamarsi fuori dall’ordine spettacolare a favore della libertà espressiva senza alcun compromesso. Non c’è realtà possibile senza considerazione dell’altro: il battesimo del clamore consacra; la villania della realtà tutta intera è il risultato della magnificenza che lo stile, il giusto e la discrepanza esigono... per conferire la dignità che ne consegue solo agli artisti senza guinzagli. Le immagini di America, Europa, Asia non si accartocciano in abissi, eccessi e levature dozzinali... no! Rivelano l’unicità e il rinascimento del soggetto, e -alla maniera della commedia umana, di Honoré de Balzac- figurano non i costumi dello spettacolo, ma il sorgere delle cause che vi-

vono il desiderio di verità, di bellezza e convivenza come principio di tutte le passioni. «La passione ti porta avanti. Se non hai la passione, termina l’arte, termina la vita» (Gian Paolo Barbieri). Prima che ogni forma d’arte fosse confinata nelle istituzioni e esposta in recinti o stalle appropriate, l’arte è stata di certo accorpata a ciò che dovrebbe essere, ai nostri giorni, una pratica differenzialista o un canto d’esistenza della vita quotidiana. Un’intimazione rivolta alla mistica, all’acredine, all’arbitrio che sono incompatibili con l’atto poetico che strappa la diversità all’anonimato. Non c’è arte che non sia dell’anima, il resto è merce. Il reale fotografato da Ernst Haas è colto più in profondità di quanto -a prima vista- si legge nell’immagine. Tutta una serie di microstorie emergono dall’inquadratura e sono proprio quelle che divampano nella malinconia che le abita. Ernst Haas non spiega, né dimostra! Mostra la storia universale (anche dell’infamia, direbbe Jorge Luis Borges), e ogni immagine coincide con quella del mondo: c’è ammirazione, anche stupore, in questo dispendio della bellezza... una forza prometeica che albeggia nuove rotte del vedere... un’architettura etica che esonda sul disordine dello spettacolare integrato che, come ben sappiamo, è «il continuo rinnovamento tecnologico; la fusione economico-statale; il segreto generalizzato; il falso indiscutibile; un eterno presente (Guy Debord diceva)», che ha permesso la manipolazione del dominio spettacolare sull’Uomo. La rottura dell’estetica generalizzata è l’inizio di tutte le liberazioni dell’immaginario e il brulotto messo sotto il culo di tutti gli imperi. Si tratta di aspirare a un’altra vita, a un’altra politica, ridurre le caste, i partiti, i dogmi al silenzio! Come è successo nel Maggio Sessantotto, portare l’immaginazione al potere, non per possederlo, ma per meglio distruggerlo. I ragazzi del Sessantotto hanno perso, è vero, ma avevano ragione! E questa è un’altra storia. ❖




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