FOTOgraphia 244 settembre 2018

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ANNO XXV - NUMERO 244 - SETTEMBRE 2018

Diego Mormorio STORIA ESSENZIALE

Dark City L.A. CRONACA NERA

WPOTY 2017 LA NATURA PIÙ BELLA


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prima di cominciare FEMMINICIDIO E ALTRE STORIE. Molto probabilmente, per quanto verranno fraintese, queste note potrebbero provocare indignazione e collera. Però, alla luce di molto e molto ancora, non possiamo esimerci da esprimerle, magari anche solo in rispetto di quanto annotato in tante occasioni precedenti e ribadito, su questo stesso numero, in Editoriale, a pagina sette. Da una parte, confermiamo di osservare, piuttosto di giudicare; d’altro canto, continuiamo a pensare, invece di credere. Quindi, in ulteriore passo allineato, ribadiamo anche il nostro infrangibile senso dell’accettazione degli altri... «dell’arricchimento che ci offre ogni diversità rispetto a Noi... migliorandoci. Le nostre (edificanti) diversità dovremmo metterle insieme... non solo in Fotografia» (per l’appunto, dall’odierno Editoriale). Accostandoci a quell’evocato «animatore del dibattito e della riflessione in Fotografia che consideriamo meritevole per le sue riflessioni e osservazioni», e accettandolo in toto, siamo sorpresi da valutazioni generalizzate che consideriamo abbagli, errori e malintesi di pensiero... a proposito dell’ormai diffusa opinione di femminicidio (e altro). Sia chiaro, che non difendiamo alcun colpevole (maschio); ma sia altrettanto chiaro che il problema ci pare mal posto. Sì, statistiche alla mano, i cosiddetti femminicidi stanno aumentando in quantità ed efferatezza; oppure, ma non cambia nulla, rimangono gli stessi, ma se ne parla di più. Personalmente, riteniamo che capire le conseguenze sia più importante di ricostruirne le cause, quantomeno nel modo in cui si sta facendo, escludendo dalle considerazioni gli equilibri e i disequilibri sovrastanti della nostra società: maschilista per eredità storica, ma -soprattutto e in misura autonoma- per attuale convinzione ideologica. Gli uomini uccidono più donne di quante donne possano uccidere gli uomini (sceneggiature della serie televisiva statunitense Law & Order a parte), anche perché gestiscono complessivamente più aspetti sociali di quanti possano essere raggiunti dalle donne: da cui, cerchiamo di prendere in considerazione le cause, contraddicendoci rispetto l’avvio di ragionamento, in senso complessivo e non circoscritto. Tanto che, in altro passo, coincidente, sono protagoniste solo le donne, in ulteriore alterazione maschilista di ruoli: le mamme che sollecitano dagli appelli televisivi Telethon e dintorni, le mamme che contravvengono l’obbligo legale alla vaccinazione dei bambini... e dove sono, quando ci sono, i papà? Finale in altro passo, altrettanto necessario: sono stati invocati capri espiatori per la tragedia del Ponte Morandi, di Genova (ci scusino le vittime e i loro congiunti; quattordici agosto), ma nulla di simile è accaduto per il cedimento analogo della volta della chiesa di San Giuseppe dei Falegnami, in Clivio Argentario, a Roma (trenta agosto). mFranti

Il nostro affrontare la Fotografia a viso aperto e mente libera fa supporre, a qualcuno, che siamo qui per attentare alla legittima intenzione e volontà altrui di frequentare la stessa Fotografia con passo diverso dal nostro? Se così è... sarebbe bene farsi a lato, oppure scendere da questo tram. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 11 Proprio perché italiani, i fotografi italiani si sono sempre distinti per il proprio particolare pensiero umanista, sia in ambiti specifici della fotografia del vero e dal vero, sia in applicazioni apparentemente distanti dalla registrazione della Vita nel proprio svolgersi (dalla moda al design, senza alcuna soluzione di continuità). Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 9

Copertina Fotografia di Ekaterina Bee, di sei anni, vincitrice dell’edizione 2017 del Wildlife Photographer of the Year nella categoria 10 Years and Under (giovane fotografo dell’anno, sezione fino a dieci anni). Gabbiani fotografati nel Nord-Trøndelag, contea norvegese situata al centro del paese. Valutazioni specifiche (di Lello Piazza) a pagina 31. Considerazioni sul Wpoty 2017, da pagina 26

3 Fotografia nei francobolli Dalla compendiosa analisi Fotografia nei francobolli, di Maurizio Rebuzzini, in corso d’opera e prossima pubblicazione, dettaglio da un chiudibusta (errinnofilia) realizzato in Germania negli anni Venti (data probabile e desunta), con richiamo alla produzione fotografica Goerz, una delle eccellenze dell’inizio Novecento [soggetto volontariamente e consapevolmente rovesciato destra/sinistra per armonia di messa in pagina]

7 Editoriale Noi, nel senso di Io (!), invece di comprensione degli altri

8 Oltre gli Invisibili A partire da una vicenda locale, dalla linea ferroviaria Milano-Cremona, considerazioni sull’accoglienza del presunto diverso da noi. Anche in Fotografia

10 Con Alberto Dubini Un abbraccio, in un momento di dolore profondo

12 Evocazione Pin-up Richiami fotografici in un episodio della serie televisiva Cold Case - Delitti irrisolti, con ulteriori inviti Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini


SETTEMBRE 2018

RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA

16 Settant’anni con Te(x) Dal settembre 1948 di origine, il personaggio inventato da Gianluigi Bonelli e Galep (Aurelio Galleppini) si è imposto come il fumetto più amato in Italia e uno dei più longevi nel mondo. Mostra celebrativa

Anno XXV - numero 244 - 6,50 euro DIRETTORE

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

IMPAGINAZIONE

Maria Marasciuolo

REDAZIONE

20 Città oscura Dark City. The Real Los Angeles Noir è una seducente monografia illustrata che non antepone una fotografia autoreferenziale, ma offre e propone una fotografia di contenuto e sostanza. Come e quanto influisce...

Filippo Rebuzzini

CORRISPONDENTE Giulio Forti

FOTOGRAFIE Rouge

SEGRETERIA

Maddalena Fasoli

HANNO

26 La natura più bella Più che autorevole concorso fotografico internazionale, il prestigioso Wildlife Photographer of the Year (oggi, riferiamo dell’edizione 2017) sottolinea anche un’attenzione mirata e specifica nei confronti della materia istituzionale... la natura. Da cui, eccoci qui di Lello Piazza

36 Efficace Quadreria Le sale di accoglienza e comuni dell’Hotel Bellerive, di Salò, sulla riva bresciana del Lago di Garda, sono arredate con una avvincente Quadreria fotografica allestita con immagini di Rinaldo Capra. Una lezione di Angelo Galantini

40 Con il passo della Storia In edizione Postcart, la Storia essenziale della Fotografia, di Diego Mormorio, è opera dai tanti meriti. Soprattutto, non trita rivisitazione, ma punti di vista e osservazioni originali. Oasi di sostanza intellettiva di Maurizio Rebuzzini

44 Alla Photokina... Probabilmente andremo in Photokina, a Colonia, in Germania, a fine settembre. Se ci dovessimo andare, non lo faremo con la mente, ma con il cuore. Comunque, ultima Photokina, in una Fine annunciata di Antonio Bordoni

48 Edward Steichen

COLLABORATO

Pino Bertelli Antonio Bordoni Rinaldo Capra mFranti Angelo Galantini Angelo Pepe Lello Piazza Franco Sergio Rebosio Paolo Rossi Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.com; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 1027671617 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard e PayPal (graphia@tin.it). ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano

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Sguardi sulla fotografia nel boudoir di Pino Bertelli

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editoriale N

ormalità professionale (etica? morale? disciplina? garbo?) alla quale rispondiamo, alla quale intendiamo rimanere fedeli fino alla Fine, qualsiasi sia la sua manifestazione (appunto, finale). Per quanto non sia più necessario, come lo è stato per decenni, a fine settembre, saremo in Photokina, a Colonia, dove e quando, dal ventisei al ventinove, è allestita la fiera mondiale della tecnologia fotografica, protagonista autoreferenziale di se stessa. Nonostante rumors di sostanza e anticipazioni attendibili certifichino una certa vivacità tecnico-commerciale, la presenza fisica in Germania è -ormai- ampiamente superflua. Infatti, a partire dalla Rete, per continuare con altri equilibri mercantili di nuova generazione, oggigiorno, tutto si sa, tutto si viene a sapere, anche senza l’incombenza di trasferimenti fisici (e onerosi). Quindi, in aggiunta, la Fotografia non ha più motivo di essere esclusivamente autoreferenziale, e presentarsi su palcoscenici propri, ma, in termini espositivi e fieristici, è ormai trasversale sia a concetti tecnologici puri e dichiarati, sia alla socialità entro la quale si manifesta ed esprime. Osservato, rilevato e accettato tutto questo, per quali motivi si va in Germania? Uno sopra tutti, uno al di sopra di tanto altro: per respirare istanti di ordine formale, che si può proiettare sulla condizione di esistenze individuali, tra le quali, la nostra... anche, in e con la Fotografia. Ciò detto, stiamo riferendoci a quelle influenze sostanziali che compongono i tratti dei cammini personali (per quanto ce ne siano anche alcuni che vanno percorsi da soli), e che noi insistiamo a declinare anche verso la Fotografia di nostro interesse e frequentazione. Cosa vogliamo incontrare in Germania, una volta ancora, al culmine di un quotidiano italiano confuso e disordinato? Anche quei ristoranti, e sono tutti (a parte, forse, quelli di più alto lignaggio, che non frequentiamo), nei quali i piatti in menu sono stabiliti e non interpretabili. Se ci dovesse piacere il bollito, per esempio, sappiamo che dobbiamo anche accettare le verdure cotte di contorno decretato e non possiamo chiedere, magari, le patate. Così facendo, acconsentiamo all’idea esistenziale che anche le persone, per quanto ci riguarda quelle della Fotografia, vanno prese per quello che sono, in toto, senza stare lì a centellinare e discriminare tra ciò che più ci aggrada e quello che non apprezziamo. Si tratta di desiderio teorico: evitare di anteporre il Noi, ovvero l’Io, a tutto il resto... anche in Fotografia. Infatti, conosciamo un animatore del dibattito e della riflessione in Fotografia che consideriamo meritevole per le sue opinioni e osservazioni. Però, diamine, è un asociale, che preferisce stare da solo, piuttosto che con altri, e che, quando è in compagnia, sa di essere comunque solo e non fa nulla per alterare questo suo equilibrio esistenziale (e morale?). Lo accettiamo nella sua interezza, senza stare troppo lì a discriminare sui dettagli. Questo, anche questo, è il senso dell’accettazione degli altri... dell’arricchimento che ci offre ogni diversità rispetto a Noi... migliorandoci. Le nostre (edificanti) diversità dovremmo metterle insieme... non solo in Fotografia. Maurizio Rebuzzini

Accettata l’ipotesi e accertata la sua accidentalità (certificata), questa può essere considerata la mia prima testimonianza con la fotografia (Maurizio Rebuzzini): a tracolla, la custodia della macchina fotografica a soffietto con la quale è stata scattata questa lontana istantanea (stampa originaria 6,4x3,9cm, più mezzo centimetro di bordo frastagliato; certamente, si tratta di una copia a contatto dal negativo, che ha preso luce). A metà degli anni Cinquanta, quando è databile la fotografia, non potevo immaginare che, a seguire, sarei vissuto in un mondo dal quale è assente l’accettazione del diverso, qualsiasi questo sia (anche da pagina otto, su questo stesso numero), e nel quale domina il Noi / l’ Io... invece della disponibilità verso gli Altri. Conosco un animatore del dibattito e della riflessione in Fotografia che considero meritevole per le sue opinioni e osservazioni. Però, diamine, è un asociale, che preferisce stare da solo, piuttosto che con altri. Lo accetto nella sua interezza, senza stare troppo lì a discriminare sui dettagli. Questo, anche questo, è il senso dell’accettazione degli altri ... dell’arricchimento che ci offre ogni diversità rispetto a Noi... migliorandoci. Le nostre (edificanti) diversità dovremmo metterle insieme... non solo in Fotografia.

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Quella Coscienza (dell’Uomo) di Maurizio Rebuzzini (mFranti)

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OLTRE GLI INVISIBILI

Specifica d’obbligo: per mille motivi, probabilmente nessuno dei quali lecito, nella stesura di queste note si ricorre spesso al dialetto milanese, che -volente o nolenteci è endemico e riaffiora soprattutto in momenti di forte emozione: come è questo odierno, per quanto stemperato dalla dilatazione dei tempi di gestione della rivista in forma cartacea (così lontana, distante e volontariamente/ consapevolmente separata dalla frenesia social ). Per quanto possibile, accludiamo la traduzione. Del resto, partiamo da una notizia locale, che speriamo sia rimasta tale (locale), perché merita altri commenti (tra i quali, ci auguriamo, i nostri), che non il semplice svolgimento in cronaca. All’inizio di agosto, e non importa la data esatta, sul treno Regionale 2653, delle 12,20, che collega (quando riesce a farlo e quando Trenord si degna di onorare gli orari promessi... ne stiamo per parlare... anche) Milano a Cremona, si sarebbe sentito un annuncio radio imbarazzante. I telegiornali locali ne hanno riferito in maniere diverse, ma la sostanza potrebbe essere questa: «I passeggeri sono pregati di non dare monete ai molestatori. Scendete perché avete rotto. E nemmeno agli zingari: scendete alla prossima fermata, perché avete rotto i c...». Ovviamente, si è subito parlato di “razzismo” (comunque, “zingari” e non “Rom”, più adeguato); altrettanto ovviamente, l’autrice dell’annuncio (capotreno presto individuata) rischia ora sanzioni amministrative. Non entriamo nel merito di questo, che non ci compete, ma ci occupiamo d’altro, approdando alla fine anche alla Fotografia, nostro territorio comune e accordato di incontro e confronto. La cronaca dei fatti registra anche una componente sostanziosa, a partire dalla quale e in riferimento alla quale, una volta ancora, una di più, mai una di troppo, eser-

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citiamo quella vantata libertà di pensiero della quale andiamo/siamo fieri e orgogliosi. L’accadimento sarebbe passato inosservato, come uno dei tanti che scandiscono il ritmo delle esistenze comuni e in comune, se un passeggero non l’avesse segnalato tramite Facebook. Intervistato da telegiornali locali, il passeggero in questione ha ribadito il proprio disappunto, rivelandosi per quello che è (anche in chiave di eugenetica/fisiognomica, senza sconfinare nelle strumentalizzazioni naziste che ne hanno infamato una certa base plausibile): ricercatore medico presso un autorevole istituto milanese, è un benpensante liberal e progressista che giudica e sentenzia (da e con Michele Serra di Sinistra e altre parole strane, ma anche altre parole curiose / bizzarre / superflue, in edizione Feltrinelli, della fine del 2017 [e lontano dai nostri osservare, piuttosto che giudicare e pensare, invece di credere, insistentemente richiamati lo scorso giugno, nell’edizione Soltanto parole, ovvero Parole. Parole. Solo parole, altrimenti, e altrove, Parole. Parole. Parole su Parole, mutuati dalla voglia di comprensione -degli altri, soprattutto- che dovrebbe caratterizzare ogni esistenza positiva]). Come abbiamo avuto già modo di sottolineare, e qui ripetiamo (in interpretazione e adattamento da Memorie di Adriano, di Marguerite Yourcenar), rispondendo a una natura formata in parti uguali di cultura (erudizione?) e istinto, il vero luogo natio è quello dove, per la prima volta, si è posato lo sguardo consapevole su se stessi: la nostra prima (e unica) patria sono stati i libri. Ancora, la parola scritta ci ha insegnato ad ascoltare le voci. La vita ci ha chiarito i libri: osservare, piuttosto che giudicare (magari, fino al linguaggio fotografico, straordinaria combinazione di regole logiche e usi arbitrari).

Allora, in cronaca, contrariato dal terribile annuncio -sì, effettivamente terribile, nella sua declinazione e nei propri valori impliciti-, il viaggiatore sul Regionale 2653, in percorrenza da Milano a Cremona, si è espresso su e con Facebook, richiamando alla propria corte quella fiumana di fanigutun della Rete (fannulloni), che non vedono l’ora di individuare sempre e nuovi bersagli di sdegno da Società dello spettacolo (da e con Guy Debord, in richiamo da Pino Bertelli). Ovvero, non si è rivolto al capotreno colpevole di infamia (sì, proprio infamia), ma ha chiamato a raccolta gli scalmanati del mondo social. Forse, stiamo per prendere le parti del capotreno (al femminile). Comunque, ci sintonizziamo sul suo malessere e disagio, fino a comprenderlo, magari senza peraltro giustificarlo. Avete idea delle sue giornate sui treni locali della nostra frastornata rete ferroviaria? Tucc i dì, tucc i dì, tucc i dì (tutti i sacrosanti giorni), è il volto a tutti visibile di un’azienda che la fa viaggiare senza alcuna sicurezza a stretto contatto con situazioni pericolose (viaggiatori violenti), momenti critici (viaggiatori esasperati da un disservizio cronico: ritardi, cancellazioni, vagoni inadeguati, servizi fuori uso... da cui l’allocuzione “Ci scusiamo per il disagio”, la più diffusa e costante degli annunci in stazione) e inefficienze a profusione. Pensiamo che, a un certo punto, qualcuno ghe la fa pu... non ce la fa più! E questo qualcuno è l’“altro” attorno a noi, l’“altro” verso il quale andrebbero indirizzate le comprensioni esistenziali che dovrebbero distinguere, fino ad elevarlo, il pensiero liberal e progressista. Attenzione: si tratta di un “altro invisibile”, non un “altro palese” (per etnia, disabilità, costume sociale e contorni). Un “altro invisibile” che merita la stessa attenzione e le stesse considerazioni che sia-

mo soliti riservare a qualsivoglia “diversità palese”. Dunque, niente Facebook, cari amici, ma parole dirette, ma dialoghi, ma scambi di opinioni, ma osservare, piuttosto che giudicare. (Ri)Vendicarsi su Facebook, e dintorni, è facile: l’è coma picaga a vun ch’el caga (È come picchiare uno che sta c... / È come sparare sulla Croce Rossa). Agire tramite Facebook, invece di affrontare il quotidiano, è altrettanto facile, oltre che codardo, pusillanime, prepotente e arrogante: e stiamo considerando per esperienza diretta. Sentite questa: nel piccolo condominio di nostra residenza, una quindicina di abitazioni private, distribuite su quattro piani, a centonovantatré passi dallo studio/redazione di lavoro, riceviamo raramente, molto raramente, risposta ai nostri saluti di cortesia. Secondo le ore, buon giorno, buona sera, buon pomeriggio... e niente in ritorno. Per lo più, con sforzi fisici mirati, la testa rimane bassa, lo sguardo a terra. Osserviamo queste schiene che si dirigono verso casa, magari a collegarsi tramite Facebook con chi sa chi, purché non stia d’accanto, d’intorno. E la fotografia? Da e con Phil Stern (19192014), a conclusione di una nostra intervista, in occasione dei suoi novant’anni (in FOTOgraphia, dell’ottobre 2009): «Con tutte le cose meravigliose che ci sono nell’Universo, la fotografia non è così importante». Non è così importante, ma lo è per coloro i quali -noi, tra i tanti- le dedicano riflessioni, osservazioni e commenti. Dunque, l’ipotesi, l’idea di “invisibile”, riferita agli “altri”, fino ai “diversi”, verso i quali indirizzare sempre e comunque la nostra comprensione e la nostra partecipazione sentita, si rivela sia nella e con la fotografia realizzata, sia nella e con la fotografia come princìpio di comunione di intenti. Per proprio statuto, la fotografia che os-


Quella Coscienza (dell’Uomo) serva la vita nel proprio svolgersi (e qui intendiamo tutta la fotografia, anche in sala di posa, anche per e verso ambiti apparentemente altri), la fotografia che rende permanenti attimi che avrebbero dovuto rimanere momentanei e transitori, non può che essere una fotografia della Coscienza dell’Uomo, diciamola così, allungandoci da un accadimento lombardo preso a prestito e pretesto (quello articolato fino a poche righe fa). Ovviamente ispirata a quella The Family of Man (La Famiglia dell’Uomo), con la quale e attraverso la quale, nel 1955, Edward Steichen stabilì un punto fermo e assoluto, all’indomani della Seconda guerra mondiale, la nostra idea di Coscienza dell’Uomo si prospetta come punto di vista autorevole e autonomo, oltre che completamente nuovo (! con la relativa possibilità di stabilire una interpretazione originale e innovativa della Storia della Fotografia, autentico linguaggio visivo dal Novecento). La sfida è allettante, e per questo irrinunciabile... forse. Una visione di apertura, non chiusura. Una visione che non intende dimostrare nulla, ma suggerire domande, invitare a ragionamenti, offrire prospettive esistenziali, sollecitare interrogazioni. Il filo ispiratore e conduttore della Coscienza dell’Uomo, che sarà esplicitato nell’ambito di Matera 2019. Capitale Europea della Cultura (lo speriamo tanto), si richiama a quel pensiero meridiano, originariamente indicato da Albert Camus, che il filosofo Franco Cassano ha ben esposto e articolato nel suo saggio omonimo [Il pensiero meridiano; Editori Laterza, dal 1996], al quale tanta cultura italiana attinge oggi quell’idea di originalità nel confronti del Mondo che definisce, fino a caratterizzarla, una interpretazione della Vita della quale è doveroso sottolinearne il contributo in forma fotografica. Chiarimento di un modo di pensare e affrontare il quotidiano con pensiero umanamente proprio e definito: mai imperialista, mai colonialista, mai sovraccarico, mai violento, ma sempre nobilmente umile e rispettoso... soprattutto,

del diverso (qualsiasi cosa ciò possa significare per ciascuno di noi). Qui, corre l’obbligo di riprendere propriamente da Franco Cassano, in risposta a una esplicita domanda rivoltagli in ambito accademico: «Il pensiero meridiano è l’idea che il Sud abbia non solo da imparare dal Nord, dai Paesi cosiddetti sviluppati, ma abbia anche qualcosa da insegnare, e quindi il suo destino non sia quello di scomparire per diventare Nord, per diventare come il resto del mondo. C’è una voce nel Sud che è importante che venga tutelata, ed è una voce che può anche essere critica nei riguardi di alcuni dei limiti del nostro modo di vivere, così condizionato dalla centralità del Nord-Ovest del mondo. «Io credo che il Sud debba essere capace di imitare, ma anche di saper rivendicare una misura critica nei riguardi di un mondo che ha costruito i suoi parametri essenziali sull’ossessione del profitto e della velocità. Noi pensiamo che i Paesi del mondo siano divisi tra sviluppati e quelli in via di sviluppo, e che i secondi debbano diventare come i primi. Questo è impossibile sul piano generale, perché il reddito medio dei Paesi sviluppati sarebbe impossibile a generalizzarsi, impossibile soprattutto perché ogni Paese ha una sua storia attraverso la quale può interpretare lo sviluppo, costruendolo sulla base di quelle che sono le sue esigenze, di quella che è la sua storia, la propria voce. «Cantare con la voce degli altri è una falsità. Bisogna cantare con la propria e soprattutto rivendicare alcuni elementi che appartengono al Sud. Io, in genere, do un grande significato al tema della lentezza. Non è vero che il mondo è più perfetto man mano che diventa più veloce. Ci sono alcune dimensioni dell’esperienza che sono possibili solo nella lentezza, dall’amore alla conoscenza. Pensare che tutto possa essere compresso, reso più rapido e veloce, è un’illusione che produce una serie di patologie. «Ecco, il Sud ci può aiutare a percepire le patologie che na-

scono da un modello nel quale lo sviluppo e la ragione non hanno più un criterio di misura, sono diventate sregolate, prive di possibilità di governo». Ovviamente, nella nostra ipotesi in forma di radice di pensiero, intendiamo il Sud come Italia (anche): come culla di un modo di agire proprio, nella propria sostanza diverso da quello del Nord, con tutti i propri carichi di insolenza, arroganza e sfrontatezza, soprattutto nei confronti del diverso (ancora, qualsiasi cosa ciò possa significare per ciascuno di noi). Proprio perché italiani, i fotografi italiani si sono sempre distinti per il proprio particolare pensiero umanista, sia in ambiti specifici della fotografia del vero e dal vero, sia in applicazioni apparente-

mente distanti dalla registrazione della Vita nel proprio svolgersi (dalla moda al design, senza alcuna soluzione di continuità). In apparenza di fotografie tra loro simili, soltanto sulla superficie a tutti visibile, nostra intenzione è giusto quella di segnalare e sottolineare quel filo (rosso?) che distingue, ha sempre distinto, la fotografia italiana in un panorama internazionale adeguatamente vasto ed eterogeneo. Ovvero, sottolineando come il pensiero meridiano, volente o nolente, è implicito nell’essere italiani nel mondo e con il mondo. È un dono del DNA che ha stabilito anche una interpretazione fotografica che, a nostro avviso, identifica e definisce la Coscienza dell’Uomo. Anche verso l’invisibilità. ❖

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E domani e domani di Maurizio Rebuzzini

CON ALBERTO DUBINI

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ANGELO PEPE

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Una volta precisato e certificato che le nostre pagine sono rivolte al bene, al bello e al buono -per e con qualsiasi significato ciascuno di noi intenda-, qui e ora, scriviamo di Alberto Dubini. Certo, va riconosciuto e subito attestato: lo facciamo in questo momento, per offrirgli un qualche conforto esistenziale che gli possa essere utile e proficuo in un momento di suo estremo dolore... il più grande che possa essere, per formalizzare quell’abbraccio che, nelle più recenti settimane, gli abbiamo testimoniato (estendendolo alla moglie Concetta). Noi ci esprimiamo con le parole, soprattutto con la scrittura (riconosciamolo a chiare lettere: quanto scarabocchiamo potrebbe anche apparire come parola attorno e sulla Fotografia; in realtà, sono soltanto, non soprattutto, espressioni della Vita). Lui si pronuncia con la fotografia, che accompagna suoi istanti vitali. Giocoforza, qui e ora, incontrarsi: ciascuno per e con se stesso. Di Alberto Dubini fotografo abbiamo scritto almeno in due occasioni, una più prossima dell’altra: lo scorso maggio, è stata presentata la sua appassionante serie Visitors, realizzata a inaugurazioni e svolgimenti di mostre fotografiche; nell’ottobre 2013, è stata la volta di una sua peregrinazione milanese attorno affissioni che stavano promuovendo la mostra Gianni Berengo Gardin. Storie di un fotografo, in prestigioso e autorevole allestimento al Palazzo Reale. Quindi, in trasversalità, Alberto Dubini è stato con noi anche nell’Editoriale del marzo 2014, con quattro sue fotografie realizzate nel corso di uno speech che ci coinvolse (in forma protagonista); poi, in replica, con ulteriori cinque immagini analoghe, il successivo aprile, quando e dove ragionammo attorno il senso di chi fotografa oggi.

Sì, Alberto Dubini fotografo, per passione e non mestiere: precisiamolo. Sì, Alberto Dubini fotografo, negli incroci che offre il vivere assieme questo mondo comune, ciascuno con le proprie intenzioni e inclinazioni. In questo senso, in confessione d’obbligo, dobbiamo rivelare che un nostro incontro di qualche anno fa, in una serata presso il Circolo Fotografico Le Betulle, ancora di Milano, nostra città di vita, compone i tratti di uno dei nostri più dolorosi rammarichi esistenziali. Raccontiamolo. Lui, Alberto Dubini, era protagonista della serata, con presentazione di una sua serie fotografica, e non ricordiamo quale, per quanto non sia necessario rammentarla. Una volta esaurita la presentazione ufficiale d’obbligo, presumiamo del presidente del Cir-

colo (che, nel frattempo, ha esaurito il proprio ciclo vitale), e dopo sue parole a commento, essendo noi presenti tra gli spettatori, ci fu chiesto di esprimere un’opinione, un parere, forse (addirittura) una nota critica. Non ricordiamo i motivi per i quali il nostro stato d’animo non era sereno -tanti ne abbiamo, giorno dopo giorno-; fatto sta che, speriamo con garbo, almeno questo, declinammo l’invito. La delusione sul suo volto fu impressionante e scioccante, ma, nonostante questo -anteponendo, malauguratamente, un egoismo momentaneo-, rimanemmo fermi nella nostra risoluzione. Stemperate le pressioni individuali, l’indomani, ci rendemmo conto del terribile sgarbo che gli avevamo riservato. Lo chiamammo, per scusarci... ma le scuse servono a niente: non ci sono

scappatoie all’indisposizione verso gli altri. Abbiamo anteposto un malessere (momentaneo) individuale a una cortesia dovuta, debita e doverosa. Ripetiamo: quella scortesia non ha giustificazioni, per quanto possa (magari) avere motivazioni, ed è, per l’appunto, una delle nostre profonde amarezze... con le quali conviviamo. Non serve a nulla conteggiare successive disposizioni nei confronti della fotografia di Alberto Dubini: quell’assillo è indelebile. Infatti, la Vita non dipende da -né si basa su- parametri propri e caratteristi di bilanci aziendali, con somma algebrica, ma su sentimenti assoluti e non compensabili: soprattutto, ed eccoci, quelli negativi. Ancora, un altro episodio della nostra vita comune e accostata. Altrettanti anni fa, in occasione di una mostra fotografica di Alberto


E domani e domani Dubini presso uno spazio istituzionale del Comune di Milano, arrivato in consueto anticipo, fummo avvicinati dall’allora presidente del Circolo Fotografico Milanese, del quale lo stesso Alberto Dubini faceva parte, e -crediamo- ancora ne faccia parte. Mal conteggiate e considerate le differenze tra le nostre due personalità -noi apparentemente energici e lui effettivamente timido e riservato (a fronte di un garbo e una gentilezza più che apprezzabili)-, il presidente del Circolo ebbe a osservare che «Uno come Dubini, tu te lo mangi a colazione». Anche questo è un dolore della nostra vita. Come se la Vita fosse una somma di aggressioni e imposizioni e intimazioni e accanimenti: diavolo, è questo che lasciamo trasparire? Il nostro affrontare la Fotografia a viso aperto e mente libera fa supporre, a qualcuno, che siamo qui per at-

tentare alla legittima intenzione e volontà altrui di frequentare la stessa Fotografia con passo diverso dal nostro? Se così è... sarebbe bene farsi a lato, oppure scendere da questo tram. Infatti, Alberto Dubini segue e incontra la Fotografia con passo proprio, diverso da quello di molti altri: ma la sua è una cadenza che va rispettata, da rispettare, così come sono altrettanto da onorare tutte, proprio tutte, le intenzioni individuali della Fotografia, a qualsiasi proposito rispondano, a qualunque pensiero reagiscano: senza alcuna soluzione di continuità, dall’autore più affermato e acclamato all’ultimo fotografo non professionista, che scatta con onestà e franchezza (in una scala di valori che ci è estranea, per quanto assunta e accolta nella Società dello spettacolo). Saremmo stupidi, come non crediamo di essere, se parago-

nassimo la Fotografia di Alberto Dubini a quella che ha contribuito a scrivere capitoli fondanti nell’evoluzione sociale della Consapevolezza dell’Uomo. Ma saremmo ancora più stupidi, come ancora sappiamo di non essere, se ignorassimo quanto e come anche il suo contributo fotografico serve a sottolineare, fino a edificare, la medesima Consapevolezza dell’Uomo... magari su e per una scala di meriti indipendente da qualsivoglia valore, ma subordinata a condizioni di diffusione e penetrazione stabilite altrove e altrimenti. Ciò a dire -qui e ora, in nostro riferimento esplicito; in assoluto, per tutta la Fotografia-, che, alla base del ragionamento filosofico, tutti coloro i quali si esprimono con il suo linguaggio, tutti loro, sono meritevoli di attenzione e considerazione, senza alcuna gerarchia valutativa, per quanto in dipendenza di graduatorie infra-

strutturali e impiantistiche (leggi diffusione tramite stampa giornalistica e/o autoriale). Al culmine di un percorso drammatico e funesto, da domenica diciannove agosto, Alberto Dubini è oppresso da un carico esistenziale inammissibile (che condivide con la moglie Concetta). In parole che facciamo nostre, noi con lui in espressione pubblica (questa), ma perfino privata, tenendo conto che bisogna essere riconoscenti per il tempo che si divide insieme, anche se è solo un momento fuggevole: La luce del sole arde dorata, / non possiamo recuperare il giorno / dell’antico giardino / in un album del passato, / iniziamo il nostro gioco, / o il tempo non perdonerà (attribuite al poeta / ispettore capo Chen Cao, del Dipartimento della polizia di Shanghai, nella fantasia letteraria di Qiu Xiaolong). Un abbraccio. ❖


Cinema

di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

EVOCAZIONE PIN-UP

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Mille e mille sono i motivi per i quali molti seguono le serie televisive, ripetutamente programmate da ogni emittente disponibile in Italia, sia in chiaro (ormai, si dice così), sia in quelle a pagamento/abbonamento. Tutti i motivi per i quali ci si affeziona alle serie sono ampiamente legittimi, quantomeno nell’intimità dei pensieri e ritmi dell’esistenza quotidiana di ciascuno di noi. A parte l’idea sovrastante di rilassatezza che se ne ottiene, magari dopo intense e faticose giornate, e che da sola potrebbe anche bastare, non possiamo ignorare come e quanto ci si colleghi e connetta, addirittura, con le vicende dei protagonisti seriali e relativi interpreti. Se volessimo individuare un punto di partenza e svolta delle sceneggiature e degli svolgimenti, all’indomani dei telefilm primigeni dei decenni precedenti, sostanzialmente lindi e asettici, ovvero privi di vita privata dei personaggi, potremmo tornare alla serie poliziesca Hill Street giorno e notte (Hill Street Blues), prodotta dalla Nbc per sette stagioni, dal 1981 al 1987, che stabilì molte linee spartiacque: episodi autoconclusivi, ma con continuità nelle vite dei poliziotti protagonisti, e riprese in location reali, con luce ambiente (Scientific and Engineering Award, agli Oscar 1987, al negativo colore Kodak Color High Speed Daylight 5297/7297, grazie al quale la serie riuscì a imporre la propria “fotografia”; e il film Tootsie, del 1982, fu in grado di usare un parco luci abbassato, per non compromettere l’abbondante trucco del protagonista Dustin Hoffman, nei panni della donna Dorothy Michaels). Da tempo, questo è il format delle serie poliziesche statunitensi, che si accavallano le une alle altre, che segnalano proprie intense personalità. Quindi, riprendendo le motivazioni di accettazione da parte del pubblico, ognuna di loro offre e propone anche spunti di riflessione e considerazione, oltre il mandato principale in forma di spettacolo (e reddito di impresa). Ogni serie esprime una propria personalità trasversale, che aggiunge valore e sa-

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pore alle sceneggiature: perfino, in forma di crescita culturale e sociale individuale. Sì, è proprio così. In questo senso, è esemplare la serie televisiva statunitense Cold Case - Delitti irrisolti (Cold Case, in originale), prodotta dal 2003 al 2010, ma ancora ampiamente replicata in Italia: una fittizia divisione della polizia di Filadelfia indaga, risolvendoli sempre, su casi di omicidio avvenuti nel passato, con salti temporali indietro nei decenni. Subito rispondiamo a una domanda latente e plausibile: come è possibile chiarire omicidi del passato, spesso remoto, se non sono stati decifrati in cronaca? È semplice: da una parte c’è la vita, altrove il cinema, con i propri margini di finzione (per esempio, nei

Una volta svolto il proprio capitolato in forma di spettacolo (lecito), secondo noi, la serie televisiva Cold Case Delitti irrisolti (qui sopra, il cast dei detective che indagano) ha il merito trasversale di decifrare il passato rispetto al presente... discorso ampio. (in alto) Il cast 1953 dell’episodio Pin Up Girl, nono della sesta stagione di Cold Case Delitti irrisolti.

film, i personaggi trovano sempre parcheggio). Quindi, certifichiamo la trasversalità che abbiamo individuato e ci interessa sottolineare: indagando nel passato, ogni vicenda affrontata offre anche chiavi di decifrazione dello stesso passato, a confronto con il presente. Ovvero: l’attualità è frutto di evoluzione, anche dell’intelletto, del costume e della socialità. Non è sempre stato così, e cerchiamo di valutare il passato con metri di giudizio non inquinati dal pensiero odierno. Ma non è per questo che oggi, e qui, in questo spazio mirato e dedicato, incontriamo un episodio di Cold Case - Delitti irrisolti, per la precisione il nono della sesta stagione: Pin Up Girl, in prima trasmissione statunitense


Cinema

il 23 novembre 2008... giusto dieci anni fa, circa. Ovviamente, come il titolo rivela, ci si allontana fino all’epoca della fotografia di ragazze procaci che si è espressa negli anni Cinquanta, con datazione sceneggiata esatta dall’8 giugno 1953, pubblicate in riviste accondiscendenti (per una cui analisi e catalogazione rimandiamo a un’ottima edizione libraria: 1000 Pin-Up Girls; Taschen Verlag, 2008; 544 pagine 14x19,5cm, cartonato; 15,00 euro). Dunque, due componenti a noi vicine: la fotografia, in quanto tale, e il fenomeno delle Pin-up, con richiamo a Betty Page, tante e tante volte evocata da e in queste pagine. La vicenda è semplice. Sulla base del ritrovamento di una fotografia si-

Nell’episodio Pin Up Girl, della serie televisiva Cold Case Delitti irrisolti, la protagonista Rita Flynn, interpretata da Erin Cummings, è una modella dei primi anni Cinquanta con ambizioni verso il fotogiornalismo come racconto di Vita. Da cui, una escursione in quartieri poveri di Filadelfia. Con Leica IIIa, le si attribuiscono fotografie allineate con la Storia del suo linguaggio espressivo.

mile alla scena del crimine, ma palesemente scattata qualche istante prima, la squadra di agenti guidata dalla detective Lilly Rush (interpretata dall’attrice Kathryn Morris) è sollecitata a riaprire il caso dell’omicidio della modella Rita Flynn, Pin-up dei primi anni Cinquanta (uccisa nel luglio 1953). Ovviamente, pur essendo una sceneggiatura estranea alla realtà, che -però- da questa trae ispirazione, la retrovisione avvicina un mondo che si è espresso con tante riviste dedicate e attenzione per queste ragazze-simbolo (ancora, rimandiamo al censimento di 1000 Pin-Up Girls, in edizione Taschen Verlag), spesso trasversali alle rievocazioni storiche del periodo (per esempio, diagonali al racconto

del romanzo L.A. Confidential, di James Ellroy, del 1990, ambientato nella Los Angeles degli anni Cinquanta, con relativa trasposizione cinematografica del 1997, firmata da Curtis Hanson, con un cast di alto profilo). La rievocazione con rispetto della realtà ha sostanziosi tratti in comune con il mito e la leggenda di Betty Page (altrove, Bettie Page... della quale ci siamo occupati in diverse occasioni successive), ma il personaggio principale Rita Flynn, interpretato da Erin Cummings, se ne discosta volontariamente, giusto in considerazione della sceneggiatura che la vuole vittima di omicidio. Però, la sua migliore amica e collega Betty Sue Baker, che verrà individuata come l’assassina, in

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Cinema DAI DIALOGHI

Come abbiamo sottolineato spesso, proprio in questo stesso ambito redazionale, in molte occasioni, le sceneggiature statunitensi approdano alla fotografia con competenza di termini, indipendentemente dal contesto nel quale le riflessioni sono inserite: un esempio, sopra tutti, riguarda i riferimenti fotografici nei dialoghi del cinematografico I tre giorni del Condor, di Sydney Pollack, del 1975, tra i protagonisti Joseph Turner, agende Cia su base letteraria, e Kathy Hale, involontariamente coinvolta nella vicenda, fotografa non professionista, rispettivamente interpretati da Robert Redford e Faye Dunaway [FOTOgraphia, maggio 2009]. Anche per questo “leggero” Pin Up Girl, nono episodio della sesta stagione della serie televisiva Cold Case - Delitti irrisolti, in prima trasmissione statunitense il 23 novembre 2008, possiamo segnalare passaggi convincenti. Eccoli qui. A proposito della solarità delle Pin-up del passato remoto, magari a partire da Betty Page: «Ero un fan, guardavo le sue fotografie in Corea -rivela l’anziano Gus Medica (l’attore Ron Masak), le cui osservazioni riaccendono il caso di omicidio-. [...] Il suo sorriso ci dava coraggio e ci trasmetteva speranza». A proposito di Rita Flynn, rievocando il 1953, nel 2008, il fotografo Zip Fellig (da Weegee / Arthur H. Fellig?), interpretato dall’attore John Kerry: «Non l’ho mai dimenticata. Anche la nuova generazione è innamorata di lei. [...] Eravamo una squadra. Una Pin-up non è solo una bella donna». In considerazione libera, il produttore Monty Moran, interpretato dall’attore Harold Gould, nel 2008, rievoca: «Il segreto di una bella fotografia sta nel fatto che ogni volta che la guardi noti dei particolari che ti sorprendono». Quando Rita Flynn / Erin Cummings presenta sue fotografie a Betty Sue Baker / Chelsea Hobbs, le chiede un parere. «Ma, sono semplici fotografie», rileva l’amica. «È vita reale, ed è bellissima», precisa lei. «Vita reale... ma di cosa stai parlando?» / «Beh, del mondo vero. Insomma, ti ricordi quanta gente strana servivamo al bar? [...] A me, manca molto quella vita». Più avanti, Reg Donaldson (interpretato dagli attori Aaron Gaffey, nel 1953, e William Dennis Hunt, nel 2008) evoca un’uscita fotografica con lei (armata di Leica IIIa): «Rita diceva che erano momenti di vita. Era brava... e questo è tutto». Osservando dettagli della fotografia della scena del crimine, successiva al ritratto ritrovato, in posa simile, dal quale riparte l’indagine, l’agente della scientifica Frankie Rafferty, interpretata dall’attrice Tania Raymonde, rileva che «Pensavo fosse un accendino, lo vedi? Guarda qui: questa fotografia è stata scattata con una Leica IIIa; era un modello sofisticato e aveva anche un timer per l’autoscatto». «Leica IIIa con autoscatto... forse Rita si è fatta la fotografia da sola», riflette il detective Scotty Valens, interpretato dall’attore Danny Pino (anche agente Nick Amaro nella serie televisiva coeva Law & Order: Special Victims Unit [in FOTOgraphia, del settembre 2017)]. Da cui la constatazione che Rita Flynn era effettivamente una fotografa, che firmava con lo pseudonimo di Stanley Nopell: «In quegli anni, erano poche le donne-fotografo, perciò si firmava con uno pseudonimo», deduce la detective Lilly Rush, interpretata dall’attrice Kathryn Morris. «Questo è un reperto, o è la fotografia dei tuoi nonni?», chiede Scotty Valens / Danny Pino a Frankie Rafferty / Tania Raymonde, osservando una istantanea scattata all’interno di un vagone-ristorante ferroviario. «L’ho trovata in un vecchio libro», è la risposta. Quindi, in collegamento ideale (e cercato!) con quanto già rilevato da Monty Moran / Harold Gould, che abbiamo riferito qualche riga fa: «Ogni volta che la guardo, noto qualcosa di nuovo... come il timido sorriso di quella donna» / «E ti chiedi perché sorride» / «Sì, c’è tutta una vita, in questa fotografia, che non conosciamo» / «Beh, vediamo un po’: lui ci vuole provare con quella donna, e le ha appena detto “ti aspetto nel mio appartamento, tra cinque minuti”» / «No. La donna che sorride ha appena ammazzato il marito, ed è soddisfatta» / «Perché?» / «Lo odia. Lei ha un amante» / «Sì... sei diabolica, Frankie». E altro ancora... da rintracciare individualmente.

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Il nocciolo della sceneggiatura dell’episodio Pin Up Girl, della serie televisiva Cold Case Delitti irrisolti, verte sul passaggio della protagonista (assassinata) Rita Flynn dal ruolo di Pin-up per riviste compiacenti dei primi anni Cinquanta a quello di fotografa, con avvio scenografico proprio dalla sala di posa (con Argus serie C, a telemetro).

quanto invidiosa del successo di Rita, ha i tratti fisici di Betty Page, oltre al nome di battesimo, che si completa con quel “Baker” sicuramente estratto dall’anagrafe di Marilyn Monroe... Norma Jeane Mortenson Baker Monroe. Ancora e in sovramercato, Betty Sue Baker arriva all’omicidio, per quanto involontario, quando si sconvolge, invidiosa, perché Rita Flynn, estranea al proprio successo, che invece lei rincorreva costantemente, intende smettere di posare per riviste compiacenti... per diventare fotogiornalista. Per quanto priva del lieto fine, una fiaba a sfondo fotografico. Ed è per questa componente, a noi prossima, che la registriamo e annotiamo. E l’abbiamo raccontata. ❖



Buon compleanno di Antonio Bordoni

SETTANTA’ NNI CON TE(X)

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© SERGIO BONELLI EDITORE (4)

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Quando arrivano le ricorrenze, come questa che stiamo evocando, per i settant’anni di un personaggio dei fumetti molto amato, con la cui compagnia sono cresciute generazioni (la nostra, tra le altre; la nostra, con le altre), vorremmo che accanto a noi ci fossero anche protagonisti della vicenda. Certo settant’anni di Tex, nel senso di Tex Willer, sono forse troppi, per sperare di celebrarli assieme ai suoi creatori, lo sceneggiatore Gianluigi Bonelli (Giovanni Luigi; 1908-2001) e il disegnatore originario Galep (Aurelio Galleppini; 1917-1994 [per curiosa coincidenza, il nostro primo ricordo, nel numero di avvio del maggio 1994, con evocazione della copertina numero Quattrocento, nella quale Tex saluta... e se ne va]). Però, gli stessi settant’anni avrebbero potuto essere adeguati alla compagnia di Sergio Bonelli, figlio di Gianluigi, intestatario della casa editrice, mancato nel settembre 2011 (era nato nel 1932) [FOTOgraphia, novembre 2011]. Comunque, in richiamo dovuto, l’attuale ulteriore celebrazione segue altri nostri ricordi precedenti, tra i quali spiccano quelli per i cinquant’anni 19481998 [FOTOgraphia, marzo 1998] e il numero Cinquecento [FOTOgraphia, ottobre 2002]. Anticipato dal numero Seicentonovantacinque (695), in edicola da inizio settembre, con Album di figurine in allegato, il settantesimo anniversario di Tex richiama e celebra la data di partenza del 30 settembre 1948, quando debuttò il primo albo a striscia di Tex, come appena annotato, personaggio creato da Gianluigi Bonelli e realizzato graficamente da Aurelio Galleppini (in arte, Galep), che -nel corso dei decenni- si è affermato come il più amato eroe del fumetto italiano (assoluto dovuto) e uno dei più longevi del fumetto mondiale. Da cui e per cui, oggi, settant’anni dopo, Sergio Bonelli Editore celebra il Ranger del Texas (che, per i Navajos, è il saggio capo Aquila della Notte) con una imponente mostra rievocativa e laudativa: Tex. 70 anni di un mito, in cartellone al Museo della Permanente, di Milano, dal prossimo due ottobre fino al successivo ventisette gennaio.

Originariamente caratterizzato da Galep (Aurelio Galleppini), nel corso dei decenni, Tex Willer è stato interpretato e disegnato da una qualificata serie di autori (nel dettaglio, al sito www.sergiobonelli.it).


Buon compleanno CON TIMOTHY H. O’SULLIVAN

Gli albi Il solitario del West (250, agosto 1981), Giungla crudele (251, settembre 1981) e Il volto del traditore (252, ottobre 1981), nei quali è originariamente divisa l’avventura che comprende la presenza

del fotografo Timothy H. O’Sullivan, successivamente raccolta in volume da Mondadori ( Tex nell’Inferno Verde; 2000), sono stati ristampati e riproposti nelle collane Tex - Tre stelle, TuttoTex e Nuova ristampa - Tex.

Come anticipato in chiusura dell’attuale intervento redazionale, che riferisce i termini della celebrazione Tex. 70 anni di un mito, in allestimento scenico molteplice (dal Museo della Permanente, di Milano, a Librerie Feltrinelli), va ribadita una combinazione fotografica di Tex con la fotografia, scandita dalla presenza di Timothy H. O’Sullivan, fotografo della Frontiera [FOTOgraphia, febbraio 2001 e novembre 2011]. L’avventura di Tex Willer, successivamente raccolta anche nel volume Tex nell’Inferno Verde, pubblicato da Mondadori, nel 2000, è stata originariamente distribuita su tre fascicoli mensili successivi (sceneggiatura di Guido Nolitta - Sergio Bonelli, disegni di Giovanni Ticci): Il solitario del West, numero 250, dell’agosto 1981; Giungla crudele, numero 251, del settembre 1981; Il volto del traditore, numero 252, dell’ottobre 1981. Dopo la prima pubblicazione, gli stessi tre albi sono stati ristampati nelle collane Tex - Tre stelle (dicembre 1984, gennaio e febbraio 1985), TuttoTex (allora quindicinale: 29 luglio, 14 agosto e 27 agosto 1997) e Nuova ristampa - Tex (allora quindicinale: 13, 27 febbraio e 13 marzo 2010). In tutti i casi, sono stati confermati i riferimenti della stampa litografica in bianconero di 16x21cm, inferiore alla preziosa edizione Mondadori a colori, riunita nel titolo Tex nell’Inferno Verde, che offre altresì il respiro di dimensioni gradevolmente superiori, 22x31cm. A seguire, la figura di Timothy H. O’Sullivan torna in una successiva avventura di Tex Willer, ancora distribuita su altri tre fascicoli: L’uomo nell’ombra, numero 287, del settembre 1984; Grido di guerra, numero 288, dell’ottobre 1984;

La vendetta di Tiger Jack, numero 289, del novembre 1984. In questo caso, la storia, l’ultima disegnata da Galep (Aurelio Galleppini), inizia a metà dell’Uomo nell’ombra (con Il killer senza volto, da pagina 56), e si conclude a metà della Vendetta di Tiger Jack (a pagina 70). Anche qui, vanno segnalate anche le relative ristampe mensili di Tex - Tre stelle (gennaio, febbraio e marzo 1988), TuttoTex (13, 26 febbraio e 11 marzo 1999) e Nuova ristampa - Tex (17 settembre, Primo e 15 ottobre 2011). Se nella prima consistente avventura (sceneggiata da Sergio Bonelli), riproposta anche da Mondadori, Timothy H. O’Sullivan trascina Tex Willer nella Storia, in questa seconda partecipazione, il fotografo viene coinvolto nella Storia degli Stati Uniti, arrivando a fotografare la firma al trattato di pace con gli indiani Cheyenne del fiero Appanoosa. Come dichiara Timothy H. O’Sullivan, nella fantasia della sceneggiatura di Guido Nolitta - Sergio Bonelli (ancora!): «Ho fatto fotografie di tutti i tipi nel corso della mia carriera, Tex, voi lo sapete bene... Battaglie, incendi, alluvioni, eruzioni, cataclismi e poi indiani, cinesi, banditi e sceriffi, insomma tutto quello che questa straordinaria terra può offrire a un occhio attento come il mio... Ma, per una strana serie di coincidenze, non mi è mai capitato di immortalare un fatto storico come questo: la firma di un trattato di pace tra una grande potenza militare e industriale e un gruppo sparuto di poveri, primitivi individui che sembrano l’immagine di un passato scomparso. Questa potrebbe essere l’ultima volta che si verifica un avvenimento di questo genere, capite? La mia ultima occasione!». Il fotografo Timothy H. O’Sullivan torna in una successiva avventura di Tex, distribuita su altri tre fascicoli, sceneggiati ancora da Guido Nolitta Sergio Bonelli e disegnati da Galep (Aurelio Galleppini): L’uomo nell’ombra (287, settembre 1984), Grido di guerra (288, ottobre 1984) e La vendetta di Tiger Jack (289, novembre 1984). Questo ritorno comprende la documentazione fotografica della firma al trattato di pace con i Cheyenne del fiero Appanoosa.

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© SERGIO BONELLI EDITORE

Oltre questo imponente allestimento (in trailer all’indirizzo https://youtu. be/k3TTjIPeGUs), la stessa ricorrenza è altresì scandita da una rassegna derivata, che ne conserva il titolo, itinerante nel circuito delle Librerie Feltrinelli, con avvio da quella di Roma, alla Galleria Alberto Sordi (in viale Prospero Colonna 33), dal sette settembre: calendario completo, a chiusura di intervento redazionale. Curata da Gianni Bono, emerito storico e studioso del fumetto italiano, in collaborazione con la redazione di Sergio Bonelli Editore, in ogni proprio allestimento (ampio e scandito al Museo della Permanente, di Milano; quantitativamente ridotto nelle Librerie Feltrinelli, ma altrettanto appassionante), la mostra Tex. 70 anni di un mito riferisce bene di come Tex sia riuscito, anno dopo anno, a entrare a far parte delle abitudini di lettura degli italiani, conquistando generazioni diverse, dal 1948 di origine a oggi. Questo si deve, soprattutto, al suo profondo senso di giustizia, che condivide con i suoi pard storici (il figlio Kit, il navajo Tiger Jack e il Ranger Kit Carson) e alla sua congenita generosità... valori e contenuti che stanno venendo meno nell’Italia dei nostri giorni. Allo stesso momento, il medesimo allestimento sottolinea anche come Tex e soci abbiano alimentato un costume, e generato prolificamente (soprattutto verso il cinema degli anni Sessanta, a

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Dipinto celebrativo del personaggio Tex Willer (che, per i Navajos, è il saggio capo Aquila della Notte) realizzato da Claudio Villa, succeduto a Galep (Aurelio Galleppini) nel disegno delle copertine di Tex, dal numero 401 [la copertina del numero 400 è stata l’ultima disegnata da Galep, prima della sua scomparsa; FOTOgraphia, maggio 1994]. Lo stesso Claudio Villa ha firmato una ventina di albi mensili. Lo staff di sceneggiatori e disegnatori di Tex è ampio, oltre che altamente qualificato (www.sergiobonelli.it).

partire dalla regia di Sergio Leone), imponendosi come eroi ai quali riferirsi e richiamarsi. Forse. Qualche anno fa, soltanto in forma cartacea di libro, oggi anche attraverso la Rete (quella che comprende, rispetta e frequenta ancora l’approfondimento e la competenza di un tempo, interpretandoli in chiave attuale), molteplici studi hanno analizzato il personaggio, le relative sceneggiature e, perfino, il passo quotidiano. Così, chi volesse saperne di più, anche attraverso curiose trasversalità, non ha che da tornare a leggere, per studiare, disponendo di fonti autorevoli e attendibili. Fino al censimento minuzioso dei duelli pistole alla mano, piuttosto che dei “cattivi” uccisi (ma, da tempo, gli scontri a fuoco si concludono raramente con morti ammazzati), degli amici fedeli (El Morisco, Montales, Gros-Jean, Cochise... e Pat Mac Ryan, quando c’è da menar le mani! [dal sito www.sergio bonelli.it]), dei nemici storici (che tornano periodicamente: Mefisto, Proteus / Perry Drayton, El Muerto / alias Paco Ordoñez, la Tigre Nera, Andrew Liddell / il Maestro), delle poche donne di contorno (in un fumetto tutto al maschile, merita ricordo la moglie indiana Lilyth, uccisa da una epidemia provocata da coperte infette distribuite da mercanti bianchi, vendicata da Tex, che da settant’anni, fermo ai suoi quaranta, è fedele alla sua memoria e non si è mai

avvicinato a nessuna altra donna). Da parte nostra, in riquadro opportuno, che completa questo intervento redazionale, ribadiamo una combinazione fotografica di Tex con la fotografia, con passo attinto dalla sua Storia (presenza di Timothy H. O’Sullivan, fotografo della Frontiera), che abbiamo analizzato e approfondito nel febbraio 2001 e novembre 2011. Settant’anni di e con Te(x). ❖ Tex. 70 anni di un mito; a cura di Gianni Bono, in collaborazione con la redazione di Sergio Bonelli Editore. Museo della Permanente, via Turati 34, 20121 Milano (www.lapermanente.it). Dal 2 ottobre al 27 gennaio 2019; tutti i giorni 9,30-20,00, giovedì 9,30-22,30 (aperture straordinarie, nelle festività di dicembre e gennaio). ❯ Presso le Librerie Feltrinelli, nei rispettivi orari di apertura: Feltrinelli Roma, Galleria Alberto Sordi, viale Prospero Colonna 33: settembre; Feltrinelli Verona, via Quattro Spade 2: ottobre; Feltrinelli Napoli, piazza dei Martiri 23: novembre; Feltrinelli Torino, Stazione Porta Nuova: dicembre; Feltrinelli Genova, via Ceccardi 18-20-22-24 rossi: gennaio 2019; Feltrinelli Milano, piazza Piemonte 2/4: febbraio 2019; Feltrinelli Firenze, via dei Cerretani 40R: marzo 2019; Feltrinelli Palermo, via Cavour 133: aprile 2019.



JIM HEIMANN COLLECTION / COURTESY TASCHEN

Non è l’etichetta (“Fotografia”) che stabilisce il contenuto, ma è la sua sostanza (del contenuto) che decreta e prescrive i fondamenti. Monografia illustrata che non si riferisce esplicitamente alla Fotografia asettica e autoreferenziale, Dark City. The Real Los Angeles Noir mantiene con eccezionale impetuosità ciò che il titolo annuncia (The Real Los Angeles Noir / L’autentica Los Angeles noir) e promette (Dark City / Città oscura). Resoconto dal passo e dalla prospettiva originali, efficace come pochi altri sono riusciti a essere: e questo è il valore del linguaggio fotografico, in quanto tale (linguaggio), e questo è il senso della cernita d’archivio e relativa consecuzione cadenzata (qui in forma di messa in pagina)

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TASCHEN E

CLIFF WESSELMANN / COURTESY GREGORY PAUL WILLIAMS, BL PRESS LLC

CITTÀ OSCURA



(doppia pagina precedente, a sinistra) Due sospettati sono tenuti sotto controllo da un agente di polizia; 1955 circa. (doppia pagina precedente, a destra) Un detective, con sigaro, esamina un’arma del delitto; 1940 circa.

di Maurizio Rebuzzini

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bbiamo come la sensazione, non certo casuale, ma maturata sulla base di esperienze precedenti, che l’ottima monografia illustrata Dark City. The Real Los Angeles Noir, curata dall’accreditato e autorevole Jim Heimann per conto del coraggioso e valoroso Taschen Verlag, di Colonia, in Germania, rischi di non essere adeguatamente presa in considerazione dal mondo della fotografia, soprattutto da quello pomposamente accademico, che limita le proprie visioni agli autori celebrati e agli argomenti consolidati. Certo, non si tratta di un titolo che si iscrive ufficialmente nel capitolato della Fotografia, così come la si è soliti interpretare (asettica e priva di affinità socio-culturali). Almeno, così come sono soliti intenderla coloro i quali si esprimono lontani dal nostro modo di intendere il rapporto con gli altri, guidato da un motto (di Ernst Leitz II, che lo ha riferito a qualcosa di immenso [FOTOgraphia, dicembre 2015]), che decliniamo nel nostro quotidiano, anche in Fotografia: dire poco, fare molto.

L’attrice Betty Rowland (nata il 23 gennaio 1916... oggi centoduenne) dietro le quinte delle Follies; 1938 circa.

Dopo un raid della polizia al Carolina Pines Restaurant, in Melrose Avenue, prostitute che si nascondono agli obiettivi dei fotocronisti; 1957 circa.

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JIM HEIMANN COLLECTION / COURTESY TASCHEN

Investigatori esaminano il corpo dell’attrice Carole Landis, che, dopo una vita di depressione e matrimoni falliti, si è suicidata con una overdose di Seconal; 5 luglio 1948.

Ovvero, e nello specifico, Dark City. The Real Los Angeles Noir non si presenta e offre per una propria personalità autenticamente fotografica, che pure ne qualifica l’edizione, ma si concede a un pubblico più ampio, avvicinato non da una struttura sovrastante, ma dal contenuto esplicitato: l’aspetto oscuro di Los Angeles, accostato e visualizzato da fotografie di cronaca nera della prima metà del Novecento. Però, attenzione, il tasso di influenza e valore della Fotografia non si misura sulla evidenza di propri richiami autoreferenziali (alla stessa Fotografia), ma si deve intendere per come e quanto questa influenzi, abbia influenzato le esistenze, prima singole e poi in edificazione collettiva. Diciamola meglio, forse. Non è l’etichetta (“Fotografia”) che stabilisce il contenuto, ma è la sua sostanza (del contenuto) che decreta e prescrive i fondamenti.

SOCIALITÀ DELLA FOTOGRAFIA In questo senso, l’accademismo della Fotografia, certo accademismo -presto identificato e subito evitato-, limita la propria visuale entro confini certificati dal genere (in definizione sovrastante), dai quali vengono escluse


Ovvero, sia parte energica e nutriente della Fotografia intesa come autentico linguaggio, non soltanto visivo, dal Novecento.

QUINDI, CRONACA NERA Negli anni che seguirono la Prima guerra mondiale (quando ancora la si definiva Grande guerra, prima che fosse necessario contarle), Los Angeles è stata una città in profonda evoluzione socio-culturale. Complice non secondaria l’industria del cinema, allora nascente, si risvegliò dal lato più oscuro del proprio controverso passato, che aveva espresso molteplici personalità, ognuna susseguente alle precedenti, trasformandosi da città in disfacimento a metropoli scintillante e città del futuro. Però, lungo questo cammino, una patina (comunque) appannata ha cominciato a rivestire la sua facciata, sempre più fascinosa e incantevole. Mentre migliaia di persone si sono riversate in città, attratte da sogni di successo, anche facile, affollando le sue strade ed espandendo i suoi confini, i rispettivi e legittimi desideri di rapido benessere si sono accompagnati e

(centro pagina, in alto) James “Two Gun”, personificazione della corruzione della polizia di Los Angeles; 1937.

(centro pagina, in basso) Sospetto trattenuto da un poliziotto; 1934.

(in basso) Barista ucciso durante una rapina, a Hollywood; 1940 circa.

Vittima di un macellaio pazzo, che l’ha stuprata e torturata, mostra l’opera del suo aggressore; 1938 circa.

CLIFF WESSELMANN / COURTESY GREGORY PAUL WILLIAMS, BL PRESS LLC

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TASCHEN (6)

straordinarie interpretazioni della Fotografia, in proiezione sociale: per esempio, le Storie accademiche e astratte non hanno mai preso in considerazione la fotografia di natura (se non per inclusioni complici e conniventi), quella di sport, molta fotocronaca quotidiana (se non per l’eventuale eloquenza dei soggetti) e, eccoci, la cronaca nera (con l’eccezione di Weegee, e della sua New York degli anni attorno ai Quaranta, una volta accreditato e accettato il suo modo d’agire, che lo stesso autore ha promosso da sé verso le vette della parola fotografica). In ogni caso, è doverosa una considerazione sostanziosa e sostanziale. A parte il nostro interesse personale per la fotografia giudiziaria, poliziesca e antropometrica (che non eleviamo artificiosamente di rango), in assoluto, non possiamo ignorare, né sottovalutare, come e quanto questa stessa fotografia -svolta da professionisti del crimine (sua scena e suoi contorni), piuttosto che da fotocronisti al servizio dell’informazione giornalistica-, una volta esaurita la propria utilità in cronaca (di polizia, piuttosto che sui giornali), svolga un ruolo primario nel racconto della vita nel proprio svolgersi (in questi casi, soprattutto morte).

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CLIFF WESSELMANN / COURTESY GREGORY PAUL WILLIAMS, BL PRESS LLC

Prove di una cruenta battaglia stradale, in attesa di essere presentate al processo; 1930 circa.

Dark City. The Real Los Angeles Noir; a cura di Jim Heimann; Taschen Verlag, 2018 (distribuzione: Inter Logos, strada Curtatona 5/2, 41100 Modena; www.books.it); 480 pagine 25x27,8cm, cartonato, con cofanetto; 75,00 euro.

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scontrati con la proliferazione di religioni fittizie e fasulle, il crimine organizzato e la corruzione dilagante. A conti fatti, questa è la storia visiva raccontata dalla monografia illustrata Dark City. The Real Los Angeles Noir, che mantiene con eccezionale impetuosità ciò che il titolo annuncia (The Real Los Angeles Noir / L’autentica Los Angeles noir) e promette (Dark City / Città oscura). Si tratta di un resoconto dal passo e dalla prospettiva originali, efficace come pochi altri sono riusciti a essere: e questo è il valore del linguaggio fotografico, in quanto tale (linguaggio), e questo è il senso della cernita d’archivio e relativa consecuzione cadenzata (qui in forma di messa in pagina). La quantità e qualità di immagini presentate, in modulazione visiva mirata e proposizione grafica adeguata alle migliori osservazione e accoglienza, provengono da archivi privati, di musei, istituzioni e giornali. Una sintesi più che eccellente, che l’accreditato e autorevole Jim Heimann ha riunito per rivelare la vera storia dell’orrore, della sporcizia e del senso di repulsione che hanno caratterizzato la vita a Los Angeles dagli anni Venti a tutti i Cinquanta.

Pagina dopo pagina, ognuno di noi attraversa vicoli e strade malfamate, per incontrare un sottobosco cittadino scandito da locali notturni perlomeno equivoci, bische, brutali scene del crimine... fino a identificare e scoprire una città piena di omicidi e caos. Dal leggendario Sunset Boulevard a Central Avenue, satura di jazz, titoli scandalistici della cronaca locale raccontano anche di celebrità acclamate a braccetto di famigerati criminali, in una città caotica che ha ispirato giornalisti, scrittori, sceneggiatori di pulp e sceneggiatori cinematografici nella propria rispettiva creazione del genere noir (non soltanto cinematografico, per quanto soprattutto cinematografico... con allunghi in avanti [per certi versi, declinati e articolati, in FOTOgraphia, dell’aprile 2018]). Da cui, l’apparato fotografico di Dark City. The Real Los Angeles Noir, accompagnato da rare ristampe di periodici d’epoca e tabloid del crimine -ai quali abbiamo appena fatto riferimento-, compone i tratti evidenti e appaganti di storia visiva del crimine, di criminali e di malavita lungo le strade sventurate della Città degli Angeli. Dal mito alla realtà. ❖



Precisazione dovuta. Per quanto molti conoscano la nostra separazione personale dalla natura, certifichiamo il nostro apprezzamento per la fotografia che la racconta. Ogni volta che lo incontriamo, sappiamo individuare il bello (qualsiasi cosa ciò possa significare e identificare). Colpevolmente ignorata dalla Storia della Fotografia, la raffigurazione visiva della natura richiede straordinarie capacità tecniche e logistiche; ma, soprattutto, esige dedizione e amore. M.R. E noi sappiamo riconoscere l’amore... quando lo incontriamo.

di Lello Piazza

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nche quest’anno, riferiamo della bella mostra Wildlife Photographer of the Year, allestita con le fotografie vincitrici e segnalate all’edizione 2017 del più importante concorso di fotografia naturalistica a livello mondiale, identificabile perfino come il World Press Photo della Natura. La mostra si può vistare dal cinque ottobre al nove dicembre, nelle autorevoli sale della Fondazione Luciana Matalon, in Foro Bonaparte 67, nel centro di Milano. Ribadisco, come sempre, le mie convinzioni. Le abilità tecniche di un fotografo naturalista non sono inferiori a quelle di nessun altro tipo di fotografo: c’è la prontezza e la preparazione dei fotogiornalisti, la capacità di lavorare con teleobiettivi molto lunghi dei fotografi sportivi, il gusto artistico dei fotografi di moda, la perizia nella sistemazione delle luci, per esempio nella fotografia al nido e nella fotografia speleologica, di chi lavora in studio. Ultimo, ma non meno importante, i fotografi naturalisti sono gli unici cronisti della vita sul Pianeta. Dunque, proprio perché Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, / di quante ne possa sognare la tua filosofia (Shakespeare, Amleto; Atto primo, Scena quinta), torniamo a occuparci della fotografia naturalistica che, costantemente, ce le rivela. Raccontiamo la mostra attraverso didascalie alle immagini pubblicate, scelte sempre e solo in base al nostro gusto personale (ricordate sempre... cambia giuria, cambiano i vincitori). ❖ Il Wildlife Photographer of the Year torna a Milano, nei suggestivi spazi della Fondazione Luciana Matalon, in Foro Bonaparte 67, dal cinque ottobre al nove dicembre: mostra delle cento immagini premiate all’edizione 2017 del concorso di fotografia naturalistica più prestigioso al mondo, indetto dal Natural History Museum, di Londra. L’evento è organizzato dall’Associazione culturale Radicediunopercento, di Roberto Di Leo, grazie all’esclusiva concessa alla Pas Events, di Torino. In competizione per l’edizione 2017 (cinquantatreesima), oltre cinquantamila fotografie da novantadue paesi, selezionate da una giuria internazionale presieduta da Rosamund Kidman Cox, per molti anni, direttrice del mensile BBC Wildlife. Cinque gli italiani premiati: Stefano Unterthiner, Hugo Wasserman, Angiolo Manetti, Ekaterina Bee [riquadro a pagina 31; e in copertina di questo stesso numero] e Marco Urso (ma vedere la didascalia relativa alla sua immagine [a pagina 30]). ❯ Martedì-domenica 10,00-19,00; venerdì 10,00-22,00. Biglietto intero, 9,00 euro e formule in riduzione; per promozioni e altri eventi collegati, www.radicediunopercento.it.

Stefano Unterthiner (Italia): finalista nella categoria Urban Wildlife. Stefano Unterthiner è uno dei più importanti fotografi naturalisti italiani. Già premiato altre volte in questo stesso concorso e in altre competizioni

LA NATURA PIÙ BELLA

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di prestigio, ha presentato una fotografia (abbastanza) difficile da realizzare. Il momento raffigurato visualizza un gatto che si è avvicinato pericolosamente a un nido di falchi grillai ( Falco naumanni). L’attacco avviene sul tetto di una casa

di Matera, città che ospita una delle colonie di grillai più importanti d’Europa. Matera / Nikon D500; AF-S Nikkor 200-400mm f/4G ED VR II; 1000 Iso equivalenti; treppiedi Gitzo.

Almeno due identità definiscono il prestigioso Wildlife Photographer of the Year (e oggi, riferiamo dell’edizione 2017): l’autorevole ruolo tra i concorsi fotografici di più alto livello e prestigio si abbina all’attenzione mirata e specifica nei confronti della materia istituzionale... la natura. In ulteriore considerazione, la sostanziosa quantità di fotografie inviate e la influente qualità di quelle premiate scandiscono il valore della fotografia naturalistica, sia in richiamo alla Storia della Fotografia, sia in proiezione sulla società tutta. Infatti, sono proprio queste immagini, così pertinenti, così coinvolgenti, che contribuiscono a rafforzare il lavoro delle organizzazioni protezionistiche, per aiutarle a difendere animali e territorio 27


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Brent Stirton (Sudafrica): Wildlife Photographer of the Year e vincitore nella categoria Wildlife Photojournalist Award: Photo Story. L’animale qui raffigurato, in una delle sei fotografie del portfolio presentato, denuncia l’atrocità dei bracconieri. I rinoceronti vengono uccisi, il corno tagliato e la carcassa abbandonata nella savana. Nonostante il commercio di corno di rinoceronte sia proibito da più di quarant’anni, il mercato nero continua,

e i corni hanno un valore superiore a quello dell’oro e della cocaina. Hluhluwe-Imfolozi Park (Sudafrica) [Per inciso: onore al merito dei guardaparco, che rischiano la propria vita ogni notte e ogni giorno per difendere gli animali. Una ricorrenza annuale, che cade il trentuno luglio, è stata loro dedicata; celebratela ogni anno, vi prego] / Canon Eos-1D X; Canon EF 28mm f/2,8 IS USM; 200 Iso equivalenti; flash.

Mats Andersson (Svezia): finalista nella categoria Black and White. Nella fotografia naturalistica, la cosiddetta “caccia vagante” è praticata raramente, almeno in Europa. Per “caccia vagante” si intende una tecnica particolare: ci si aggira a piedi, con un teleobiettivo al collo, sperando in un incontro fortunato, esattamente come fa il cacciatore brandendo il fucile. Nelle foreste della Svezia, però, gli incontri singolari non sono così improbabili,

soprattutto d’inverno, quando gli animali che non vanno in letargo si aggirano in cerca di cibo. Per Mats Andersson, l’incontro fortunato è stato con uno scoiattolo rosso ( Sciurus vulgaris) infreddolito. Bosco di conifere presso Bashult Gård, centocinquanta chilometri a est di Göteborg, presso il Lago Vättern, il secondo più grande della Svezia / Nikon D3; AF-S Nikkor 300mm f/2,8D ED-IF II; 800 Iso equivalenti.


David Pattyn (Belgio): finalista nella categoria Animals in their Environment. Il Parco Nazionale del Gran Paradiso, in Italia, a cavallo tra la Val d’Aosta e il Piemonte, è il luogo ideale per fotografare con una certa facilità lo stambecco delle Alpi ( Capra ibex), una specie che ha sfiorato, circa un secolo fa, l’estinzione per l’eccessiva pressione venatoria. Di fotografie di stambecco ne esistono oggi milioni, ma poche hanno la forza visiva di questa.

Un grande maschio si intravede appena sotto la tempesta di neve: sembra di sentire il vento fischiare e la bufera urlare. Questa immagine è anche un esempio di come, ai fotografi naturalisti, si applichi l’adagio di chi va a caccia: quando piove o tira vento, il cacciator non perde tempo. E qui nevica. Parco Nazionale del Gran Paradiso, Valsavarenche, Valle d’Aosta / Canon Eos-1D X; Canon EF 100-400mm f4,5-5,6L IS II; 800 Iso equivalenti.

Tony Wu (Usa): vincitore nella categoria Behaviour: Mammals. Una fotografia che, senza dubbio, avrebbe eccitato il capitano Achab [il personaggio letterario del romanzo Moby Dick, creato da Herman Melville]: decine di capodogli si strofinano e rotolano l’uno contro l’altro, per esfoliare la pelle morta. Esibito durante il raduno di un clan, questo comportamento aiuta a mantenere liscia la pelle, il che migliora le prestazioni idrodinamiche delle balene.

Balene e delfini vivono in branchi, come i lupi e gli elefanti. Recentemente, è stato scoperto che ogni gruppo di capodogli ha il proprio dialetto vocale (i suoni con cui le balene comunicano sono diversi da clan a clan). Oceano Indiano, nelle acque intorno a Sri Lanka / Canon Eos 5D Mark III; Canon EF 15mm f/2,8 Fisheye; 800 equivalenti; custodia impermeabile Zillion con oblò in cristallo Pro-One Optical Glass Dome Port.

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L’italiano Marco Urso è uno dei più noti fotografi naturalisti italiani. Nel 2017, è stato nominato Autore dell’anno Fiaf (Federazione Italiana Associazioni Fotografiche). Le sue fotografie sono state pubblicate dalle più prestigiose riviste internazionali e in libri di natura e viaggi. Ha ottenuto riconoscimenti nei più importanti concorsi naturalistici del mondo. Dunque, è sorprendente che non conosca le regole del Wildlife Photographer of the Year, che vieta di partecipare con fotografie che abbiano già ricevuto riconoscimenti

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in altri concorsi. In effetti, questa sua fotografia di una femmina di grizzly ( Ursus arctos beringianus) con i cuccioli ha già ricevuto una Honorable mention sia al Siena International Photography Awards, edizione 2015, categoria Wildlife, sia allo statunitense Nature’s Best Photo Contest, del 2016. Ma nessuno se n’è accorto, e la giuria l’ha premiata con una (altrettanto) Honorable mention al Wildlife Photographer of the Year 2017. Perciò, la fotografia è inserita nella mostra e nel relativo Portfolio 27, di accompagnamento


LA PIÙ GIOVANE

Ekaterina Bee, sei anni al momento dello scatto, vincitrice dell’edizione 2017 del Wildlife Photographer of the Year nella categoria 10 Years and Under (giovane fotografo dell’anno, sezione fino a dieci anni), è figlia d’arte. Il padre Alessandro Bee, professore di Scienze Naturali, membro del Jane Goodall Institute Italia, è un noto fotografo naturalista. Segnaliamo, tra gli altri, i riconoscimenti che ha ottenuto al Wildlife Photographer of the Year: nel 2005, Primo premio in The World in Our Hands e Secondo premio in Composition and Form; nel 2006, finalista in The World in Our Hands; nel 2013, finalista in Animals in their Environment. Ekaterina è stata iniziata alla fotografia naturalistica attraverso viaggi di famiglia nella natura. Questa sua immagine di gabbiani è stata ripresa durante uno di questi viaggi, nel Nord-Trøndelag, contea norvegese situata al centro del paese. «Eravamo andati lì per osservare le aquile di mare coda bianca (Haliaeetus albicilla), che nidificano nei fiordi, guidati da un naturalista locale conosciuto alcuni anni fa», racconta Alessandro Bee. «Abbiamo osservato le aquile da vicino, ma Ekaterina non ne era interessata, attratta com’era dalle decine e decine di gabbiani che seguivano e circondavano ovunque la nostra piccola imbarcazione. Ha cominciato a fotografarli mentre la avvolgevano in un nugolo di ali, suoni, rumori, becchi colorati e penne bianche svolazzanti e in movimento. Per Ekaterina è stata un’immersione completa nella selvaggia bellezza delle foreste e dei fiordi norvegesi, dove si è appassionata a sentire e vivere la natura intorno a sé». Senza nulla togliere alla meraviglia di questa immagine, non possiamo non notare che la straordinaria disposizione dei due gabbiani nell’inquadratura è frutto del caso. Ma, spesso, in fotografia, capita che il soggetto prenda autonomamente una posizione dovuta al caso. Il caso regola infiniti accadimenti che si svolgono davanti ai nostri occhi. La bravura consiste nel fare in modo che, mentre questi infiniti dettagli si dispiegano, ci sia la passione, la prontezza di Ekaterina a registrarli.

(a cura di Rosamund Kidman Cox; The Natural History Museum, 2017; 160 pagine, 25,5x25cm). Ma, il bla bla bla del web ha denunciato il fatto. A nostra richiesta, Roz Kidman Cox, presidente della giuria, e Gemma Ward, Competition Officer, hanno risposto che sì, la cosa corrisponde al vero. Marco Urso è stato punito con l’esclusione d’ufficio alla prossima edizione 2018. Lago Kuril, Kamchatka (Russia) / Canon Eos-1D X; Canon EF 500mm f/4L IS II USM; 800 Iso equivalenti; treppiedi Photoseiki.

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Anthony Berberian (Francia): vincitore nella categoria Under Water. Questa è una delle tante immagini che mostrano quanto siano sofisticate le abilità di un fotografo naturalista. Descriviamo il fenomeno raffigurato. Siamo nei mari di Tahiti (Polinesia Francese), dove piccole creature che vivono negli abissi, di notte, salgono in superficie in cerca di cibo, protette dall’oscurità. Il soggetto è una larva di aragosta, lunga solo 1,2cm. La larva è aggrappata a quello che resta di una piccola medusa,

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alla quale, probabilmente, la stessa larva ha divorato i tentacoli. Il risultato finale è stato ottenuto grazie a molti scatti, in modo che in almeno uno la composizione fosse perfetta. I trentasei fotogrammi di un rullo di pellicola avrebbero reso molto meno probabile l’esito finale. Mari di Tahiti (Polinesia Francese) / Nikon D810; AF-S Micro Nikkor 60mm f/2,8; 64 Iso equivalenti; custodia impermeabile Nauticam e Super Macro Converter Nauticam SMC-1; flash subacquei Inon Z-240.


Gerry Pearce (Inghilterra / Australia): vincitore nella categoria Behaviour: Birds. Questo è il classico esempio di una situazione nella quale non vale l’affermazione: una fotografia vale di più di mille parole. L’animale raffigurato è un maschio di tacchino di boscaglia australiano ( Alectura lathami). Siamo nel Garigal National Park, di Sydney. Sembra una banale fotografia di un uccello terricolo, un fagiano diremmo dalle nostre parti, visto che in Italia non esistono più tacchini selvatici. In realtà, questa specie di uccello deve lavorare circa quattro mesi per raccogliere un numero sufficiente di foglie adeguate a creare un grande cumulo.

Il suo comportamento è singolare: non cova le uova deposte dalla femmina, ma le nasconde sotto le foglie del cumulo, che -decomponendosi- producono calore e funzionano come un’incubatrice. Il tacchino controlla costantemente la temperatura del cumulo, usando dei sensori nel becco. Troppo freddo e aggiunge foglie, troppo caldo e le rimuove (la fotografia mostra questo momento). Quante cose può non dire una fotografia! Garigal National Park, Sydney (Australia) / Canon Eos 7D Mark II; Canon EF-S 18-200mm f/3,5-5,6 IS; 1600 Iso equivalenti; due flash Yongnuo Speedlite.

QUESTA È LA NATURA

«Sono qui per stupirmi!», recita un verso di Goethe. Una via che comincia con lo stupore e che finisce con lo stupore, eppure non è una via inutile. Sia che io ammiri il muschio, un cristallo, un fiore, un maggiolino dorato o un cielo di nuvole, il mare con lo smisurato respiro delle sue risacche, un’ala di farfalla con le sue ordinate nervature cristalline, la sagoma e le variopinte decorazioni ai bordi, gli svariati caratteri e ornamenti dei disegni e le infinite e dolci ombreggiature e le diverse gradazioni di colori sfumati in modo incantevole; ogni volta che percepisco con gli occhi o con uno degli altri sensi una porzione di natura, ogni volta che ne sono attratto o affascinato e che mi apro per un attimo alla sua esistenza e alla sua rivelazione, ecco che, in quello stesso istante, dimentico tutto il mondo cieco e avido degli umani bisogni materiali, e anziché pensare o comandare, anziché possedere o sfruttare, combattere oppure organizzare, per quell’attimo non faccio che “stupirmi” come Goethe, e in questo stupore non mi sento solo fratello di Goethe e di tutti gli altri poeti e saggi, no, sono anche fratello di tutto ciò di cui mi meraviglio e di tutto quello che percepisco come mondo vivente: della farfalla, dello scarabeo, della nuvola, del fiume e della montagna, poiché sulla via dello stupore sono sfuggito per un attimo al mondo delle separazioni per entrare nel mondo dell’unità, dove una cosa o una creatura dice all’altra: tat tvam asi, “questo sei tu”. Hermann Hesse (da Frammenti del creato. Riflessioni, racconti, poesie sulle farfalle; a cura di V. Michels; Mondadori, 2013)

Questa fotografia, in un primo momento giudicata vincitrice nella categoria Behaviour: Mammals, di Marcio Cabral (Brasile), che mostra un formichiere accanto a un termitaio, è stata successivamente squalificata. Infatti, testimoni affermano che il formichiere fotografato sarebbe quello imbalsamato che si trova all’ingresso dell’Emas National Park (Stato di Goiás, Brasile). Il fotografo ha negato, promettendo altri testimoni a proprio favore. La disputa è ancora aperta, ma la fotografia è fuori dal concorso. Le luci verdi sul termitaio sono quelle emesse da coleotteri della famiglia degli Elateridi, che cercano in questo modo di attirare le termiti per mangiarle. Evidentemente, ci possono essere modi di falsificare una fotografia, senza necessariamente ricorrere a tecniche digitali.

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Aaron “Bertie” Gekoski (Usa / Inghilterra): vincitore nella categoria Wildlife Photojournalist: Single Image. Quante volte, sulle confezioni dei prodotti alimentari, oggi -finalmente!- si legge: non contiene olio di palma. Eccellente esempio di fotogiornalismo naturalistico, questa immagine racconta meglio delle proverbiali mille parole la ragione per cui è fondamentale che le aziende alimentari non usino più l’olio di palma. Siamo nel Sabah, nella porzione settentrionale del Borneo, dove gli agricoltori distruggono la foresta primeva per coltivare palme da olio. Il fotografo ha sorpreso una piccola mandria di elefanti asiatici ( Elephas maximus) mentre si fa strada attraverso una desolata piantagione di palma da olio. Non esistendo più la foresta, gli elefanti entrano nelle piantagioni, dove vengono avvelenati o uccisi. Questo succede in alcuni angoli del nostro pianeta. Una minaccia per la vita di specie preziose e, alla fine, anche per noi. Sabah (Malesia) / Nikon D700; AF Nikkor 80-200mm f/2,8D ED; 400 Iso equivalenti.

Laurent Ballesta (Francia): vincitore nella categoria Earth’s Environments. Risultato assolutamente eccezionale, che mostra la parte di un enorme iceberg nascosta sotto la superficie del mare. Per il princìpio di Archimede, formulato oltre duemila anni fa da uno dei più grandi scienziati della Storia, circa il novanta percento della massa di ghiaccio di un iceberg è sott’acqua. Laurent Ballesta ha studiato a lungo la situazione, per prepararsi a scattare.

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Ingo Arndt (Germania): finalista nella categoria Behaviour: Amphibians and Reptiles. Sulle spiagge dell’Ostional National Wildlife Refuge, in Costa Rica, una volta al mese, durante la stagione delle piogge, nelle tre-quattro notti più buie che precedono ogni luna nuova, arrivano centinaia di migliaia di tartarughe olivacea ( Lepidochelys olivacea). Sono le più piccole tra le tartarughe marine (il carapace misura fino a settantacinque centimetri, per un peso massimo sotto il mezzo quintale). Ingo Arndt ha individuato il momento nel quale la luce fosse sufficiente per scattare e testimoniare l’arribada (arrivo in massa delle tartarughe). Il risultato è straordinario, da buia notte dei tempi, e avrebbe meritato il titolo di vincitore della categoria (nostro parere). Nota a margine: una fotografia impossibile ai tempi della pellicola. Ostional National Wildlife Refuge (Costa Rica) / Canon Eos-1D X; Canon EF 70-200mm f2,8L IS II USM; quattro secondi; 12.800 Iso equivalenti.

Utilizzando un obiettivo grandangolare, con il suo team, ha scattato centoquarantasette fotografie in tre giorni, che, poi, sono state assemblate a computer. Il soggetto sembra una delle sette meraviglie naturali del mondo. Nei pressi dell’Îlot de la Vierge, piccola isola dell’arcipelago di Pointe Géologie, nella Terre Adélie, sulla costa sud orientale dell’Antartide / Nikon D4S; Nikkor 13mm f/5,6; 3200 Iso equivalenti; custodia impermeabile Seacam; flash.



La Quadreria fotografica allestita all’Hotel Bellerive, di Salò, sulla riva bresciana del Lago di Garda, arreda la hall di ingresso e accoglienza, prima di allungarsi in altri spazi comuni. Abilmente realizzata con una incessante qualità di fotografie di Rinaldo Capra, riprende e sottolinea il senso e valore delle originarie Quadrerie seicentesche che definivano collezioni di dipinti, andando a identificare le prime raccolte d’arte riunite da privati, nelle quali il dipinto non veniva più proposto come elemento di arredamento o soggetto di devozione religiosa, ma per quel minimo comun denominatore trasversale che definisce l’arte in quanto tale e per se stessa... protagonista.

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di Angelo Galantini

R

ipetizione e conferma: come abbiamo scritto in diverse occasioni, là dove è stato necessario farlo, siamo decisamente contrari alle alleanze su base amicale, che definiscono soprattutto complicità e stanno, altresì, alla base di quell’ipotesi di branco, dalla quale ci teniamo distanti e appartati. Già scritto, ma il ripasso è d’obbligo: si è amici in tante e tante circostanze della vita privata; l’amicizia (o presunta tale, o finalizzata/declinata in connivenza e favoreggiamento) non deve essere l’unità di misura di alcuna azione professionale, di alcun esercizio di un proprio potere. A differenza di questo, quando l’amicizia confidenziale attiva azioni professionali degne di attenzione e rispetto, significa che vengono anteposti valori e crediti, ai quali la stessa amicizia non fa altro che limitarsi alla conoscenza e apprezzamento delle reciproche personalità. In forma e dimensione assolute. All’interno delle sontuose sale di ricevimento clienti del raffinato e discreto Hotel Bellerive, di Salò, sulla riva bresciana del Lago di Garda, si è manifestato un incontro di personalità, sì scandito in chiave di amicizia, ma che da questa stessa amicizia ha tratto giovamen-

to, oltre che motivo di propria esistenza. Sillabata indietro nel tempo, in decenni di esperienze comuni, l’amicizia alla quale ci stiamo riferendo è quella tra Paolo Rossi, proprietario anche dell’Hotel, e Rinaldo Capra, fotografo bresciano, caratterizzato da un percorso professionale in una fotografia capace di esprimersi in misura magistrale sia nella figura (soprattutto) sia nello still life (in subordine, forse) rivolta all’assolvimento di pertinenti incarichi commerciali. Ne consegue, che il portfolio di Rinaldo Capra risulti vasto ed eterogeneo, per soggetti affrontati e risolti, come la personalità della professione in fotografia ha richiesto per anni e anni. E, probabilmente, non sta più richiedendo, affaticata com’è -la professione in fotografia- da stravolgimenti concettuali che, complici cattive interpretazioni dell’evoluzione tecnologica del suo stesso esercizio, stanno minando la sua base e il suo svolgimento. Comunque, altro discorso, che non affrontiamo né qui né ora, ma sul quale varrebbe la spesa riflettere... ammesso, ma non concesso, che certa osservazione e certe considerazioni abbiano ancora modo di meritare qualsivoglia ospitalità (in ogni caso, in altra ripetizione da nostre opinioni già espresse, si può raggiungere il bene -qualsiasi cosa questo significhi per ognuno di noi- soltanto attraverso il libero scambio di idee).


EFFICACE QUADRERIA Le sale di accoglienza e comuni dell’Hotel Bellerive, di Salò, sulla riva bresciana del Lago di Garda, sono arredate con una avvincente e convincente Quadreria fotografica allestita con immagini di Rinaldo Capra, professionista bresciano, che si rivolge e indirizza a un pubblico vasto e incidentale, estraneo al circuito degli addetti. Così facendo, la fotografia smette gli abiti della propria continua autoreferenzialità a circolo chiuso (e vizioso), per assumere quelli che dovrebbero esserle più congeniali: linguaggio universale, e non settoriale

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La Quadreria fotografica dell’Hotel Bellerive, di Salò, sulla riva bresciana del Lago di Garda, nasce dalla combinazione di intenti tra il proprietario Paolo Rossi e il fotografo Rinaldo Capra (qui, in un momento particolare della sua vita, con stampelle di sostegno). Questa Quadreria fotografica rispetta e conserva lo spirito originario della propria personalità: rivestimento totale, con disposizione guidata dalla forma, prima che dal contenuto, in alternanza di dimensioni e cornici, fino a formare una visione da abbracciare nel proprio insieme, prima di assaporare per i propri passi singoli.

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In unione di ideali e pensieri, oltre e indipendentemente dalla loro amicizia, per quanto a partire da una sana interpretazione dell’amicizia, lontana da connivenze di convenienza, Paolo Rossi (Hotel Bellerive, di Salò) e Rinaldo Capra (fotografo) hanno combinato le reciproche esigenze in una straordinaria Quadreria, allestita, come anticipato trasversalmente, nelle sontuose sale di ricevimento clienti del raffinato e discreto Hotel sulla riva bresciana del Lago di Garda. Non si è trattato e non si tratta di un’operazione casuale, ma allestita al culmine di altre loro collaborazioni fattive, tutte declinate in base professionale e non soltanto amicale (che, quando si manifesta, non guasta... a patto di non deviare dalla retta via). Infatti, lo stesso Rinaldo Capra ha realizzato anche una partecipe rappresentazione dell’infrastruttura alberghiera, applicando una fotografia di ritratto posato estranea a aridi stereotipi, ma vissuta e interpretata con maestria e lievità: la stessa che, a guardare bene, ha scandito con il suo professionismo in sala di posa (e location) per tanti e tanti anni... fino ai decenni. Però, sopra tutto, ciò che stabilisce l’autentica differenza, di passo oltre che ideologica, è proprio la Quadreria, che dalla hall principale si dirama poi, in cadenze adeguate ai rispettivi locali, negli ulteriori spazi comuni dell’Hotel Bellerive, di Salò: sale a piano terra, per ristorante, bar, sosta e altro ancora. E qui, e ora, corre l’obbligo di un paio di precisazioni... quantomeno di un paio, quantomeno di queste.

Anzitutto, in richiamo storico e di contenuto, oltre la forma a tutti evidente, rileviamo e precisiamo, rivelandolo, che il termine seicentesco di Quadreria fu coniato per definire una collezione di dipinti. In pratica, identificò le prime raccolte d’arte riunite da privati, ovviamente nobili e borghesi di alto lignaggio, nelle quali il dipinto non veniva più considerato e declinato e proposto come elemento di arredamento, piuttosto che soggetto di devozione religiosa, ma per quel minimo comun denominatore trasversale che definisce l’arte in quanto tale e per se stessa... protagonista. Dunque, e a conseguenza, nelle Quadrerie seicentesche, i dipinti che rivestivano le pareti, dal pavimento fino al soffitto, non erano disposti in base a criteri cronologici o di scuola o di soggetto, ma accostati secondo le proprie dimensioni o i rispettivi effetti cromatici. Così facendo, non sovraccaricano le singole opere di ulteriori significati, che non i propri creativi originari. Quindi, in allineamento, la Quadreria fotografica dell’Hotel Bellerive, di Salò, allestita con immagini dal portfolio professionale di Rinaldo Capra, rispetta e conserva l’anima ideologica dello spirito originario: rivestimento totale, con disposizione guidata dalla forma, prima che dal contenuto, in alternanza di dimensioni e cornici, fino a formare una visione da abbracciare nel proprio insieme, prima di assaporare per i propri passi singoli (per le singole fotografie in puzzle). Per conseguenza, qual è il senso e valore dell’opera congiunta di Paolo Rossi (Hotel Bellerive) e Rinaldo Capra (fotografo)? Quello di non declinare la fotografia come oggetto/soggetto di culto per addetti, in stile galleria fotografica mono frequentata (e, spesso, mal frequentata: non ora, non qui), ma di proporre la sua stessa essenza (creatività, espressività, documento, estetica... fate voi) senza pre scomposizione. Ovvero, secondo princìpi estranei alla setta (e al branco), non una fotografia da consumare a circolo chiuso, come accade in troppe esperienze associative e di galleria (fatto salvo la legittima proiezione mercantile), ma una fotografia senza confini, da inviare a tutti, indistintamente a tutti, affinché ne possano cogliere il messaggio visivo e culturale. A voler ricordare, per quanto non sia richiesto farlo, fu questo lo spirito originario che guidò i primi passi del PhotoFestival, di Milano e Roma, in anni alterni, in supporto e sostegno alle date del PhotoShow commerciale. Non parole a circolo chiuso, tra complici già partecipi, come sta accadendo ora, ma parole libere da consegnare all’aria: là dove possono essere raccolte e accolte (verba volant !). Così che, per intelligente volontà di Paolo Rossi e Rinaldo Capra, la Quadreria fotografica dell’Hotel Bellerive, di Salò, sulla riva bresciana del Lago di Garda, non assolve soltanto il proprio compito istituzionale, che pure adempie, ma compone i tratti brillanti di una proposizione fotografica a tutto campo, svelando il lessico fotografico ben oltre gli stretti confini di coloro i quali già lo conoscono (magari, ne avrebbero bisogno anche loro, anche molti di loro, ma non è questo che qui intendiamo). Non fotografia autoreferenziale, ma fotografia che -potenzialmente- avvolge e coinvolge i sentimenti di ognuno, nelle spire del proprio passo. ❖


(Centro Commerciale Le Vele) via Nausica, 88060 Montepaone Lido CZ • 0967 578608 www.cinesudmegasgtore.com • info@cinesudmegasgtore.com

un negozio di terroni* per terroni** In un paese ed epoca in cui la forma apparente ha sostituito il contenuto, perché non agire per sovvertire questa tragica condizione, per tornare alla parola che sia se stessa, e sia densa di significati propri? Perché non considerare che il rispetto è valore concreto, da frequentare e perseguire? Perché non agire nella convinzione che etica e morale siano ancora qualità e doti, insieme con garbo, eleganza e grazia? Una volta ancora, una volta di più, non certo per l’ultima volta: vogliamo parlarne?

* Terróne (sostantivo maschile / terróna, al femminile). Derivazione da “terra”; probabilmente, tratto da denominazioni di zone meridionali, quali “Terra di Lavoro” (in Campania), “Terra di Bari” e “Terra d’Otranto” (in Puglia). Appellativo dato, con intonazione spregiativa (talvolta anche scherzosa), dagli abitanti dell’Italia settentrionale a quelli dell’Italia meridionale [Enciclopedia Treccani ]. Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato in tono dispregiativo (talvolta in tono scherzoso, a seconda del contesto) per designare un abitante dell'Italia meridionale. Ha diverse varianti piuttosto diffuse e riconoscibili nelle lingue locali: terún, terù, teron, tarùn, tarù (lombardo); terún (ligure); terù, terún, tarún (piemontese); tarùn, taroch, terón (veneto, friulano); teròch, tarón (emiliano-romagnolo); terón, terró (marchigiano); teróne, taròne in altri idiomi dell'Italia settentrionale, mentre rimane terrone in toscano e romanesco [Wikipedia ].

** L'espressione politicamente corretto (traduzione letterale dell'inglese politically correct) designa una linea di opinione e un atteggiamento sociale di attenzione al rispetto generale, soprattutto nel rifuggire l'offesa verso determinate categorie di persone. Qualsiasi idea o condotta in deroga più o meno aperta a tale indirizzo appare, quindi, per contro, politicamente scorretta (politically incorrect ). L'opinione, comunque espressa, che voglia aspirare alla correttezza politica dovrà perciò apparire chiaramente libera, nella forma e nella sostanza, da ogni tipo di pregiudizio razziale, etnico, religioso, di genere, di età, di orientamento sessuale, o relativo a disabilità fisiche o psichiche della persona [Wikipedia ].


Pubblicata dall’attento editore Postcart, la Storia essenziale della fotografia, di Diego Mormorio, è opera dai tanti meriti. Soprattutto, non è rivisitazione di nozioni trite e ritrite, ma è opera originaria, densa di opinioni degne di grande attenzione. Quindi, presenta e offre combinazioni inconsuete della fotografia, che possono arricchire coloro i quali perseguono la materia. Magari non accade in termini utilitaristici da spendere subito. Però, sicuramente, rendono persone migliori. Ed è questo che conta veramente e sempre. Infatti, «Con tutte le cose meravigliose che ci sono nell’universo, la fotografia non è così importante» (da e con Phil Stern, anche in altra parte della rivista, su questo stesso numero). Per quanto lo sia per coloro i quali -noi, tra i tanti- le dedicano riflessioni, osservazioni e commenti

CON IL PASSO DELLA STORIA S DINO IGNANI

di Maurizio Rebuzzini

Diego Mormorio si è laureato in Antropologia culturale, nel 1977, con una tesi sulle radici culturali della fotografia. Da allora, si è occupato prevalentemente dei rapporti tra questa e la cultura filosofica e letteraria. Prima di dedicarsi completamente alla ricerca e all’insegnamento, ha lavorato per diversi giornali. Ha pubblicato numerosi libri, tutti di alto profilo.

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enza dubbio, la Verità, qualsiasi verità si intenda, dipende sempre da un punto di vista personale. Ovvero, a parte le menzogne che ciascuno di noi arriva a raccontarsi, sono le prospettive individuali che definiscono, fino a determinarla, qualsivoglia opinione: sia esterna, sia interna a se stessi. In premessa alla sua recente Storia essenziale della fotografia, in prestigiosa edizione Postcart (editore emerito, con particolare attenzione alla riflessione fotografica e al suo dibattito), oltre altre considerazioni mirate, l’autorevole Diego Mormorio precisa: «A qualcuno questo libro sembrerà troppo lungo, a qualcun altro troppo breve». E qui, e ora, va rivelato: volume di cinquecento ottanta pagine (sì, avete letto giusto, 580) 20x26cm, ampiamente illustrate, peraltro proposte a un prezzo/costo confortevole: appena, quaranta euro. Ancora con l’autore Diego Mormorio, in proseguimento di ragionamento: «Nessuno di loro sbaglierà. Avrei potuto essere più lungo o più conciso. Ma mi sono fermato a quello che penso sia l’essenziale. Considero questa mia Storia un’introduzione, che spero sia utile soprattutto ai giovani. Ognuna delle sue parti credo meriti un approfondimento, e a qualcuna sto già lavorando. [...] Ho voluto dare spazio a questioni spesso trascurate e per me essenziali, come il fotoromanzo o la cartolina illustrata. Allo stesso modo, ho voluto rivedere la reale misura di certi autori, primo fra tutti Alfred Stieglitz, riesaminare il passaggio dal pittorialismo alla fotografia sperimentale, dare spazio a fotografi eccelsi e quasi sconosciuti, come Pasquale De Antonis».

Dunque, l’uso dell’aggettivo essenziale, nel titolo, risponde a una ipotesi di verità dell’autore, che valuta e considera in relazione alle proprie conoscenze e competenze, oltre che alla propria scala di valori e meriti. Ovverosia, in dipendenza di quanto lui considera necessario sapere attorno la Storia della fotografia, per qualsiasi motivo ognuno di noi vi si avvicini (e, poi, altri sinonimi dell’essenziale specificato, tra i quali scegliere il proprio preferito: indispensabile, fondamentale, sostanziale, principale, primaria, capitale). Del resto, la combinazione tra aggettivo e sostantivo femminile (Storia, per quanto della sola Fotografia) è prassi diffusa e dilatata. Lasciamo perdere i termini e le promesse roboanti (sullo stile della presuntuosa, forse... sicuramente, Fotografia. La storia completa, di Juliet Hacking [che abbiamo presentato in occasione della sua edizione originaria Photography. The Whole Story e della sua traduzione italiana, pubblicata dall’editore bolognese Atlante, rispettivamente, in FOTOgraphia del marzo e luglio 2013]), e sottolineiamo intenzioni modeste a fronte di testi sostanziali e di spessore. Almeno due citazioni sono obbligatorie (sempre che le imposizioni abbiano senso), magari in ripetizione di nostre segnalazioni precedenti, entrambe di poche, intense, pagine: Piccola storia della fotografia, di Walter Benjamin (uno dei cinque saggi dell’edizione Einaudi di L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica; quindi, in edizione autonoma con Skira e Abscondita, comprensiva questa seconda di apparati fotografici, rispettivamente nel 2011 e 2015), e Breve storia della fotografia, di Jean-A. Keim (pure in catalogo Einaudi). Dopo storie piccole e brevi, eccone una essenziale.


QUALE STORIA

Ora, in approfondimento di pensiero, sia chiarita la personalità dell’autore Diego Mormorio: qualificato, competente, autorevole, accreditato, esperto e prestigioso. Padroneggia con potenza senza eguali le materie -coabitanti- della storia della fotografia e della sua contemporaneità espressiva, provenendo dal mondo accademico, all’indomani di una laurea in Antropologia culturale (1977), conseguita proprio con una tesi sull’invenzione della fotografia, successivamente rielaborata in edizione libraria con Sellerio, di Palermo: per l’appunto, il folgorante e originale saggio Una invenzione fatale. Breve genealogia della fotografia, del 1985. Dunque, volendo scandire questo passo, Diego Mormorio appartiene alla categoria di coloro i quali approdano alla riflessione fotografica senza averla precedentemente frequentata professionalmente (attenzione, per quanto non si richieda ai fotografi di pensare all’ideologia della fotografia, ce ne sono alcuni che sono stati capaci di farlo, e bene; quattro nomi, sopra tutti: Ferdinando Scianna, Uliano Lucas, Piero Raffaelli e Pino Bertelli). In questo senso, come pure tra i fotografi trasmigrati alla riflessione teorica, le voci sono tante... le competenze molte meno [quarantaquattro anni fa, in altra vita (forse), insieme con Ando Gilardi, allora condirettore di Photo 13, assieme a Roberta Clerici, in modesta veste di redattore, elaborammo una metafora ancora oggi di attualità: «Molti -ipotizzammo con ragione veduta- credono di saper fare almeno tre cose: fotografare, scrivere di fotografia e andare a cavallo. Ahinoi -concludemmo-, solo il cavallo protesta»]. Dal suo punto di vista, Diego Mormorio ha mente libera e cuore aperto per osservare e decifrare le consecuzioni fotografiche, così come documenti e attestati le certificano. In questo suo agire, e ci riferiamo specificatamente all’attuale Storia essenziale della fotografia, approda a rilevazioni e rivelazioni sostanziosamente originarie, non mutuate dal reimpasto di precedenti opinioni altrui. L’azione è a dir poco mirabile, almeno per due motivi: anzitutto, perché ideologicamente onesta, fresca e non corrotta; quindi, perché dà sostanzioso valore anche al cammino che si è svolto e manifestato nel nostro paese, là dove ha espresso autonomie espressive raramente prese in considerazione. Ovviamente, non possiamo non palesare nostre opinioni diverse dalle sue conclusioni; ma questo conta poco, se non nulla del tutto: perché studi di questa portata vanno apprezzati e ammirati a prescindere da (eventuali) opinioni divergenti. Anzi, se proprio vogliamo dirla tutta, è giusto questa diversità -al pari e assieme a ogni altra diversità, visibile o invisibile che sia [su questo stesso numero, da pagina otto], che offre sostanziosa materia di crescita individuale, di arricchimento intellettivo, di osservazione del nostro piccolo-grande mondo fotografico; in ripetizione d’obbligo: pensare, invece di credere e osservare, piuttosto che giudicare. In questo senso, e in tale misura ideologica, questa Storia essenziale della fotografia, di Diego Mormorio, è un racconto del quale non si può fare a meno. Accerchiati da altre storie consapevolmente carenti e devianti, il passo dell’accreditato autore è guida indispensabile per pensare effettivamente (ed essenzialmente) alla fo-

Storia essenziale della fotografia, di Diego Mormorio; Postcart Edizioni, 2017 (via Prenestina 435, 00177 Roma; www.postcart.com, info@postcart.com); 580 pagine 20x26cm; 39,90 euro.

Attenzione: va sottolineato che l’editore Postcart è uno dei pochi benemeriti italiani verso la fotografia, qualsiasi cosa questa significhi per ciascuno di noi (noi compresi).

L’uso dell’aggettivo essenziale, nel titolo della attuale Storia della Fotografia compilata da Diego Mormorio, risponde a una ipotesi di verità dell’autore, che valuta e considera in relazione alle proprie conoscenze e competenze, oltre che alla propria scala di valori e meriti.

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Dal suo punto di vista, Diego Mormorio, autore dell’autorevole Storia essenziale della fotografia, rivela mente libera e cuore aperto per osservare e decifrare consecuzioni fotografiche, così come documenti e attestati le certificano. In questo suo agire, approda a rilevazioni e rivelazioni sostanzialmente originarie, non mutuate dal reimpasto di precedenti opinioni altrui.

tografia come disciplina (materia, esperienza, creatività, linguaggio) del nostro controverso tempo, dei nostri agitati giorni, della nostra attuale confusione mentale. Tenuto conto di una nostra convinzione, che ci fa ipotizzare che la Storia della Fotografia si sia effettivamente svolta e manifestata, ma che non sia mai stata raccontata, alla luce di Storie colpevolmente carenti (dalle quali sono escluse esperienze geografiche estranee alla centralità occidentale e al pensiero americanocentrico), questa di Diego Mormorio non soltanto colma lacune preesistenti (ed è grande valore), ma addirittura- indirizza il pensiero lungo strade e sentieri di straordinaria originalità (per esempio, in ripetizione da un estratto finalizzato all’attuale incipit di testo, Diego Mormorio rivela che «Ho voluto dare spazio a questioni spesso trascurate e per me essenziali, come il fotoromanzo o la cartolina illustrata»... e non solo).

QUESTA STORIA Se una unità di misura condivisibile può essere individuata per appoggiare e sostenere il nostro giudizio inviolabilmente positivo sulla stesura e pubblicazione dell’ottima Storia essenziale della fotografia, di Diego Mormorio, possiamo garantire esponendoci in prima persona. Non tanto in veste di giornalismo di settore, che pure crediamo di svolgere con adeguata competenza (per quanto in misura ormai inutile al clima odierno della fotografia italiana, ricca di migliaia di appun-

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tamenti, ma povera di qualsivoglia sostanza e perizia: comunque, va bene così), quanto in tenuta accademica di docenza a contratto di Storia della Fotografia alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Brescia. Per inciso, e specifico, a fianco della docenza altrettanto accademica di Diego Mormorio, precisiamo la differenza tra le nostre rispettive visioni: la sua finalizzata, la nostra moderatamente scartata a lato, estranea all’autoreferenzialità della stessa fotografia con se stessa e il proprio mondo. Però, ahinoi, una volta ancora, una di più, per quanto mai una di troppo, il rapporto tra noi (in scrittura per successiva lettura) è quantomeno compromesso: bisogna fidarsi... e questo non lo possiamo certo chiedere. Allora, ricorriamo ad altro, certifichiamo con altra unità di misura, meno soggettiva e più oggettiva, il valore, il peso e l’autorevolezza di questa Storia essenziale della fotografia, specificandone la capillare, dettagliata, minuziosa e approfondita scomposizione tematica. Insomma, eccoci qui con il capitolato, il protocollo di sedici capitoli portanti, ciascuno scomposto -a propria volta- in sezioni (paragrafi?) cadenzate. In ripetizione d’obbligo, già le identificazioni -così lontane da qualsivoglia ribollita- bastano a certificare dell’originalità e spessore dei contributi (piatto di spaghetti espressi, a giusta cottura): in conferma e riprova. 1. L’invenzione: Dal laboratorio di ceramica alla ricerca della fotografia / Le prime ricerche di Niépce avvennero in Sardegna / Niépce e la fascinazione della litografia / La “prima fotografia” era poco interessante / Niépce incontra Daguerre / La rivoluzione, o meglio, le rivoluzioni che precedettero la fotografia / La modernità / Daguerre e la modernità del suo tempo / I progressi delle ricerche di Daguerre / Daguerre e François Arago / William Henry Fox Talbot e la nascita del negativo / Hippolyte Bayard: un autentico genio. 2. Il pittore Hippolyte Paul Delaroche non disse mai “Da oggi, la pittura è morta”. 3. Gli esordi della fotografia nelle caricature. 4. Una differenza iniziale. 5. Il pittorialismo come questione preliminare: Essere artisti / Artista dagherrotipista / Su un’antica strada / La regina Vittoria amava i pittorialisti / Arte o non arte? / Un labile confine / Due donne nell’empireo della fotografia pittorialista. Julia Margaret Cameron e Lady Clementina Hawarden. 6. Il ritratto nell’Ottocento: Il ritratto pittorico e la nascita del ritratto fotografico / I primi ritratti fotografici / Ritratti di gruppo / Mayall e altri americani / I primi ritratti in calotipia / Blanquart-Evrard e la diffusione della calotipia / La rivoluzione di Frederick Scott Archer / Collezionisti di carte-de-visite / Milioni di uova / Dalla carte-de-visite al formato cabinet / Ambrotipia e ferrotipia / Nadar, ovvero il crocevia della cultura / Carjat e Bertall / Gustave Le Gray / Due grandi ritrattisti tedeschi / Ritrattisti britannici. 7. Il vedutismo: Dalle vedute immaginarie ai dagherrotipi / Il vedutismo prima della fotografia / Le prime vedute fotografiche / Le Excursions Daguerriennes / La Scuola di Barbizon e il mito di Fontainebleau / Nel Vicino Oriente / La Société Héliographique, la Mission Héliographique e La Lumière / Altri paesaggisti


dell’era del calotipo / Paesaggisti dell’età del collodio / Il fascino delle montagne / I cieli / Il treno e la nuova percezione dei paesaggi / Paesaggi americani. Dai pittori della Scuola dell’Hudson Valley a Carleton E. Watkins / A Mariposa / Timothy O’Sullivan / Paesaggi dell’altra America e di altre terre lontane. 8. L’avvento della gelatina e la massificazione della fotografia: La rivoluzione di Richard Leach Maddox / Marey, Muybridge e la scomposizione del movimento / L’esercito dei fotografi amatori / Scrittori fotografi [ai quali Diego Mormorio ha già riservato suoi saggi, e altri sono in preparazione]. 9. La rivoluzione della cartolina illustrata: Ottobre 1869 / Milioni di fotografie in viaggio per il mondo. 10. Fatti ordinari, guerre e altre catastrofi: La tragedia come pornografia / Fotografie di guerra. La Repubblica Romana / La Guerra di Crimea / La Guerra Italiana / La Guerra Civile Americana / L’occidentalizzazione del Giappone / Dalla Guerra Franco-Prussiana alla Comune di Parigi / Thomas Annan, Old Closes and Streets of Glasgow e altri popolani / I padri della fotografia sociale / Dai giornali illustrati alla nascita del fotogiornalismo / La Prima Guerra Mondiale / August Sander / La Farm Security Administration / Il mito di Life / Vishniac e il destino degli ebrei d’Europa / W. Eugene Smith / Quattro maestri della scuola francese / Brassaï, l’uomo delle notti parigine / Werner Bischof / Un grande fotografo inglese: Bill Brandt / Kertész, il fratello veggente / Josef Koudelka, la pietra di paragone. 11. Dal secondo pittorialismo alla fotografia sperimentale: Peter Henry Emerson, il profeta che negò se stesso / “Fotografie che non sembrano fotografie” / Alfred Stieglitz, Fred Holland Day e il pittorialismo americano / La mostra dei pittorialisti americani a Londra / La Photo-Secession e Camera Work / Stieglitz, un fotografo medio / Una certa continuità / La fotografia futurista / Christian Schad e la nascita del fotogramma / Man Ray / László Moholy-Nagy, il fotogramma e il mondo intorno / Il fotomontaggio. Dallo spazio prospettico alla sovversione dadaista / Fotomontatori dell’Avanguardia Russa / Florence Henri e altri fotografi dell’Avanguardia / La Subjektive Fotografie come tentativo di rinascita. 12. Nascita e sviluppo del fotoromanzo: L’amorosa menzogna / Finendo in un abbraccio / Il fotoromanzo è nato in Inghilterra / Il fotoromanzo come esercizio intellettuale. 13. Del realismo e della bellezza delle cose: Edward Weston e dintorni / Paul Strand / Il gruppo f/64 e la questione del realismo / Minor White e altri realismi. 14. Alcuni esiti della fotografia italiana: Partendo da Adolfo Porry-Pastorel / Curzio Malaparte: uno scrittore fotografo e la fotografia come elogio dei vinti / Fosco Maraini. Un fotografo particolare / Giornalismo e fotografia. Da Leo Longanesi a Benedetti e Pannunzio / La fotografia nel Mondo di Pannunzio / Pasquale De Antonis. L’impareggiabile maestro / Giuseppe Cavalli, la questione della bellezza e i circoli fotografici / I fotodocumentari di Cinema Nuovo / I paparazzi / Enzo Sellerio e altri siciliani / Pace e guerre / Tano D’Amico / Marialba Russo / Il vedutismo / Fotografia sperimentale e di ricerca / Il ritrattismo / Fotografia di opere d’arte.

15. Pittori, scultori e fotografia: Influenze / Il caso Mayer & Pierson e la questione dell’artisticità della fotografia / L’universo di Delacroix / Dai cavalli di Muybridge / Pittori con la passione della fotografia / David Hockney e la questione della fotografia. 16. I colori della fotografia: La balena bianca della fotografia / Dalla ricerca del colore all’autocromia / Madame Yevonde, Paul Outerbridge, Erwin Blumenfeld, Ernst Haas / Altri colori. Tra coincidenze di vedute (ammirevoli) e divergenze di opinioni (di nessun valore), distribuite equamente, tra il nostro passo accademico e la modulazione di Diego Mormorio, per questa Storia essenziale della fotografia va espressa una considerazione perentoria e integrativa [non prima di una indicazione di servizio: volendo verificare, oppure avvicinare un altro cammino collimante, sulla cadenza di venti lezioni, da tre ore ciascuna, alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Brescia: www.unicatt.it / Docenti / Maurizio Rebuzzini / 2017-2018 Storia della Fotografia. Lezioni / 2017-2018 Storia della Fotografia. Illustrazioni / 2017-2018 Storia della Fotografia. Complementi]: la conoscenza e la cultura della fotografia teorica potrebbe non garantire di essere fotografi migliori... questo no, di certo! Ma, sicuramente, rende persone migliori. Ed è questo che conta veramente e sempre. Il resto... è mancia. ❖

Tra coincidenze di vedute e divergenze di opinioni con altre interpretazioni della Storia della Fotografia, e relativo racconto, il passo essenziale di Diego Mormorio merita una alta considerazione. Soprattutto, colma lacune preesistenti (ed è grande valore); quindi, indirizza il pensiero lungo strade e sentieri di straordinaria originalità.

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Trasversalmente di Antonio Bordoni

ALLA PHOTOKINA...

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Trasversalmente

KOELNMESSE (4)

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Con franchezza e, forse, anche con amarezza, dobbiamo certificare che la prossima Photokina 2018, a Colonia, in Germania, dal ventisei al ventinove settembre, sarà l’ultima di un luminoso percorso espositivo avviato nella primavera 1950 (qui sopra, tre testimonianze in esposizione... tedesca). Nata annuale, ma affermatasi internazionalmente per la propria cadenza biennale (dal 1954), dall’anno prossimo tornerà ad essere annuale... ovverosia, locale.

Dieci anni fa, nell’autunno 2008, al rientro dalla Photokina, un certo ottimismo tecnico-commerciale influenzò clamorosamente la nostra percezione del presente-futuribile della tecnologia fotografica, inducendoci -addirittura- a compilare un libro al proposito, in vece delle consuete relazioni giornalistiche da esaurire in una manciata di pagine, fitte di segnalazioni di novità e contorni. Nonostante il tanto tempo trascorso da allora, per una vasta serie di considerazioni, tutte legittime, tutte plausibili, la cadenza di Alla Photokina e ritorno, del nostro direttore Maurizio Rebuzzini, in molteplici vesti narrative, non ha perso alcuna brillantezza del proprio smalto originario. Fatti salvi i riferimenti temporali, in una certa cronaca, la trasversalità delle sue considerazioni ha perfino scandito i tempi mercantili della fotografia dell’ultimo decennio: tra luci e ombre della ribalta.

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KOELNMESSE (3)

Allestimento della Photokina 1952 -la terza in assoluto, l’ultima annuale, la prima autodefinitasi “Internazionale”e relativo manifesto di annuncio e presentazione (qui, a sinistra). Nessuna Photokina nel 1953; cadenza biennale dal 1954.

Dal 1954, la Photokina diventa biennale e ribadisce il proprio ruolo internazionale per la tecnologia fotografica (e cinematografica). Coerente con le date delle edizioni annuali precedenti, lo svolgimento è ancora primaverile. Dal successivo 1956, si sarebbe passati all’autunno, conservato fino a oggi.

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Ma non è questo che conta, quantomeno non ha importanza, né diritto di ospitalità, in riferimento a quanto di diverso (e, forse, nuovo) stiamo per considerare, ora, in moderato anticipo temporale sull’edizione 2018 della Photokina, fiera mondiale della tecnologia fotografica, che ha ormai accantonato ogni sottotitolo, alla somma di quanti ne ha declinati nel corso dei decenni: a Colonia, in Germania, da mercoledì ventisei a sabato ventinove settembre prossimi (a differenza dei più recenti calendari, da martedì a domenica). Ciò che invece ha significato sono quelle perplessità latenti sottolineate dieci anni fa, in momenti già compromessi da altre fonti di informazione in tempo reale, che si sono ingigantite con il passare di questa recente decade. Laddove si sottolineò come, novità a parte, che pure ne compongono l’ossatura, «La Photokina è l’espressione più chiara, trasparente e concreta di intrecci, legami e collegamenti. Photokina non sono i soli strumenti della fotografia. Alla Photokina e con la Photokina, l’intero mercato della fotografia manifesta spiriti e filosofie trasversali, da decifrare per allineare e finalizzare ogni personalità commerciale quotidiana»... bisogna riconsiderare. Infatti, per quanto la Fiera abbia fatto quanto in proprio mandato per esprimere un senso compiuto, l’industria

produttrice non è riuscita a stare al passo con i tempi attuali, in proiezione futuribile. In cosa è manchevole l’industria nel proprio insieme e complesso, oltre che nella totalità dei propri marchi (quelli rimasti)? Nel non aver capito le esigenze e necessità del pubblico più vasto (di massa), sempre più divergenti da quelle degli addetti: appassionati o professionisti che siano, le cui quantità sono sempre in diminuzione e stanno per diventare risibili. Qual è l’attuale concorrenza tecnico-commerciale palese e manifesta? Certamente, non riguarda più la contrapposizione mercantile tra Tizio e Caio, in parità di passo (Nikon / Canon / Fujifilm / Sony / Olympus / Leica / Hasselblad / Ricoh / Pentax / Panasonic...), ma la dicotomia evidente e palese tra scattare una fotografia, per quanto consapevole e di contenuti profondi, e realizzare immagini, per quanto casuali ed effimere. Cioè, i marchi della fotografia continuano a marciare al ritmo di evoluzioni tecnologiche programmate, oltre che inevitabili, oltre che prevedibili e preannunciabili; mentre, al contempo, la nouvelle vague dell’immagine non pensa in termini autoreferenziali di prestazioni teoriche e potenziali, ma ragiona libera da condizionamenti. Gli uni continuano in un capitolato stabilito tempo addietro; gli altri sono partiti da Zero,


ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2)

Trasversalmente

per proporsi senza autoreferenzialità, ma con attenzione indirizzata e mirata verso il più ampio pubblico potenziale. Da una parte, una interpretazione industriale appesantita da sovrastrati; dall’altra, una lievità di pensiero. Attenzione, a questo punto: personalmente e per mandato giornalistico, in relazione a quanto noi intendiamo per Fotografia, comunque vadano i fatti, comunque si complichino le giornate (le nostre, prima di quelle altrui), noi restiamo vincolati, oltre che fedeli, alla concezione “classica”, così come persistono a frequentarla aziende che conosciamo e stimiamo da decenni e aziende di più recente arrivo. Però! Però, allo stesso tempo e momento, non possiamo ignorare la realtà commerciale che ottiene maggiori frutti altrove e altrimenti. Soltanto, le sue consecuzioni sull’immagine e la sua frequentazione sono fuori dai nostri confini, sia ideologici, sia filosofici, sia esistenziali. Da questa realtà ci teniamo discosti, pur sapendola valutare per i suoi pesi e valori sociali, così estranei al percorso di riferimento lungo il quale continuiamo a camminare. Ciò precisato, un’altra domanda alla quale rispondere subito: qual è la biforcazione tra le due strade? come si manifesta e dove la si individua? Presto rilevato: nel fatto che l’industria fotografica “classica” (rimaniamo con

questo aggettivo, in questa definizione) continua a proporre prodotti, mentre il mondo parallelo dell’immagine suggerisce e prospetta strumenti. Se vogliamo vederla anche così, se intendiamo esprimerci in metafora: l’industria “classica” della fotografia è affaticata con e da utensili che dovrebbero essere evoluzione della propria specie, ma che non sono riusciti a trasformare il proprio DNA; mentre gli altri hanno modificato quel DNA originario, adeguandolo alla richiesta (o, forse è più vero, inventando una richiesta edificata su una interpretazione trasversale della tecnologia digitale). Addirittura, costoro sono riusciti a modificare i gesti e la filosofia implicita dell’immagine quotidiana... e lo registriamo oggi, centotrenta anni dopo la nascita della fotoricordo familiare, grazie al DNA della Box Kodak originaria, del 1888 [tante le nostre rievocazioni, nello scorrere delle decadi]. Quindi, ci si potrebbe domandare, e ce lo siamo domandati, quale motivo c’è, oggi, nel Duemiladiciotto, di andare a una Fiera ipoteticamente tecnologica che non è riuscita a maturare nulla al di fuori della propria autoreferenzialità? Presto detto: se andremo (a dispetto di quanto perentoriamente affermato in incipit e considerato in Editoriale, su questo stesso numero), non ci andremo con la testa, ma con il cuore. Ci

Ci sono stati momenti e anni di straordinaria gloria, durante i quali la Photokina ha rappresentato valori e riferimenti assoluti e inderogabili per la tecnologia fotografica: in passerella lussureggiante. Anche così possiamo interpretare gli annulli postali dedicati, su cartoline personalizzate: testimonianza dal 1956 al 1982.

Redatta e pubblicata dieci anni fa, nell’autunno 2008, la riflessione Alla Photokina e ritorno, di Maurizio Rebuzzini, ha anticipato considerazioni sul senso e necessità di fiere mercantili della fotografia. In mancanza di interpretazioni adeguate... siamo alla Fine. Punto.

andremo per assistere alla Fine di un mondo entro il quale stiamo vivendo da quarantasei anni (quarantaquattro dei quali scanditi anche dalla Photokina, dalla prima raggiunta, nell’autunno 1974 / nel 1972, no, perché stavamo espletando il servizio militare, che impediva escursioni fuori dai confini nazionali). Del resto, è ufficiale: dal prossimo 2019, prenderà avvio la cadenza annuale della Photokina, a certificazione del suo indirizzo ormai solo nazionale e locale, e non più internazionale. Sì, ci andremo con i sentimenti e non con la razionalità di un giornalismo tecnico, che ormai compete ad altri, con relative altre forme di informazione e formazione. Sia chiaro che i sentimenti non offuscheranno la concretezza delle rilevazioni anche tecniche, peraltro ampiamente anticipate sia in forma ufficiale sia in profilo di rumors. Ma tutto questo non sarà determinante. Forse, sarà ancora sostanzioso che «La Photokina è l’espressione più chiara, trasparente e concreta di intrecci, legami e collegamenti. Photokina non sono i soli strumenti della fotografia. Alla Photokina e con la Photokina, l’intero mercato della fotografia manifesta spiriti e filosofie trasversali, da decifrare per allineare e finalizzare ogni personalità commerciale quotidiana». Anche quelle giornalistiche. ❖

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Sguardi su

di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 20 volte maggio 2018)

L

EDWARD STEICHEN

La fotografia è una stella di luce che cade su una terra lontana o di pizzo o, anche, una sorta di banditismo che ignora gli idolatri della forma, del gioco e del delirio... appesi alla filosofia nel boudoir dell’arte fotografica (ma il marchese de Sade non c’entra nulla), dove chiari di luna e terrori eleganti sono battezzati nei fasti di una civiltà della deflagrazione; ogni forma di fascinazione dell’insincerità porta in sé la forza che la stritola. Negli esercizi di perfezione emergono anche gli apogei dell’indifferenza, e non c’è da stupirsi troppo se l’ultimo dei vagabondi possa valere più di tanti artisti del privilegio (quello accreditato al tempo dello spettacolare integrato). E se mille volte diamo ragione al “divino marchese” per la ricerca della felicità attraverso il vissuto delle proprie emozioni (quale che sia)... capiamo meglio l’inquietudine selvatica e nobiliare di un assassino. Il conformismo è il luogo dove l’artista sublimato e l’assassino impiccato s’incontrano! Qualsiasi arte esiste e si afferma soltanto grazie a opere di provocazione! Quando comincia a rinsavire, finisce in un museo o su una forca.

L’IMPICCAGIONE DELLA FOTOGRAFIA COME UNA DELLE BELLE ARTI

Edward Steichen, fotografo statunitense, pittore, designer, al di là del bene e del male, ha lasciato una traccia forte nella fotografia del Novecento. Nasce a Bivange, in Lussemburgo, il 27 marzo 1879, e scompare a West Redding, negli Stati Uniti, dove ha sempre vissuto e operato, il 25 marzo 1973 (la famiglia è emigrata negli Stati Uniti, nel 1881; nel 1900, divennero cittadini statunitensi). Si forma come pittore di belle arti, poi si avvicina alla fotografia secondo il senso estetico del pittorialismo, che -nei momenti di raffinatezza più alta- si dimentica il sudore della strada e s’impiglia nei merletti dell’arte per salotti dabbene... ai quali, del resto,

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queste opere sono destinate (di Edward Steichen, Alfred Stieglitz, Gustave Le Gray, Robert Demachy, Peter Henry Emerson, Frederick H. Evans, Alvin Langdon Coburn, Clarence H. White, Guido Rey, Luigi Ghirri, Guido Guidi, anche... e sorvoliamo sui colorismi di Franco Fontana): rifacimenti della pittura del Quattrocento e Cinquecento, come anche sbocchi nel naturalismo plebeo, che ha affascinato l’inattualità di questi borghesucci col vezzo d’artista (e molti di loro sono stati anche piuttosto bravi, sia nella composizione, sia nelle necessarie tecniche di sviluppo delle immagini). Tuttavia, ciò che più corre nei loro vangeli estetici è la composizione imbellettata a discapito della realtà ferita e umiliata, come destino dei vinti.

diano... e, almeno i migliori, si chiamavano fuori dall’estasi del naufragio e dai lamenti della tragedia borghese: e, nella freschezza e nell’irriverenza delle proprie pene, eleggevano la bellezza a forma di giustizia... e tutto il resto non era che simbologia del privilegio che andava affossata (affossato). La fotografia che rigetta il convenzionalismo induce a uno scisma: o si è portavoce di cimiteri splendenti dell’immagine galleristica, o si è disingannati di ogni ordinamento sociale e ogni affabulazione artistica diventa terrorismo delle belle arti. Tutta la storia della fotografia -checché se ne dica- non vale una sbronza con un amico o un bacio fogliante di una ragazza sulle barricate della prossima Comune. Le annotazioni su Edward Stei-

«Le foto sopprimono la nostra coscienza critica, per farci dimenticare la stupida assurdità del funzionamento, e solo grazie a questa rimozione è possibile, in generale, funzionare. Le foto creano così un cerchio magico che ci circonda sotto forma di universo fotografico. Bisogna rompere questo cerchio» Vilém Flusser I pittorialisti sono stati così presi dalla propria arte del drappeggio visuale da non fare troppo caso al fatto che il cinema, la fotografia, la letteratura, il giornalismo e le telecomunicazioni stavano cambiando il mondo... esprimevano una filosofia della Storia a uso quoti-

chen ce lo rendono simpatico. Nel 1905, conosce Alfred Stieglitz e, insieme, a New York, fondano Little Galleries of the Photo-Secession... un luogo dove si parlava e si vendeva fotografia d’arte (intanto, Jacob A. Riis, nei bassifondi lì accanto, si occupava della miseria

degli immigrati, della povertà estrema e «per la prima volta, la fotografia diventa un’arma nella lotta per il miglioramento delle condizioni di vita degli strati poveri della società», come osserva e annota Gisèle Freund [Sguardo su, in FOTOgraphia, del settembre 2005]. Che bello! Mentre Edward Steichen si diletta con la luna tra gli alberi che si rispecchia in un lago, Jacob A. Riis disvela come vive l’altra metà degli americani, cioè nei pidocchi e nei tuguri della grande città. È anche vero che, nel 2006, una copia di The PondMoonlight (1904), di Edward Steichen, è stata battuta all’asta per quasi tre milioni di dollari [2,928 milioni di dollari, nel febbraio 2006, da Sotheby’s New York; FOTO graphia, dicembre 2010]. Come è altrettanto vero che l’intera opera di Jacob A. Riis è relegata soltanto a studi sulla fotografia sociale o, tutt’al più, riprodotta nelle dispense a puntate allegate ai grandi giornali... così, tanto per mostrare che la povertà è un’eredità secolare di tutti i governi. E pensare che basterebbero i soldi ottenuti con questa fotografia di Edward Steichen [o con Rhein II, di Andreas Gursky, venduta da Christie’s New York, l’11 novembre 2011, per quattro milioni e trecentomila dollari; altro grande dispensatore di amenità mercantili, a dire poco imbecilli, per non parlare di un’altra sciocchezza fotografica, quella di Cindy Sherman, Untitled #96, altrettanto smerciata da Christie’s New York, il 18 maggio 2011, a quattro milioni di dollari (3.890.500,00 dollari)]... con i dollari dell’immagine di Edward Steichen, dicevamo, si potrebbero prendere a calci in bocca i responsabili di tante infamie sugli Ultimi della Terra, e «con le forme del bello sconfiggere i mostri del Novecento: il brutto e il tragico» (Renzo Bodei), la conoscenza dei volti della collera, della pietà e della gioia che si trascolorano nel volto dell’umanità... semplicemente.


Sguardi su Insieme con il buon Alfred Stieglitz (quello che ha fatto una delle immagini tra le più razziste sull’immigrazione americana, The Steerage, del 1907), Edward Steichen fonda, come già detto, il gruppo Photo-Secession, del quale fanno parte esponenti di vaglio della fotografia statunitense: Gertrude Käsebier, Clarence H. White, Alvin Langdon Coburn, Frank Eugene, Anne Brigman, Alice Boughton e Joseph T. Keiley... intelligenze feconde, che tendevano al sublime in mancanza del vero. L’effusione dei mercati stava dalla loro parte; certo, ciò che più importava era di essere amati... la raffinatezza, in fondo, è sempre stata il soggetto ideale per la psicanalisi e per i guerrafondai... angeli e demoni che stimolano secoli di nevrastenia senza mai riuscire a provare un tremito del dolore e dell’oppressione che li circonda... semplici di spirito per un’arte senza spirito, si rifugiano nelle branche del commercio e del sapere, e fanno della fascinazione del nulla l’imperio delle proprie fortune. Oltre alla creazione della celebrata galleria 291, al civico sulla Fifth Avenue, di New York, a Alfred Stieglitz e Edward Steichen si deve anche la nascita della rivista Camera Work (1903) [FOTOgraphia, febbraio 1998 e luglio 2009], che si proponeva di «dare nuovo spunto al pittorialismo verso nuovi confini e presentare immagini non solo del gruppo e non necessariamente americane»... ed è stata promessa / intenzione meritoria. «Che si trattasse di una rivista di straordinaria eleganza e raffinatezza lo si capisce se si pensa che nelle cinquanta pagine delle quali era composto ciascun fascicolo trovavano spazio dalle dieci alle quattordici riproduzioni a piena pagina del o degli autori presi in considerazione, accompagnati da articoli di estetica e politica culturale di più ampio respiro. Anche la grafica era molto curata: il logotipo della testata fu disegnato dallo stesso Edward Steichen, tenendo presente l’esperienza estetica dell’Art Nouveau viennese» (Maurizio Rebuzzini). Tutto vero. Ciò non toglie che al fondo della cul-

tura pittorialista di Edward Steichen e degli aderenti a quella visione dell’esistenza c’è qualcosa di esibito come orgoglio e conquista da lebbrosi, cioè un’educazione e un fervore pudico dell’ottimismo che poggia i propri meriti sulla civiltà dell’effimero. I ritratti di Greta Garbo, Marlene Dietrich, Gloria Swanson e i lavori per Vogue, Life (e altre testate, ancora) rendono Edward Steichen giustamente famoso. Del resto, l’alienazione del lettore/spettatore a beneficio dell’oggetto contemplato è il risultato della sua stessa attività incosciente, nella quale si riconosce e si specchia, che vive come immagine del bisogno, del suo proprio desiderio: A conti fatti, lo spettacolo «è il capitale giunto a un tal grado di accumulazione da divenire immagine» (Guy Debord). Lo spettacolo è il momento nel quale la merce assurge a complemento della modernità della lacerazione che sviluppa sull’Uomo e lo permea nella vita collettiva. Lo schermo dello spettacolo è un’ideologia, un compimento di distruzione dell’insieme sociale, un linguaggio unificato, che congela nell’apparenza la sotto-comunicazione generalizzata come pensiero dello spettacolo. Il pittorialismo intese elevare l’arte della fotografia senza sopprimerla, ma il mondo è già stato interpretato/fotografato a fondo: si tratta, invece, di cambiarlo alla radice. Quando lavora per Condé Nast Publications, la casa editrice che pubblica Vogue, Vanity Fair e affiliati, Edward Steichen apporta profondi cambiamenti nell’industria dell’immagine, e dà rilievo importante alla fotografia, non più come corredo ai testi, ma come espressione personale dell’autore. Ovviamente, non va dimenticato, né sottovalutato, che, nel tempo, su queste pagine sono passati fotografi quali Richard Avedon, Cecil Beaton, Guy Bourdin, Irving Penn: di là da cosa pensiamo della fotografia di moda, o di cronaca, o del reportage di guerra, quello che è fondamentale non è la paura della meraviglia (e dell’intelligenza), ma il suo uso. Addirittura, lo vogliamo dire. Una società

che si riflette nella dottrina e nei surrogati del mito è una macchina del consumo permesso, e partecipa alla costruzione unitaria del pensiero alienato che garantisce l’ordine costituito. Nel corso della Prima guerra mondiale, Edward Steichen ricopre il ruolo di direttore dell’istituto fotografico navale degli Stati Uniti, e, nel 1944, riceve il premio Oscar per il documentario La grande combattente (The Fighting Lady). Comunque, va anche rilevato che il co-regista era un maestro del cinema americano, William Wyler (quello di La calunnia / These Three, del 1936; Strada sbarrata / Dead End, del 1937; I migliori anni della nostra vita / The Best Years of Our Lives, del 1946; Vacanze romane / Roman Holiday, del 1953; e Ben-Hur, del 1959): un lavoro di propaganda, sicuro, ma anche onesto nell’affermazione dei valori di libertà di un intero paese. La sceneggiatura fu scritta da John S. Martin e Eugene Ling, il montaggio (la forza del film) era di Robert Fritch e la musica di David Buttolph. Il film non è una lode alla guerra, ma un canto alla pace o, forse, un’accusa contro l’ingiustizia che governa l’Universo. In veste di direttore del Dipartimento fotografico del Museum of Modern Art, di New York (MoMA), nel 1955, Edward Steichen cura un’esposizione tra le più importanti della Storia della Fotografia, The Family of Man. Si tratta di una selezione di fotografie che ripercorrono la Vita degli Uomini, dalla nascita alla morte: una selezione geniale... cinquecentotré immagini scelte tra quasi due milioni, riprese in sessantotto paesi da duecentosettantatré fotografi. Al di là delle esclusioni e delle imposizioni critiche, resta il fatto che quest’opera monumentale (inserita dall’Unesco nell’elenco delle memorie del mondo, nel 2003) è davvero qualcosa di eccezionale. Qui, la fotografia si afferma come cantico di una realtà che va difesa, e passaggio verso la bellezza, l’audacia, il coraggio e l’arte di dire qualcosa su qualcosa e possibilmente contro qualcuno, e diventa Storia dell’Umanità.

SULLA FOTOGRAFIA NEL BOUDOIR L’universo fotografico imperante è un flusso d’immagini che caratterizzano un sommario di decomposizione della fotografia come strumento di verità senza inganni. Le fotografie sono frammenti significanti di un’immaginazione che decodifica o inneggia il rapporto tra Uomo e Mondo; decifrare le immagini vuol dire scavare in ciò che significano, e l’impronta della fotografia o è il patibolo della merce o è il grimaldello che la smaschera e -qualche volta- la distrugge. La macchina fotografica è un giocattolo, un utensile, un ordigno, e la sola morale che conosce è quella del servo o del ribelle! Le fotografie sono contenitori di magie e misteri, che celebrano la banalità dell’industria o lavorano alla sua caduta; per quanto prossimi al paradiso della fotografia fatta da tutti e per tutti, ci viene in soccorso l’ironia e, fuori dalla compiacenza e dal successo, si trovano quelli che hanno compreso la fotografia come un brulotto che attenta all’unica realtà che esiste: quella dell’ignoranza, dell’imbecillità e dell’analfabetismo, che sostengono le magnificenze di una società dell’intolleranza, della brutalità e del consumerismo. La verità e la bellezza attraversano lo specchio di Alice e si lasciano stupire da nuove fioriture di esistenze liberate. La fotografia è morta di fotografia! Ma bisogna uccidere la morale dei princìpi nella quale si ritrova ancora il ricordo dell’onnipotenza. In questo sta il suo rinascimento. La masseria delle fotografie di Edward Steichen è riconducibile, come abbiamo detto, ai boudoir dell’iconografia d’intrattenimento. Qui, gli esercizi di ammirazione si sprecano: immagini di improbabili fantasmi in giardino, dive pensose, velate, accasciate su divani e poltrone lucenti; e poi, ballerini che volano come libellule, modelle di bianco o nero vestite, autoritratti, pubblicità, architetture, Charlie Chaplin senza Charlot; c’è perfino Winston Churchill in posa per la storia a venire. Tutta una casistica visuale abilmente confezionata, che fa di Edward Steichen divo ri-

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conosciuto della fotografia insegnata. Ma, a ben vedere, c’è anche altro nelle sue immagini, di là dall’uso sapiente della luce e dell’innata abilità di traffico con la macchina fotografica di grande formato. L’insieme del suo lavoro è corso da un estetismo smarrito, qualcosa che ha a che fare con la mancanza di equità, di misura e -talvolta- di sublimazione, come si avverte nelle immagini di Thérèse Duncan, Martha Graham e Rodin - The Thinker: tutta roba da collezionismo raffinato, certo, senza comunque un minimo d’impertinenza verso l’epoca dei dizionari... dove il giudizio dottrinario o mercantile, riproduce l’illusione. L’immaginale fotografico di Edward Steichen è un’apologia del bello che non tormenta, non turba, nemmeno seduce -come invece fanno l’opera di E. J. Bellocq, Robert Mapplethorpe, Oliviero Toscani e Gian Paolo Barbieri, tanto per restare in certe altezze creative-. Qui, si canta la bellezza come manifestazione del bene, del bello, del vero; in Edward Steichen, si eleva la definizione a genere, e il senso d’onnipotenza che ne consegue manifesta soltanto finalità estetiche/mercantili. Più di un secolo di fotografia (facciamo finta che sia nata sul finire dell’Ottocento) non

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ha ancora permesso a industriali, storici, critici, galleristi, fotografi di discernere tra etica ed estetica, senza cadere negli scempi della crocifissione e nell’apologia della frenesia. Si concedono statuti di maestri e palafrenieri dell’ottimismo (anche “rivoluzionario”) a quanti fanno cassa -Steve McCurry, Andres Serrano, Annie Leibovitz e Nan Goldin, per esempio-, e si elargiscono premi altisonanti, ai profittatori del terribile (fotoreporter del gioco al massacro e inseguitori della brutalità dei premi, sempre truccati da industrie e agenzie), che associano la perfettibilità del mercato all’evento di cannibalismi, mai smentiti, semmai giustificati, nei genocidi delle disuguaglianze. Le luci, le ombre, le posture delle fotografie di Edward Steichen figurano un gusto che si accorda con la bellezza formale di una generazione che guarda le stelle senza avere i piedi nel fango. L’eleganza, il sentimentalismo, le sensazioni raffinate delle sue immagini, s’accompagnano al piacere di simmetrie, proporzioni, figuralismi uniti in una sola medesima finalità: l’eccesso di nascondimento della verità come bellezza. Non c’è una fenomenologia della riflessione che porta il bello come manifestazione del vero, del

bene e del giusto, senza scomodare gli antichi. Vogliamo ricordare che bellezza e verità sono la medesima cosa, e il pensiero del bello è in se stesso infinito e libero. Dunque, la filosofia fotografica di Edward Steichen è un sudario della benevolenza, e si esaurisce nella propria inconsistenza, come si esaurisce l’inventario immaginifico che la contiene. Certo... la fascinazione della fattografia visuale di Edward Steichen non si può azzerare con arguzie, invettive e bagatelle... nemmeno con le grandi collere... tantomeno con il gusto del partito preso. Le sue fotografie restano incantesimi di corpi illuminati nello spettacolare integrato: donne, uomini, nature morte di prolungamenti letterari di un certo effetto, memorie condizionate da una poesia senza sostanza con la quale gente come Benjamin Péret ci accenderebbe il fuoco su qualche barricata. Lo stile senza arte è una prerogativa degli artisti di corte, e -senza un filo di graziafrana nell’ostentazione della propria casta. Non è un caso se tutti, anche i più ribelli (recuperati), finiscono nei francobolli e nel verminaio dei miti dell’industria culturale. Edward Steichen non era uno sciocco. Quando assume la direzione del Dipartimento fotografico del MoMA, di New York (Museum of Modern Art), cura esposizioni di grande pregio, in testa alle quali collochiamo The Family of Man, già commentata. Nel 1969, a novant’anni, avrebbe affermato che «Missione della fotografia è spiegare l’Uomo all’Uomo, e ogni Uomo a se stesso»... e il suo lascito culturale, come organizzatore di eventi, ha aperto strade eccellenti all’immaginario fotografico. Ciò non significa che molte delle sue scelte, come pure la sua produzione fotografica, siano consacrate all’arbitrario e alla disinvoltura. Detto meglio, forse: la nobilitazione dell’arte nelle caserme del potere è sempre sospetta... e non tutti ebbero l’orgoglio libertario di Goya, hanno saputo usare il coltello come Caravaggio, o capire il mondo dei citrulli come van Gogh... per denunciare i disastri della guerra, effigiare madonne con puttane e

raffigurare raccoglitori di patate come persone bastonate nella propria più intima dignità. Se poi i parassiti dei musei li hanno appiccicati sulle pareti e infilati nei caveau di banche e cattedrali, questo non c’entra nulla con l’arte; una volta diventata sovrana, l’arte si erge contro tutti i valori estranei al proprio disdoro e non offre nessuna speranza di sfruttamento reale alla quale ci si possa appigliare. Sotto ogni taglio espressivo, la scrittura fotografica di Edward Steichen è più falsa della gloria dei Vangeli. È una visione sacerdotale di epifanie fattuali dispiegate nel dileguamento e nell’ebbrezza di un tempo nel quale i forzati della miseria, al pari di oggi, sono stati rinchiusi nei luoghi comuni... e, in supplementi di autorità, gli artisti, i politici, i preti, i banchieri e i loro cani da guardia hanno celebrato la felicità eterna e l’idea che la provvidenza passa dai lasciti della propria balordaggine. Intanto, si sono fatti incensare dalla fotografia -come quella di Edward Steichen-, nell’estasi dell’immortalità. Alla pari dei morti di fame e dei massacrati dalle guerre, questi abatini del culto dell’avvenire restano a memoria (non solo) della fotografia come mummie imbalsamate, persuasi che la futilità dello spettacolo che incarnano, un giorno, possa davvero riconoscerli protagonisti di una civiltà senza domani. Una rottura profonda con l’identità e la monotonia della fotografia imperante non è solo necessaria, ma quanto mai salutare, prima di procedere alla liquidazione dell’ordine stabilito. È solo a partire dall’abolizione dei culti, dei miti, dei riti che possiamo farla finita con la terminologia dei vincitori... è con la rottura delle gerarchie dell’apparenza che s’intravvede la possibilità, del tutto utopica e per questo possibile, di rovesciare l’inviolabilità del linguaggio fotografico e fare a pezzi il cinismo mercatale che ne vieta la rivolta. La fotografia precede l’Uomo, giacché si può dire che non è possibile se non attraverso la distruzione del suo statuto di merce, inutilmente puro. ❖


Dal 1991, i logotipi dei TIPA Awards identificano i migliori prodotti fotografici, video e imaging dell’anno in corso. Da ventotto anni, i qualificati e autorevoli TIPA Awards vengono assegnati in base a qualità, prestazioni e valore, tanto da farne i premi indipendenti della fotografia e dell’imaging dei quali potete fidarvi. In cooperazione con il Camera Journal Press Club of Japan. www.tipa.com



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