FOTOgraphia 242 giugno 2018

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Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano

ANNO XXV - NUMERO 242 - GIUGNO 2018

PAROLE. PAROLE. SOLO PAROLE SULLA E PER LA FOTOGRAFIA


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prima di cominciare PAROLE, LE NOSTRE PAROLE. Ci sono argomenti fotografici, soprattutto annunciati, che vengono trattati da tutte le riviste di settore, nazionali e internazionali. Uno di questi, trasversale a ogni redazione, è quello dell’assegnazione annuale dei premi del World Press Photo, la cui edizione 2008 (sul precedente 2007) è stata commentata sul nostro numero dello scorso aprile [2008]: sette pagine, con concentrato accompagnamento di testo (di Lello Piazza). Ogni anno, è sostanzialmente lo stesso: qualche immagine, il più possibile, e tante parole, fino alla dettagliata segnalazione dei vincitori di ogni categoria. Ma rimaniamo a quest’anno [2008]. Abbiamo avuto modo di valutare e considerare quanto fatto da altri, soprattutto fuori dai nostri confini nazionali, entro i quali il World Press Photo non è proprio argomento di riflessione giornalistica da parte delle testate di settore (ma non è questo il problema e neppure un problema). Così che, abbiamo potuto constatare come -all’estero- si dedichi lo stesso nostro spazio redazionale, riproducendo le fotografie in dimensioni superiori ed evitando ogni commento. Cioè, si pubblicano le immagini senza approfondire ciò che rivela il loro insieme, che -a nostro giudizio- sottolinea lo stato dell’arte nell’ambito del fotogiornalismo (peraltro rimarcato anche dalla mostra che viene allestita ogni anno: a maggio, al Museo di Roma in Trastevere e alla Galleria Carla Sozzani, di Milano, in simultanea; a dicembre, al LuccaDigitalPhotoFest [sempre nel 2008 di riferimento]). Da cui, è confermata la nostra vocazione alle parole di “riflessione, osservazione e commento sulla Fotografia”, come annunciamo in Sommario, sotto l’indicazione della testata (sulla pagina accanto). In effetti, anche alla luce di questa ulteriore prova, se così vogliamo considerarla, FOTO graphia è più una rivista di testi che di immagini. Non è per caso -lo confessiamo apertamente-, ma per volontà e intenzioni dichiarate ed esplicite. Le immagini che presentiamo richiamano gli argomenti trattati, che sono affrontati e approfonditi -appunto- con parole a commento (e a volte, pubblichiamo anche testi privi di illustrazioni: a partire dagli Sguardi su, di Pino Bertelli, che -solitamente- concludono ogni nostra edizione mensile). Questo significa che anteponiamo le considerazioni sulla fotografia, per quella continua e costante ricerca di dialogo e condivisione di idee e opinioni, che nelle intenzioni arricchiscono la vita fotografica di ciascuno di noi. Quindi, nessuna sorpresa, nessun dubbio: continuiamo e continueremo in questa direzione, che definisce e identifica la nostra personalità redazionale. In fondo, ma neppure poi tanto, siamo anche convinti di aver qualcosa da dire. E, dunque, lo diciamo. M. R. (da FOTOgraphia, maggio 2008)

Non è una bellezza estetizzante, e vuota, ma il profondo senso del bello che potremmo tradurre in perfetta sintesi di forma e contenuto. Giuliana Scimé; su questo numero, a pagina 23 Nella semplicità della fotografia, c’è sempre -evidente o latente- l’inesauribile complessità del reale. Piero Raffaelli; su questo numero, a pagina 29 Un fotografo che abbassi la fotocamera davanti a una situazione con la cui drammaticità non riesce a fare i conti è un fotografo sconfitto dalla propria inadeguatezza. Michele Smargiassi; su questo numero, a pagina 26 Volevo mangiare la fotografia sui libri, mi è rimasto il suo smarrimento addosso. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 47 La vita ci ha chiarito i libri: osservare, piuttosto che giudicare, fino al linguaggio fotografico, immensa combinazione di regole logiche e usi arbitrari. mFranti; su questo numero, a pagina 9

Copertina Modesta, invero modesta (ma necessaria... forse), interpretazione visiva dell’odierna idea sovrastante indirizzata a Parole. Parole. Solo parole. Tutto qui (a seguire, a luglio: Soltanto fotografie... in compimento)

3 Fotografia nei francobolli Dalla compendiosa analisi Fotografia nei francobolli, di Maurizio Rebuzzini, in corso d’opera e prossima pubblicazione, dettaglio da un annullo filatelico del 9 dicembre 1938, dalla capitale Berlino, dalla filiale tedesca della Eastman Kodak Company, con tanto di personalizzazione certificata. Comunque, Deutsches Reich, altrettanto attestata al regime, e utilizzo congiunto del carattere Fraktur, tanto caro al nazismo (almeno fino al 1941)

7 Editoriale La parola che arricchisce, nella comprensione tra alba e tramonto: nella vita, le tenebre sono sempre in agguato

8 Valore della Parola Da e con Davide Medri, in doverosa motivazione di questa edizione, in dimensione di Soltanto parole qualcosa, da FOTOgraphia, maggio 1996

12 Riverberi fotografici Momenti da una attenta osservazione dall’interno di Angelo Galantini (da FOTOgraphia, marzo 2008)


GIUGNO 2018

RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA

16 Epopea Life (in due tempi)

Anno XXV - numero 242 - 6,50 euro

Terza e definitiva sospensione della celebre testata di Lello Piazza (da FOTOgraphia, maggio 2007) di Maurizio Rebuzzini (da FOTOgraphia, giugno 2007)

DIRETTORE

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

IMPAGINAZIONE

Maria Marasciuolo

22 Messaggio attuale Modernità del pensiero fotografico di Carlo Mollino di Giuliana Scimé (da FOTOgraphia, ottobre 2006)

REDAZIONE

Filippo Rebuzzini

CORRISPONDENTE Giulio Forti

FOTOGRAFIE Rouge

24 Fotografia stereo Sovietica Sputnik d’altri tempi (moderni?) di Maurizio Rebuzzini (da FOTOgraphia, maggio 1999)

26 Lontano dagli occhi Dall’autorevole blog Fotocrazia, del quattordici febbraio di Michele Smargiassi (da FOTOgraphia, marzo 2011)

28 In percezione Ogni immagine sta in una vasta rete di relazioni latenti di Piero Raffaelli (da FOTOgraphia, maggio 2010)

32 Il Borghese Attualità di una satira (fotografica) degli anni Sessanta di Maddalena Fiocchi (da FOTOgraphia, ottobre 2011)

36 Genìa Horizon(t) Da Russia e Urss, Horizon e Horizont a obiettivo rotante di Antonio Bordoni (da FOTOgraphia, marzo 2001)

40 L’amico Tiziano Terzani Nelle fotografie e nel ricordo di Vincenzo Cottinelli di Grazia Neri (da FOTOgraphia, marzo 2005)

44 Quel Giudizio Straordinaria documentazione d’arte di Sandro Vannini di Lello Piazza (da FOTOgraphia, marzo 2009)

SEGRETERIA

Maddalena Fasoli

HANNO

COLLABORATO

Pino Bertelli Antonio Bordoni Vincenzo Cottinelli Maddalena Fiocchi mFranti Angelo Galantini Davide Medri Grazia Neri Lello Piazza Piero Raffaelli Giuliana Scimé Michele Smargiassi Franco Sergio Rebosio Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.com; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 1027671617 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard e PayPal (graphia@tin.it). ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano

47 Fotografia della libertà Per una filosofia libertaria dell’arte fotografica di Pino Bertelli (da FOTOgraphia, novembre 2011)

Rivista associata a TIPA

A luglio: Soltanto fotografie... in compimento (forse) Nella stesura della rivista, a volte, utilizziamo testi e immagini che non sono di nostra proprietà [e per le nostre proprietà valga sempre la precisazione certificata nel colophon burocratico, qui accanto: «È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo)»]. In assoluto, non usiamo mai propietà altrui per altre finalità che la critica e discussione di argomenti e considerazioni. Quindi, nel rispetto del diritto d'autore, testi e immagini altrui vengono riprodotti e presentati ai sensi degli articoli 65 / comma 2, 70 / comma 1bis e 101 / comma 1, della Legge 633/1941 / Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio.

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editoriale MFRANTI

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ossiamo occuparci soltanto di Fotografia, escludendoci da quanto avviene attorno a noi, giorno per giorno e giorno dopo giorno? Forse sì... forse no... dipende tutto da come consideriamo la nostra partecipazione alla stessa Fotografia: materia, disciplina, espressività, creatività e altro tanto ancora. In effetti, come abbiamo già avuto occasioni per distinguere (differenziandoci e caratterizzandoci), il requisito principale che caratterizza la nostra edizione periodica è l’uso / (spesso) abuso della parola, magari anche a dispetto del soggetto che dovrebbe essere esplicito, in quanto concordato preventivamente: la Fotografia, in ognuno dei propri aspetti possibili, senza alcuna soluzione di continuità, dal linguaggio applicato alla socialità trasversale, da specifiche nozioni tecniche ad aspetti commerciali, dalla riflessione a meditazioni conseguenti, da-a tanto altro ancora... e sempre. A conclusione di questo, o a suo interludio -fa lo stesso-, accampiamo una aspirazione alla quale crediamo molto, per quanto non troppo e con nessuno spirito di autocelebrazione: quella di aver sempre scandito parole misurate e di conciliazione. Mai ci siamo limitati al lancio di anatemi, e neppure ci siamo mai accompagnati con qualcosa di meno del ragionamento articolato... nello spirito inviolabile (!) del reciproco arricchimento individuale, che ci porta sempre a dare almeno per quanto (tanto) riceviamo: nella conduzione quotidiana della nostra esistenza, cadenzata, come spesso rivelato, a partire dalla Fotografia, o in approdo alla stessa Fotografia. Rilevazione dovuta, la nostra odierna, magari a motivazione di questo numero particolare della rivista, che -come annotato là dove è necessario farlo- prende spunto da un richiamo arrivatoci in redazione (su invio dell’attento e scrupoloso Davide Medri, come certifichiamo da pagina otto), che ci ha fatto riflettere: non tanto su noi stessi, che contiamo nulla, quanto sulla frequentazione consapevole e concentrata della Fotografia, per quanto questa significhi e abbia valore per ciascuno di noi. Ora, è necessario considerare anche altro. Limitandoci alle sole parole, oggi e qui, non innalziamo, e neppure esaltiamo le nostre parole, andando a riprendere passi e ragionamenti distribuiti nel tempo, lungo le stagioni della nostra redazione. No... nessuna autoreferenzialità! Soltanto, eleviamo il senso e valore assoluti della parola che sollecita riflessioni individuali (per quanto siamo anche consapevoli che molti sono incapaci di imparare, perché si limitano soltanto a insegnare, forse; per questo, molto spesso, gli insegnanti -oppure presunti tali- sono sciocchi... almeno sciocchi). Arricchiamoci delle parole che sentiamo, e riserviamo loro un posto nel nostro cuore e nella nostra mente. Parole, letture e riflessioni che sono buone compagnie per le nostre (le vostre) escursioni nel mondo. Insieme, impariamo ad assaporare parole e linguaggio (anche fotografico, sia chiaro). Qualunque altra opinione contraria avete potuto sentire al proposito, parole e idee possono cambiare il mondo, anche solo il nostro personale. Maurizio Rebuzzini

Non leggiamo, scriviamo e fotografiamo (e non ci occupiamo di fotografia) perché è bello farlo. Noi leggiamo, scriviamo e fotografiamo perché siamo vivi, membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Attorno a noi si manifestano professioni nobili, concretamente necessarie al nostro sostentamento. Ma la poesia... la bellezza... l’amore... il romanticismo... la fotografia... sono queste le cose che ci tengono in vita. Siamo perfettamente consapevoli che l’alba non ha nulla a che vedere con il tramonto. L’alba arriva sempre in maniera brutale, come se il sole fosse goffo e di fretta. Il tramonto è più delicato, la luna più aggraziata. Forse, perché la luna ha più pazienza. Comunque, nella vita e nella natura, le tenebre sono sempre in agguato.

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Parole. Parole. Solo parole di Maurizio Rebuzzini (mFranti) (qualcosa, da FOTOgraphia , maggio 1996)

Valore della Parola

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Come anticipato in Editoriale, là dove la motivazione vola altrimenti, per quanto rimane concentrata sulla vicenda in questione, questo numero di FOTOgraphia è particolare... almeno tanto quanto lo sono state altre precedenti messe in pagina. Tra queste, prima di affrontare lo specifico odierno, come è doveroso e necessario erigere (diciamola così), vanno ricordate almeno quattro edizioni, delle quali riprendiamo e ripetiamo l’essenza in ordinato ordine temporale. Non a caso, quindi, nel richiamare stagioni passate, nel rievocare trattazioni (ormai) remote, ma -speriamo- non certo vetuste, ci sta un poco dello spirito conduttore di questa attuale particolarità: che dà senso e valore alla parola, andandone a recuperare di espresse nel corso del nostro lungo cammino, avviato nel maggio 1998. Da cui... eccoci qui. Fatto salvo che ogni edizione della rivista è densa di collegamenti trasversali, che allacciano tra loro argomenti eterogenei, apparentemente diversi, ma connessi gli uni agli altri (e non è necessario sottolinearli, e neppure individuarli... forse), non possiamo ignorare, né intendiamo farlo, che tale (e tanta) obliquità di visione e presentazione potrebbe anche esaurirsi nelle nostre intenzioni originarie, senza giungere a destinazione (appunto!). Per cui, quando ci riferiamo a redazioni distinte, non andiamo sottotraccia, ma ci limitiamo al macrocosmo evidente e dichiarato, percepibile da tutti come tale.

EDIZIONI SINGOLARI Con lo speciale Gioco o son desto, nel settembre Millenovecentonovantotto -lasciatecelo scrivere in questo modo-, celebrammo l’allora palpitante e vibrante stagione delle macchine fotografiche giocattolo (in gergo Toy Camera, in riconoscimento dell’origine statunitense), andando a vivacizzare

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una ipotesi di tragitto italiano, recuperato dalla Eura Ferrania, del 1958 (di quarant’anni precedente), così vicina e apparentata alla genìa di riferimento della semplificata Holga 120S, dalla quale tutto è partito (con nostra puntuale anticipazione, il precedente febbraio, e ulteriori presentazioni di autori, nel corso degli anni a seguire, fino alla dismissione ufficiale, evocata in Editoriale, nel febbraio 2016; e non abbiamo mai dato credito ai pasticciamenti, che si sono alternati quando il segno originario è slittato verso un proprio e identificato stereotipo, prodotto di sottocultura). Comunque, e nello specifico, allora, vent’anni fa, fummo tra i primi (i primi in assoluto?) a registrare questa fenomenologia, individuandone termini di personalità profonde, che si stavano esprimendo; e, poi, ancora, le stesse riflessioni sono andate oltre quella contrapposizione al clima tecnologico imperante in fotografia, alla quale tutti gli altri “critici” si sono limitati, in ristrettezza di pensiero. A seguire, in ordine temporale, il dicembre Millenovecentonovantanove, ancora in questa grafia ( graphia?), fu occasione per soffermarci, anche noi, dal nostro punto di vista, sulla fatidica fine di anno/decennio/secolo/millennio: con un’edizione Salviamo il salvabile dal tono apocalittico. In qualunque modo la si voglia vedere, nulla di catastrofico, ma solo occasione per segnare un poco il passo e guardarci indietro, per vederci dentro... sempre e comunque a partire dalla Fotografia, per quanto non finire sterilmente con la sola Fotografia. Poco più di un anno dopo, nel marzo Duemilauno, fu la volta di un numero della rivista messo in pagina con volontaria concentrazione sul Colore: e, per l’occasione, l’edizione standard, nella consueta quadricromia regolare, fu accompagnata da quattro edizio-

ni di accompagnamento, ognuna delle quali stampata in uno solo dei quattro colori della restituzione cromatica litografica, secondo il modello della sintesi sottrattiva. Destinati a coloro i quali vennero in visita al nostro stand presso l’allora spumeggiante PhotoShow, di Milano (in una delle sue tornate di fine ciclo esistenziale), i quattro fascicoli in solo Giallo, Magenta, Ciano e Nero (CMYK, ovvero Cyan, Magenta, Yellow, Key black) hanno composto i tratti di un gioco delle parti, sostanzialmente fine a se stesso e allo stare in compagnia. Però! In questa disamina -lungamente introduttiva all’argomento al quale stiamo per approdare... finalmente!-, non prendiamo in considerazione due passi in intenzione di “catalogo”, a supporto e sostegno di iniziative espositive pubbliche: PhotoFestival 2003, di Milano, nel marzo di quell’anno, e Biennale Internazionale di Fotografia di Brescia, nel corrispondente giugno Duemilasei. Due clamorosi incidenti di percorso, per i quali ancora oggi soffriamo, non avendo allora afferrato, nell’entusiasmo dei rispettivi momenti, con che razza di personaggi ci eravamo messi (per quanto, dello svolgimento del PhotoFestival fummo noi stessi responsabili). Invece, e a conclusione di prologo (doveroso), ostentiamo orgoglio per l’edizione Nero-suNero, altrove Numero Nero, dell’aprile Duemilaundici, quando e dove, invitando a Vogliamo parlarne?, sottolineammo spossatezze e dissolutezze del nostro piccolo-grande mondo della Fotografia (italiana), tanto concentrato su se stesso da perdere, spesso, il senso complessivo e globale dell’intera vicenda. In quell’occasione, parteciparono e si incamminarono con noi -complici involontari (a scatola chiusa, e senza conoscere i dettagli delle rispettive pubblicazioni)-

i fotografi Gian Paolo Barbieri, Gianfranco Salis, Guido Bissattini, Yossi Loloi, Stefano Zardini, Douglas Kirkland, Danilo Pedruzzi e Massimo De Gennaro (tutti loro ci diedero fiducia, senza sapere cosa sarebbe successo, sulla sola idea che avremmo “rovinato” le loro fotografie, per uno scopo collettivo), accompagnati, per l’occasione, da Edmondo De Amicis (con un pre-esordio di Franti), Nadar, Honoré Daumier, Betty Page, Euclide e Pino Bertelli. Analogamente, sulle stesse premesse che non rivelarono nulla in anticipo di produzione, ci seguirono aziende commerciali, grazie al cui contributo economico riuscimmo a confezionare quelle pagine in lavorazione litografica/ serigrafica: A/D Imaging, Aproma, Canon Italia, DPF Photocenter, Fowa (Pentax), Fujifilm Italia, M Trading (Sigma), Nital (Nikon, Impossible, Lexar), Photò 19, Polyphoto, (Olympus, Leica, Tamron), Ra.Ma., Silvestri Fotocamere, Sony Italia e Unionfotomarket. Ancora oggi, grazie a tutti, nella convinzione che quell’edizione (insieme a tanto altro) sia servita alla fotografia italiana.

QUINDI, LE PAROLE Subito un riconoscimento di merito, che non è affatto nostro. L’attualità di questa edizione della rivista in forma in certo modo “speciale”, con concentrazione e limitazione alla parola, ci è stata come “suggerita” da un lettore: Davide Medri (che è apparso sulle nostre pagine, come autore, in due occasioni successive: nel settembre 1996, con Quella voglia di essere donna, documentazione suggestiva e coinvolgente del mondo dei transessuali; nel febbraio 2013, con Disegni fotogenici, in forma di Medrigrafie). Attento frequentatore della Fotografia (qualsiasi cosa questa significhi per ciascuno di noi), tra i pochi con i quali valga la spesa


dialogarne, recentemente, Davide Medri ci ha ricordato un passaggio pubblicato ventidue anni fa, in Editoriale del maggio 1996 (in un numero con in copertina una fotografia di moda di Roger Corona, in prova sul campo della diapositiva Kodak Ektachrome E100, allora di stringente attualità tecnico-commerciale: altri tempi, altre logiche giornalistiche). Telegrafico, l’accompagnamento di Davide Medri: «Ciao Maurizio. Sai che mi piace, di tanto in tanto, tornare indietro ai tuoi scritti. Preveggente questo, scritto esattamente ventidue anni fa». Eccoci qui, quindi, con la prima ripresa di parole che abbiamo declinato nel tempo a partire dalla Fotografia, non potendo/volendo far finta che intorno a noi non accadano eventi sostanziali e si manifesti la Vita, l’Esistenza. Ancora, e in sovramercato, non si tratta soltanto della “prima ripresa” odierna, come pure è, ma di quella originaria, che ha dato spunto a tutto il resto... alle parole di ritorno, oppure parole in ritorno, di questa attuale riflessione giornalistica (piuttosto che intima, per quanto non certamente privata): «Una volta ancora, e una di più, l’ignoranza e la paura stanno impedendo a ciascuno di noi un proficuo arricchimento personale, che avrebbe potuto essere alimentato proprio dal concetto basilare dell’immigrazione: l’antichissima usanza umana di trasformare il bisogno e la fame in viaggio e avventura. Ridotta a questione di puro ordine pubblico [che pure è], l’inarrestabile invasione di poveri (oggi colorati) ha conservato tutti gli aspetti minacciosi e perduto tutta la sua potenziale ricchezza. Avevamo davanti un rischio e una possibilità: questa è rimasta alle nostre spalle e ci siamo tenuti il rischio». Già! Ventidue anni fa! Ma, ancora oggi. Ma, soprattutto oggi, in un tempo nel quale la demagogia di un populismo di maniera è diventata motivo conduttore della nostra esistenza pubblica. A differenza di parole di spiegazione, decifrazione e chiarimento, che potrebbero servire a quella

crescita -anche individuale, specialmente individuale- sulla quale edificare una convivenza sempre più pertinente e adatta, sentiamo ormai soltanto slogan di basso profilo. Addirittura, ci stiamo disabituando (la politica italiana ci sta disabituando) alla sintassi corretta, basata sulla semplice sequenza legittima di soggetto / verbo / complemento oggetto. La nostra personale risposta, per quanto in (modesta) origine fotografica, rimane sempre la stessa, non si lascia trascinare altrove: pensare invece di credere. Del resto, come abbiamo avuto già modo di sottolineare, e qui ripetiamo (in interpretazione e adattamento da Memorie di Adriano, di Marguerite Yourcenar), rispondendo a una natura formata in parti uguali di cultura (erudizione?) e istinto, il vero luogo natio è quello dove per la prima volta si è posato lo sguardo consapevole su se stessi: la nostra prima (e unica) patria sono stati i libri. Ancora, la parola scritta ci ha insegnato ad ascoltare le voci. La vita ci ha chiarito i libri: osservare, piuttosto che giudicare, fino al linguaggio fotografico, immensa combinazione di regole logiche e usi arbitrari. Quindi, se dovesse servire, riprendiamo l’intero Editoriale del maggio Millenovecentonovantasei evocato, oggi d’ispirazione al nostro attuale percorso (che si completerà, il prossimo luglio, con passo complementare: Soltanto fotografie, a seguito dell’odierno Soltanto parole / Parole. Parole. Solo parole). Maturare significa anche superare le età. Ciascuno di noi matura a ritmi propri, a ritmi individuali, ma per tutti è obbligatorio vincolare la maturazione personale con la crescita dell’età: non si scappa. Per cui, invidio molto chi non è ancora maturo, perché sicuramente è più giovane “dentro”, e può guardare al mondo con serenità; perfino con incoscienza. Quando io mi guardo intorno, sono portato a confrontare la mia modesta esistenza con gli avvenimenti più grandi ai quali

assisto. Il gioco è facile, chiunque lo può condurre senza bisogno di dotazioni particolari; il gioco dei paragoni e dei confronti è soltanto mentale. Per esempio, guardo i miei figli quindicenni e li paragono a tanti fotografi che incontro tutti i giorni (dico fotografi, perché voglio limitare il ragionamento al nostro territorio comune). Per diritto di anagrafe, i miei figli non sono ancora maturati, o quantomeno sono maturati in relazione a esigenze personali che poco hanno in comune con lo svolgimento quotidiano della vita sociale “adulta”. Da cosa si capisce che non sono maturi? Dal fatto che vogliono le cose, senza essere disposti a pagarne il prezzo. Così è anche per tanto professionismo fotografico: sia di chi scatta fotografie, sia di chi vende attrezzature, sia di chi distribuisce materiali. Nel nostro mondo fotografico, troppi marciano senza segnare il passo. Ovverosia, credendo che il loro sia “il passo” universale. Confondono se stessi con la collettività, invece di arricchirla con quanto loro sanno essere e costruire. Ci pensavo proprio qualche tempo fa, all’Assemblea Generale della associazione di categoria cui appartengo [l’attuale Cna Professioni]. A parte aver notato -con terrore- che qualcuno continua a credere che “scontro” sia sinonimo di “incontro” (come sono convinti tutti i partecipanti alle terribili riunioni condominiali), ho altresì dovuto constatare come neppure l’associazionismo fotografico riesca a salvarsi da quella certa stoltezza che impedisce alle persone (non sempre mature) di arricchirsi del rapporto con gli altri. Una certa discussione sulla non necessità della costituzione di una fantomatica “commissione cultura”, voluta da alcuni e ignorata da altri, è stata illuminante. Chi ha contestato, e poi bocciato l’idea, lo ha fatto proponendo il proprio modo di vedere come modello assoluto. Non discuto sul valore dello schema proposto -tanto venato

di aridità manageriale, priva persino di un briciolo di cultura di impresa, comunque sia di per sé affascinante-, quanto mi ha rattristato constatare come e quanto le scelte individuali diventino troppo spesso paraventi dietro i quali nascondersi. Io non ho nulla da dire a favore di una posizione, oppure contro l’altra. Vorrei semplicemente arricchirmi di ambedue, ed è in questo spirito che qui da noi confezioniamo questa rivista: per la voglia di condividere esperienze, considerazioni e osservazioni. Io non so cosa sono o chi sono, come fotografo e come persona [e, da allora, la professione fotografica si è esaurita]. Però, sono certo che in me vivono anche esperienze che ho assimilato ascoltando gli altri, e imparando soprattutto da chi è diverso da me. Non so chi e cosa siamo, come fotografi (per mestiere, per scelta, per bisogno di espressività o per diletto), so che comunque siamo e saremo quello che siamo stati: individualmente e come categoria. Il gioco dei confronti dal piccolo al grande e viceversa, ci serve sempre per arrivare a noi stessi, imparando dagli altri. Riferisco ancora qualcosa di privato, quando esemplifico con il Consolato del Marocco, che sta di fronte alla mia abitazione, e che -negli ultimi tempi- è stato agitato da note vicende sociali legate alle pratiche per ottenere o rinnovare permessi di soggiorno in Italia. Oggi, viviamo questa immigrazione; quando ero bambino, in case di ringhiera dell’operaismo milanese, ho vissuto la precedente immigrazione interna, dal Sud. Nulla è cambiato. Una volta ancora, e una di più, l’ignoranza e la paura stanno impedendo a ciascuno di noi un proficuo arricchimento personale che avrebbe potuto essere alimentato proprio dal concetto basilare dell’immigrazione: l’antichissima usanza umana di trasformare il bisogno e la fame in viaggio e in avventura. Ridotta a questione di puro ordine pubblico [che pure è], l’inarrestabile

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invasione di poveri (oggi colorati) ha conservato tutti gli aspetti minacciosi e perduto tutta la sua potenziale ricchezza. Avevamo davanti un rischio e una possibilità: questa è rimasta alle nostre spalle e ci siamo tenuti il rischio. Lo stesso che frena i tempi di maturazione e di crescita della nostra categoria, spesso insensibile ai valori che potrebbero accrescerla.

PERSI E DIMENTICATI Nel corso degli anni, nel corso degli ultimi ventiquattro anni di edizione di FOTOgraphia, accanto a noi si sono alternate persone e si sono manifestate contribuzioni redazionali. Allontanatisi per altre proprie esperienze, tutti quelli che ci sono stati e se ne sono (legittimamente) andati hanno contribuito a comporre questa straordinaria Storia. Alcuni ricompaiono anche in queste pagine (sia in for-

ma di testo, sia per altre contribuzioni fattive, a partire dalla messa in pagina grafica); altri non rientrano nel nostro attuale passo. A tutti, va comunque il nostro riconoscimento, per quanto di molti di loro abbiamo perso memoria: per volontà reciproca, piuttosto che per sola casualità esistenziale.

Ancora, oltre l’impegno professionale codificato, sono stati accanto a noi, condividendo il nostro spirito, collaboratori saltuari e intermittenti, qualcuno più discontinuo di altri, qualcun altro ciclico. Anche in questo caso, non tutti partecipano a questa nostra retrovisione in forma di parola.

In scrittura differente da quella di decifrazione e commento che qui introduce il senso dell’odierna edizione particolare Parole. Parole. Solo parole, con ripresa e riproposizione di interventi redazionali pubblicati nel corso del tempo, è doveroso un ulteriore commento: questo, per l’appunto. Subito una confessione: il nostro vivere la fotografia attraverso le pagine e gli argomenti di questa rivista (con testi sempre concentrati) è tanto e tale che, mese dopo mese, arriviamo alla fatidica conclusione necessaria, con relativa messa in pagina e alternanza di motivi, spesso allineati e consequenziali tra loro, soltanto quando “sentiamo” il numero, ci accordiamo sul suo passo. Tanto che, confessiamo anche questo, raramente, forse mai, sfogliamo la rivista dopo la sua stampa litografica. In una parola, ancora prima della sua effettiva lavorazione, “vediamo” il numero della rivista, così come intendiamo realizzarlo. Nel caso odierno, riveliamo che si è trattata di una elaborazione particolarmente difficoltosa, per mille motivi, a partire dal dovere di offrire una panoramica adeguatamente esaustiva, sia di autori (di testi), sia di contenuti... eterogenei, quanto confluenti nel contenitore inderogabile di pensare invece di credere / osservare, piuttosto che giudicare da parte nostra, in invito coerente a pensare invece di credere / osservare, piuttosto che giudicare ... in assoluto.

Quindi, è doverosa una ulteriore precisazione. Non a giustificazione di nulla, ma a motivazione di tutto, non soltanto di molto, precisiamo che qualche autore che avremmo voluto con noi, in questo passo, non ha avuto modo di essere inserito nel percorso predisposto; altri, invece, non sono stati presi in considerazione, in quanto concettualmente (e realisticamente) estranei e svincolati da quello spirito originario che consideriamo imprescindibile: pensare invece di credere / osservare, piuttosto che giudicare. Qui e ora, non scomponiamo gli uni (non raggiunti) dagli altri (non considerati proprio), e ci assumiamo la completa e perentoria responsabilità per quanto c’è e per quanto non c’è. Se si desiderasse farlo, potremmo anche parlarne. Forse. ❖



Parole. Parole. Solo parole di Angelo Galantini (da FOTOgraphia , marzo 2008)

Riverberi fotografici

A

Assolvendo al meglio e con intelligenza il proprio compito istituzionale, l’avvincente Musée suisse de l’appareil photographique, di Vevey, non si perde in quei superflui intellettualismi di maniera, peraltro spesso sterili, che purtroppo caratterizzano molte manifestazioni italiane della fotografia, ma rivolge la propria attenzione ai fenomeni che ruotano attorno la personalità della stessa fotografia nel proprio insieme e complesso. Confessiamo subito di essere particolarmente vicini e affini a questo modo di osservare il mondo fotografico, tanto che, per quanto possiamo farlo, noi stessi siamo dichiaratamente interessati alle fenomenologie di costume e sociali (che non sono di solo contorno). Personalmente, tra tanto altro, ci interessiamo della presenza della fotografia nel cinema (oltre i nostri articoli a tema, ricordiamo ancora la selezione Fotografia & Cinema. Fotogrammi celebri, a cura di Maurizio e Filippo Rebuzzini, allestita alla Galleria Grazia Neri all’inizio dello scorso anno [2007]; FOTOgraphia, dicembre 2006 e maggio 2007), nella narrativa, nei fumetti (con i quali, da tempo, apriamo ogni edizione della rivista) e in filatelia (numerosi i richiami sulle nostre pagine [intensificati alla luce dell’ipotesi di Fotografia nei francobolli, dall’autunno 2013]). In questo senso, senza inutili false modestie, possiamo anche leggere e riconoscere lo spessore di altri nostri precedenti appuntamenti redazionali, che negli anni passati si sono adeguatamente soffermati su aspetti tecnici che si proiettano verso il costume e/o il design industriale: per tanti versi, è stato questo il senso delle considerazioni di 50per70 - Attrezzature fotografiche dagli anni Cinquanta e non oltre i Settanta, pubblicate alla fine degli anni Novanta, e delle

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Il gesto fotografico, la personalità dei fotografi e un contorno di fotografie pubblicitarie (di macchine fotografiche) compongono i tratti di una affascinante visione che non si esaurisce nella propria brillante apparenza, ma si estende al racconto della stessa storia della fotografia. Esposta al Musée suisse de l’appareil photographique, di Vevey, Les photographes - regars inversés racconta momenti particolari con una osservazione dall’interno. Ribadiamo: rivela come i fotografi vedono se stessi, la propria attività, la propria personalità nel momento in cui si sta manifestando nel gesto (rito?!) della ripresa fotografica successive visualizzazioni di Memorabilia - Forme ed estetica della fotografia, avviate nel giugno 1996 con l’affascinante Asahi Pentax Spotmatic, del 1964. Così che, in allineamento, ci sentiamo schierati a fianco dell’attenzione con la quale il Musée suisse de l’appareil photographique parla di fotografia, avviando le proprie riflessioni e considerazioni da una concentrata analisi dei propri strumenti tecnici, senza peraltro fermarsi, né limitarsi, a questo. Anzi, è assolutamente vero l’esatto contrario. In sintonia di intenti, come FOTOgraphia fa vita della propria materia istituzionale (appunto la fotografia), richiamandosi ai suoi fenomeni (espressivi o tecnici che siano)

per proiettarsi e proiettarli nell’esistenza quotidiana di ciascuno di noi, con percorso analogo, il qualificato Museo svizzero approfondisce partendo (o fingendo di farlo) da considerazioni oggettivamente utilitaristiche. È stato questo il caso della convincente selezione di ritratti di cento fotografi contemporanei, incontrati fino alla prima metà degli anni Ottanta, realizzati da Michel Auer, ed esposti a Vevey, sul lago Lemano (lago di Ginevra), nelle sale del Museo, dall’ottobre 2005 al successivo febbraio (FOTOgraphia, settembre 2005). Ovviamente, al Musée suisse de l’appareil photographique le mostre temporanee, come questa appena ricor-

data, altre che pure abbiamo presentato e quella che stiamo per commentare, fanno da contorno e cornice all’esposizione permanente di macchine fotografiche e immagini che scandiscono i tempi della Storia, dalle origini fino ai nostri giorni.

REGARDS INVERSÉS In consistente consecuzione ideale, che stiamo per sottolineare, l’imminente selezione Les photographes - regars inversés, in cartellone al Museo di Vevey dal dodici marzo a tutto agosto [2008], si riallaccia sia alla serie di ritratti di Michel Auer, che abbiamo appena ricordato, sia a una lunga tradizione della raffigurazione dei fotografi, che richiamiamo in un apposito riquadro [riproposto a fine testo] (dopo averla già commentata in occasioni precedenti). Gli sguardi rovesci non raccontano ciò che la fotografia fa dalle proprie origini, o quasi. Cioè, non raccontano lo svolgimento della vita, inquadrata in composizioni capaci di attrarre e sedurre l’attenzione dell’osservatore. Cambiando orientamento, e rivolgendosi al momento esplicitamente fotografico, raccontano istanti particolari con una osservazione dall’interno: rivelano come i fotografi vedono se stessi, la propria attività, la propria personalità nel momento in cui si sta manifestando nel gesto (rito?!) della ripresa fotografica. Quindi, assolvendo il proprio compito istituzionale fondamentale e principale, che è quello della conservazione del patrimonio fotografico, a partire dagli strumenti, il Musée suisse de l’appareil photographique dischiude un fantastico dietro-le-quinte, la cui consistenza compone avvincenti tessere del vasto mosaico del suo racconto storico. Le immagini selezionate e raccolte in mostra rivelano la vita, la passio-


ne e i gesti di chi sta effettivamente utilizzando macchine fotografiche. È stato disposto un avvincente e convincente casellario essenziale che svela ambienti, istanti di passione o tensione creativa, personalità. Composta da istantanee, ritratti posati e autoritratti e raffigurazioni pubblicitarie, questa raccolta di immagini di fotografi in azione arricchisce l’incredibilmente vasta e varia iconografia a tema (anche il celebre ritratto di William Henry Fox Talbot, uno dei padri della fotografia, realizzato nel maggio 1864 da John Moffat, lo ha rappresentato con un obiettivo tra le mani e un apparecchio fotografico lì accanto). Nel proprio insieme, si ricava persino una sorta di evoluzione temporale della professione nel corso dei decenni, il proprio adattamento ai continui cambiamenti o nuove situazioni, la propria metamorfosi indotta dai progressi tecnologici. In parallelo, altrettanti sconvolgimenti hanno determinato anche il modo nel quale il medium della fotografia è visto e utilizzato dal caleidoscopico mondo di utenti privati. Insomma: Les photographes - regars inversés svela un capitolo della storia della fotografia, raccontato attraverso la sua riflessione interna. Quasi, il suo autoritratto.

TRE TEMPI La mostra al Musée suisse de l’appareil photographique è divisa in tre sezioni. La prima sottolinea il fatto che il termine “fotografia” evoca una miriade di impressioni. In una successione di immagini che ripercorrono i decenni, qui sono mostrati i gesti dello scatto, che sottolineano anche, come appena osservato, la sostanziale e sostanziosa trasformazione temporale, sia in ambito professionale sia nell’esercizio non professionale. A poco a poco, immagine dopo immagine, prende vita e forma un ritratto degli stessi fotografi, che si riflette nella successione delle raffigurazioni (autentiche rappresentazioni). Come sappiamo,

“fotografia” è tanto e diverso: sessioni in studio, per la pubblicità commerciale, ripetizioni di routine, osservazioni e documentazioni della vita nel proprio svolgimento. In ogni situazione, ci sono apparecchiature che assolvono in modo adeguato la condizione affrontata, e che, per riflesso, richiedono gesti e attenzioni proprie. Insomma, questa prima sezione di Les photographes - regars inversés è esattamente ciò che abbiamo già annotato: un autentico casellario di istanti fotografici nel proprio significato originario. La seconda sezione si rivolge al fotogiornalismo e alla fotocronaca. La sua riflessione implicita e consequenziale è indirizzata all’evoluzione stessa del reportage e, in parallelo, dell’editoria e dei diversi modi di trattare le notizie. Le immagini provengono da consistenti archivi storici e diverse agenzie, delle quali documentano peraltro l’attività quotidiana. Come sappiamo (dall’interno del mondo fotografico, del quale conosciamo confini e caratteristiche), l’impatto della fotografia di giornalismo è discriminante sul pubblico dei giornali. Quindi, con sguardo rovescio, questa rappresentazione opposta, che mostra i fotoreporter al lavoro, visualizza come agiscono e operano questi professionisti, soprattutto nel corso di quelle manifestazioni pubbliche e annunciate durante le quali sono affiancati uno all’altro, nel tentativo di conquistare un punto di vista migliore, una prospettiva più calzante, una inquadratura significativa. In questa sezione, è altresì presentata l’analisi sul fotogiornalismo svizzero realizzata dall’Istituto di Sociologia dei Mass Media presso l’Università di Losanna (docente, il professor Gianni Haver), che puntualizza l’evoluzione dell’azione dei fotografi di diverse riviste, come Illustré, Sie und Er, Patrie suisse, Zürcher Illustrierte e Illustrazione ticinese. Infine, la terza e ultima sezione si concentra sul “fotografo fotografato”, dagli archivi della prestigiosa e autorevole agenzia Magnum Photos. Si tratta di una

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sorta di complemento visivo al racconto delle attività dei celebri fotografi Magnum, che spesso accompagna le edizioni librarie dei loro reportage (per esempio, Henri Cartier-Bresson e Werner Bischof, rispettivamente fotografati da René Burri e Ernst Haas). Infine, in appendice: avvincente selezione di immagini per le pubblicità e la depliantistica Kodak degli anni Cinquanta, che in Italia furono presentate nell’ambito del PhotoFestival 2003 - Tecnica e creatività, a cura di Tita Beretta, Giulio Forti e Maurizio Rebuzzini (FOTOgraphia, marzo 2003): senza alcun consistente seguito, tra l’indifferenza generale. Tanto dovevamo sottolineare. ❖

Altri fotografi fotografati Raffigurati per se stessi o nel gesto della propria azione fotografica, ritratti e autoritratti di fotografi compongono un casellario vasto ed eterogeneo. In occasione dell’attuale allestimento [2008] della avvincente selezione Les photographes - regars inversés, al Musée suisse de l’appareil photographique, nel corpo centrale dell’attuale intervento redazionale, abbiamo già ricordato i ritratti di cento fotografi contemporanei, allestiti nella personale Michel Auer Photographer, esposta nella stessa sede museale svizzera dall’ottobre 2005 al febbraio 2006 (FOTOgraphia, settembre 2005). Qui a seguire, ripercorriamo il fenomeno, ricordando le monografie che riuniscono e raccolgono ritratti o autoritratti di fotografi [in aggiornamento al marzo 2008 di attuale riferimento; ovviamente, tutti i titoli citati e commentati sono presenti nella nostra libreria personale]. ❯ On the Other Side of the Camera / De l’autre côté de l’objectif , di Arnold Crane (1995; FOTOgraphia, dicembre 1996), è un elaborato progetto visivo. Dal 1967, in un arco di ventotto anni, il fotografo newyorkese Arnold Crane ha frequentato fotografi di fama. Li ha sistematicamente fotografati, vivendo con loro per periodi più o meno lunghi, seguendoli nelle occupazioni giornaliere, nel lavoro, in studio, durante il tempo libero. Così, ha composto ed edificato un autentico monumento di valore visivo inestimabile, nonché di catalogazione

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storica di autori-simbolo del nostro tempo (ventiquattro, da Berenice Abbott e Ansel Adams a Paul Strand, Minor White e Garry Winogrand, pescando dall’ordine alfabetico). ❯ Faces of Photography, di Tina Ruisinger (2002), ricalca il progetto di Arnold Crane appena ricordato: ancora cinquanta maestri della fotografia contemporanea, incontrati, intervistati e fotografati. Ogni fotografo è presentato con una galleria di almeno due intensi ritratti bianconero, non didascalici, non documentativi, ma proprio ritratti. A seguire, sono riprodotte simil-pagine di block notes, dove altre istantanee (estese agli ambienti di vita dei singoli fotografi: cucina, citofono, scrivania, poltrona) si completano con annotazioni scritte, graffette di trattenimento, pinzature. All’interno di questa selezione di “cinquanta maestri”, ci gratifica sottolineare tre presenze italiane: Mario Giacomelli (incontrato a Senigallia il 22 gennaio 1998), Gianni Berengo Gardin e Mario De Biasi. ❯ The Camera I (1994): raccolta-catalogo di un’omonima esposizione di autoritratti di fotografi provenienti dalla collezione di Audrey e Sydney Irmas. La sequenza delle autoraffigurazioni della collezione parte da lontano, da Roger Fenton (1855), André Adolphe Eugène Disdéri (1860), Nadar (1863), per arrivare, attraverso i decenni, alle rappresentazioni dei giorni moderni. Il valore di questa proposta monografica risiede nella possibilità di tratteggiare e leggere il senso delle rispettive epoche attraverso l’autorappresentazione dei fotografi. ❯ Flesh & Blood (1992): zibaldone di immagini di fotografi con la propria famiglia... soltanto statunitense. ❯ Celebrating the Negative , a cura di John Loengard (1994; FOTOgraphia, maggio 1995 [e ottobre 2012]), è una raccolta di negativi di immagini che appartengono alla storia della fotografia, ognuno tenuto tra le mani sopra un piano luminoso. Con rigore museale, sono riportati i dati di identificazione dello stesso negativo, primo tra tutti il luogo della sua conservazione, e non è stata omessa l’indicazione di chi lo sta trattenendo tra le proprie mani. Dopo di che, un testo commenta la fotografia in oggetto, che -attenzione- non viene neppure presentata: si dà per scontato che si tratti di una immagine universalmen-

te nota, già sufficientemente definita dalla propria visione al negativo. ❯ Halsman at Work , a cura di Yvonne Halsman (1989): la moglie di Philippe Halsman racconta affascinanti dietro-le-quinte di celeberrime sessioni fotografiche. ❯ Photographers and their Images, a cura di Fi McGhee (1989), riunisce un nutrito gruppo di fotografi interpellati dal curatore, che si è premurato di ritrarli durante il colloquio: ogni fotografo indica e commenta la propria immagine preferita. ❯ I fotografi e il loro apparecchio (1995) è un fascicolo realizzato dalla svizzera Sinar, che sottintende un filo conduttore indiscutibile: l’apparecchio in questione è sempre e comunque il banco ottico Sinar. ❯ Self-Portrait in the Age of Photography (1985) è stata una sorta di anticipazione del ricordato The Camera I. Ancora si tratta di autoritratti di fotografi, e ancora si tratta di un volume-catalogo: della mostra itinerante che prese avvio con le esposizioni in Texas, nel marzo e aprile 1986, alla Sarah Campbell Blaffer Gallery, dell’Università di Houston, e al San Antonio Traves Park Plaza. ❯ Camera , settembre 1978: monografia di autoritratti in polaroid. Autentica selezione internazionale, con significative presenze italiane: Gian Paolo Barbieri, Pepi Merisio, Will McBride (che allora viveva in Italia) e Oliviero Toscani. ❯ Masters of Light , di Abe Frajndlich (1990), è un’altra raccolta di ritratti di fotografi, presentata in mostra alla Photokina di Colonia del 1990 [e, poi, riproposta nel 2012]. ❯ Photographers Photographed , di Bill Jay (1983): fotografi fotografati. ❯ The Craft of Photography, campagna stampa Leica realizzata con testimonianze dirette di autori, rappresentati dalle proprie mani che tengono un apparecchio Leica M o R (FOTOgraphia, settembre 2002). ❯ In good hands , di Michael Agel: ritratti di fotografi con le proprie Leica (in Leica World 1/2003 e Leica Magazine 4/2003; in mostra al Castello dei Pico di Mirandola, in provincia di Modena, fino allo scorso diciassette febbraio [2008]). Volendoci allargare, si potrebbero includere in questo casellario altre due segnalazioni. Prima di tutto, ri-

cordiamo la raccolta Camera Crazy (2004), nella quale il fotografo di moda Arthur Elgort ha riunito una sostanziosa quantità di immagini dove compaiono sempre apparecchi fotografici, tra le mani di colleghi piuttosto che nella casualità di istantanee stradali. Quindi, torniamo ai raduni di fotografi di fama internazionale che Olympus ha organizzato e svolto in tempi successivi: 1979, 1983 e 2004. In ognuna di queste riunioni, ogni fotografo ha fotografato gli altri (personalmente abbiamo in archivio la serie bianconero di Gian Paolo Barbieri, del 1979: ed è un’altra storia); in particolare, il periodico e-Magazine ha pubblicato le fotografie del 2004 nel proprio primo numero (FOTOgraphia, maggio 2004).

Autentico Museo All’interno di un edificio del Diciottesimo secolo, una architettura contemporanea ospita una straordinaria collezione di apparecchi fotografici. Quattro piani di esposizione permanente coprono l’intera storia della fotografia, con la testimonianza di apparecchi, materiali e accessori. Dalla camera obscura originaria, il percorso del Musée suisse de l’appareil photographique porta fino all’immagine digitale del presente-futuro. Dal successo di una retrospettiva che Vevey, amabile cittadina sul lago Lemano (dove si ritirò anche Charlie Chaplin), dedicò nel 1971 alla storia della fotografia, osservata dal punto di vista della famosa collezione di Michel Auer, raccolta anche in prestigiose monografie, nacque l’idea e l’intenzione di dare vita proprio a un autentico Museo, che fu quindi realizzato e fondato da Claude-Henry Forney, nel 1979. Dopo una prima sede provvisoria, dal 1989 il Musée suisse de l’appareil photographique ha sede definitiva nell’antico palazzo appena ricordato, appositamente ristrutturato dall’architetto Hugo Fovanna, ed è diretto da Pascale e JeanMarc Bonnard Yersin. (Musée suisse de l’appareil photographique, Grande Place 99 / ruelle des Anciens-Fossés 6, CH-1800 Vevey, Svizzera; 0041-21-9253480; www.cameramuseum.ch, cameramu seum@vevey.ch; martedì-domenica 11,00-17,30, da verificare in relazione ❚ alle stagioni dell’anno).



Parole. Parole. Solo parole di Lello Piazza e Maurizio Rebuzzini (da FOTOgraphia , maggio e giugno 2007)

Epopea Life (in due tempi) Richiude Life (e tre)

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Domanda: vi ricordate cosa promise Henry Luce, il 23 novembre 1936, lanciando il settimanale Life? «Vedere la vita, vedere il mondo; essere testimoni oculari di grandi eventi; osservare i volti dei poveri e i gesti dei superbi; vedere cose strane, macchine, eserciti, moltitudini, ombre nella giungla e sulla luna; vedere l’opera dell’uomo: dipinti, torri, scoperte; vedere cose che esistono a miglia e miglia di distanza, cose nascoste dietro le pareti, nelle stanze, cose pericolose da avvicinare; le donne che gli uomini amano e molti bambini; vedere e gioire nel vedere; vedere ed essere stupiti, vedere e imparare cose nuove. Così, vedere ed essere visti diventa ora e resterà in futuro il desiderio e il bisogno di metà del genere umano». Da allora, per ogni settimana dei trentasei anni successivi, Life mantenne la promessa di Henry Luce. E dal 1978, come mensile, continuò a mantenerla per altri ventidue anni, fino al 2000. Vi ricordate la prima copertina di Life [in ripetizione, 23 novembre 1936], una diga dalle sagome inquietanti, che evocano le forme degli edifici alieni dei quadri di Sironi? Era un’immagine di Margaret Bourke-White, reporter di Fortune, che fu inviata da Henry Luce a realizzare un servizio sulla costruzione della diga. Vi ricordate, immediatamente a seguire, la fotografia di apertura dello stesso servizio, con quei lavoratori vestiti della festa, che danzano in un saloon nei pressi di Fort Peck, nel Montana? E vi ricordate il bacio di un marinaio a una crocerossina, una fotografia scattata da Alfred Eisenstaedt, pubblicata nell’agosto 1945? O altre due straordinarie icone, dove si è formata in parte la nostra conoscenza della storia: i marine che alzano la bandiera statunitense sulla collina di Iwo Jima (febbraio 1945), nella celebre

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fotografia di Joe Rosenthal (che recentemente Clint Eastwood ha trasformato in film; FOTOgraphia, marzo 2006), e i prigionieri del campo di concentramento di Buchenwald, nella fotografia scattata, nell’aprile 1945, ancora da Margaret Bourke-White? Vi ricordate le scene di panico di Shanghai, fotografate da Henri Cartier-Bresson, quando c’è la corsa dei cittadini a farsi convertire in oro il proprio denaro, prima dell’arrivo dei comunisti? E lo splendido ritratto di John F. Kennedy col fratello Robert, scattato nel luglio 1960 da Hank Walker? O la fotografia di Eddie Adams del vietcong giustiziato in strada con un colpo di pistola alla tempia dal capo della polizia di Saigon, Nguy n Ng c Loan, del febbraio 1968? O ancora quella di Nick Ut della bambina ustionata dal Napalm, nel giugno 1972? La bimba, che si chiamava Phan Thi Kim Phúc, fu fotografata in Canada, ventitré anni dopo, da Joe McNally e pubblicata nel numero del maggio 1995. Lo ricordate? Vi ricordate la straordinaria pietà dei tempi moderni, “scolpita” da W. Eugene Smith, nel dicembre 1971, durante un reportage sull’avvelenamento da mercurio nei pressi di Minamata, in Giappone? Vi ricordate il Dalí Atomicus, una fotografia “impossibile” quando non esistevano i computer, realizzata chissà con quali trucchi, da Philippe Halsman? O il Picasso fotografato da Gjon Mili nella sua casa di Vallauris, il gennaio 1950? Vi ricordate? Vi ricordate? Vi ricordate? Domande di questo genere potrebbero formare un elenco lunghissimo e riempire l’intero numero della rivista. Forse, mi fermerò qui. Ma, riflettete... Nessuno ha bisogno di rivedere le immagini citate in queste domande, perché nessuno le ha dimenticate. Queste fotografie rappresentano le pietre miliari della storia del fotogiornalismo.


Ancora una domanda, però. Vi ricordate ora Roy, il replicante di Blade Runner? Quasi parlando a se stesso, con gli occhi perduti in un futuro che non ci sarebbe stato, mormorava «Ho visto cose che voi umani non potreste immaginare: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione e ho visto i raggi beta balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia». La tentazione della metafora, quand’anche prosaica, non spinge, forse, a paragonare ciò che abbiamo visto sulle pagine di Life a cose che gli umani -nei giornali di oggi- neppure possono immaginare? A paragonare lo sbalordimento davanti alle fiamme delle astronavi nella costellazione di Orione allo stupore davanti alle fotografie di Robert “Bob” Capa del D-Day? A paragonare gli accecanti raggi beta, nelle vicinanze di un’improbabile stella, alle fotografie di Larry Burrows della guerra in Vietnam, sulle quali è difficile mantenere lo sguardo? E ora, questo giornalismo superlativo, questa fotografia mitica, scomparirà come lacrime nella pioggia? Non ci sarà più niente di simile nel nostro futuro? ❖

In breve, la sua storia Laconico, l’annuncio del ventisette marzo scorso [2007], con il quale l’editore Time Inc ha decretato e motivato la terza chiusura di Life, che già aveva cessato le pubblicazioni settimanali all’inizio degli anni Settanta, per poi riprendere come mensile (dal 1978 al 2000), prima della più recente personalità abbinata a una identificata serie di quotidiani: «Benché presso il pubblico l’idea della rivista Life come supplemento settimanale di molti quotidiani sia stata un grande successo, la crisi di questi media e le prospettive nel mercato pubblicitario ci inducono a rinunciare a ulteriori investimenti nell’iniziativa». Evidentemente, non basta che Life venga distribuita in tredici milioni di copie da centotré quotidiani e occupi il terzo posto nella classifica degli inserti di questo tipo. Prima è Parade, con trentadue milioni di copie circolate da quattrocento giornali, e seconda è

USA Weekend, ventitré milioni di copie circolate da seicentododici giornali. Come appena ricordato, questa chiusura è la terza della storia di Life. Nata nel 1936 come settimanale, interrompe una prima volta le pubblicazioni il 29 dicembre 1972. Nonostante cinque milioni e mezzo di copie vendute, il newsmagazine arriva a perdere circa dieci milioni di dollari l’anno a causa della pubblicità che abbandona la carta stampata per la televisione (A. J. van Zuilen: The Life Cycle of Magazines: A Historical Study of the Decline and Fall of the General Interest Mass Audience Magazine in the United States during the Period 1946-1972; Uithorn, Olanda, 1977). Rilanciata nel 1978 come mensile, Life sopravvive fino al 2000, quando viene chiusa per la seconda volta. Ecco alcune cifre riguardanti le sue performance in questi ventidue anni: 1.364.800 copie a numero vendute mediamente nel 1980; nel 1994, 1.614.700; nel 1998, 1.558.800 (dati Audit Bureau of Circulations). Risorge nel 2004 come supplemento di quotidiano, ma dopo il venti aprile Life si trova solo sul web, non più come giornale ma come collezione di oltre dieci milioni di immagini. Tutte queste fotografie, che coprono gli eventi e i temi più importanti del Ventesimo secolo, potranno essere scaricate for free a patto che non se ne faccia uso commerciale. Più del novantasette percento di questa immensa collezione non è mai stata pubblicata. Oltre alla sua presenza sul web, Life continuerà l’attività di pubblicazione di libri: il secondo Life Picture Puzzle Book è apparso nelle edicole lo scorso due aprile e altri due titoli sono previsti nel corso del corrente 2007. Occorre infine ricordare che il 1936 non rappresenta per Life una vera e propria nascita, ma una metamorfosi. Infatti, Henry Luce -fondatore, nel 1923, di Time e, nel 1930, di Fortune- acquistò la testata da Clair Maxwell, che ne era stato l’editore dal 1921 al 1936. La rivista, più di humor che di informazione, fu fondata nel 1883 da John Ames Mitchell, bizzarra figura di intellettuale, laureato in architettura a Harvard. Henry Luce la cambiò completamente, trasformando Life in un giornale dove «le immagini avrebbero avuto la stessa importanza delle parole». ❚

Come sanno tutti coloro i quali si occupano di fotografia, anche la terza edizione di Life ha chiuso i battenti all’inizio della scorsa primavera [2007]: ne abbiamo riferito e commentato lo scorso maggio [qui, siamo a seguito]. Per quanto si tratti di una vicenda interna al giornalismo statunitense, e soprattutto alle sue logiche di distribuzione e diffusione commerciale (a noi sostanzialmente estranee), è giocoforza tornare con il pensiero a quella lezione di fotogiornalismo definita e tracciata dalla prima edizione settimanale di Life, quella originaria, che dalla fine del 1936 si allungò nei decenni fino al 1972. Per quanto diversa -meno fotogiornalismo d’azione e più giornalismo di scrivania-, la seconda edizione mensile, che dal 1978 pubblicò fino al 2000, è stata analogamente affascinante. La nostra vita fotografica con (e senza) Life Life per noi

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Commentando la chiusura della terza esperienza editoriale di Life, la più recente, come supplemento settimanale di una identificata serie di quotidiani statunitensi (centotré, per tredici milioni di copie diffuse), lo scorso maggio, da queste pagine, Lello Piazza ha compilato una serie di domande: tutte rivolte alla definizione della statura del fotogiornalismo dell’edizione originaria settimanale di Life, alla quale si riferisce tanto fotoreportage dei nostri tempi. Non stiamo qui a ripetere quelle domande, ma, a seguire, ne è maturata un’altra: forse, quella di sempre. Cosa sarebbe del fotogiornalismo, se Life non

fosse esistita? (Così come, alla stessa maniera, possiamo declinare tante altre interrogazioni, da riferire a tutta la storia evolutiva della fotografia, senza soluzione di continuità dal linguaggio alla tecnica: se Edwin H. Land non avesse inventato la fotografia immediata? se Akio Morita non avesse accelerato verso l’evoluzione digitale dell’acquisizione di immagini? se Ernst Leitz II non avesse imposto la produzione della Leica originaria? se, se, se, se, all’infinito). Però, rivolgendoci a noi stessi, la domanda è altrimenti declinabile: come sarebbe stata la nostra vita in fotografia senza Life? Probabilmente, la stessa, perché alla resa

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dei conti, la risposta a tutte le domande che possiamo porci, e che ci siamo appena posti, è sempre la stessa: inevitabilmente, ciò che è accaduto in fotografia, così come nel macrocosmo dell’esistenza, doveva per forza di cose accadere. Se non ci fosse stata Life, ci sarebbe stato comunque qualcosa di identico, non soltanto analogo: perché i tempi erano maturi per questo tipo di giornalismo illustrato, che ha dato impulso e vigore all’intera concezione del fotogiornalismo moderno. Dunque, i riferimenti storici conseguenti si richiamano a Life, perché Life c’è stata; così come si sarebbero riferiti a ciò che avrebbe potuto succedere invece di Life.

DUE CHIARIMENTI Ciò detto, dobbiamo continuare a pensare e scrivere riferendoci a Life e non ad altre ipotetiche

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vicende. Quindi, sono sostanzialmente indispensabili almeno due precisazioni (che potrebbero anche essere quantitativamente più corpose... forse). La prima riguarda quell’idea di fotogiornalismo moderno che la Storia riporta sempre all’esperienza giornalistica di Life. È vero, anche noi ne siamo perfettamente convinti: così come lo intendiamo ancora oggi, il fotoreportage ha sostanziosi debiti di riconoscenza con l’impostazione originaria che Henry R. Luce diede alla rivista, fin dalla propria nascita. Testuale: «Vedere la vita, vedere il mondo; essere testimoni oculari di grandi eventi; osservare i volti dei poveri e i gesti dei superbi; vedere cose strane, macchine, eserciti, moltitudini, ombre nella giungla e sulla luna; vedere l’opera dell’uomo: dipinti, torri, scoperte; vedere cose che esistono a miglia e miglia di

distanza, cose nascoste dietro le pareti, nelle stanze, cose pericolose da avvicinare; le donne che gli uomini amano e molti bambini; vedere e gioire nel vedere; vedere ed essere stupiti, vedere e imparare cose nuove. Così, vedere ed essere visti diventa ora e resterà in futuro il desiderio e il bisogno di metà del genere umano». Però, attenzione, insieme a queste belle proposizioni, tutte teoriche e intrise di buonsenso da padre di famiglia, la fotografia di Life e degli illustrati statunitensi che ne hanno seguìto l’orma è stata soprattutto ideologica. Braccio (involontario?) di quella distribuzione e diffusione di pensiero americano che è dilagato in tutto il pianeta dalla fine degli anni Trenta [del Novecento]. Tanto che bisogna richiamare ancora la fantastica mostra fotografica allestita alla prestigiosa Concoran

Gallery of Art, di Washington DC, nel 1999, che visualizzò un parallelo che oggi è congeniale. Propaganda & Dreams è stata una comparazione tra la fotografia sovietica e statunitense degli anni Trenta: ciascuna a proprio modo, entrambe caratterizzate da spiriti politici forti ed evidenti, oltre che dichiarati. Da una parte, la curatrice Leah Bendavid-Val ha collocato la Propaganda di regime (sovietico); dall’altra, i Sogni di uno stile di vita (statunitense) da proporre al mondo intero. Volendolo, e con punto di vista opposto, i termini potrebbero anche essere invertiti: Propaganda statunitense e Sogno socialista (FOTOgraphia, luglio 2004). Del resto, come sottolineato dal curatore Uliano Lucas trasversalmente alla selezione Il fotogiornalismo in Italia 1945-2005. Linee di tendenza e percorsi, promossa


dalla Fondazione Italiana per la Fotografia (a Torino nel settembre 2005 e a Milano alla fine dello scorso 2006; FOTOgraphia, ottobre 2006), attualmente proposta a Montpellier, in Francia, fino al prossimo Primo luglio [2007], il fotogiornalismo non è estraneo al giornalismo, al quale fornisce declinazioni visive in sintonia di intenti: in relazione e dipendenza delle esigenze e richieste della committenza. Per questo, parlando di fotogiornalismo, bisogna richiamare anche ogni sua componente, fino a indagare a fondo quelle linee di tendenza e quei percorsi che nel trascorrere dei decenni sono stati tracciati da professionisti della comunicazione visiva e testate sulle quali hanno pubblicato le proprie fotografie. Non immagini a sé, quindi, ma soprattutto immagini in relazione ai relativi utilizzi e in relazione alle vicende politiche, economiche e sociali di riferimento. Seconda precisazione: quando si esalta il fotogiornalismo di Life ci si riferisce esclusivamente all’edizione originaria settimanale. Soprattutto agli anni che dalla fine dei Trenta [del Novecento] si sono estesi fino alla tragedia della guerra in Vietnam. La successiva edizione mensile di Life non c’entra nulla con questo fotogiornalismo d’azione, segnalandosi invece per arguzia giornalistica e capacità di affrontare e proporre punti di vista di affascinante originalità. Tutt’altro discorso, dunque.

GIORNALISMO, APPUNTO Riflettendo su cosa abbia rappresentato Life per successive generazioni di fotografi e frequentatori della fotografia, noi tra questi, non pensiamo sia ancora il caso di sottolineare tutti quei sommi valori che la Storia ha già sancito e codificato, e che si trovano in ogni narrazione degna di questa definizione. Per cui, pensando a Life per noi, preferiamo annotare alcune particolarità dell’edizione mensile che è stata pubblicata dal 1978 al 2000 e che, per quanto estranea al mito del fotogiornalismo che ha definito i lunghi anni del settimanale originario, ha espresso affascinanti le-

zioni professionali: sapendo alternativamente guardare a se stessa e al mondo con un equilibrio del quale il giornalismo internazionale dovrebbe fare tesoro (e dovrebbe farlo soprattutto quello italiano, da troppo tempo latitante). Anzitutto, meritano una lode particolare alcune delle copertine di questa edizione mensile di Life, che spesso ha confezionato numeri monografici, affrontando argomenti anche insospettabili, oppure avvicinando in modo originale argomenti previsti. È il caso, tanto per esemplificare (argomento e copertina insieme), dello speciale estivo del 1996, già commentato in cronaca (FOTOgraphia, settembre 1996). È stata un’apprezzata lezione di giornalismo, analisi retrospettiva ed editoria, con contorno di immagine fotografica usata in modo superlativo. Sul filo dei ricordi, soprattutto statunitensi, con un salto temporale indietro, Life ha indagato sulla generazione nata negli anni del boom sociale immediatamente seguente la Seconda guerra mondiale. Il boom del dopoguerra statunitense portò con sé uno stile e una narrativa ufficiali. Lo stato d’animo era ottimista. Nacque la televisione. Le automobili, gli elettrodomestici per la cucina e persino le persone erano splendide e brillanti. Dopo la depressione e la guerra, la visione di una casa suburbana su quote diverse e un felice nucleo familiare prese residenza permanente nella mente nazionale. Tutte le conclusioni erano felici. Ufficialmente, non c’erano problemi. Anche se i problemi sono arrivati poi, presentando un conto carico di interessi passivi. Di tutto questo si è occupato lo speciale di Life, che prese spunto dai cinquanta più influenti personaggi nati nell’era del “baby boom” (appunto, boomers), ventiquattro dei quali furono presentati in copertina con relativi ritratti adolescenziali (o quasi) delle rispettive tessere del Club di Mickey Mouse, l’originale del nostro Club di Topolino. Tra questi, John Belushi (nato nel 1949 e prematuramente scomparso nel 1982), Bill Clinton

(1946), Madonna (1958), Bill Gates (1955), Michael Jordan (1963), Hillary Clinton (1947), Spike Lee (1957), Bruce Springsteen (1949), Steven Spielberg (1947), Stephen King (1947) e Oliver Stone (1946). Altra copertina degna di particolare nota, a confezione di una retrospettiva autocelebrativa addirittura esaltante (FOTOgraphia, dicembre 1996), è stata quella dei sessant’anni di Life, dell’autunno 1996. Un ritratto di Marilyn Monroe, autentica icona del Novecento, fu interpretato da Robert Silvers (FOTOgraphia, marzo 1999), che per l’occasione realizzò uno dei suoi fotomosaici utilizzando una ragionata serie di copertine storiche di Life. Annotiamo che, successivamente, altri due periodici europei fecero qualcosa di analogo, in modo sostanzialmente posticcio: papa Wojtyla, l’uomo del decennio, fu abbinato ai primi dieci anni di Sette, supplemento settimanale del Corriere della Sera (10 marzo 1998) e il tedesco Der Spiegel compose una scritta celebrativa del cinquantenario della Repubblica federale tedesca (settembre 1998). In entrambi i casi, non autentico fotomosaico, con ragionata alternanza di toni e chiaroscuri, indispensabile per la ricostruzione della raffigurazione finale, ma schiarimenti e oscuramenti artificiosi e finalizzati. Planando più bassi, ma neppure poi tanto, ancora due segnalazioni, rappresentative di un insieme quantitativamente assai consistente (degno di un capitolo della ipotetica e improbabile Storia del giornalismo internazionale). Sopra tutto, un esempio dal punto di vista dell’impatto visivo sul lettore/cliente potenziale, che in Italia viene per lo più attirato con allegati di vario genere, se non già con raffigurazioni di nudi femminili assolutamente pretestuosi (tanto che il settimanale Cuore, anni fa, compilava la classifica dei “culi” e delle “tette” ingannevolmente sulle copertine dei periodici nazionali). In inglese, la domanda è esplicita tanto quanto lo è in italiano: «When You Think of God, What do You See?». Cioè: «Quando pensi a Dio, co-

me lo vedi?». Argomento esistenziale di quelli tosti! Copertina da lezione di giornalismo, con la capacità (e coraggio) di mettere in pagina un “God” / “Dio” in caratteri cubitali, quasi a pieno formato: Life del dicembre 1998. Assolutamente più leggera era stata, in precedenza, l’inchiesta condotta interpellando una consistente serie di personaggi pubblici statunitensi, dalla politica allo sport, allo spettacolo: Life dell’ottobre 1994. Ognuno si è espresso circa la propria predilezione per i cani domestici o i gatti (terribile diatriba, paragonabile a tanti altri dualismi: Coppi-Bartali, Beatles-Rolling Stones, Moser-Saronni, Inter-Milan, Roma-Lazio, Juventus-Torino, Sampdoria-Genoa, Partito comunista-Democrazia cristiana, Windows-Mac, a ciascuno il proprio). In copertina, con sulle spalle il cane Eddie, che l’accompagnava nella seguìta serie Frasier, l’attore televisivo Kelsey Grammer, vincitore di cinque Emmy, richiama una risposta inequivocabile a una domanda esplicita: «Why We Love Cats More Than Dogs (and vice versa)» / «Perché amiamo i gatti più dei cani (e viceversa)». Quindi, il gioco degli opposti è sottolineato dalla copertina della rivista (sempre Life), che l’attore tiene tra le mani, che illustra un gatto e recita «Why We Love Dogs More Than Cats (and vice versa)» / «Perché amiamo i cani più dei gatti (e viceversa)». Attenzione: in copertina e nel servizio interno, ritratti di Harry Benson, uno dei più affermati fotografi del genere.

QUINDI, LIFE PER NOI Indipendentemente da fatti concreti e tangibili, come sanno esserlo quelli della Vita, per successive generazioni di fotografi e appassionati di fotografia, Life è stato un concetto. Non possiamo pensare che chi si occupa di fotografia abbia modo di seguire in diretta le cronache del fotogiornalismo, però ognuno di noi ha sempre saputo che, comunque andassero le storie, Life c’era. Per il passato meno prossimo, (per scaramanzia e amor proprio)

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non diciamo addirittura remoto, attingiamo dal patrimonio visivo dei fotografi di Life per conoscere lo svolgimento dei fatti e averne una visione chiara ed esplicita: dai fronti delle guerre, come anche dal quotidiano più minuto. Sfogliamo libri e raccolte, e quelle di Life sono veramente tante, oltre che belle, per incontrare e ripercorrere tempi e luoghi che conosciamo proprio in virtù di queste immagini (fino alle più recenti rievocazioni, compilate in occasione del passaggio di decennio/secolo/millennio 1999-2000; in FOTOgraphia del dicembre 1999) [ancora, Life. The Classic Collection, in FOTOgraphia, del dicembre 2009]. A seguire, nel più recente passato, quello soltanto prossimo, abbiamo goduto della buona compagnia di un mensile attento e giornalisticamente ammirevole, dalle cui pagine abbiamo sicuramente imparato qualcosa. Forse, addirittura molto. Infine, se una risposta va data al quesito esistenziale proposto in partenza, uno dei tanti che condiscono questa rievocazione soprattutto intima, dobbiamo pensare di essere ciò che siamo, e in alcuni casi siamo sostanzialmente belli (dentro, più di quanto non lo si possa essere fuori), anche grazie alla fotografia e al giornalismo di

Life. Non ne avremmo certo potuto fare a meno; dunque, se non ci fosse stato Life, ci sarebbe stato comunque qualcosa di coincidente e identico, capace di guardare la Vita con analoga franchezza e chiarezza. Con uno sguardo che, comunque lo consideriamo (e ci consideriamo), ha arricchito il nostro personale bagaglio culturale. [Attenzione, sulla vicenda Life, oltre altro/tanto ancora affrontato negli anni, richiamiamo anche tre articoli consequenziali, pubblicati nel 2014 a proposito del film I sogni segreti di Walter Mitty, di e con Ben Stiller, la cui sceneggiatura (in remake) ipotizza la preparazione dell’ultimo numero della rivista, spostata in avanti nei decenni, rispetto il numero conclusivo del 29 dicembre 1972... in sordina: maggio, senza rivelarne la fine; giugno, in ulteriore approfondimento, rivelandone altresì la fine; dicembre, per segnalare tredici/quattordici copertine “false” di Life utilizzate in scenografia... e altro ancora]. ❖

Solo sul web Dopo il laconico annuncio dello scorso ventisette marzo, con il quale l’editore Time Inc ha decretato e motivato la terza chiusura di Life, dal 2004 supplemento settimanale a centotré quotidiani statunitensi, la testata sopravvive soltanto sul web: non come giornale, ma come collezione di oltre dieci milioni

di immagini che coprono gli eventi e temi più importanti del Novecento. Due gli indirizzi principali: uno diretto, www.life.com/Life/gallery/movie.html; e l’altro riflesso, www.iphotoart.com, che gestisce diversi archivi fotografici statunitensi, tra i quali quelli della National Geographic Society, della George Eastman House, dell’Associated Press, di Joe McNally e Nat Fein. Causa o effetto, le stampe fotografiche oggi attribuite alle Life Picture Collection e Life Gallery of Photography si riferiscono a soggetti estremamente riconosciuti, mille volte citati, mille volte pubblicati, mille volte presentati nelle storie della fotografia e in quelle della società contemporanea: per una volta, in dimensione fotografica originaria. Ovvero: copie bianconero (soprattutto), piuttosto che colore, ottenute dai negativi originari, conservati nel capace archivio della casa editrice. Negli Stati Uniti, da tempo, questa vendita è promossa con annunci pubblicitari, pubblicati su testate mirate. Uno di questi annunci, che qui replichiamo [non ripetendolo nell’attuale percorso di Parole. Parole. Solo parole], visualizza una fotografia più che conosciuta, più che pubblicata, più che storicizzata: la bandiera statunitense issata sul monte Suribachi, isola di Iwo Jima, il 23 febbraio 1945, momento focale della controffensiva statunitense sul fronte del Pacifico, durante la Seconda guerra mondiale. Come specifica l’attribuzione, in

questo caso si tratta di stampa fotografica moderna (ovvero realizzata in tempi recenti, con interpretazioni tonali attuali, su supporti sensibili tecnologicamente odierni), tirata in una edizione limitata, nel formato 16x20 pollici, che equivalgono a 40,6x50,8cm, impreziosita dalla firma autografa dell’autore Joe Rosenthal. A seguire, altri soggetti sono proposti in finiture analoghe, per il cui dettaglio tecnico, anche variabile da caso a caso, è bene consultare i siti appena ricordati. In chiusura, e con l’occasione, annotiamo che le quotazioni delle Life Picture Collection e Life Gallery of Photography sono oggettivamente lontane dai valori di speculazione forzata che incontriamo altrove: si ragiona nell’ordine di qualche centinaio di dollari, con valutazioni economicamente assai convenienti. Quindi, pur senza approdare al processo alle intenzioni, e senza congelare alcuna ipotesi futuribile (perché poi, domani, ciascuno può comportarsi come crede e fare ciò che vuole), la linearità di questa proposta dipende dalla propria aderenza al mondo della valorizzazione degli archivi fotografici, estranea al circuito della fotografia mercantile. Acquistando una delle fotografie proposte, o più di una, non ci si muove nel territorio della fotografia d’arte, con le relative regole di quotazioni in crescendo stabilite dagli equilibrismi dei mercanti e critici della materia, ma in quello, parallelo e non contrapposto, della collezione d’amore. ❚



Parole. Parole. Solo parole di Giuliana Scimé (da FOTOgraphia , dicembre 2006)

Messaggio attuale Ripubblicato in occasione di due esaustive visioni dell’opera e personalità di Carlo Mollino, architetto, designer e fotografo, in mostra a Torino, il ponderoso Il messaggio dalla camera oscura, del 1949 (!), rappresenta ancora oggi -soprattutto oggi- una straordinaria analisi del linguaggio e della storia della fotografia. Testo di eccezionale attualità e modernità, capace di osservare, presentare e giudicare con apprezzata competenza. Ancora

«Il mondo di Bravo appare come quello raro e prezioso che partecipa all’ansia o la prova di un pericolo; è l’aria immobile, in silenzio con gli uccelli le fronde e le pianure, il tempo fermato che si ritrova dopo la fucilata che ci ha cercato e non si sa da quale anfratto sia venuta; è la natura quale ci appare, dolce in quei comuni particolari che solo in quegli istanti lucidi, quasi per assurda distrazione, percepiamo nella loro essenzialità, mentre la proterva attenzione dell’istinto ci guida un superamento e a una salvezza insieme; [...]. «Soffiata la vita alla sua immagine Álvarez Bravo scompare, nulla più sappiamo di lui all’infuori di questa creazione ben sua, ma che ormai vive autonoma tanto da apparirci come casuale prodigio di natura poetante». Si direbbe un brano del testo che Octavio Paz, premio Nobel della letteratura nel 1990, scrisse in prefazione, con alcuni fulminanti rapidi poemi, a -forse- il più bel libro mai pubblicato sull’opera di Manuel Álvarez Bravo. La sorpresa, invece, è sconvolgente. Queste poche righe, estratte da una lunga e magistrale analisi, sono di Carlo Mollino, e non è uno sporadico esercizio intellettuale, ma uno dei tanti temi che affronta in Il messaggio dalla camera oscura, ponderoso -e lieve quale piuma- volume pubblicato nel 1949. A metà del secolo scorso, furono rarissime le incursioni organiche nella storia della fotografia: Helmut Gernsheim dà alle stampe, nel 1955, un volume in lingua

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inglese che, tuttavia, si interrompe al 1914; il francese Jean-A. Keim pubblica il suo breve saggio, peraltro piuttosto corretto e attento, nel 1970. Non è correlato da illustrazioni, ma tuttora è consigliabile; nel 1982, esce, negli Stati Uniti, l’opera di Beaumont Newhall, che ignora totalmente le esperienze europee, e Carlo Mollino si era già avviato verso la misteriosa nebulosa della fotografia teorica. Carlo Mollino deve aver raccolto, prima, e consultato con metodica riflessione centinaia di riviste e pubblicazioni sparse, per recuperare un così ricco paniere di immagini, idee, informazioni. Per decenni, Il messaggio dalla camera oscura è rimasto -appunto- “oscuro”: privilegiata avventura per quei pochissimi che lo possedevano [noi, tra questi]. Oggi, finalmente, è un’esperienza unica per tutti: la nuovissima casa editrice AdArte, di Torino, ne ha stampato una stupenda copia anastatica, che rispetta il formato, la veste grafica, le illustrazioni con le tavole a colori applicate a mano su cartoncino, come l’originale. L’unico appunto a tanta cura e perizia è il testo introduttivo di Fulvio Ferrari, fondatore del Museo Casa Mollino, che sta dedicando la propria vita a questo genio del design e della fotografia italiana. Un vezzo d’immodestia non perdonabile in una copia anastatica che dovrebbe rispettare l’integrità dell’originale. Giusto un foglio, inserito e volante, avrebbe salvaguardato il rispetto dell’opera, e l’orgoglio del signor Ferrari.


La qualità editoriale per un oggetto così prezioso è indiscussa, e già provoca meraviglia, ma è la lettura dell’opera che trascina in splendenti universi del piacere. La prosa di Mollino, fluida e armoniosa, di poesia rara, aggancia come leggere le pagine di un narratore di superba maestria linguistica. A volte, il lessico di Mollino, nella scelta dei termini -e ama riferimenti e metafore auliche-, risente del tempo, però, in questa nostra epoca di comunicazione linguistica dai ritmi sincopati e dalla povertà espressiva, ci aiuta a recuperare la “bellezza perduta”. E proprio sulla bellezza, d’immagine, si fonda tutta l’analisi di Carlo Mollino. Non è una bellezza estetizzante, e vuota, ma il profondo senso del bello che potremmo tradurre in perfetta sintesi di forma e contenuto. Attento, appunta l’interesse sui grandi maestri che appena si erano affacciati (si veda Manuel Álvarez Bravo, che negli anni Quaranta era noto a rarissimi super sofisticati cultori dell’arte, che avevano compreso che anche la fotografia -non tutta, al pari dell’espressione manuale- lo è). Dedica a Man Ray un testo: sono soltanto quattro le analisi monografiche nell’intera opera, il già citato Álvarez Bravo, Nadar assieme a David Octavius Hill, Eugène Atget. «L’incontro con Man Ray avviene in un silenzio notturno o d’aurora, spenti fuochi nel sonno di ogni volontà. [...] «La esaltata e sicura facoltà di associazione intuita fra i mezzi visivi più eclettici e contradditori, ogni volta riscoperti e improvvisati di fronte al più vario mondo offerto alla sua esperienza, caratterizza lo stile, anzi gli stili di M. R. e insieme il suo limite. Simbolismi o accostamenti formali ed espressionistici minacciano di rimanere allusione cerebrale ben fabbricata, razionali sottintesi, in ogni caso intrusione della volontà con programma. «Stili che non sono mai ricerca in sempre mutata direzione, ma appuntamento, incontro puntuale ogni volta in luoghi diversi, con un medesimo fantasma poetico:

larve fosforescenti nella notte di un negativo [...]». Nessuno mai è riuscito a penetrare meglio il senso dell’opera di Man Ray e in termini di così sognante aderenza. Sa, Carlo Mollino, con lucida precisione che cosa è la “fotografia pura” e, già allora, stigmatizza con spietato sarcasmo i mali che ha prodotto e produrrà sugli ottusi: «Con [Alfred] Stieglitz, [Edward] Steichen fu tra i primi a intuire i limiti e il rapido esaurirsi in cerchio chiuso della “pictorial photography” e ad inserirsi senza brusche conversioni in quella che più che una rivoluzione si può definire, come vedremo, reazione: la “fotografia pura”, quella che la solita intransigenza dei neofiti e ultimi arrivati pretende come l’unica ammissibile e vera. [...] Già nel 1890 Stieglitz afferma l’autonomia del nuovo mezzo espressivo dichiarando la fotografia “potential art”, ma precisa: “But it is not painting, any more than painting is sculpture” [Ma non è dipingere, non più che la pittura sia scultura]. «Ogni movimento rinnega senza riserve un passato intero e remoto senza sapere che legittimamente reagisce solo al passato prossimo, cioè a quello esausto e oramai incapace di rispondere alle istanze di un gusto attuale che si afferma e muta con il continuo divenire del mondo». Quest’ultimo paragrafo è la magistrale sintesi di tutti quei testi teorici che, con cascate di parole, hanno preteso di motivare la nascita dei movimenti in arte. Il volume è suddiviso in centoventiquattro pagine di testo, punteggiate da tantissime immagini, e in trecentoundici “Tavole”, come le definisce Mollino: portfolio dedicati a singoli autori e fotografie a volte bizzarre e inconsuete. Ed è pure sorprendentemente imprevedibile nelle scelte: di Edward Steichen seleziona una serie, recuperata da Camera Work, il celebre ritratto di Greta Garbo e un’immagine a colori di moda. Di Edward Weston riproduce fotografie famose e una poco nota. Libero dagli stereotipi, da sovrastrutture, si abbandona al

proprio gusto, peraltro infallibile. E recupera chissà da quali “cassetti” del proprio sapere autori oggi celebrati, quali Philippe Halsman e Lillian Bassman, Carl Mydans e Dorothea Lange, W. Eugene Smith e Richard Avedon e altri, che solo le rivisitazioni contemporanee stanno valutando nella luce corretta: Rudolf Koppitz, José Ortiz Echagüe, Laure Albin-Guillot, William Mortensen, George Hurrell, Fritz Henle, tanti autori italiani e ancora una miriade di geni e di fotografie anonime, riprese da riviste, regalandoci, a distanza di oltre cinquant’anni -pari al periodo della glaciazione in rapporto alla Storia della Fotografia- la possibilità di riflettere sulla nostra incommensurabile presunzione. Così avveniristica la sua impostazione da obbligare alla revisione di quasi tutto quanto è stato scritto e celebrato. Certo, non mancano imprecisioni, ad esempio ritiene Robert Adamson niente più che il “portaborse” di David Octavius Hill: del tutto perdonabile, per le conoscenze del tempo. Per contro, è assolutamente avveniristica l’analisi di Mollino dei movimenti della pittura in relazione alla fotografia, e rari sono ancora oggi gli storici della fotografia, e dell’arte, che si rendono conto di tali reciproci scambi. Nel capitolo che intitola proprio Il messaggio dalla camera oscura, al paragrafo Fotografia e arte scrive: «Ogni istante dell’ingegnoso operare umano può essere pretesto di nascita del gusto per un nuovo ed inopinato linguaggio e insieme di una ennesima musa. Anche se le altre nove muse, tradizionali e primigenie, scrutano ostili dall’Elicona l’occhio di vetro e la cassetta nera sospetta di troppo gratuiti prodigi, Venere sorride e ancora sorride all’ultima nata la madre comune Mnemosine, dea del ricordo: le vie della poesia sono infinite». E in La riproduzione della natura: «Ripiegata, la camera oscura dormiva ancora nelle menti increate di Leonardo e di Niépce che già una stereoscopica a colori più piccola di un “minimo forma-

to”, poco più di un millimetro quadro di lastra sensibile, presiedeva alle inconsce figurazioni dei miti e delle favole. [...] Quest’occhio [dell’Uomo] era già quello preistorico che nell’uomo dell’era magdaleniana presiedeva alle nascite prodigiose dei bisonti delle grotte di Altamira e della “Venere impudica” e di Lespougue, presiedeva a quella pratica di mimesi perpetuata fino ai nostri giorni dall’amore per il bello attraverso i confini indistinti del piacere e del bisogno». E in Note e pretesti, Carlo Mollino rileva: «Helmotz e Hindemit potranno spiegarci il mistero commovente del rapporto dominante-tonica di ogni suono, Chevreul oppure Ostwald insegnarci, a forza di cerchi magici e costruzioni geometriche, le leggi della simpatia dei colori, Hambidge e Moessel quelle dello spazio armonioso, ma nessuno di costoro potrà rivelarci il magico tetragramma o l’artificio di scienza capace di farci valicare razionalmente l’abisso che separa il ritmo dall’incanto della poesia. I continuatori al più potranno fornirci esaurienti spiegazioni sul modo di Orfeo di ammansire le fiere e sradicare gli alberi, sull’arcano del flauto magico o della danza a tempo di valzer dei cavalli di Elbelferd e ancora sulle manifestazioni soprannaturali (cioè non ancora spiegate come naturali) generate dai ritmi sonori e mimici delle danze collettive dei popoli primitivi; non faranno altro, in ultima analisi, che rivelarci il meccanismo segreto degli incantatori di serpenti, sostituendo autentiche leggi di tecnica all’empirico uso di questa». Vengono i brividi, i quesiti e le risposte, mai cercate e cercate senza successo, trascinano la mente in turbine psichedelico. Il libro ha un solo difetto: troppo voluminoso e pesante per portarlo con sé, e forse è il suo grande vantaggio. La lettura sul treno, autobus, sala d’attesa di medici, sempre in debito con gli appuntamenti, sarebbe frammentata e disturbata dagli eventi contingenti. Seduti, tranquilli, si sfogliano parole e pagine e si entra nell’universo del pensiero visivo. I confini del reale si disciolgono. ❖

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Parole. Parole. Solo parole di Maurizio Rebuzzini (da FOTOgraphia , maggio 1999)

Fotografia stereo Con una denominazione ispirata al programma sovietico di esplorazione dello Spazio [almeno a quello delle origini], la stereoscopica Sputnik riunisce in sé numerose componenti della fotografia a un tempo eccentrica e trasgressiva, ovverosia fuori dagli schemi ordinari: dal fascino della sua estetica al vigore formale della rappresentazione tridimensionale

P

Per quanto la restituzione fotografica si basi su una pertinente interpretazione della resa prospettica, non si può negare il fascino della fotografia tridimensionale. In particolare non è facile sottrarsi alla piacevole estetica degli oggetti della fotografia stereo, che in molte realizzazioni si basa su visori in legno lavorato di manifattura straordinariamente elegante. Con tutto, e nonostante la nostra adesione all’Associazione Stereoscopica Italiana e all’International Stereoscopic Union (ISU in sigla; ne parliamo in un apposito riquadro pubblicato nella pagina accanto [a fine testo, oggi]), non possiamo affrontare la fotografia tridimensionale senza aver ribadito un princìpio fondamentale della stessa rappresentazione fotografica. Per l’appunto è l’attenta applicazione delle regole prospettiche che risolve nello spazio a due dimensioni della fotografia (base per altezza) la raffigurazione della terza dimensione in profondità. E, dunque, non ci sarebbe bisogno di altri artifici, che -di fatto- appesantiscono la fotografia e interferiscono con il proprio percorso lineare verso l’osservatore: con buona pace del fisico inglese sir Charles Wheatstone (18021875), che per primo enunciò i princìpi della visione stereoscopi-

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ca, per la quale, nel 1832, realizzò un dispositivo di lenti e specchi per l’osservazione in rilievo di due disegni affiancati.

ESTETICA Però, indipendentemente da qualsiasi razionalità e da ogni concreta applicazione, la fotografia tridimensionale rimane -comunque- uno dei più affascinanti aspetti, diciamo così, eccentrici e trasgressivi della comunicazione visiva. A prescindere dal sistema di restituzione 3-D, che può essere stereo (una coppia di immagini accostate), anaglifico (con sfasamento rossoverde) o altro, ma sempre con separazione tra l’osservazione dell’occhio destro e di quello sinistro, gli apparecchi fotografici a due obiettivi affiancati sono esteticamente attraenti. Nell’ambito dei nostri precedenti appuntamenti redazionali di Memorabilia abbiamo avuto modo di segnalare l’eleganza della View-Master Stereo Color Camera, del 1962, e della Kodak Stereo Camera, del 1954 (rispettivamente: FOTOgraphia, febbraio 1997 e dicembre 1998). Oggi, è la volta della sovietica Sputnik, del 1960 [altre fonti si estendono dal 1954 al 1974], che rappresenta una delle più moderne e accattivanti interpretazioni del tema.


In questo caso, l’estetica generale e “a priori” dell’apparecchio fotografico a due obiettivi accostati si accompagna con una raffinata costruzione in bachelite, che aggiunge sapore e dà un autentico segno della propria epoca: di quegli anni Sessanta (oltre che Cinquanta) durante i quali lo stato d’animo era generalmente ottimista. L’onda lunga del dopoguerra creò uno stile di vita attivo e diede animo a speranze che potevano essere realizzate. Le automobili, gli elettrodomestici per la cucina e persino le persone erano splendide e brillanti. E gli oggetti in bachelite nacquero in quel clima (anche se non è il caso di paragonare la vita in Unione Sovietica [dal 30 dicembre 1922 fino al 26 dicembre 1991; quindi, e oggi, Russia] a quella del mondo occidentale).

IN USO Come illustriamo, è bene completare la dotazione standard della sovietica Sputnik (слутник, in caratteri cirillici) con una livella doppia, oppure con una bolla, che faciliti la sua collocazione orizzontale e piana. Infatti, la corretta restituzione tridimensionale-stereo della ripresa si basa anche sulla perfetta disposizione dei due fotogrammi accostati. Detto questo, precisiamo anche che l’attuale valore commerciale della Sputnik, stimabile in trecentocinquantamila lire [oggi, poco oltre i duecento euro, in base alle condizioni e ai complementi di utilizzo], si basa sulla completa dotazione originaria con visore stereo in metallo e torchietto per la stampa a contatto delle copie. Ovviamente, la sua reperibilità è limitata al mercato dell’antiquariato e del collezionismo fotografico: negozi specializzati e mostre mercato [oggi, soprattutto eBay]. Derivata dalla biottica Lubitel 2 [oltre due milioni di esemplari prodotti a Leningrado, oggi San Pietroburgo, dal 1954 di origine al 1980 di dismissione], la Sputnik ha un solo obiettivo reflex di visione, accoppiato ai due obiettivi accostati di ripresa Lomo T-22 75mm f/4,5. L’inquadratura su schermo chiaro e trasparente si abbina all’area centrale smerigliata per la

messa a fuoco del soggetto; ovviamente, l’accomodamento degli obiettivi di ripresa è associato a quello dell’obiettivo centrale di visione: a partire dalla distanza minima di 1,3 metri circa. Anche la scala dei tempi di otturazione, da 1/15 a 1/125 di secondo più la posa B, e quella delle aperture di diaframma, fino a f/22, sono sincronizzate tra loro, in modo che i due obiettivi accostati siano regolati sui medesimi valori di esposizione. Attenzione: l’otturatore centrale con caricamento a leva non ha alcuna sicurezza contro le doppie esposizioni involontarie. A parte la messa a fuoco reflex, peraltro agevolata da una lente a scomparsa che ingrandisce l’area di valutazione visiva, la stereoscopica Sputnik presuppone la sua regolazione completamente manuale. Anche l’avanzamento della pellicola, dopo lo scatto, è completamente libero, e si basa sulla lettura delle cifre progressive riportate sul retro della carta di protezione del rullo 120. Ovviamente, siccome la Sputnik espone due fotogrammi accostati simultaneamente, la sequenza delle sei esposizioni stereo 6x6cm è scandita dall’alternanza delle cifre dispari: 1, 3, 5, 7, 9 e 11 [uno, tre, cinque, sette, nove e undici]. In alternativa alla visione dall’alto dello schermo e della sua porzione centrale smerigliata di messa a fuoco, come ogni reflex medio formato, la Sputnik è quindi dotata di cappuccio pieghevole commutabile al traguardo diretto del soggetto.

COPPIE STEREO Comprensivi degli otto millimetri di separazione, i due fotogrammi 6x6cm della Sputnik (formato reale 56x55mm) possono essere stampati a contatto su supporti 6x13cm: una delle dimensioni standard della fotografia stereoscopica. Il visore in dotazione è utilizzabile per l’osservazione di copie/coppie su carta e di trasparenze su lastra di vetro (stampate dai negativi esposti in ripresa). L’unica attenzione in fase di stampa riguarda la corretta disposizione destra-sinistra dei due fotogrammi accoppiati.

A questo proposito rimandiamo all’apposito riquadro [riproposto a fine testo, per quanto privo di illustrazioni esemplificative presenti nella messa in pagina originaria, del maggio 1999], mentre qui osserviamo semplicemente che per lastre e stampe stereo 6x13cm sono disponibili molti visori di accattivante manifattura. A parte l’impiego del visore sovietico in metallo, che accompagna la Sputnik, nei negozi e nei mercatini di antiquariato fotografico si possono trovare visori portatili in legno o anche apparecchi da tavolo con dispositivo multiplo di rotazione delle lastre. In alcuni casi, si tratta di oggetti costruiti in modo spartano ed essenziali; altre volte, si tratta di autentici gioielli di artigianato, degni dei più eleganti e raffinati complementi di arredamento. Anche in questo sta il fascino della fotografia stereo. ❖

Aggregazioni 3-D A parte gli innumerevoli siti Internet, rintracciabili attraverso i motori di ricerca con opportune parole chiave, il mondo della fotografia tridimensionale è anche animato da associazioni che riuniscono gli appassionati della fotografia in coppia (di fotogrammi). A livello italiano, è doverosa la segnalazione dell’Associazione Stereoscopica Italiana fondata una dozzina di anni fa da Franco Gengotti, che per un certo periodo è anche riuscito a pubblicare qualche numero di un periodico a tema: il Trifoglio, che ormai non viene più realizzato da tre-quattro anni. [...]. L’International Stereoscopic Union [attiva dal 1975 (www.isu3d.org)] è invece una associazione internazionale, con una vasta serie di affiliazioni nazionali. In Italia, l’ISU è rappresentata da Daniele Capra, Località Merso di Sopra 26, 33040 San Leonardo UD (pandolo@libero.it) [informazione aggiornata]. L’ISU organizza manifestazioni e appuntamenti di fotografia tridimensionale, che culminano nel proprio congresso annuale; inoltre viene pubblicato il quadrimestrale di informazione Stereoscopy.

Stampa su carta Siccome la trasposizione dei fotogrammi stereo esposti con la sovietica Sputnik si basa sulla stampa a contatto su

lastra di vetro, l’eventuale stampa su carta presenta qualche problema. Come evidenzia la sequenza illustrata [nella messa in pagina originaria, del maggio 1999], nella stampa su carta da negativo bianconero (che per visibilità noi abbiamo volontariamente sostituito con una coppia di diapositive a colori) si viene a realizzare una indesiderata inversione dei fotogrammi: quello di destra si presenta a sinistra e viceversa. Nel caso in cui le coppie vadano montate su un supporto rigido, magari personalizzato graficamente, non ci sono problemi: le singole stampe devono essere tagliate e lavorate, e dunque possono essere posizionate secondo necessità. Invece, se si vuole usare direttamente la stampa contatto, bisogna aggirare il problema. Noi consigliamo questa soluzione, che abbiamo inventato di sana pianta. Invece di ritagliare un formato di carta sensibile 6x13cm, appunto adatto ad accogliere la combinazione stereo che nasce dai due fotogrammi accostati 6x6cm, esposti con la Sputnik, si ritagli una striscia 6x26cm, larga esattamente il doppio. Per l’uso, le estremità vanno piegate su se stesse, con il lato emulsionato all’esterno: una superficie completa 6x13cm si combina con un’altra superficie ugualmente 6x13cm formata dalle due estremità ripiegate. Dopo aver collocato un foglio nero di protezione, che evita il passaggio di luce nelle due fasi successive, si espongono per contatto i due negativi stereo su ognuna delle due singole facciate 6x13cm. Sviluppando in una sola fase la carta sensibile si è sicuri di ottenere una lavorazione uniforme. Alla fine del trattamento, la stampa asciutta va tagliata a metà e, come mostra la nostra sequenza, si ottengono due stereofotografie corrette: con la porzione destra collocata a destra e quella sinistra a sinistra. Sia che si usi il torchietto in dotazione (con volet che protegge prima l’una e poi l’altra porzione della coppia stereo), sia che si stampi per contatto senza torchietto, si abbia sempre l’accortezza di esporre le due singole immagini in modo leggermente diverso: in osservazione, proprio la diversa densità dei due fotogrammi favorisce la restituzione della profondità stereo. [Per la comprensione di queste note è indispensabile richiamarsi alla messa in pagina originaria, del maggio 1999, ❚ completa di illustrazioni].

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Parole. Parole. Solo parole di Michele Smargiassi (da FOTOgraphia , marzo 2011 / da Fotocrazia , 14 febbraio 2011)

Lontano dagli occhi

N

Non avevo intenzione quest’anno di commentare il verdetto del World Press Photo Award. Non amo i premi, per ragioni che ho già esposto: raramente condivido i criteri delle giurie del WPP, che privilegiano certe qualità “atletiche” e sovracodificate delle immagini, e la mistica dell’istante (ma non l’anno scorso, quando vinse il reportage di Masturzo sull’Iran). Ho cambiato idea leggendo l’attacco mosso da alcune parti, in particolare dal blog Puntodisvista, non tanto colpito dai giudizi espressi sul premio in generale, che in parte mi trovano d’accordo, quanto dal genere di accuse (anche queste abbastanza ripetitive) mosse alle fotografie vincitrici. Si scopre, quarant’anni dopo il famoso articolo di Barthes sulle fotografie-choc, dopo il lunghissimo dibattito internazionale sul libro di Sontag Davanti al dolore degli altri, che le fotografie hanno un rapporto problematico con le emozioni e il dolore estremo, e che questo dilemma non è ancora stato risolto in modo soddisfacente. Mi soffermo sulla fotografia più investita dallo sdegno moralista e inevitabilmente censorio: quella di Olivier Laban-Mattei dell’agenzia Afp, scattata ad Haiti nell’immediato dopo-terremoto, vincitrice del primo premio nella categoria Stories. Una fotografia molto difficile da guardare e da sopportare: mostra un uomo in tuta bianca e guanti di lattice (un soccorritore?) che in un cortile getta il corpo tumefatto di un bambino su un mucchio di cadaveri. Un’immagine che il mio amico Maurizio Rebuzzini aveva già avuto il coraggio di mettere in copertina della sua eccellente rivista FOTOgraphia, nell’aprile del 2010, spiegando il perché. Io sono con lui. Commentando il blog di cui sopra, ho detto che il dovere del fotoreporter è di fotografare. Mi è stato risposto che la mia era un’osservazione “spaventosa-

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mente cinica”. Allora, ho deciso di riflettere un po’, e di raccogliere qui alcune osservazioni già sottoposte a quella discussione. Perché mai quella frase dovrebbe essere più cinica di questa: “il dovere di un fornaio è fare il pane”? Dal fornaio mi aspetto pane fragrante, o almeno commestibile, nutriente, fatto senza segatura o veleno per topi; ma mi aspetto pane, non aria. Fuor di metafora: il dovere del fotografo è fotografare (come il mio, che sono giornalista, è di scrivere) perché è il mestiere che si è scelto, è quello che pensa di saper fare, e fotografare è l’oggetto del patto che ha stretto con la comunità, che chiamerei (per paragone con quello di Ippocrate) il “giuramento di Daguerre”: io vi farò vedere. E non c’è scritto da nessuna parte che quel dovere si fermi davanti all’orrore, per non disturbare qualche coscienza (occidentale) all’ora di pranzo. Un fotografo che non sente quel dovere primario ma risponde ad altri doveri, convenienze ed opportunità non è un fotografo, fa un altro mestiere, forse il propagandista politico, o forse il pubblicitario. Come confezionare il suo pane, cosa e come fotografare, che rapporto avere con gli esseri umani coinvolti dal suo lavoro, è naturalmente una scelta di cui il fotografo risponde alla sua etica, alla sua coscienza civile e politica, alla sua deontologia professionale. Essendo impossibile, e inutile, fotografare tutto, la scelta di premere o meno il pulsante fa parte del suo dovere. Non esiste invece alcun dovere imposto dall’esterno di non fotografare. Ci sono a volte ottimi motivi per non fotografare qualcuno o qualcosa, se si ritiene quella fotografia inutile, insufficiente, inadeguata, o se l’atto stesso del fotografare diventa un atto aggressivo. Ma un fotografo che di fronte a un evento di cui si è impegnato ad essere il testimone abbassa la fotocamera e decide

di accecarsi e accecare i suoi lettori futuri solo perché così comanda il bon-ton dello sguardo (occidentale) mascherato da pietà, si erge a giudice unico e abbandona il ruolo di testimone che si è liberamente assunto: lasciare delle tracce, delle impronte, degli indizi della e sulla realtà che il mondo dovrà giudicare. Un fotografo che abbassi la fotocamera davanti a una situazione con la cui drammaticità non riesce a fare i conti è un fotografo sconfitto dalla propria inadeguatezza. Ci si può sentire sicuramente inadeguati in mezzo a certi eventi drammatici: ma questa condizione dovrebbe semmai imporre al fotografo l’umile faticoso dovere di fotografare comunque. Sapete cosa scrisse Margaret Bourke-White di fronte allo scenario insostenibile dei cadaveri di Buchenwald, per imporsi di fare il suo dovere scavalcando l’orrore? «Registrare adesso, riflettere poi: la Storia giudicherà». Parole di grandissima umiltà deontologica (pronunciate tra l’altro da una fotografa tutt’altro che umile). Avrebbe fatto meglio a non fotografare? Chi le avrebbe consigliato questo, se fosse stato lì? Chi la rimprovera oggi di non averlo fatto? Preferiremmo forse che l’umanità non possedesse tracce visive dell’orrore dei lager? Che il processo di Norimberga non ne avesse avute? “La Storia giudicherà”, questo è quello che anche io penso. Non è uno scarico di responsabilità del fotografo: è, al contrario, la sua piena e consapevole assunzione di un ruolo preciso nella comunità. Il fotografo è un testimone debole, offre indizi prelevati sul luogo del delitto, prelevati con accuratezza, ma spesso senza sapere bene che cosa significhino, cosa debbano o possano dimostrare; li consegna in buste trasparenti, li porge al giudice collettivo, che è la comunità civile, perché ne faccia

il miglior uso possibile: cioè risponda alle domande che quella fotografia pone, impone, obbliga ad ascoltare, e agisca in qualche modo (oppure non faccia nessun uso di quella fotografia, la chiuda in un archivio perché sia vista solo dai posteri: anche questo può essere l’esito, ma solo quando la fotografia comunque esiste). Non è garantito che il meglio accada: nel conflitto sociale, ci sono anche il profitto, la convenienza di parte, il potere; ogni fotografia può essere mercificata, corrotta, falsificata; ma ci sono anche le ragioni della democrazia, dello spirito critico, della coscienza civile. Rinunciare in partenza, per paura del rischio, è perdere in partenza. La fotografia più mendace, ho scritto in un libro, è quella che non è stata scattata per paura e autocensura. La fotografia di Laban-Mattei, che qualcuno avrebbe voluto accecare, fa parte di quelle fotografie “deboli” (sì, deboli di senso, a dispetto della forza devastante di quel che sembra mostrare). Debole come tutte le fotografie sono: perché non danno risposte, ma fanno domande. Tremende. Necessarie. Domande come queste: cosa è successo davvero alle vittime del terremoto di Haiti? Come si è fatto fronte a quelle montagne di cadaveri? La mostruosa dimensione dell’orrore ha forse ottuso il senso della pietà nei soccorritori? O ha creato un’etica d’eccezione a noi incomprensibile? Quell’uomo è un cinico o è una vittima a propria volta? Stiamo vedendo un oltraggio alla dignità o un atto di paradossale estrema pietà? C’è una fotografia che fa al caso nostro. È famosa. Eccovela qui di fianco [nel Blog originario]. È una fotografia dei Lager che, come tante, fu usata male, non per propria colpa. Presa a Bergen-Belsen, mostra un bulldozer che spinge via un misero mucchio di membra umane nude. È una fotografia che facciamo fatica a


guardare, ancora oggi. Per decenni, fu chiamata a rappresentare l’orrore dell’assassinio su scala industriale, e la riduzione del corpo umano a rifiuto. Poi, lo spirito critico di uno storico francese, Clément Chéroux, appurò che era stata presa da un ufficiale britannico, così come britannico è il militare alla guida del mezzo che fu costretto a utilizzare per seppellire in fretta una massa di corpi in putrefazione, dai quali rischiava di sprigionarsi un contagio mortale per i debolissimi superstiti ancora presenti nel campo. Un’opera di pietà umana concreta, dolorosa, necessaria, che ebbe un testimone, un fotografo. Non doveva averlo? Bisognava chiudere gli occhi in nome della “dignità umana”? Rinunciando a un documento terrificante e insostituibile della storia? Io temo che tanti invochino il rispetto della dignità altrui solo per difendere la propria fragilità umana dal peso insopportabile della realtà. “Non lo voglio vedere, non fatemelo vedere” è lo strillo delle signorine di buona famiglia che temono di farsi andare il gamberetto di traverso. Il mondo è tremendo? Sì, ma non ditecelo all’ora di cena.

Laban-Mattei avrà gioito per la vittoria al WPP, come gli si rimprovera per screditarne il lavoro? Non mi interessa e non mi scandalizza. Anche i chirurghi di Medici senza frontiere credo siano orgogliosi del proprio lavoro, benché svolto in mezzo alla disperazione. Avrà scattato pensando “con questa vinco il WPP”? Mi pare un processo alle intenzioni. A me interessa quel che mi racconta quella fotografia, anche a dispetto delle intenzioni di chi l’ha scattata (le fotografie di Abu Ghraib furono scattate da individui orribili, ma mi interessano e sarebbe una censura intollerabile non averle mostrate al mondo). Mi interessa la sua utilità, la sua necessità. Non so cosa si intenda per “foto spettacolare”, io in quella fotografia di Haiti vedo un’immagine con l’orizzonte a livello medio, in campo medio, che cioè rinuncia agli effetti speciali e si “banalizza” perché la forma non sovrasti la sostanza. Chi poi trovasse addirittura “estetizzante” una fotografia come questa, penso che abbia qualche serio problema. Bene, se Laban-Mattei avesse abbassato la fotocamera di fronte a quella scena che pro-

babilmente lui stesso faticò a razionalizzare, ora saremmo tutti più tranquilli, rassicurati, nel caldo della nostra sicurezza. Un po’ più ipocriti e disinformati. Perché quel gesto tremendo è avvenuto ugualmente: fa parte della realtà del terremoto di Haiti, che dobbiamo conoscere per non credere alle favole. Senza quella fotografia, tutte le altre, quelle “umanitarie” con i medici pietosi al lavoro diventano parziali, e quindi ipocrite, falsamente rassicuranti. Ma queste fotografie rassicuranti, invece, vengono autorizzate, perché non destabilizzano nessuno (ma perché non sono “colonialisti”, per i rivoluzionari da blog, anche i fotografi embedded delle Ong occidentali? Non sono mediatizzate anche quelle fotografie, sul mercato dell’Occidente? Non cercano il successo professionale anche quei fotografi? La scusa della “mercificazione” vale per censurare alcune foto, ma non per altre?). Le vittime, più spesso di quanto non si pensi, vogliono essere viste: hanno una volontà (anche se per i moralisti che si autonominano loro avvocati sono solo oggetti), conoscono il potere e le insidie della

fotografia e scelgono di rischiare, come racconta Ariella Azoulay, a proposito dei palestinesi, in un bel libro, che si chiama, non per niente, Il contratto civile della fotografia. La dignità di quei poveri corpi haitiani è stata violata comunque, con o senza la fotografia, e non dal fotografo. Da chi? Perché quel gesto tremendo? C’è una verità più profonda di quella che si vede (magari simile a quella della fotografia di Bergen-Belsen?) Ci sono colpe, responsabilità umane? Poteva andare diversamente? Siamo anche noi in parte responsabili di quello che stiamo vedendo? Quella scena urla al mondo la sua intrattabilità, la sua apparente irrazionalità, grida domande invocando a gran voce risposte. Il mondo può decidere di cercarle, o auto-accecarsi. È una scelta. Ma non tiriamo in ballo la dignità delle vittime, per favore; siamo sinceri: piuttosto, la tranquillità di noi garantiti, mascherata da rivoluzionario sdegno contro i fotografi “protagonisti” e “al servizio dell’industria della comunicazione” e “colonialisti” e “sfruttatori della miseria” (ma solo quando ci vengono a disturbare). ❖

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Parole. Parole. Solo parole di Piero Raffaelli (da FOTOgraphia , maggio 2010)

In percezione Tra questa dozzina di ritratti rubati in luoghi pubblici e l’altra dozzina di elementi, luoghi, dettagli e frammenti cui sono accostati, ogni relazione è puramente casuale. Le cose e i luoghi e il resto non appartengono a, non rivelano, non significano, non rappresentano, e non sono pensieri, né analogie, né metafore, né allusioni alle persone reali o alle loro storie. Se qualche relazione verrà tra loro trovata, sarà per l’intervento, consapevole o meno, dell’autentico costruttore del significato dell’immagine, cioè di chi, infine, la guarda. Perché il nostro comune modo di guardare le immagini ci obbliga a cercarvi in esse relazioni e spiegazioni, e ci obbliga a immaginare ogni sorta di link, più o meno verosimili, che le possano connettere. E perché ogni immagine sta dentro una vasta rete di relazioni latenti, e questa rete esisteva prima del web

F

Fine Duemilanove. La notizia è recente: tra le montagne della Nuova Guinea, all’interno del cratere di un vulcano spento, è stato scoperto un territorio non ancora esplorato dall’Uomo, ultimo minuscolo ritaglio di quelle estese zone vergini ancora in bianco sulle mappe di appena un secolo fa. In quel remoto cratere, non si sono trovati dinosauri, né ominidi, né gormiti, ma solo degli insetti, appena un po’ più grandi della media della specie alla quale appartengono, cioè minime varianti di specie già note. Se la Terra è, come pare, esaurita, allora questa esplorazione nel cratere indonesiano segna la fine dell’era di Ulisse. Se fosse qui oggi, il mitico viaggiatore si troverebbe l’Odissea ristretta, e tutte le tappe del viaggio ridotte a banali ritorni in luoghi déjà-vu, e lui stesso ridotto a turista. L’unica sorpresa l’aspetterebbe alla fine del viaggio, ancora prima di arrivarci alla casa: nel vedere stravolta la sua Itaca, cancellata ogni traccia del passato, mutato il paesaggio, introvabile la strada di casa, del tutto irriconoscibile il suo luogo natale, per gli interventi d’una banda di costruttori, urbanisti, paesaggisti, architetti, geo-

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metri, assessori all’edilizia e arredatori urbani, una banda più dannosa dei Proci e attiva ovunque, anche nei luoghi dove noi stessi siamo nati o abitiamo. La voglia di ripartire sarebbe immediata, ma per andare dove? La Terra incognita non sarebbe da cercare lontano, ma vicino, già attorno alla casa di Ulisse. Al di fuori della Terra, rimangono spazi inesplorati per una quindicina di miliardi di anni luce in qualsiasi direzione. Mai, nella storia dell’Uomo, si era saputo quanto fossero vertiginosamente vasti gli spazi non percorribili da un Ulisse terrestre.

LA CITTÀ MUTANTE Che le città mutassero, lo si sapeva da tempo («La città cambia più rapidamente del cuore di un uomo», ha scritto Baudelaire), mai però la mutazione è stata così brutale e uniforme. In pochi anni, infatti, tutte le città -grandi, piccole e piccolissime- sono diventate metropoli o frammenti di metropoli globalizzate. Niente è rimasto com’era in questi non-luoghi senza memoria, nei quali, oltre la fauna umana e le case, anche gli odori, i colori, gli alberi, le aiuole, il selciato,

e fino gli ultimi dettagli dell’arredo e del degrado hanno continuato a mutare, smarrendo ogni identità, e disorientando chi, in quei luoghi, è nato o ha trovato casa, fino a renderlo straniero tra stranieri. Quale sarà il modo migliore per esplorare una città mutante e, in generale, quella realtà complessa ed enigmatica che ci circonda? Ci sono almeno due metodi per farlo (semplifico). Il primo metodo, quello del giornalista, può essere rappresentato da Ryszard Kapuściński e dalle parole con le quali descrive la folla in una stazione della metropolitana di New York: «Frettoloso incrociarsi di persone. Facce chiuse illeggibili. Indifferente scorrersi accanto di milioni di destini, pensieri, sentimenti umani: l’invisibile e più importante materia del mondo». Con sole diciannove parole, ha confezionato una “fotografia” nella quale, per paradosso, la materia più importante non si vede, quasi fosse tre volte blindata dietro facce indifferenti, illeggibili, impenetrabili. Però, il suo compito da giornalista è stato eseguito alla perfezione: è stato essenziale e credibile, ha visto e descritto le-cose-come-sono: chiare e semplici. Non erano di sua com-

petenza le cose sfumate, opinabili, vaghe o complesse, che sono rimaste -infatti- per lui invisibili. Philip Roth, che qui rappresenta l’altro metodo, quello del romanziere, non esplora nel campo del visibile, e infatti non tenta di vedere, bensì di sapere. In una delle ultime pagine di un suo recente romanzo, interrompe il racconto e riformula le domande fondamentali, quelle domande che tornano sempre a riaffiorare, irrisolte: «Cosa sappiamo?», si chiede Roth; sappiamo forse «perché le cose vanno come vanno? Cosa? Tutto ciò che sta sotto l’anarchia del corso degli avvenimenti, le incertezze, i contrattempi, il disaccordo, le traumatiche irregolarità che caratterizzano le vicende umane? [...] Nessuno sa nulla. Non puoi sapere nulla. Le cose che sai [...] non le sai. Intenzioni? Motivi? Conseguenze? Significati? Tutto ciò che non sappiamo è stupefacente. Ancora più stupefacente è ciò che crediamo di sapere». Poche pagine dopo, Roth aggiunge: «Nel bene e nel male, io posso fare solo quello che fanno tutti quelli che credono di sapere. Immagino. Sono costretto a im-


maginare [...]. È il mio lavoro». Philip Roth si è posto domande, e si è dato risposte; così, ha rivelato ai suoi lettori che senza ricorrere all’immaginazione non sarebbe riuscito a scriverlo quel romanzo, che non è affatto un romanzo di fantasy. In questo, come in tutti i suoi romanzi, Roth racconta vicende rigorosamente reali, ma mai semplici, perché davvero semplice la realtà non lo è mai; anzi: solo con un’immaginazione reattiva e ben allenata si può tener testa alla complessità davvero stupefacente della realtà. Il ricorso all’immaginazione, comunque, non esime lo scrittore, o chiunque altro, dall’interpretare e verificare poi, razionalmente, ciò che la stessa immaginazione ha fornito.

IL LINGUAGGIO DELLA FOTOGRAFIA La differenza tra i due tipici metodi del giornalista e del romanziere sta dunque nell’uso dell’immaginazione e nel linguaggio che si fa più complesso per dire cose via via più complesse, mentre la semplicità giornalistica appare quasi una forma di censura. Singolarmente diverso è, al confronto, il linguaggio fotografico, che pare così simile all’oggettiva semplicità delle parole del giornalista, mentre mostra anche ciò che quelle parole sintetiche non possono dire. Nelle fotografie, infatti, e sempre ben visibili, ci sono le facce degli sconosciuti, e tutta la traumatica irregolarità di ogni vicenda umana. Nella semplicità della fotografia, c’è sempre -evidente o latente- l’inesauribile complessità del reale. Tra tutte le immagini che ci possa capitare di vedere, la faccia umana è l’immagine più complessa e ambigua, la più ricca di segni, sintomi, indizi, tracce a multipli livelli, dato che in ogni faccia si somma ciò che esprime, ciò che rivela o tradisce della sua storia o dell’ultima emozione, secondo la volontà o contro la volontà del suo titolare; e tutto ciò appare da sé, per una naturale eloquenza o apparente chiusura, senza intervento del fotografo, contemplatore iner-

te. Decifrare, interpretare, immaginare e capire quanto le facce mostrano o nascondono è compito che spetta a chi, infine, osserva le fotografie: all’autentico costruttore -in post-produzione- del significato dell’immagine. Non è il ritratto posato a fornire le informazioni più preziose, ma proprio il ritratto rubato e inconsapevole. Con la tomografia a emissione di positroni, è stato accertato che nel cervello di chi osserva una faccia, milioni di neuroni si mettono a scintillare tra loro come stormi di lucciole. I primi neuroni a svegliarsi stanno al capolinea dei due nervi ottici: lì ci sono neuroni specializzati nel seguire il movimento del soggetto, proprio come sa fare una reflex moderna; altri sono specializzati nel leggere i colori; altri nel correggere la parallasse, e così via. Dalla corteccia visiva del lobo occipitale (dalle parti della nuca), i segnali visivi vengono poi inviati in altre aree, per essere interpretati, confrontati e, infine, salvati nelle memorie a breve o a lungo termine. Le neuroimmagini fornite dallo scanner a positroni non ci dicono in cosa consista il lavoro del cervello, ma solo che consiste in un gran traffico di messaggi interni. Lo si potrebbe paragonare al complesso lavorio dentro un gran Ministero, nel quale tutti gli analisti si scambino informative, consultino schedari, decifrino messaggi, interpretino segnali, e poi si mettano a elaborare ipotesi e immaginare intenzioni, traiettorie e progetti altrui. Negli archivi del Ministero, dovrebbero esserci gli identikit dei pregiudizi razziali di Cesare Lombroso. Molto prima di diventare sapiens, l’homo sapeva leggere le facce dei suoi simili, ed era avvantaggiato se riusciva a distinguere le intenzioni aggressive da quelle amichevoli. Quell’antica facoltà di capire e farsi capire guardandosi non pare essersi molto evoluta: si è diffuso, invece, una specie di analfabetismo emotivo che, secondo Umberto Galimberti [filosofo, sociologo, psicoanalista e accademico italiano], ci ha fatto perdere la capacità di leggere le emozioni degli altri, di per-

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cepire le loro esigenze e le loro disperazioni. Così, tra passanti o compagni di viaggio, guardiamo e siamo guardati senza empatia; percepiamo solo vaghe minacce e un vago stato di ansia in cui ci si rispecchia un poco tutti. L’immaginazione, quando viene attivata, ci fa percepire somiglianti. Molti anni fa, avevo osservato che certe istantanee da strada (street-photos) funzionavano come le tessere di un puzzle; erano in grado di evocare, o meglio di far immaginare la figura intera della quale erano parte. Bastavano un gesto e uno sfondo, una faccia e un dettaglio per caratterizzare un’intera città e far diventare nostra quella città e noi stessi autori dell’immagine. Accadde così che ci appropriammo della Pittsburg di W. Eugene Smith [FOTOgraphia, aprile 2018], della New York di William Klein, di tutta l’America di Robert Frank, e così via. Quelle, come infinite altre fotografie, erano sempre a disposizione di chiunque se ne immagini autore. C’era comunque una fi-

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ducia condivisa nella relativa verità di ogni immagine. Non è più così: «sta succedendo qualcosa, non è ancora ben chiaro cosa -scrive Michele Smargiassi- e un vento di perplessità scuote, facendosi pian piano convinzione di massa, il paradigma della verità automatica» (la citazione è tratta dal saggio Un’autentica bugia. La fotografia, il vero, il falso, pubblicato da Contrasto, nel 2009). In altre parole, la fotografia sta perdendo credibilità, mentre l’immaginazione sovreccitata dalla febbre digitale la sta disintegrando.

LE COSE COSÌ COME SONO La buona reputazione dell’immagine che non sa mentire precede la sua invenzione, risale all’epoca nella quale un filosofo inglese scrisse questa frase: «La contemplazione delle cose come sono, senza sostituzione o impostura, senza errore o confusione, è in sé la cosa più nobile di un’intera messe di invenzioni». Era l’inizio del Seicento, l’alba della rivoluzione scientifica; Francis Ba-

con, italianizzato in Francesco Bacone, autore della riflessione, contemplava metodicamente i fenomeni naturali, per registrarne le cause sufficienti; Galileo Galilei, di due anni più giovane, osservava la superficie della Luna, osservava il moto del pendolo, osservava i satelliti di Giove e altro ancora. I due pionieri della rivoluzione scientifica procedevano a vista; lo sguardo era il loro (imperfetto) strumento scientifico. La macchina-che-contemplae-registra-le-cose-come-sono non era stata ancora inventata, ma l’espressione di sir Francis Bacon fa capire che proprio di un affidabile strumento scientifico ci si aspettava l’avvento. Quando poi la fotografia arrivò, la considerazione del filosofo inglese ne divenne lo slogan promozionale, certificato di autenticità, garanzia di impegno, atto di fede, presunzione ontologica, primo comandamento, e altro ancora. Dorothea Lange la affisse sulla porta della sua camera oscura, quasi fosse un credo nella pura verità oggettiva, non contaminata da ignobili invenzioni e perverse immaginazioni. Bacon era divenuto il patrono della fotografia documentaria [ne abbiamo già riferito, in richiamo, nell’aprile 2006, quando il World Press Photo ha intitolato Things As They Are, appunto le cose così come sono, la monografia su cinquant’anni di fotogiornalismo, riprendendo proprio l’osservazione di Francis Bacon]. L’ultima traccia di quella antica stagione rimane nel lessico, nella stessa parola “fotografia” che si usa ancora oggi per indicare una specie di scheda descrittiva con pochi dati essenziali, perlopiù numeri e misure esatte: una “fotografia della situazione”, come si dice nei telegiornali, totalmente diversa ed estranea a qualsiasi fotografia vera, e senza virgolette. La paradossale ipocrisia nascosta in questa parola era già stata colta da Lewis W. Hine, quando scrisse (era il 1909) che «la fotografia non sa mentire, ma i bugiardi sanno fotografare» (oppure che «la fotografia è verità, ma anche i bugiardi possono fotografare»).

Nel libro di Smargiassi vengono citate, a centinaia, capitolo dopo capitolo, le imprese dei fotografi bugiardi: bugie prima dello scatto, bugie durante lo scatto, bugie dopo lo scatto, bugie del mostrare, bugie del guardare il piacere della bugia... e così via. Malgrado le tante bugie rifilate ai credenti, la fotografia ha conservato a lungo la loro fiducia, ma poi, nel pieno della rivoluzione digitale, la sua credibilità è arrivata al collasso, e da un’acritica fiducia si è passati velocemente a un acritico sospetto. Oggi bisogna prendere atto che «la fiducia nella verità ontologica della fotografia, quella ormai è demolita per sempre» è la diagnosi di Michele Smargiassi, che cita anche la sentenza definitiva di Franco Carlini: «nell’era del digitale, la presunzione di verità della fotografia deve finire». Nelle ultimissime pagine del suo libro, Smargiassi si chiede come si possa salvare la “capacità testimoniale della fotografia” e quel che resta del suo “ruolo sociale”. La sua proposta prevede di «trasferire l’onere della verità (del suo riconoscimento) dalle spalle deboli del medium alla razionalità forte del fruitore, che è l’autentico costruttore del significato dell’immagine». È una proposta razionale, ma non sappiamo come si possa realizzare in pratica. Di certo, non sarà possibile rifondare quella presunzione di verità, perché la rivoluzione digitale è ancora in atto e non ci sarà una restaurazione per il nobile mito di sir Francis Bacon. Non sarà dunque consentito alla fotografia un accesso privilegiato alla verità: anche la fotografia dovrà invece accettare le nuove regole del relativismo, riassumibili in tre citazioni da Addio alla verità, di Gianni Vattimo: uno: «La differenza tra vero e falso è sempre una differenza tra interpretazioni più o meno accettabili e condivise»; due: «Non c’è esperienza di verità che non sia interpretativa»; tre: «L’interpretazione riparte ogni volta da zero, con la propria contingenza, libertà e rischiosità». Se preferite, tornate alla citazione di Philip Roth. ❖



Parole. Parole. Solo parole di Maddalena Fiocchi (da FOTOgraphia , ottobre 2010)

Il Borghese

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Cronologia. Nel 1950, uscì il primo numero di una rivista quindicinale diretta da Leo Longanesi, intitolata Il Borghese, che divenne settimanale di lì a due anni. La testata si ispirava a valori come Dio, Patria e Famiglia, e il suo orientamento divenne esplicitamente nostalgico sotto la direzione di Mario Tedeschi, iniziata dopo la morte di Leo Longanesi, nel 1957. Da allora in poi, la rivista assunse spesso toni grossolanamente moraleggianti, sempre più reazionari, fino a sorpassare a destra il Movimento Sociale Italiano (Msi, segretario Giorgio Almirante, partito di riferimento). Mario Tedeschi morì nel 1993, e Il Borghese non fu più pubblicato fino al 1996, quando ripre-

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Vicino al Movimento Sociale Italiano [uno dei partiti della definita “Prima Repubblica”, che identifica il sistema politico italiano dal 1948 al 1994; comunque, partito all’estrema destra dello schieramento parlamentare], del quale è stato fiancheggiatore, assumendo posizioni in chiave pseudo-giornalistica, negli anni Sessanta, Il Borghese ha espresso una nostalgia del Ventennio in chiave ironica e satirica (a modo proprio). Caso unico nella cultura della destra italiana: ma, soprattutto, radice di molti malcostumi del giorno d’oggi. Nulla nasce da niente, e certe concezioni sopravvivono a tutto. Non muoiono mai (purtroppo)


se, prima sotto la direzione di Daniele Vimercati e poi, nel 1998, di Vittorio Feltri, che tentò di alzarne la tiratura associando al giornale videocassette sexy/ porno... e così l’affossò. Nel 2000, il figlio di Mario Tedeschi, Claudio, depositò nuovamente la testata, che da allora ricominciò a uscire in edicola: prima ogni sei mesi, poi ogni tre, e quindi mensilmente (circa). Non ci sarebbe nessun motivo per rispolverare un giornale del genere, e ci riferiamo alle edizioni originarie degli anni Sessanta, se le fotografie pubblicate ai tempi della direzione di Leo Longanesi e poi di Mario Tedeschi, che avevano lo scopo di bacchettare i politici e i personaggi più noti del tempo, non fossero insieme intriganti e rivelatrici di qualcosa di subdolo, ma decisivo nel costume del nostro paese.

IL BORGHESE Vicino al Movimento Sociale Italiano e consapevole della propria posizione del tutto estranea alle forze comprese nell’arco costituzionale, negli anni Sessanta, Il Borghese è stato un settimanale nostalgico. Ha espresso una nostalgia del Ventennio in chiave ironica e satirica, caso unico nella cultura della destra italiana. In altri paesi, per esempio nella vicina Francia, la satira non è appannaggio esclusivo della sinistra. In Italia, solitamente sì. La testata esiste ancora -come appena ricordato, dall’inizio del Duemila ha ricominciato a essere pubblicata, fino a uscire ogni mese [e non registriamo le alterne vicende successive, fino all’attualità dei nostri giorni]-, e non si è affatto ravveduta rispetto all’impostazione originaria. Ma, mentre all’epoca, in decenni più lontani di quanto il calendario potrebbe rivelare, Il Borghese viveva ancora di rendita per via della precedente direzione di Leo Longanesi, e si poneva come punto di riferimento culturale di una destra italiana (ahimè) apertamente fiera del proprio livore verso quelle che considerava le cause di ogni male del paese -donne, in-

vertiti (sic!), sottosviluppati (sic!), comunisti, socialisti e democristiani-, oggi anche i blog più reazionari e razzisti registrano la sua decadenza giornalistica. Spesso, il nostro direttore Maurizio Rebuzzini recupera oggetti curiosi nei mercatini di antiquariato, che interpreta e declina in senso sociale e di costume. Perché Rebuzzini lo salvi dall’oblìo, assegnandogli così una nuova attualità, un oggetto tra gli altri deve possedere quantomeno un requisito: deve intrattenere una qualche relazione con la materia fotografica. Deve testimoniare qualcosa del modo in cui la fotografia si proietta sulla società, contribuisce al costume o forse addirittura lo definisce. Su FOTOgraphia dello scorso luglio [2010] si è parlato di albumini turistici (e cartoline), del loro aspetto e della loro funzione, del ruolo che rivestono nei processi di formazione dell’immaginario collettivo sul mondo. Questa volta, di fronte a un ritrovamento analogo, ancora una volta in un mercatino antiquario, è il turno delle raccolte di fotografie che Le Edizioni del Borghese hanno pubblicato semestralmente negli anni Sessanta, riunendo immagini comparse sui numeri del settimanale (ricordiamo che ogni edizione del Borghese era divisa in due parti: una di soli testi, attorno alla seconda, centrale, di fotografie, che raccontavano qualcosa d’altro rispetto al giornalismo; è stata proprio questa seconda l’area satirica del settimanale).

DIDASCALIA (IN CAMPO AMPIO) L’intenzione satirica delle raccolte Fotografie del Borghese ha prodotto risultati oggettivamente rozzi, servendosi però di un sistema ingegnoso (e non ci esprimiamo con il proverbiale senno di poi, cerchiamo di proiettarci indietro nel tempo). L’effetto scaturiva dal rapporto tra le immagini e quelle che apparivano come didascalie: brevi testi collocati sotto l’immagine, che, senza essere minimamente esplicativi, mettevano in luce il motivo per cui la scena

presentata era condannabile e da condannare... dal punto di vista del settimanale. Nella prefazione al volume che raccoglie le fotografie pubblicate dal gennaio al giugno Sessantuno, l’allora direttore Mario Tedeschi afferma che questa unione tra immagini e parole sarebbe servita a «[prendere] certi signori per la collottola, e [obbligarli] a sbattere il muso sulla documentazione fotografica della loro maleducazione, della loro sbracatura, della loro indecenza», nella vana speranza di poterli correggere. A queste raccolte periodiche si aggiunge una seconda pubblicazione, in edizione unica, confezionata in modo analogo e orientata nella stessa direzione: Kodak di paglia (e già da sé, il titolo basterebbe a comporre un paragrafo di una possibile Storia sociale della Fotografia). Questa volta non ci sono didascalie; al loro posto, veri e propri balloon, come quelli dei fumetti (le nuvolette, per intenderci), fanno “parlare” i protagonisti delle immagini: e l’umorismo si genera così, assegnando una voce immaginaria ai personaggi presi a bersaglio. Imbocchiamo una deviazione, utile e necessaria. Walter Benjamin [filosofo, scrittore, critico letterario e traduttore tedesco; 1892-1940 / autore del fantastico e illuminante saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, spesso richiamato ed evocato su queste nostre pagine; per esempio, proprio in questo ambito, più avanti nel testo] ha sostenuto che, per essere lette e interpretate dall’osservatore, le fotografie hanno bisogno di essere accompagnate da istruzioni. La somiglianza tra le immagini fotografiche e l’immagine della realtà che siamo soliti guardare (e vedere?) è tale che le prime domande che sorgono spontaneamente di fronte a una fotografia riguardano non tanto la rappresentazione in sé, come avviene quando si osserva un quadro, ma l’esistenza del soggetto fotografico al di fuori dello spazio della raffigurazione, nel mondo.

Certo, un addetto ai lavori formula ben altre domande, senza dubbio molto meno ingenue, ma parliamo proprio degli interrogativi più immediati che si presentano alla mente quando si osservano le immagini fotografiche, cercando -per quanto possibile- di non lasciarsi influenzare da pregiudizi intellettuali o deformazione professionale. Le didascalie sono chiamate a rispondere proprio a queste domande originarie, a offrire un’indicazione su come leggere questo particolare tipo di immagini, così realistiche da essere, a prima vista, inquietanti (pensiamo al timore che uno scatto fotografico possa rubare l’anima). Ed è questo che fanno. Vediamo una strada vuota di una città che potrebbe essere europea, ma se la didascalia informa che si tratta di una fotografia scattata a Parigi, nel 1908, quell’immagine inizia ad assumere un significato più complesso. Prima ancora che dalla sua bellezza, una forte suggestione deriva proprio dal fatto che abbiamo la consapevolezza di osservare, oggi, l’aspetto che quella singola strada ha avuto in un dato momento del passato, non prima e non dopo.

INQUADRATURA (E RIENTRIAMO) Una caratteristica non certo secondaria delle immagini fotografiche è proprio quella di poter essere percepite e usate come documenti di prova del processo storico (Walter Benjamin: L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa; a cura di Enrico Filippini, prefazione di Cesare Cases, Einaudi, 1966; nuova edizione dal 1991, con una nota di Paolo Pullega). La tendenza a considerare le immagini fotografiche come prove della realtà è spontanea e fortissima, eppure la fotografia funziona come tante altre forme di rappresentazione: può essere aderente alla realtà, oppure no. Può dire il vero o il falso, anche a prescindere da qualunque pos-

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sibilità di falsificazione dell’immagine (con Lewis W. Hine, 1909: «La fotografia è verità, ma anche i bugiardi possono fotografare», oppure -ed è lo stesso- «La fotografia non sa mentire, ma i bugiardi sanno fotografare»). L’inquadratura costituisce di per sé una selezione. Una porzione di ciò che è visibile a partire da un precisato punto di osservazione, in un determinato momento, viene estrapolata dal proprio contesto. È così che, stringendo l’inquadratura il più possibile sulla statua di Saddam Hussein che viene sradicata dal proprio piedistallo, può succedere che lo spazio della raffigurazione sia completamente occupato dalle persone che circondano il monumento. Questo genera nell’osservatore l’impressione della presenza di una folla, quando magari, se potessimo abbracciare con lo sguardo il resto della piazza, scopriremmo che le persone inquadrate sono in realtà le uniche presenti. Il testo di Walter Benjamin appena citato è senza dubbio frutto del proprio tempo, ha subìto esagerate esaltazioni (?) e altrettanto esagerate stroncature. Non è privo di contraddizioni, ma ha molti meriti, tra i quali quello di aver puntato il dito su alcuni nodi che legano l’arte alla struttura della società che la produce e all’esperienza degli osservatori, che non hanno ancora risolto la propria problematicità. A proposito della pretesa verità fotografica, Walter Benjamin scrive: «Con Atget, le riprese fotografiche cominciano a diventare documenti di prova del processo storico. È questo che ne costituisce il nascosto carattere politico. Esse esigono già la ricezione in un senso determinato. La fantasticheria contemplativa liberamente divagante non si addice alla loro natura. Esse inquietano l’osservatore; egli sente che per accedervi deve cercare una strada particolare. Contemporaneamente i giornali illustrati cominciano a proporgli una segnaletica, vera o falsa, è indifferente» [corsivo del redattore].

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Di fatto, le fotografie sono percepite così, e le didascalie ne orientano la lettura. Ma che davvero si tratti o meno di “prove” è tutto un altro discorso. Ecco perché nascondono un carattere politico. Se le fotografie della deposizione della statua di Saddam Hussein mostrano una folla, l’opinione pubblica è portata a credere che in quel momento, in quella piazza, ci fosse effettivamente una folla. Per questo motivo, la fotografia rafforza prepotentemente la tesi proposta da chi la pubblica, ed è percepita facilmente come realtà e non come rappresentazione, o costruzione figurativa. Alcune immagini fotografiche restituiscono molto fedelmente un certo aspetto della realtà, da un determinato punto di vista, ma non è detto che sia così. Inoltre, le parole che accompagnano tali immagini sono in grado di modificare in larga misura la percezione del loro significato. Questo rende la fotografia strumento potenziale di manipolazione, e l’unico antidoto è la comprensione del linguaggio fotografico e della sua interazione con il linguaggio verbale. Per quanto riguarda le raccolte fotografiche di cui stiamo parlando -dopo aver deviato dalla retta via-, la questione è senza dubbio diversa, perché si tratta di satira e non di cronaca. La funzione delle immagini cambia insieme a quella delle didascalie, e di questo insieme Il Borghese ha fatto un uso apertamente fazioso ed evidentemente ironico. La satira ha il fine di svelare una verità meno ipocrita di quella ufficiale. Allora, se ciò che la satira pretende di mostrare senza veli è ancora più ingannevole di quello che si vuole criticare, significa che da qualche parte c’è qualcosa che non funziona: i presupposti della polemica di questa rivista sono stati e restano errati. Essere faziosi non è un male; invece lo è dare per veri presupposti che in realtà sono falsi. E alla base della satira proposta dal Borghese c’è l’idea che la dignità non riguardi ogni essere umano, ma solo qualcuno, che le donne siano una vergogna, l’omoses-

sualità un male da estirpare [e definire con spregio: invertito] e c’è il rimpianto nostalgico di una monarchia fuggita da Ortona (o Brindisi) e del Ventennio che servì. Farsi forti della legge del più forte è ingiustificabile e inumano, ma Il Borghese non è mai stato di questo avviso: tra le sue pagine, non mancano i richiami all’utilità delle frustate in un paese «dove tutti ormai si danno buscherature accompagnandole con le carezze» (Fotografie del Borghese, gennaio-giugno 1961, prefazione di Mario Tedeschi). Però, a quei tempi, le opinioni di cui si faceva portavoce non erano maggioritarie, per lo meno non ufficialmente, e avevano poca eco in parlamento.

LE FOTOGRAFIE DEL BORGHESE Le fotografie che apparivano sulle pagine del settimanale sono intriganti, bisogna ammetterlo, e siccome dischiudono una finestra sull’Italia di allora e sul suo modo di vedere il mondo, consentono riflessioni anche sull’Italia di oggi. Sono numerose le immagini che per l’epoca erano quantomeno osé, ufficialmente pubblicate con la scusa di fustigare l’immoralità delle donne, ufficiosamente offerte per la contemplazione dei borghesi, ma anche di quei ragazzini che poche stagioni più tardi sarebbero diventati i cosiddetti “sessantottini”: fotografie ammiccanti di donne procaci, adeguatamente discinte. In canottiera e calze a rete, seduta in posa da pin-up su sontuosi cuscini, una giovane Sandra Milo è affiancata all’immagine del ministro del lavoro Fiorentino Sullo, democristiano, in una strana posa, come un inchino prima di sedersi su una poltroncina cesellata: in abbinamento e combinazione, «Peccati di natura (nella foto, Sandra Milo)... / ... E peccati di Sullo (nella foto, il Ministro del Lavoro)». Il peccato associato a Sandra Milo è evidentemente Sandra Milo in sé e per sé, come donna, attrice e sex symbol. Quello di Sullo riguarda probabilmente la sua militanza nella sinistra democristiana.

Sempre con la scusa di moralizzare la società italiana dell’epoca, sulla stessa raccolta, si incontrano, ancora una accanto all’altra, una fotografia del 1890, che il settimanale intitola Le piccole bagnanti, e una del 1961, la cui didascalia recita Nuove usanze al bagno. Nella prima, due bambine vestite di tutto punto aiutano una terza a fare il bagno in una tinozza dalla quale emergono solo il busto e la testa ancora ornata di nastri bianchi della piccola. Alle spalle di questo trio, la presenza vigile di una balia. Nella seconda, invece, siamo in spiaggia, e in primo piano campeggia una ragazza in bikini. È verosimile che questa sia una delle prime immagini italiane di un costume da bagno a due pezzi, capo d’abbigliamento molto audace per l’epoca, che -secondo Il Borghese- non poteva che essere segno dello sfascio morale del paese. Comunque, a ogni buon conto, la fotografia fu pubblicata. La moralità delle donne è uno dei temi ricorrenti delle raccolte fotografiche del Borghese, e le scollature che era possibile contemplare nei primi anni Sessanta sulle pagine del settimanale difficilmente potevano trovarsi in altre riviste, per lo meno tra quelle esposte in bella vista sui tavolini dei salotti. Ma c’è un altro tema che all’epoca era del tutto tabù e non veniva affrontato da nessuno, né a destra né tantomeno a sinistra, sul quale il periodico reazionario ritorna invece con insistenza: l’omosessualità. Non che affrontasse questo tema in maniera adeguata: il termine sempre utilizzato è «inversione sessuale», e questo già la dice lunga. Ovviamente, il personaggio più bersagliato di tutti è Pier Paolo Pasolini, e nella confusione che veniva volutamente creata intorno all’argomento non si faceva nessuna distinzione, per esempio, tra omosessualità e travestitismo (ma ancora oggi purtroppo non sono in molti a saper distinguere).

CASELLARIO Adesso che siamo nel 2010 [e, poi, nell’attuale 2018, con altri otto anni in più], grazie agli intenti


moralizzatori del Borghese abbiamo a disposizione immagini eccezionali di uomini vestiti da donna negli anni Sessanta. Ce n’è una che ritrae un cittadino torinese in abiti femminili; il travestimento è talmente ben riuscito, che senza l’indicazione fornita in didascalia sarebbe difficile accorgersene. Didascalia: «Il “nuovo gusto” italiano - Il torinese XY [in originale, nome e cognome per esteso], fermato dalla polizia di Bari dove si esibiva in un locale notturno». A fronte, in accostamento visivo, un uomo affascinante, l’attore Massimo Girotti (apparso in Dora Nelson, di Mario Soldati, del 1940, e diventato famoso per l’interpretazione in Ossessione, di Luchino Visconti, del 1943), appisolato su una poltrona, indossa scarpe inglesi, calzini scuri in filo di scozia e una canottiera bianca coperta da una severa veste di scena: «L’attore Massimo Girotti - Ha cominciato con Visconti». I «diversi» -donne, omosessuali, poeti, travestiti e uomini di spettacolo- non sono l’unico obiettivo polemico del Borghese. La maggior parte delle fotografie raccolte hanno per soggetto i politici italiani. Il Borghese non risparmia nessuno e colpisce tutti i partiti, a parte il Movimento Sociale di Almirante: senza soluzione di continuità, da destra a sinistra, passando per il centro, dai liberali, ai democristiani, ai repubblicani, socialisti e comunisti. A quel tempo, Giorgio La Pira (Dc) era sindaco di Firenze o stava per diventarlo: un suo primo piano sorridente e di profilo, sovrastato da un ritratto di Giuseppe Mazzini, è accostato all’immagine della cantante Mina assorta nei propri pensieri, dietro la quale si vede bene un ritratto di Garibaldi appeso alla parete. Sotto le fotografie si legge: «Triste fine del risorgimento - Mazzini con Giorgio La Pira... / ... e Garibaldi appeso in capo al letto della “urlatrice” Mina». Pietro Nenni, segretario del Partito Socialista, è uno dei bersagli preferiti del Borghese; lo troviamo sia nelle immagini del Ses-

santuno sia in quelle del Sessantotto, ed è ben visibile sulla copertina di Kodak di paglia, la monografia composta nel 1964 da Enrico Basile. In questa raccolta, le donne compaiono meno e uno spazio maggiore è riservato a politici, potenti e reali. Curiosamente, troviamo persino un fotografo in veste reale e una Rolleiflex: lord Snowdown (Antony Armstrong-Jones) è immortalato insieme alla moglie, la principessa Margaret, e la biottica inquadra una avvenente Sophia Loren (ai tempi, ancora Sofia). Curiosi i balloon sovrapposti alle immagini in sequenza di lord Snowdown e della principessa Margaret, che evocano una conversazione familiare, poco regale, che intende essere ironica: risultato patetico. Possiamo dire altrettanto della combinazione forzata tra il seno prosperoso di Sophia Loren e la Bibbia: avrebbe voluto essere satira. Fidel Castro, Nikita Krusciov, Aldo Moro, Pier Paolo Pasolini, la regina d’Inghilterra, Mina, Yul Brynner, Brigitte Bardot, Aristotele Onassis, Farah Diba sono solo alcuni dei personaggi che compaiono in questa raccolta, che per un osservatore odierno si trasforma in autentico documento di costume.

LEZIONE DAL PASSATO Lo stesso vale per i volumi delle Fotografie del Borghese, per i quali consideriamo significative le edizioni gennaio-giugno 1961 e luglio-dicembre 1968, in ordine temporale la prima e l’ultima tra quante in nostro possesso. Sfogliando quello che raccoglie le immagini apparse da luglio a dicembre del Sessantotto, ci si imbatte nella guerra del Vietnam, nei carri armati a Praga, nella contestazione, ancora in Brigitte Bardot e in Pasolini, molto spesso in Giovanni Leone, allora presidente del Consiglio, in fotografie scattate a feste hippy e persino in un’istantanea che ritrae il giovane Daniel Cohn-Bendit, al suo esordio politico. È proprio in questa edizione che troviamo una fotografia di Al-

do Braibanti, omosessuale dichiarato, che ha subìto l’unico processo per plagio nella storia italiana, e che fu condannato: «Nuovi fusti - Aldo Braibanti: il comunismo “a posteriori”». All’epoca, si mobilitarono in suo favore intellettuali del calibro di Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Umberto Eco e Marco Bellocchio, ma tra le forze politiche italiane nessuno osò aprire bocca. Nell’Italia dei tardi anni Sessanta, un omosessuale dichiarato era indifendibile, non solo per i cattolici della Dc ma anche per il Pci (nonostante Aldo Braibanti fosse comunista militante e ex partigiano). Il processo, che si servì della legge sul plagio introdotta nel codice durante il fascismo per arginare le istanze libertarie che cominciavano a essere rivendicate proprio in quel periodo, fu contestato solo da forze politiche che si riconoscevano nel pensiero anarchico oppure in quello radicale, ovviamente avverso a quella legge. Certamente, Il Borghese non difese Aldo Braibanti, ma il solo fatto di parlare del suo caso, altrove ignorato, pose la testata fuori dal coro. Tornando sul seminato, a proposito del messaggio che questa operazione di accostamento di immagini e parole ha veicolato, con Fotografie del Borghese / luglio-dicembre 1968 non si può sorvolare su pagine come quelle che sto per descrivere. Sotto un’immagine a colori che ritrae in primo piano alcune donne africane che portano grandi pentole in equilibrio sulla testa si legge: «Presenza europea in Africa - L’uomo bianco è nella pentola». Sotto i ritratti accostati di un operaio edile e del pittore Giorgio de Chirico, la didascalia recita: «Sintesi della democrazia - il voto del compagno edile... / ... vale quello del Maestro pittore». Il ritratto di una donna di mezza età, con una bambola in braccio, associato alla didascalia «Italia dimenticata - Sognando un bambino...», è affiancato a quello della giovane attrice Lisa Gastoni, completamente nuda: «Italia fil-

mata - Ringraziando la pillola...». Un altro accostamento che la dice lunga. Ritratto di un giovane africano e fotografia antropometrica: «I traguardi del “potere negro”:... / ... una testa in ogni pentola»: da ribaltarsi dalle risate! Finiamo in bellezza, forse. Una fotografia scattata in Africa, nel 1882, che ritrae Pietro Paolo Savorgnan di Brazzà insieme a due congolesi, è accostata a un’immagine a colori che pare tratta da un film della [terribile] genìa di Tarzan, nella quale si vede un guerriero dalla pelle scura che tenta di strangolare un muscolosissimo biondastro: «Le catene del colonialismo sono infine spezzate... / ... i sottosviluppati sono alla pari coi bianchi». Trascorsi i decenni, oltre a essere preziosi documenti di costume, queste raccolte fotografiche del Borghese aiutano a capire che un certo linguaggio, quello che oggi imperversa nel nostro paese, e ha trovato addirittura dimora stabile in parlamento, non è esattamente una novità prodotta soltanto dagli ultimi trent’anni di televisione. È frutto di qualcosa che in Italia non è mai morto (come insegna Renato Sarti, con il suo spettacolo intitolato Mai Morti, dal nome di un battaglione della famigerata Decima Mas), una mentalità e un insieme di credenze che solo per un periodo di tempo limitato hanno abbassato un poco il tono, perché la parte più civile della società era riuscita a stigmatizzare certi comportamenti tanto da renderli socialmente inaccettabili. Ma i presupposti culturali che li generavano hanno sempre continuato a vivere, fino al momento in cui l’anestesia dello spirito critico, prodotta certamente anche dalla televisione italiana degli ultimi trent’anni, ha permesso a quei sentimenti deteriori di rafforzarsi abbastanza da poter sdoganare il proprio linguaggio, fino a farlo sembrare normale e accettabile, se non addirittura vincente, tanto da essere usato persino da certi “rispettabili” giornalisti e politici di oggi. ❖

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Parole. Parole. Solo parole di Antonio Bordoni (da FOTOgraphia , marzo 2001)

Genìa Horizon(t)

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Con la fotografia panoramica abbiamo appuntamenti continui, addirittura costanti. A partire dal nostro secondo numero del giugno 1994, abbiamo scritto tante volte di apparecchi a obiettivo rotante: Horizon, Noblex e RoundShot a rotazione completa di 360 gradi. Una volta ancora e una di più, torniamo sull’argomento per riferire la particolare visione orbicolare (termine coniato in proprio, ormai diventato patrimonio comune) alla fotografia di cielo, alla visione e rappresentazione delle nuvole. Non si tratta di una applicazione casuale, ma -più concretamente- di una declinazione particolare, appunto panoramica a

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obiettivo rotante, di un gusto visivo cominciato decenni or sono. Anche in assenza di riferimenti esatti e geometricamente riconoscibili, la differenza tra la tradizionale fotografia di cielo e la fotografia panoramica a obiettivo rotante rimane sostanziale. E ripete inalterati i termini fotografici che distinguono, rispettivamente, l’inquadratura con obiettivi fissi sul piano focale e visione centro-periferica dall’osservazione orbicolare da destra a sinistra.

VISIONE TONDEGGIANTE Considerata la similitudine tra i fotogrammi, quando si affronta il discorso della fotografia panora-

mica, la si deve distinguere da quella semplicemente panorama. Panoramica è la fotografia con obiettivo rotante, mentre panorama è l’inquadratura volontariamente limitata, sempre esposta con prospettiva centrale e visione angolare centro-bordi. La definizione panorama è adeguata agli apparecchi fotografici 24x36mm che possono ridurre il formato di ripresa all’inquadratura 12 o 13x36mm, ai dorsi o agli adattatori 24x54 e 24x65mm degli apparecchi medio formato 4,5x6, 6x6 e 6x7cm, ai magazzini portapellicola 6x12 e 6x17cm e alle macchine fotografiche di pari dimensioni, oltre

che alla recente Hasselblad XPan (FOTOgraphia, novembre 1999). In tutti i casi, formati a parte, si tratta sempre di fotografia inquadrata e composta con rapporto 1:2 o 1:3 tra i lati del fotogramma, ripresa con prospettiva centrale e visione angolare centro-bordi. A differenza della fotografia panorama, l’autentica fotografia panoramica non si esaurisce nella sola apparenza del fotogramma accelerato, che pure la caratterizza. La visione panoramica dipende, invece, dalla rotazione dell’obiettivo e, dunque, si basa su una diversa idea prospettica: non più periferica centro-bordi,


Testimonianza d’uso con osservazioni personali. Per quanto la rotazione dell’obiettivo venga solitamente riferita soprattutto alla fotografia di paesaggio, sovvertiamo i termini del discorso. Con la panoramica sovietica/russa Horizont (ieri) e Horizon (oggi) alziamo gli occhi al cielo, dove si ripetono le connotazioni dell’arrotondamento caratteristico della raffigurazione orbicolare. Metodi di pensiero e lavoro ma sistematicamente perpendicolare al punto di vista. Tutto il campo inquadrato -cioè tutto il campo fotografico abbracciato dall’obiettivo- è osservato con una visione sistematicamente ortogonale alla porzione di film esposto in rapida successione. È questo un filone tecnico antico, avviato agli albori della fotografia dal primo apparecchio a obiettivo rotante progettato e costruito, nel 1844, da Friedrich von Martens (1809-1875), cittadino tedesco residente a Parigi. Commercializzata a partire dal successivo 1845, la Megaskop originaria utilizzava lastre dagherrotipiche incurvate: alla George Eastman House, di Rochester (Stati Uniti), è custodito un suo dagherrotipo panoramico di Parigi dal Louvre, di 9,5x32cm. Per quanto la fotografia panorama si basi sulle considerazioni prospettiche tipiche e caratteristiche della più normale ripresa fotografica, con obiettivo perpendicolare al proprio piano focale e centrato sul formato esposto (pur con rapporto forzato tra i lati), la visione panoramica deve fare i conti con la rotazione programmata dell’obiettivo e con quanto questo comporta. L’osservazione panoramica, costruita con la scansione dell’obiettivo di ripresa, è di per sé otticamente precisa e pertinente. Non dipende dalla inquadratura centrale e periferica di obiettivi dall’ampio angolo di campo, quanto dal percorso orizzontale dell’obiettivo rispetto alla pellicola, disposta curva sul suo fuoco: la visione panoramica rappre-

senta su un piano (bidimensionale) un campo originariamente distribuito lungo l’orizzonte. In molti casi, con soggetti lineari inquadrati da punti di vista sostanzialmente vicini, questo comporta un arrotondamento cilindrico più o meno evidente delle geometrie originali. Il fenomeno è tanto maggiore, quanto più breve è la distanza di ripresa; se tale distanza è -al contrario- molto grande, l’immagine non sembra più arrotondata.

alla disposizione in bolla della macchina fotografica panoramica, affinché l’arrotondamento caratteristico della sua visione non venga compromesso dalla fuga dei piani male inquadrati. Oppure, si può trasgredire volontariamente questa condizione ottimale, per cercare sintonie visive nuove e autonome, magari arbitrarie, che distribuiscano sul fotogramma orbicolare anche una scombinazione prospettica, altrettanto volontaria.

ACCORGIMENTI PROPRI Se indesiderato, l’arrotondamento caratteristico della visione panoramica può essere minimizzato, o addirittura evitato, scegliendo un punto di vista opportuno. Per esempio, si deve evitare la monotonia dell’arrotondamento centrato sul fotogramma, cioè dell’arrotondamento bilaterale simmetrico dell’immagine, interrotto a destra e a sinistra dai bordi esterni del fotogramma: con l’occhio dell’osservatore che va e viene sull’inquadratura senza trovare un ritmo visivo corretto che lo interessi. Il più comune rimedio è la scelta di soggetti al possibile privi di elementi comunque paralleli: è su questi che gli apparecchi fotografici a obiettivo rotante arrotondano. Il più efficace rimedio sta poi nel trovare angolazioni che pongano le parti laterali del soggetto più vicine al punto di ripresa, in modo che sul fotogramma vengano riprodotte grandi più o meno come le parti centrali. In tutti i casi, una particolare attenzione deve essere riservata

VALORI TECNICI Il tempo di esposizione del fotogramma Horizon è determinato dalla combinazione tra la stretta fessura di scansione e la velocità di rotazione dell’obiettivo. Ambedue variabili, si accordano per consentire l’impostazione di valori consueti, da 1/2 secondo a un 1/250 di secondo, da abbinare alle aperture del diaframma da f/2,8 a f/16 (questo, per l’attuale Horizon 202, con un rinnovato obiettivo grandangolare MC HR Pan 28mm f/2,8: quarantacinque gradi di angolo di campo verticale e centoventi gradi di visione orbicolare orizzontale). In tutti i casi, è evidente che i tempi di esposizione brevi dipendono da una rotazione rapida dell’obiettivo, mentre i tempi lunghi si ottengono con una rotazione sistematicamente più lenta. Confermando una configurazione che nasce con l’originaria Horizont sovietica del 1967, l’obiettivo è regolato sull’iperfocale, per consentire la massima profondità di campo che si estende da 5,5 metri all’infinito a f/2,8,

per arrivare fino a un’estensione massima, al diaframma f/16, che parte da un metro per arrivare sempre all’infinito. La Horizont/Horizon espone panoramiche 24x58mm, caratterizzate dall’inconsueto rapporto 1:2,4 tra i lati. Una comune pellicola 35mm da trentasei pose consente di ottenere ventitré fotografie panoramiche, mentre con un rullo da ventiquattro pose se ne ottengono quattordici e solo sette con un film da dodici pose. I negativi panoramici 24x58mm vanno stampati con ingranditori 6x6cm. Le diapositive panoramiche debbono essere montate in appositi telaietti sagomati, e vanno proiettate con diaproiettori 6x6cm.

APPLICAZIONI CONSUETE Indipendentemente dai nostri odierni cieli annuvolati, come abbiamo già annotato, una delle utilizzazioni tipiche della visione panoramica della Horizont/Horizon riguarda la fotografia di paesaggio, esaltata dalle prestazioni che si concretizzano nel particolare formato e nella inconsueta inquadratura orbicolare. A seguire, non va ignorata la documentazione del territorio. Per esempio, si possono realizzare immagini assolutamente descrittive, quali l’inquadratura di una piazza insieme alle due o tre strade che vi confluiscono radialmente. Al di là di queste applicazioni primarie, la Horizont/Horizon panoramica (come ogni altro apparecchio a obiettivo rotante) può essere impiegata anche nella figura ambientata, a patto di saper adattare la visione sia al formato sia alle caratteristiche in termini di resa prospettica della ripresa a obiettivo rotante. In molti casi, questa macchina è stata comunque utilizzata anche da professionisti che si occupano di reportage, inteso non solo in senso geografico. Infatti, le ragioni per accettare di buon grado le caratteristiche estetiche della fotografia panoramica sono molte e molto serie. La prima è di ordine informativo: è evidente che in non pochi casi la possibilità di descrivere -sep-

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pure in maniera arrotondatacentoventi gradi di soggetto fa piuttosto comodo. Quindi, non possiamo ignorare esperienze fotografiche meno utilitaristiche, che si riferiscono al rapporto tra la comunicazione visiva e l’apparecchio fotografico a obiettivo rotante. A conti fatti, la Horizont/Horizon permette di fotografare l’insieme persone/ambienti proprio come li si vede/ percepisce dal vivo. Permette di rivelare rapporti di complessa figurazione, così come se ne fa esperienza diretta. Mentre l’obiettivo compie il suo giro, e ritrae ciò che sta accadendo davanti, ognuno può sentire il flusso degli eventi ripresi esattamente come questi accadono. Certamente, la fotografia panoramica realizza una deformazione totale dello spazio e del tempo, ma tale deformazione è assolutamente naturale dal mo-

mento che tutti ci muoviamo nello spazio e nel tempo. ❖

Al giorno d’oggi: Horizon 202 e dintorni Noi frequentiamo la fotografia panoramica da molto tempo, addirittura dalla sovietica Horizont, prodotta in 49.849 pezzi dal 1967 al 1973 (fonte ufficiale dalla fabbrica di Krasnogorsk), e dalla precedente FT-2, del 1958-1965 (FOTOgraphia, maggio 1994). Distribuita da Silvestri Fotocamere [allora, nel marzo 2001], l’odierna Horizon 202 replica la sostanza delle caratteristiche tecniche della Horizont originaria, riunite in un corpo macchina agevolmente più moderno e attuale. L’obiettivo di ripresa MC HR Pan 28mm f/2,8, con scala di diaframmi fino a f/16, ha una visione angolare di quarantacinque gradi in verticale (con prospettiva centro-periferica) e centoventi gradi in rotazione panoramica orizzontale. Privo di regolazione della messa a fuoco, è accomodato sull’iper-

focale, che è poi la minima distanza di messa a fuoco dalla quale la profondità di campo si estende fino all’infinito. Alle diverse aperture del diaframma corrisponde un limite vicino sistematicamente più prossimo al punto di ripresa: sempre fino all’infinito, al diaframma f/2,8, la profondità di campo si estende da 5,5 metri; al diaframma f/4, da 3,9m; a f/5,6, da 2,9m; a f/8, da 2m; a f/11, da 1,5m; a f/16, da un metro. Ribadiamo da... fino all’infinito. La regolazione manuale dei valori di esposizione si basa sulla consueta combinazione tra tempo di otturazione e apertura del diaframma. L’otturatore è regolabile su una doppia scala, abbinata alla rotazione veloce e lenta dell’obiettivo: tempi veloci di 1/60, 1/125 e 1/250 di secondo; tempi lenti di 1/8 e 1/4 di secondo e 1/2 secondo. A seguire, su ordinazione è disponibile anche una configurazione Horizon 202 Silent, con motore di rotazione estremamente silenzioso (appunto), basato su un sistema di raffi-

nati rotori che per estensione contengono il rumore. A breve, attendiamo quindi la versione Horizon Pan 120 PC: è chiaro, per pellicola a rullo 120 [in soli ventiquattro esemplari, dal 2000 al 2005: fonte ufficiale].

Accenni storici La prima panoramica sovietica a obiettivo rotante è stata la FT-2, dall’uso improbabile (dal 1958 al 1965; FOTOgraphia, maggio 1994), Successivamente, è stata progettata e costruita la più agile Horizont, che ora si è ulteriormente evoluta nell’attuale configurazione Horizon 202. Panoramica dall’estetica squadrata e spartana, la Horizont è stata prodotta nella fabbrica di Krasnogorsk, nei pressi della capitale Mosca, dove ancora oggi si costruisce l’odierna Horizon 202. È rimasta in produzione dal 1967 fino al 1973, con alterne quantità: anno dopo anno 3510 pezzi, 8001 (perché uno?), 10.024, 10.041, 11.000, 7227 e ❚ soltanto quarantasei alla fine.


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Parole. Parole. Solo parole di Grazia Neri (da FOTOgraphia , marzo 2005)

L’amico Tiziano Terzani

Q

Quando l’ho incontrato, Vincenzo Cottinelli aveva appena lasciato la sua vecchia professione. Ricordo che mi mostrò delle fotografie di una cara straordinaria comune amica, Grazia Cherchi [stimata e apprezzata editor e giornalista letteraria]. Grazia non era una persona facile da fotografare, perché si sottraeva istintivamente a qualsiasi celebrazione. Le fotografie di Vincenzo Cottinelli la ritraggono rilassata e riescono a evidenziare il brillio di una intelligenza acuta, anticonformista, ma nello stesso tempo con radici profonde nella cultura classica. Lei, così ritrosa, è fotografata con un sorriso indimenticabile, anche quando è ripresa con alcuni celebri amici del mondo intellettuale: se ne deduce la sua ritrosia, ma anche la sua contemporaneità. Nello stesso periodo, Vincenzo Cottinelli mi presentò alcune fotografie della scrittrice Lalla Romano che la rivelano nella sua algida rigidità, ricca di cultura e conoscenza e non lontana -peròdalle vicissitudini che ci travagliano nella nostra esistenza. Sono seguìti anni in cui Vincenzo Cottinelli ha programmato e realizzato una serie eccezionale di fotografie di intellettuali, scattate in diverse situazioni, atmosfere, paesi. Il suo archivio è ormai un tesoro da esplorare. Se è vero che lo sguardo di una persona è il risultato della sua memoria culturale, è anche vero che per trasmettere al pubblico un ritratto in profondità di una persona occorre possedere conoscenza e cultura. Solo con questi strumenti si può scalfire la “superficie” alla quale accenna Richard Avedon. La ritrattistica fotografica è ricca di stili. Celebrativa e supermanipolata (esercito di pi.erre, truccatori, stilisti, parrucchieri), ritratti standard per archivi o news (lavoro professionale utile per l’illustrazione), istantanee familiari (nel-

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Ritrattista di scrittori, ma non solo, Vincenzo Cottinelli ha avuto il privilegio di fotografare Tiziano Terzani e i suoi familiari, dal settembre 1995 a fine maggio 2004 (quando lo scrittore è mancato), in occasioni pubbliche e private, sempre nel segno dell’amicizia. Circa cento fotografie sono raccolte nella selezione Omaggio a Tiziano Terzani / Fotografie di un’amicizia, allestita in mostra e impaginata in libro edito da Vallardi. Dalla monografia, riprendiamo l’introduzione di Grazia Neri le quali si trovano spesso fotografie eccezionali), aggressiva e superficiale tendente a celebrare lo stile più che il contenuto (Rankin, per esempio), minimalista e trendy (scattata per essere alla moda e in una falsa austerità), ingombrata e stucchevole alla fine come quella del celebre David LaChapelle. Questi stili, e altri, riempiono le pagine dei giornali e le Gallerie di Fotografia. Ma quale è lo stile di Vincenzo Cottinelli? Per me, si manifesta in un modo particolare: Vincenzo Cottinelli, conoscitore delle opere degli autori, ricco di letture, politicamente vibrante nella quotidianità, culturalmente disponibile all’incontro, “innamorato” e “affascinato” dal soggetto che ha di fronte a sé (accettando il poco tempo che gli è concesso), attraversa la fascia sensibile della persona ritratta e rivela il gioco a tre della fotografia ritrattistica: il fotografo, la persona fotografata e il pubblico che la guarderà. E lo fa con occhio rispettoso: così, lo vedo fotografare ad Arles

o in Toscana, al TPW, o a Perpignan, desideroso di sfruttare una possibilità di accesso, ma non intrusivo. Cosa vuole raccontare? Cosa vuole trasmettere? Vincenzo Cottinelli vuole rassicurare che dietro i suoi ritratti c’è una persona eccezionale, che segna la storia, che aiuta con le sue opere ad affrontare il quotidiano senza dimenticare fragilità e coraggio e che ci permette di essere un po’ “voyeurs” e ci dà sicurezza. Avete in mente con quale ansia andiamo a vedere i ritratti degli scrittori che appaiono nei risvolti dei libri (purtroppo, sempre di meno)? Lo stile di Vincenzo Cottinelli è conoscenza, cultura e una positiva infatuazione, che gli permette di ritrarre con una sorta di protezione affettiva le persone che fotografa. Vincenzo Cottinelli ha avuto il privilegio di fotografare Tiziano Terzani, dal 1995 al 2004, restando con lui a lungo e con amicizia. Ne ha tratto questa raccolta, che a mio avviso celebra un aspetto importante della fotografia: il ricordo e la memoria. Così è riuscito a

raccontarci un Terzani più intimo, ma determinato nella propria immersione nell’Oriente, avvicinandoci al suo fascino, alla sua conoscenza, alla sua storia. Personalmente, ricordo un Tiziano Terzani giovane, forte, ricco di determinatezza, appoggiato a una finestra del mio ufficio di via Senato 18, che mi spiega la sua illuminante decisione di andare in Cina come corrispondente dello Spiegel. Il suo abbigliamento è ancora totalmente occidentale. Nei suoi occhi scintilla la gioia di un avvenire ricco di scoperte, al quale si sta per abbandonare senza paura. Trascorrono gli anni, leggo i suoi articoli e i suoi libri, e ora mi ritrovo questa raccolta di fotografie ricche di interesse e di storia. George Bernard Shaw, drammaturgo inglese, aveva scritto che «Il fotografo è come un merluzzo: depone un milione di uova, perché possa schiudersene uno». In questo caso non è così. È stato difficile editare fotografie che hanno il pregio di metterci in contatto immediato con Tiziano Terzani. Sono molte, e tutte hanno il pregio della grande onestà e immediatezza. Le prime fotografie sono più timide, ma già rivelatrici della cultura e conoscenza di Vincenzo Cottinelli, e da quelle si arriva alle fotografie scattate poco prima della morte dello scrittore, che riferiscono in modo diretto, tenero ma mai dolciastro, l’accettazione -direi “vittoriosa”- di Tiziano Terzani della morte imminente. Vittoriosa perché conscia di una vita dedicata all’“altro”, per rivelargli il piacere e la necessità di aprirci ad altre culture, anche se poco conosciute e con radici affondate nel passato, e di tenere ben lontana la paura, inutile fantasma che ci rende ciechi verso la conoscenza. Sono fotografie che entrano nel cuore con delicatezza e una leggera ironia. Alcune svelano il mistero del silenzio.


Nello scorrere degli anni, sempre più mi affascinano le fotografie del passato come necessaria memoria, testimonianza, piacere per il futuro. Nell’incantevole libro Paris et la photographie. Cent histoires extraordinaires de 1839 à nos jours [Parigramme, 2003; riedizione 2013], ho avuto una conferma straordinaria del legame che intercorre tra il fotografo, la persona fotografata e il suo pubblico. Qui, tra le fotografie commentate, mostrate e analizzate, c’è il celebre ritratto di Rimbaud scattato da Étienne Carjat. L’autore fotografo, affascinato dal poeta e in lite con il suo carattere aggressivo e fantasioso, distrusse per pura rabbia due delle tre fotografie scattate. Mi domando come sarebbe stata la mia vita senza il ritratto fotografico di uno dei miei poeti preferiti. Vedo tanti giovani che leggono i libri di Tiziano Terzani, e mi auguro che uno di questi ritratti di Vincenzo Cottinelli diventi una icona così leggendaria come quella di Rimbaud, e che questa raccolta inviti a ricordarlo con la serenità che lui avrebbe preteso dal proprio pubblico. ❖ Riunita in mostra, la serie Omaggio a Tiziano Terzani / Fotografie di un’amicizia , di Vincenzo Cottinelli, è raccolta anche nel libro Tiziano Terzani. Ritratto di un amico, con testi di Grazia Neri ( Fotografia ritrattistica: Cultura e Conoscenza, qui riproposto), Ettore Mo e dello stesso Vincenzo Cottinelli, ritrattista di scrittori (ma non solo), che ha avuto il privilegio di fotografare Tiziano Terzani e i suoi familiari, dal settembre 1995 a fine maggio 2004. Pubblicata da Vallardi [2005], la monografia di centotrentadue pagine raccoglie circa cento immagini, selezionate da Grazia Neri e dall’autore con il contributo di Angela e Folco Terzani. Il libro è presentato in anteprima a Udine, il sette maggio [2005], nell’ambito del convegno Vicino/Lontano e in occasione del primo Premio Letterario Tiziano Terzani. Realizzata con il contributo di Fujifilm, la mostra è programmata alla Galleria Grazia Neri, via Maroncelli 14, 20154 Milano. Dal diciotto maggio al dieci giugno.

Giornalista, scrittore, ma anche fotografo Incontro Tiziano Terzani, a Milano, nel settembre di dieci anni fa [1995], per la presentazione di Un indovino mi disse. Hotel Manin, in coda dopo i giornalisti e prima di altri “fotografi di scrittori”, come ci definiscono o ci definiamo: un’etichetta che allora mi lusingava, dopo non più tanto. Non so nulla di lui, se non che è importante che io l’abbia nel mio archivio di stampine da dare all’Agenzia Grazia Neri: non c’era -per me- il digitale. In attesa del suo arrivo, sfoglio l’Indovino, e penso fra me “questo assomiglia a Ryszard Kapuściński”. Poi, all’incontro, comincio a fotografare a raffica, mentre lui, senza nemmeno vedermi, racconta di sé ai giornalisti: ne esce una sequenza dinamica, tutta mani e occhi e baffi. Poi, per gli scatti posati in giardino, percepisco subito una qualità superiore. A parte la sua gioia sincera quando lo paragono al grande “Kapu”, vedo che non ho da dirgli nulla: posa con una intensità rara e una precisione assoluta di sguardi, si diverte, collabora. Si capisce che lo fa un po’ per vanità, per “riuscire bene”, ma molto per facilitare il lavoro a me, per solidarietà, per colleganza, lo capirò tempo dopo. Qui nasce il mio ritratto più di successo, quello di lui a mani giunte che ti guarda dritto e intenso, il più venduto e il più rubato, il più usato per le copertine dei suoi libri. Quando lo vedrà, settimane dopo, insieme agli altri, mi sfotterà nominandomi “fotografo alla corte di Delhi”, un modo per invitarmi a fargli visita. Tempo dopo, scopro Buonanotte, signor Lenin, che era uscito nel 1992, illustrato con quarantasette sue fotografie (avrebbero meritato una qualità di stampa tipografica ben superiore!), che non soltanto è un libro bellissimo, appassionante, avvincente, ma rivela un Tiziano Terzani fotoreporter di classe: asciutto, sobrio, essenziale. Dà l’informazione necessaria con un bianconero di composizione classica. Che stoffa! Ecco perché mi rispetta come fotografo, ecco perché collabora nel modo giusto quando lo riprendo, non senza qualche osservazione acuta su come sto operando, o addirittura suggerendo la location.

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Sono convinto che il suo archivio sterminato, cui ho potuto dare un’occhiata già nel 1999, quando lui cominciò a pensare di riordinarlo per farne un libro, meriterà un approfondimento, e non solo un utilizzo come fonte illustrativa di testi. Vietnam, Cambogia, Cina, Giappone, le repubbliche sovietiche in disfacimento, fino all’Afghanistan e, da ultimo, l’India: pensate un po’ che raccolto, dal 1970! Nel novembre 2002, era venuto a trovarmi a Brescia, con la moglie Angela, perché presentassi loro il mio metodo (in verità assai banale) di archiviazione -cartacea e in parte digitale- di negativi e provini. Ma credo che non abbia potuto fare più di tanto per il suo archivio, perché la malattia lo ha spinto a concentrarsi sulla scrittura (e infatti ci ha dato un capolavoro come Un altro giro di giostra. Viaggio nel male e nel bene del nostro tempo [Longanesi & C, 2004]). Però, si sa che negli ultimi mesi, prima della morte, ha lavorato intensamente con il figlio Folco a un nuovo libro, che sarà in gran parte basato sulle sue fotografie, sulle immagini dei suoi grandi viaggi e reportage. Aspettiamo con grande curiosità. [Nel 2006, Longanesi & C ha pubblicato La fine è il mio inizio, libro postumo di Tiziano Terzani scritto a quattro mani con il figlio Folco; dal libro è stato tratto il film Das Ende ist mein Anfang, del 2010, diretto da Jo Baier e sceneggiato dallo stesso

Folco Terzani e Ulrich Limmer, con Bruno Ganz nel ruolo di Tiziano Terzani, distribuito in Italia, dal 2011, con lo stesso titolo del libro]. Vincenzo Cottinelli

La fotografia Accontentiamo anche la curiosità, a un tempo concreta e un poco feticistica, di sapere come e con che apparecchi fotografava Tiziano Terzani. Io l’ho conosciuto relativamente tardi, quando già, per pigrizia e comodità, aveva riposto nel cassetto le attrezzature più preziose. Ma ci sono diverse fotografie, tra le quali una in particolare, che si vede nei risvolti o nelle quarte di copertina delle successive edizioni di Buonanotte, signor Lenin, che rivelano la sua attrezzatura: con cinghia corta, ha al collo una Leica M2 con il Summicron 35mm, e poi, allacciata a una cinghia ben più lunga, si riconosce una Nikkormat munita di Nikkor 135mm. Scelta classica dello scrittore-giornalista-reporter degli anni Settanta, “rapido ed essenziale”, che non si può permettere borse, perché ha già nello zaino la leggendaria Olivetti Lettera 22 (poi avrà il computer portatile), e ama la semplicità operativa della Leica come strumento tutto fare e la necessaria efficienza della reflex per il tele. Che Tiziano Terzani amasse la fotografia di strada e avesse lo spirito e la curiosità del vero reporter lo si capisce da quelle macchine al collo, nu-

de, pronte all’azione. Questo combacia con il ricordo che ci fornisce Grazia Neri, nel suo testo, su una visita dello stesso Terzani alla sua Agenzia, allora in via Senato, prima della partenza per l’Asia: visita che significava la grande curiosità dello scrittore per la fotografia impegnata, la sua voglia di verificare in una sede e con una persona qualificatissima le grandi tematiche di attualità, e la sua disponibilità per eventuali servizi. Ho avuto, comunque, la fortuna di vedere Tiziano Terzani all’opera come fotografo [in più occasioni], di fotografare insieme a lui e per lui, e di fotografarlo mentre fotografa. Quando l’ho visto per la prima volta in azione, eravamo a Calcutta, nel 1997, al matrimonio del figlio Folco con Ana. Tiziano Terzani non aveva già più con sé la Leica M2, ma usava una compatta... ingombrante più di una Leica, la simpatica automatica (ma flessibile: Program, Automatica e Manuale) Konica Hexar (autofocus e manuale, scomparsa dai cataloghi già nel 2000), con un rinomato 35mm f/2. Con la Konica Hexar in mano, lo si vede nella sequenza che amo di più, quella dove lui è immerso nella folla di indiani vicino alla Casa dei Moribondi di Teresa, a Kalighat, e giochiamo a fotografarci a vicenda. Un giorno, cercherò le sue. Ma com’era Tiziano Terzani, quando voleva fotografare sul serio? Rapido, deciso, di pochi scatti, alla ri-

cerca, più che della sequenza narrativa o illustrativa, dello scatto decisivo: così lo ricordo in azione a Calcutta. Ma metteva lo stesso impegno anche nelle fotoricordo ad amici o parenti, alle feste o inaugurazioni. A Firenze, in occasione di una mia mostra al Gabinetto Vieusseux, lo vidi con una strabiliante cromatissima affusolata Olympus mju Zoom. Fu quindi a Berlino, nel maggio 2001, se non ricordo male, che lui mi vide armeggiare con la Ricoh GR1, della quale gli illustrai le caratteristiche, che lo affascinarono. Se ne comprò una poco dopo, in occasione di un suo viaggio negli Stati Uniti, ma mi telefonò arrabbiatissimo perché aveva inserito il datario e non riusciva più a toglierlo, e così “rovinava” tutte le foto. Diceva «Sti giapponesi, perché non scrivono istruzioni chiare (come spesso accade, la traduzione del libretto era pessima, ma anche la logica del testo era mediocre); mo’ si deve prendere il martello per togliere sto datario!». Credo che non ci sia mai più riuscito. Tiziano Terzani, oltre che una grande luce intellettuale ed etica, oltre che un amico attento e generoso, è stato per me anche un grande aiuto fotografico. Devo a lui non solo la buona riuscita dei migliori dei suoi ritratti, ma anche il coraggio di credere nella fotografia come mezzo espressivo indipendente e moderno, come testimonianza di verità, e lo stimolo a non ❚ cadere nelle mode. V. C.


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un negozio di terroni* per terroni** In un paese ed epoca in cui la forma apparente ha sostituito il contenuto, perché non agire per sovvertire questa tragica condizione, per tornare alla parola che sia se stessa, e sia densa di significati propri? Perché non considerare che il rispetto è valore concreto, da frequentare e perseguire? Perché non agire nella convinzione che etica e morale siano ancora qualità e doti, insieme con garbo, eleganza e grazia? Una volta ancora, una volta di più, non certo per l’ultima volta: vogliamo parlarne?

* Terróne (sostantivo maschile / terróna, al femminile). Derivazione da “terra”; probabilmente, tratto da denominazioni di zone meridionali, quali “Terra di Lavoro” (in Campania), “Terra di Bari” e “Terra d’Otranto” (in Puglia). Appellativo dato, con intonazione spregiativa (talvolta anche scherzosa), dagli abitanti dell’Italia settentrionale a quelli dell’Italia meridionale [Enciclopedia Treccani ]. Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato in tono dispregiativo (talvolta in tono scherzoso, a seconda del contesto) per designare un abitante dell'Italia meridionale. Ha diverse varianti piuttosto diffuse e riconoscibili nelle lingue locali: terún, terù, teron, tarùn, tarù (lombardo); terún (ligure); terù, terún, tarún (piemontese); tarùn, taroch, terón (veneto, friulano); teròch, tarón (emiliano-romagnolo); terón, terró (marchigiano); teróne, taròne in altri idiomi dell'Italia settentrionale, mentre rimane terrone in toscano e romanesco [Wikipedia ].

** L'espressione politicamente corretto (traduzione letterale dell'inglese politically correct) designa una linea di opinione e un atteggiamento sociale di attenzione al rispetto generale, soprattutto nel rifuggire l'offesa verso determinate categorie di persone. Qualsiasi idea o condotta in deroga più o meno aperta a tale indirizzo appare, quindi, per contro, politicamente scorretta (politically incorrect ). L'opinione, comunque espressa, che voglia aspirare alla correttezza politica dovrà perciò apparire chiaramente libera, nella forma e nella sostanza, da ogni tipo di pregiudizio razziale, etnico, religioso, di genere, di età, di orientamento sessuale, o relativo a disabilità fisiche o psichiche della persona [Wikipedia ].


Parole. Parole. Solo parole di Lello Piazza (da FOTOgraphia , marzo 2009)

Quel Giudizio

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Questa è una storia che inizia qualche anno fa. O anche mezzo millennio fa. Cominciamo dal momento più lontano. Nel 1499, Luca Signorelli o Luca da Cortona (nato nel 1445 a Cortona, nell’attuale provincia di Arezzo) come Luca d’Egidio di Ventura, allievo di Piero della Francesca, del Verrocchio (Andrea di Francesco di Cione, detto) e del Pollaiolo (Antonio del Pollaiolo o Antonio Benci, detto), viene incaricato di affrescare con temi apocalittici la Cappella di San Brizio del Duomo di Orvieto. Luca Signorelli si indirizza ai temi del Giudizio Universale, e in cinque anni realizza il suo capolavoro. Un capolavoro, va rilevato, che è servito anche a Michelangelo come fonte di ispirazione per il suo

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Straordinaria documentazione d’arte di Sandro Vannini, che -con la perizia che gli è propria e congenialeha fotografato l’opera di Luca Signorelli, affrescata nella Cappella di San Brizio [o Cappella Nova], nel [transetto destro del] Duomo di Orvieto. Stampato in maniera superlativa, con la nuova Epson Stylus Pro 11880 ad alte prestazioni, l’insieme delle sue rappresentazioni fotografiche è esposto nella stessa città umbra: pochi passi per passare, volendolo fare (e lo consigliamo vivamente), dalla interpretazione visiva alla realtà dell’originale. Avvincente esperienza individuale


Giudizio Universale, realizzato tra il 1536 e il 1541, su incarico di papa Giulio II, che impreziosisce la volta della Cappella Sistina, nella Città del Vaticano. Però, i freschi di Luca Signorelli nel Duomo di Orvieto, antichi di secoli e perfettamente conservati, non sono né famosi, né molto fotografati. Mentre dell’opera di Michelangelo c’è pieno di cartoline e si sono stampati centinaia di libri, il Giudizio del Signorelli si incontra e sfiora soltanto quando, al liceo, si studia la storia dell’arte e ci si dimentica di andarlo a visitare quando si bighellona a cavallo della bassa Toscana e dell’Umbria. Arriviamo ai giorni nostri. A Orvieto, vive un’appassionata studiosa, Patrizia Pelorosso, della Cooperativa Cultour, che ha dedicato la sua vita al Giudizio e condivide con i visitatori che si affidano alla sua guida, le emozioni, le voci e i segreti custoditi da quelle pitture. Anni fa, Daniela Pasqualin di Epson, appassionata d’arte oltre che di fotografia, anche buona acquarellista, durante una visita professionale a Orvieto, incontra Patrizia Pelorosso e si innamora dell’opera del Signorelli [scrivo per conoscenza diretta: in una grigia mattina di primavera, con Maurizio Rebuzzini, direttore di FOTOgraphia, ed è altra vicenda, sono stato testimone oculare di questa autentica folgorazione, che sta alla base di quanto sto per raccontare ancora]. Daniela Pasqualin parla con entusiasmo dell’opera: «Vale un viaggio! Bisognerebbe incaricare un bravo professionista di fotografarla». Anche Patrizia Pelorosso ha bisogno di belle fotografie, non soltanto di istantanee casuali, per pubblicare i suoi studi sul Giudizio. Torno a Orvieto apposta per rivedere gli affreschi alla luce dell’entusiasmo che mi ha contagiato, e ne rimango incantato. Situazioni straordinarie, ori preziosi, diavoli verdi, morti che resuscitano, dannati che volano in spalla ai diavoli, un’orgia di santità e dannazione di straordinaria forza espressiva. Per farla breve... Da allora si è trovato il professionista per le fotografie, Sandro Vannini, di Viterbo, del quale, su queste stesse

pagine, abbiamo già presentato l’imponente documentazione del tesoro del faraone Tutankhamun (FOTOgraphia, ottobre 2007). Si è trovato un sistema adatto per stampare le sue fotografie, la maggior parte delle quali pesa più di un gigabyte [specifiche a fine testo]. Si è trovato lo spazio per allestirne una mostra, le sale espositive del prestigioso Palazzo dei Sette, di Orvieto: dal sette al ventidue aprile [2009]. Dopodiché, le imponenti stampe delle fotografie di Sandro Vannini cominceranno un tour italiano. Per le riprese, Sandro Vannini ha utilizzato una configurazione su base Silvestri e obiettivi di diversa lunghezza focale: dall’insieme ai particolari. Per innalzare il punto di vista/ripresa fino al soffitto della Cappella di San Brizio è stata predisposta un’impalcatura mobile alta dieci metri. Le pitture sono state illuminate con quattro lampade Gamma Progetti HMI da seicento watt l’una. Le inquadrature sono state valutate su un computer Apple MacBook Pro, collegato direttamente al sensore del dorso digitale sulla Silvestri, un Imacon Ixpress 528C multiscatto, da ventidue Megapixel. In definitiva, di esperienza virtù, si tratta della stessa configurazione tecnica con la quale Sandro Vannini ha lavorato nelle tombe egiziane, e della cui efficacia abbiamo già riferito: e ne ripetiamo ancora oggi, in apposito riquadro [riportato a fine testo]. In mostra, oltre le fotografie degli affreschi, viene presentata anche una immagine esclusiva della facciata del Duomo di Orvieto, come nessuna altra precedente fotografia è mai riuscita a visualizzare. Lo sappiamo tutti, lo sanno tutti coloro i quali hanno visitato Orvieto: addossata alle case che le stanno di fronte, questa facciata è impossibile da fotografare, a causa della assoluta mancanza di punto di vista fotograficamente possibile. Sandro Vannini ha realizzato la sua fantastica visione, ribadiamo unica nel proprio genere, nel novembre 2004, componendo un mosaico di trenta scatti singoli, o giù di lì, spostandosi in modo calibrato con il braccio mobile di una gru. A se-

guire, i fotocolor 4x5 pollici sono stati assemblati in postproduzione, con Photoshop: un piccolo capolavoro, del quale siamo tutti grati all’attento fotografo viterbese. Le fotografie del Giudizio Universale di Luca Signorelli, con accompagnamento della introduzione al luogo, alla quale ci siamo appena riferiti, sono magnifiche e coinvolgenti. Le stampe pure. La mostra vale un viaggio in Umbria (hai detto poco!?). Inoltre, con una piacevole passeggiata tra le strette strade medievali della città, si può rapidamente passare dalla rappresentazione fotografica di Sandro Vannini all’opera originale, da gustare dal vero: nella Cappella di San Brizio, in Duomo. ❖

drato, con equilibrio luminoso su tutta l’inquadratura. Quindi, registriamo la possibilità di arrivare a ingrandimenti di generose dimensioni, che esaltano particolari minimi del soggetto, consentendo di coglierne appieno i pregi e i difetti (eventuali) di lavorazione. Infine, sottolineiamo che si approda sempre a riproduzioni cromaticamente perfette. Questo, per quanto riguarda l’aspetto propriamente e puramente fotografico. In anticipo, ogni progetto fotografico d’arte richiede poi altre doti: contatti, competenza scientifica, rapporti con le autorità che governano e gestiscono il luogo. Tutta materia che fa parte del bagaglio professionale di Sandro Vannini.

Una volta ancora, Silvestri (e altro)

Come avrebbe detto Massimo Catalano, l’intellettuale viveur di Quelli della Notte [programma televisivo di Renzo Arbore e Ugo Porcelli, trasmesso da Rai 2 nel 1985 in tarda serata], è meglio stampare le fotografie di qualità con stampanti di altrettanta qualità, invece che con stampanti scadenti. Seguendo questa linea filosofica consequenziale, Sandro Vannini ha collaborato con Epson Italia, che ha messo a disposizione la nuova e innovativa Epson Stylus Pro 11880. Con questa stampante sono stati realizzati i sessanta metri quadri di ingrandimenti che compongono l’avvincente mostra sul Giudizio Universale di Luca Signorelli. La stampa di dimensioni maggiori misura 1,5x3 metri, alla pratica portata della luce massima della Epson Stylus Pro 11880 di 64 pollici (appunto, qualcosa di più di 1,6 metri). Il set completo di inchiostri comprende nove cartucce: nero Photo, nero Matte, nero Light, nero Light Light, ciano, ciano chiaro, giallo, magenta vivido e magenta vivido chiaro. La stampante ne utilizza otto per volta, selezionando dal nero Matte al nero Photo in base al tipo di carta in uso. Su carta Epson Premium Luster Photo da 260 grammi, le stampe sono state eseguite alla massima risoluzione possibile, cioè 2880x1440dpi. Ci preme infine segnalare che la qualità del lavoro è stata seguìta personalmente da Angelo Favini, l’autorevole super tecnico responsabile della sala dimostrativa Epson Italia, a Cinisello Bal❚ samo, alle porte di Milano.

Ripetiamo l’essenza delle note tecniche già riferite alla documentazione visiva che Sandro Vannini ha realizzato in Egitto, dove ha fotografato il tesoro di Tutankhamun (FOTOgraphia, ottobre 2007). Anche per il Giudizio Universale di Luca Signorelli, nella Cappella di San Brizio del Duomo di Orvieto, issandosi su un’impalcatura mobile alta dieci metri, Sandro Vannini ha fotografato con una Silvestri Bicam II. Alternando le focali secondo necessità, sono stati usati obiettivi appositamente studiati per la fotografia digitale, con otturatore elettronico gestito da una centralina collegata con il computer, da dove è stato guidato lo scatto, sia per la propria componente meccanica (apertura e chiusura programmate dell’otturatore) sia per quella digitale (coordinamento dell’acquisizione in corrispondenza del tempo di otturazione). Per l’acquisizione e memorizzazione delle immagini è stato usato il dorso digitale Imacon Ixpress 528C da ventidue Megapixel, dotato di funzione multiscatto (quattro e sedici), che è anche la sua caratteristica discriminante e qualificante. Illuminazione con quattro lampade Gamma Progetti HMI da seicento watt l’una. Con la raffinata tecnica fotografica adottata da Sandro Vannini, uno dei più quotati e apprezzati fotografi dell’arte (soprattutto egizia) del mondo, si ottengono e raggiungono risultati significativi. Anzitutto, va rilevata la perfetta esposizione del soggetto inqua-

Stampe di alta qualità (anche formale)

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(da FOTOgraphia, ottobre 2014)

Il Galateo overo De’ costumi, di Giovanni Battista Della Casa, è disponibile in formato Pdf, scaricabile da diversi indirizzi web


Parole. Parole. Solo parole

di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 26 volte febbraio 2011 / da FOTOgraphia, novembre 2011)

Fotografia della libertà

U

Uccidere un tiranno non è omicidio, è un atto di giustizia! Sparare alla fotografia ai tempi della società dello spettacolo è esattamente lo stesso! Volevo mangiare la fotografia sui libri, mi è rimasto il suo smarrimento addosso. Avrebbero dovuto sparare negli occhi agli storici, critici, mercanti e fotografi complici del buio della fotografia: consegno le spoglie della fotografia agli uomini in rivolta dei nostri e di tutti i tempi, perché so che il tuono e la folgore sono l’avvento di tutte le libertà. Quanta verità può esserci nella fame dei bambini o nei corpi trucidati dai carnefici dei tiranni. Dalla nascita dell’umanità, i popoli in rivolta (le insurrezioni attuali del mondo arabo lo dimostrano) ci hanno insegnato a vivere come a morire, e la libertà o rompe l’impostura e la falsificazione o la uccidiamo in noi. Il possibile attiene agli uomini addomesticati, mentre l’impossibile appartiene agli uomini in rivolta -fratelli di lotta- con le mani piene di speranza, che nell’incendio dei covi di serpi del potere si sono fatti re senza regno... e domani? domani non lo so. Intanto, i mucchi di cadaveri degli ultimi si oppongono all’imbroglio universale delle nazioni ricche e mafie delle multinazionali. Ogni uomo assassinato per la libertà non è un martire, né un santo! È un uomo che è balzato in piedi e ha infranto l’eredità della propria condizione di oppresso... ha rotto i vincoli del destino e rifiutato le briciole di pane e le lacrime della soggezione.

SULLA FOTOGRAFIA DELLA LIBERTÀ AI TEMPI DELLA SOCIETÀ DELLO SPETTACOLO L’estetica fotografica della libertà non ha bisogno di fotografi, ma di testimoni che con ogni mezzo di comunicazione (macchine fotografiche, videocamere, telefo-

nini, Internet) denuncino la marchiatura dell’autoritarismo e il dolore insopportabile degli umiliati e degli offesi. Gli strumenti del comunicare vanno messi nel tascapane (insieme ad altri arnesi di difesa sociale), e là dove la tirannia sporca di sangue l’innocenza del divenire non dimenticare ciò che hanno fatto i ragazzi della Resistenza, quando si legarono un straccetto rosso al

ma di potere crolla. La vita è un tempo breve; se viviamo, è per ballare sulla testa dei padroni, diceva. Un giorno pieno d’amore e libertà vale un’intera esistenza piegata sul sagrato della domesticazione sociale. La fotografia, tutta la fotografia, è noiosa quanto la morte delle idee o il mercimonio della propria incoscienza. La fotografia autentica è sempre sporca di ve-

«Il potere è per propria natura illegittimo... [dunque sono inevitabili nuove rivoluzioni che] dissolvono completamente il governo o lo riavvicinano all’istituzione legittima [democrazia partecipata, diretta o consiliare]. La sommossa che finisce con lo strangolare o detronizzare un sultano [un tiranno, un padrone o un papa] è un atto altrettanto giuridico quanto quelli con cui egli alla vigilia poteva disporre della vita e dei beni dei propri sudditi. Solo la forza lo sorreggeva, solo la forza lo abbatte» Jean-Jacques Rousseau collo (Pier Paolo Pasolini diceva): si fecero partigiani e andarono alla macchia per conquistare il diritto alla bellezza. Se vuoi usare la fotografia per poter costruire una qualche forma di giustizia, fai (sempre) come se fosse l’ultima fotografia. C’è dell’amore nell’osare la bellezza dell’insurrezione. Mia nonna partigiana diceva che quando si difende la libertà non si deve temere di dare l’assalto al cielo della storia. Il delirio dei potenti è di carta (oltre che di crimini impuniti): bastano cinque minuti di autentica rivoluzione popolare e ogni for-

rità mai dette o celate dall’ordine costituito; quando la fotografia della violenza mette a fuoco l’imbecillità accettata delle morali dominanti, le vecchie proscrizioni autoritarie cadono. L’oscenità più oscena della fotografia liberata si stacca dall’infantilismo dei luoghi comuni; la passionalità di una visione comunarda dell’immagine deterge i ceppi dell’ingovernabile e rigetta la detestazione per la vita quotidiana della nomenclatura dei funzionari dell’odio. La fotografia rubata alla scena della storia si fa mondo, rabbia, rivolta e i ri-

trattati presi al momento della propria disaffezione ai modelli parassitari e nel coraggio affilato della contestazione radicale... calpestati, feriti, uccisi dagli sgherri del sopruso... rovesciano la banalità della frusta e della genuflessione e si riprendono (con le proprie morti o i propri sorrisi) il pane e le rose della storia. Un fotografo vale per quanta verità mette nel proprio fare-fotografia, un uomo per quanta voglia di libertà brucia nella propria rivoluzione. Le lacrime amorose degli ultimi fanno bene alla Terra.

PER UNA FILOSOFIA LIBERTARIA DELL’ARTE FOTOGRAFICA L’insurrezione del chiaro di luna non ha bandiere, né vessilli, che sostituiscono un potere con un altro. Non ci sono santi né puttane che tengano. Le sommosse popolari non si aggregano a programmi, né a proclami di politica spicciola, o a mestatori di ideologie che cavalcano l’onda del diniego. I giorni dell’ira cadono in fotografia, come nella storia, d’improvviso. Ogni pugno ha il proprio destinatario, e al momento della resa dei conti scongiura la pietra tombale dei concetti sui quali l’impero dello spettacolo e i regimi comunisti poggiano i propri consensi. La fotografia della separazione abita il movimento insurrezionale che la promuove a opera d’arte, perché fa dell’arte consumata o mistificata un orinatoio pubblico. Le fotoscritture della rivolta, sfocate, indecise, grezze, passano dalla strada ai social network e diventano patrimonio culturale di tutti: impastano i destini del momento al disincanto di una rottura sociale e disperdono negli occhi inguaribili d’informazione della Rete l’oltraggio di conquistare un diverso modo di abitare il mondo. Ogni ventata di libertà ha la propria realtà che smaschera la

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retorica dell’investitura economica o padronale come modello unico dell’edificio sociale. Pochi gestiscono le ricchezze che molti contribuiscono a produrre. Nella rivoluzione popolare sovente si è visto solo l’ombra, quasi mai la fata; ciò che ci strega è sempre un soprassalto dei sentimenti, una contingenza elettorale, i sorrisi ruffiani della politica televisiva: è la rivolta dei popoli la sola definizione di vita che ci aiuta a incanalare la sostanza delle nostre utopie. La fame di burrasca è fame vera e gli uomini del no! impugnano ogni attrezzo necessario per mettere fine al disonore dei saprofiti che albergano nei governi. La fascinazione delle ceneri di ogni stato è al fondo degli uomini in rivolta che inventano giorni dove anche le parole crollano, per fare posto ai baci al profumo di tiglio. Nessuno resta indenne nell’epifania della libertà e non basta sparare sulla croce per fare della propria arte un capolavoro. La fotografia di strada non obbedisce a nessuna regola che non sia quella che scoppia nel cuore: si specchia nel fantastico che muore e nell’aurora insanguinata che nasce sull’ultima rivolta.

SULL’OMICIDIO DELLA FOTOGRAFIA DELLO SPETTACOLO Al limitare del pensiero fotografico s’incontrano schiere di stupidi incensati dal successo e turbe di imbecilli che credono alla fotografia come arte del consenso. Gli uni e gli altri sono parte del gioco giocato dall’industria culturale, e ciò che ci fa più specie è che tutti non hanno carezze che per loro stessi. Quando vedo un fotografo che alza la macchina fotografica sugli ultimi, gli indifesi, gli svantaggiati, per prendere “belle fotografie”, ho sempre voglia di mettere mano alla pistola. I fotografi andrebbero sterminati, impiccati al primo lampione o più semplicemente presi a schiaffi e mandati a pulire i cessi pubblici: è la grana veridica della storia che lo richiede; al di qua del non ancora, l’idea di eliminare alla radice l’intera cultura fili-

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stea della fotografia non ci dispiace. Per sopprimere le loro nefandezze bastano una torcia o uno sputo. Tutto qui. L’arte fotografica è un’invenzione del mercato delle immagini, un eterno pregiudizio sul bene, sul bello, sull’eccezionale della fotografia che qualcuno dispensa nelle università dell’ignoranza, in libri inutili, corsi serali, dispense a rate, stage estivi. Nessuno o pochi comprendono che occorre uccidere l’arte fotografica, per dare risalto all’arte di vivere tra liberi e uguali. È un corpo a corpo con l’apparato dei saperi che tutto sa della merce e nulla dell’uomo in catene. La bellezza libertaria della fotografia di strada fa a meno di tutti i maestri della fotografia insegnata o mercificata; fuori dal fanatismo dell’artista incompreso impugna un qualsiasi strumento del comunicare, per fare la pelle al pregiudizio o alla menzogna dell’arte. Il senso profondo della fotografia di strada si coglie nello stesso bagliore del fuoco di legna fresca. La scintilla, lo scoppiettio, il canto delle fiamme che sale al cielo annuncia l’incendio più vasto di domani. È una risposta ai danni fatti alla bellezza e il viatico eccezionale di una filosofia materica dell’arte fotografica, che riporta l’immagine all’uomo e riflette la condizione esistenziale del suo stare al mondo. Nessun’alba della fotografia porta in sé i germi del dolore, ma contiene il florilegio della bellezza ritrovata. Fotografare i popoli in rivolta o registrare la morte della civiltà dello spettacolo è la medesima cosa. Si tratta di radicalizzare gli sguardi, fare della materia umana qualcosa da abbracciare o respingere. La gravità dei tempi sembra scongiurare la morte per inedia della fotografia; là dove il cielo si tinge di rosso, tutti sono fotografi o protagonisti della loro storia e non c’è nessun cretino che possa pubblicare impunemente immagini martoriate (intrise di sangue innocente) su qualche giornale a grande tiratura, senza farla franca. Gli uomini che pagano con la loro

stessa vita attimi di libertà non possono essere rappresentati se non da quelli che insieme a loro passano dalle armi della critica alla critica delle armi, con tutto quello che ciò comporta. Il grande sonno della ragione s’aggrappa ai muri del potere, ma finché la rivoluzione sociale è in atto, ai ratti della politica, degli affari, delle religioni monoteiste non resta che nascondersi nelle proprie cloache. Per la loro famelica inclinazione al potere sarà sempre meno facile assoggettare interi popoli. Le stelle sono cadute in terra e non stanno più a guardare. I simulacri vacillano, le bandiere sventolano solo nelle parate ufficiali e i bambini che tirano i sassi alla Luna ci pisciano sopra. Anche gli inni nazionali fanno ridere; solo i vecchi colonizzatori, i militari scoppiati o i militanti dell’imbecillità patriottica non hanno compreso che le frontiere sono finite e ogni uomo è cittadino del mondo. Chi ama la libertà non può che disprezzare i credi, i governi, i padroni e i cani da guardia con i quali proteggono i loro misfatti. Un quadro d’insieme s’impone. Le ricchezze del pianeta che muore vanno ridistribuite equamente, e forse l’umanità potrà avere una speranza di salvezza da questo saccheggio secolare alimentato dai poteri forti, solo quando l’ultimo padrone sarà impiccato con l’ultimo prete. Una volta che i potentati sono spossessati del proprio ruolo di affamatori, non restano che piccoli uomini impauriti, balbettanti, stupidi come la loro stupida vita, in attesa di essere passati per le armi o buttati nelle fosse comuni con l’immunità parlamentare. Forse no, forse ce la faranno ancora a intorbidire le acque della rivolta planetaria. Riusciranno di nuovo a tessere trame eversive, terrorismi internazionali, colpi di stato... ma non sarà sempre così facile come in passato... i social network comunicano in tempo reale, e appena viene censurata la libera informazione... ecco che ne nascono di nuovi e inondano l’universo degli

internauti di parole, immagini, manifesti. Le insubordinazioni prendono corpo nell’immaginario sociale e nessuno potrà più fermare questo vento impetuoso di libertà, che mette fine all’oppressione dell’uomo sull’uomo. La rivolta continua. La bellezza della fotografia coincide con la verità. Il mistero della bellezza, in fotografia o in ogni altra forma d’arte, è nel disimparare a morire nella società dello spettacolo integrato: sapere che quanto viene fatto passare dalla dittatura dei media (che sono sempre in mano ai palafrenieri della politica) è menzogna o parzialità dell’informazione (cultura addomesticata), che riproduce il volere del potere in carica. La fotografia, anche, e da sempre, è una scatola delle illusioni che contiene i generi che le corrispondono (fotogiornalismo d’accatto, erotismo da supermercato, simbolismo razzista); il fascio dei suoi valori storiografici e salonistici non vale una goccia di sangue versato dall’uomo in rivolta. La fotografia autentica accende la luce sulla dittatura dello spettacolo, senza mai spegnere il fuoco della disobbedienza; acuisce le contraddizioni del sacro e rende pubblico l’oltraggio dei media (o delle preghiere) perpetuato contro gli ultimi, chi non ha voce, chi non si può difendere. Dove i nostri occhi giocano a mosca cieca, là sta la libertà in rivolta e nell’esplosione delle passioni e dei desideri liberati (nelle insurrezioni libertarie dell’intelligenza) annuncia la comunità che viene. Non esiste nessuna fotografia in libertà nella quale i corpi non parlino della loro vivenza oltraggiata. Solo là dove i corpi e i sogni di libertà sono la stessa cosa, lì l’esplosione poetica della fotografia ritrova la capacità di amare il diverso da sé che bussa alla porta e vuole essere risarcito da secoli di violenze subite, in nome di Dio, dello Stato e del profitto. Dove comincia la fotografia di strada, terminano le bugie e i tradimenti del governo dello spettacolo. Di fronte alle richieste eversive di una


crescita felice, il collante dei mercati globali crolla. Perfino lo stupido del villaggio ha compreso che gli indici delle borse e i dividendi delle banche si alzano sulla pratica del genocidio. L’estetica/etica fotografica della Rete s’insinua tra i risvolti del potere mediatico: è un movimento di verità, un agguato di cuori in amore, che spacca i muri dell’incomprensione e si fa beffe della devastazione comunicazionale (programmata) dei dominatori. La sottomissione docile non è più reale, e nemmeno la colonizzazione armata fa più storia. La fame, le malattie, i massacri non possono più essere taciuti o raccontati da storici che la storia non ha ammazzato. La voce del papa o di un capo di Stato non vale più di quella di un insorto ucciso in difesa dei propri diritti. Ogni bambino che nasce sotto il marchio di Caino è in potenza il prossimo rivoluzionario.

SULLA FOTOGRAFIA DELLA LIBERTÀ NEI SOCIAL NETWORK Il Ventesimo secolo è stato il secolo dei genocidi, delle stragi, della pulizia etnica e, incidentalmente, della Shoah. Quello che ha appena debuttato sul boccascena della storia, auspichiamo sia il secolo delle rivolte, delle insurrezioni, delle rivoluzioni sociali. Ovunque i popoli impoveriti sono in ebollizione; dai deserti dell’Africa, le giovani generazioni rifiutano ogni sorta di schiavitù e insorgono a frotte contro i loro persecutori. La disobbedienza si allarga, milioni di persone si riversano nelle strade e prendono a picconate le regge, i parlamenti, le banche. Chiedono una vita più giusta e più umana e la fine dell’ingiustizia nella quale sono tenuti dagli eserciti dei paesi ricchi. Politici, governanti, faccendieri, criminali con i colletti bianchi tremano e temono di perdere i propri privilegi fondati sulle guerre, il saccheggio, il massacro e il mercato globale. Il libero profitto è la gogna di tutte le libertà. A mani nude o con le armi prese ai loro massacratori, gli in-

sorti rovesciano la barbarie sotto la quale sono stati inchiodati per secoli; senza temere di essere macellati dalla bestialità del più armato danno l’assalto ai palazzi del potere e qualche volta riescono a tagliare la gola (con un’antica grazia anarchica) al tiranno, al generale o al capo di Stato. I loro bravacci li destinano alla concimazione dei campi, dove i loro padri e i padri dei padri hanno sofferto la schiavitù o sono stati ammazzati a frustate. Oh! che bello! una volta tanto le zucche vuote dei potenti sono rotte, e i grandi finanzieri o mafiosi della politica si cacano sotto dalla paura: non si possono dimenticare i crimini contro l’umanità che hanno commesso. La libertà è il canto dell’emancipazione sociale e il fine supremo della storia. La disumanità che emerge dalla fotografia dell’insurrezione cede il posto alle immagini che la disvelano. La società mercantile fa mucchio; quando i venti di rivolta scuotono i giardini dei profittatori, tutti i pezzi di merda si mettono in cordata per emanare leggi, codici, valori, morali atti a contenere, arginare, recuperare il potere perduto: tutta gente che vende armi, droga, fabbriche, che se ne fotte dei giovani, dei precari, dei disoccupati... tutta gente (sinistre incluse) che andrebbe passata per le armi per dare inizio a una società fraterna e ugualitaria... che metta fine all’ingiustizia degli arricchiti. Nei libri paga dei mercanti d’alto bordo sono avvolti tutti gli affamatori del pianeta, e la servitù volontaria è specchio delle loro conquiste. La clemenza assicura i profitti in borsa del crimine organizzato e i governi orchestrano i saccheggi delle ricchezze della Terra (che non appartengono loro) in bella uniformità. Non c’è cazzo che tenga: l’uomo nasce libero, ma ovunque insorge è messo in catene. La fotografia dell’insurrezione dirotta dalle abituali forme di concezione e percezione dell’immagine. Ogni rivolta spontanea basta a se stessa e racconta con i mezzi di comunicazione più sem-

plici (basta un telefonino da pochi soldi), o con le fosse comuni, ciò che accade sulla pelle della storia. L’iconologia del dolore o della gioia che fuoriesce dalla Rete concorre, infatti, a un cambiamento del genere umano, a una trasformazione spirituale profonda e almeno in principio gli uomini dell’insurrezione riescono a concepire se stessi e proprie capacità di creare, decidere, agire, produrre, ricercare, amare: essere partecipi delle decisioni e delle possibilità di condivisione sociale della società aperta per la quale stanno lottando. I linguaggi multimediali e l’uso eversivo della tecnologia sono un rizomario di idee, visioni, poetiche incontrollabili, che bene si adattano ai bisogni dell’uomocreativo. Il sistema tecnologico è nelle mani dei padroni di tutto, ma sono sempre più clandestini o imprendibili i milioni di internauti che immettono in Rete ciò che il potere non desidera. In una società decente, che ha cancellato le sperequazioni tra schiavi salariati e padroni dell’immaginario (e quindi che ha abolito tutti i sistemi di domesticazione della fantasia), ogni cittadino avrà la possibilità di manifestare il proprio talento nella partecipazione diretta alla cosa pubblica (autogestione dell’economia, affari sociali, costruzione di situazioni creative): sarà incoraggiato a sperimentare opinioni e idee diverse tra loro, tuttavia metterà la propria intelligenza al servizio del bene comune. Il linguaggio argentico o numerico della fotografia entra nel progresso tecnologico; e sui crinali dell’industria delle immagini apre possibilità di autogestione della creatività e della comunicazione su larga scala (che non esisteva soltanto pochi anni fa). L’uso personale, politico, poetico della Rete coinvolge fotografi e fotografati come mai è successo nella storia dell’umanità, e ovunque si percepisce il bisogno di libertà, resistenza, insurrezione contro l’abuso della coercizione statuale. Quella della Rete è una società “sotterra-

nea”, indipendente, insolente, che ha preso i propri sogni per la realtà e li vuole realizzare in ogni modo e con ogni mezzo. È questa generazione di internauti che -insieme alle sollevazioni dei popoli impoveriti e alle fasce giovanili, le donne, gli uomini stanchi delle vessazioni infinite della civiltà dell’apparenza- si è presa il compito supremo di trasformazione sociale della società. Là dove il sistema tecnologico ha creduto di plasmare sempre più folle all’obbedienza e l’autocrazia industriale si è resa complice delle politiche di repressione dei governi occidentali (e dei regimi comunisti), i segnali di un’altra rivoluzione sono in atto: circolano in cieli incontrollabili della Rete e disseminano ovunque l’antica concezione foureriana della lotta allo Stato per l’ascesa all’emancipazione dell’Uomo. Per questa fratellanza rivoluzionaria è deprecabile vedere che la proprietà privata delle idee è un furto e conoscere la perpetuazione dello sfruttamento dei deboli da parte dei forti; ed è disdicevole per i fratelli del libero spirito che circola in Rete che l’acculturazione mediatica dell’immaginale sia fonte di sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo (oltre il manganello e l’aspersorio, s’intende). La fratellanza rivoluzionaria della Rete dice che la libertà è una condizione indispensabile da raggiungere per chi la libertà non l’ha mai avuta, e l’esercizio della libertà taglia le catene dei regimi e le sostituisce con i vincoli sociali di reciprocità. La bellezza della rivoluzione non è la conquista, ma la distruzione del potere statuale. La rivoluzione autenticamente democratica infiamma le strade della Terra e si rovescia nella Rete. Lo scopo della rivoluzione comunarda è consegnare la ricchezza sociale nelle mani dei creatori, dei produttori, dei fratelli e sorelle che -organizzati in libere associazioni- distribuiranno equamente ai cittadini. Il consiglio federale sarà la voce di tutti; e in questa situazione di non-comando, lo Stato non avrà ragione d’essere.

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Dunque, la Rete è una cosmogonia di linguaggi, uno specchio ustorio capace di incendiare gli animi in ebollizione degli uomini che vogliono farla finita con la soppressione dei diritti umani. La Rete partecipa al progresso culturale di una comunità libera a venire. Lo scatenamento dei linguaggi tecnologici, in particolare, è un processo di libera creazione, che contribuisce a destare la coscienza popolare e creare nuove partecipazioni all’insurrezione sociale. Nella Rete, l’iconografia dello spettacolo muore o non ha lo stesso impatto dell’universo pubblicitario o propagandistico (televisivo, soprattutto) che investe la quotidianità degli sfruttati. L’economia della predazione non risparmia l’uso delle armi, e nemmeno quello dei mezzi di comunicazione di massa, quando si tratta di educare gli uomini alla sottomissione e all’obbedienza. Gli utensili video/fotografici, per esempio, sono parte di un linguaggio desiderante imposto dal potere dello spettacolo per cavalcare l’edonismo di bassa lega dei clienti dei centri commerciali, trasformandoli in piccoli burocrati dell’immaginario incatenato alla società dell’indifferenza. Poi, i professionisti della fotografia sono le peggio puttane (male pagate, anche) di un farefotografia che è idiozia pura: quella che incensa auto, abiti, profumi, mutande, orologi, crociere e fucili di ultima generazione, per uccidere meglio, e senza sbagliare mira, qualche bambino morso dalla fame. Questi imbecilli dei calendari Pirelli e di tutti quelli fatti con le puttane più o meno celebri sono (quasi tutti) artisti senza talento e passano da un set all’altro, da un letto all’altro, da una mostra all’altra. Ancora: di mercante in mercante, di marchettaro in marchettaro, di feudo in feudo, per un posto (il consenso, il successo) nella società dello spettacolo nella quale sono soltanto dei pagliacci (specie quelli che si dipingono a sinistra), al soldo di ogni padrone. Potremmo anche ammirare

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ciò che fanno, tuttavia disprezziamo ciò che sono. Il miglior fondamento per fare una buona fotografia è una buona morale: opportunismo, convenienza, stupidità producono raramente una buona fotografia. I fotografi, in genere, sono degli stupidi che non sanno cosa succede all’interno delle loro case e pretendono di conoscere ciò che accade nel mondo. Non sanno nemmeno disquisire su una serena impiccagione di qualche tiranno, padrone o papa... non comprendono l’impiccagione come arte, quindi come possono comprendere l’arte della fotografia? La bellezza dell’impiccagione ha avuto tempi fulgidi, irripetibili, forse... quando il popolo è riuscito ad appendere i despoti alle campane delle chiese e poi le hanno suonate: devono essere stati momenti di delicata felicità popolare. Se i fotografi non provano questa sorta di euforia verso la giustizia sociale, come possono fotografare il tempo della storia? Riprendono solo la buccia dell’accadere, il falso, mai il vero; fanno della pubblicità a se stessi anche quando alzano la macchina fotografica su un morto ammazzato dalla polizia, una bambina in lacrime per lo stupro del padre o l’assassino di un capo di Stato che se la ride prima di essere ucciso da un agente dei servizi segreti truccato da gangster (o viceversa). I fotografi (anche i più sacralizzati), come il boia di Londra, si celano dietro una maschera (e nemmeno bene), ma la differenza con il boia è che non hanno stile. Anche il boia commette qualche errore, ma la sua gradevole personalità e professionalità permette di superare l’accidente con grazia e la seconda tirata di corda è fatale per l’impiccato... e senza un grido... qualche volta la piazza si commuove, piange. I fotografi no... cercano sempre un pubblico in adorazione... non comprendono, né possono, che non c’è crudeltà nell’impiccagione: lo slogamento del collo è l’ideale a cui si deve aspirare, diceva. I fotografi, invece, hanno

richieste ridicole... mettiti qui, spostati là, buttati dalla finestra, mostra il culo e le tette alla maniera di quel fottuto pittore, o inquadrano il cazzo allo stesso modo di un peperone. Per rendere le loro fotografie più interessanti, sovente si travestono da criminali pentiti e dicono tutto sulla potenzialità delle loro “armi” espressive. Però si vede che non hanno la statura eversiva di un criminale di professione o di un boia scrupoloso. La fotografia, tutta la fotografia (o in gran parte) a somiglianza con Dio o con il Padrone: due brutti scherzi della natura, buffoni da circo! La fotografia della libertà si oppone alla poetica generalizzata del disgusto; si affranca con i ragazzi, gli uomini, le donne che sono coscienti dei propri desideri di bellezza e insurrezione della verità; rifugge il mondo percepito come rappresentazione della verità unica e fa della soggettività, dei sentimenti, dei piaceri una visione cosmica immaginata e immaginaria. Il fascino poetico delle immagini così prese è collegato a universi nuovi, che agiscono nel profondo con il fotografo che li immagina. La fotografia della libertà è la fotografia dei sognatori e filatori di utopie: è una fotoscrittura pervasa dalla dolcezza e insegna a non dimenticare nulla dei nostri terrori. Figura una metafisica delle opposizioni, anche le più estreme, e il potere nulla può contro le evidenze fraterne e belligeranti di questo fare-fotografia. La realtà è costituita da un insieme di paure, vessazioni, violenze amministrate. La fotografia della libertà fa propria l’incapacità dell’umanità a superare la propria infanzia e le sue immagini diventano voce, corpo, azione degli indifesi della Terra. È più facile raccontare il dolore dei popoli in una fotografia, che racchiuderlo in mille parole. Prima delle ombre/immagini della caverna di Platone, le piste dei sogni indicavano la via... l’eterno ritorno alla bellezza archetipale degli antenati. L’immaginario della fotografia in libertà rianima il mondo delle prime parole, dei primi

sguardi, dei primi sogni di liberazione. Tutto ciò che cade nella fotografia della libertà ha già guardato l’uomo e lo ha reso meno solo. Elaborare una cosmologia della luce significa incamminarsi verso un universo di bellezza che è fuoco, acqua, vento e sangue della Terra. La fotografia della libertà è una filosofia della gioia che invita al viaggio di ciò che siamo e di quello che sogniamo... parla di noi stessi e di ciò che ci circonda... è uno stato reale di disobbedienza civile che corrisponde alla ricerca della felicità di uno e di tutti gli uomini. Ogni immagine presa alla storia del dolore corrisponde a un tipo di felicità da conquistare. I fotografi della libertà sono testimoni o poeti che insegnano a sognare, a non dimenticare... ci nutrono con le loro immagini, grazie alle quali possiamo vedere di che materia sono fatti i nostri sogni. La coscienza e conoscenza di questi corsari della fotografia del vero e del bello diserta tutte le discipline dei linguaggi figurativi, spalanca le prigioni della realtà condizionata, affinché l’umanità non rinunci all’innocenza del divenire. Sono cani perduti senza collare, innescano il debutto della vita antiautoritaria che ha inizio con la scintilla libertaria dell’utopia. La fotografia della libertà fiorisce in affrancamento ai movimenti insurrezionali e ai cambiamenti sociali che sfuggono al controllo delle classi privilegiate... combatte le strutture del dominio, del sapere e della tecnica e deplora il cattivo uso della politica come museruola ai rivolgimenti sociali. Ogni potere è per propria natura cannibale, e la civiltà che ha fondato è una congiura ordita dai ricchi per perpetuare le loro violenze e proteggere le loro rapine. La fine dell’ineguaglianza è la spinta che muove le giovani generazioni alla rivolta, e la lotta per la libertà non avrà mai tregua sino a quando gli uomini tutti non godranno della medesima libertà... principio e fine di ogni filosofia creativa è la libertà. ❖


Dal 1990, i logotipi dei TIPA Awards identificano i migliori prodotti fotografici, video e imaging dell’anno in corso. Da ventotto anni, i qualificati e autorevoli TIPA Awards vengono assegnati in base a qualità, prestazioni e valore, tanto da farne i premi indipendenti della fotografia e dell’imaging dei quali potete fidarvi. In cooperazione con il Camera Journal Press Club of Japan. www.tipa.com



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