FOTOgraphia 240 aprile 2018

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Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano

ANNO XXV - NUMERO 240 - APRILE 2018

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Soltanto... BIANCONERO

Urs Bernhard L’ODORE DELLA ROCCIA

Ansel Adams LA SUA CAMERA OSCURA

GIAN PAOLO BARBIERI ISPIRAZIONI NOIR


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prima di cominciare

HASSELBLAD NELLO SPAZIO. Storia lunga. Da oltre cinquant’anni, Hasselblad è legata a doppio filo con il programma spaziale statunitense, che dopo le missioni Apollo ha adottato anche altri apparecchi fotografici, come le reflex Nikon e Canon e il grande formato folding Linhof. Storia già raccontata, nel luglio 2009, in occasione del quarantesimo anniversario del primo allunaggio di Apollo 11, del 20 luglio 1969. Storia che potremo riprendere, da qui a un altro anno, per celebrare il cinquantenario 1969-2019. Forse. Qui e ora, ricordiamo soltanto che all’indomani della missione di Apollo 12 (Charles “Pete” Conrad Jr, Richard Francis Gordon Jr e Alan LaVern Bean; 14-24 novembre 1969), un’Hasselblad è diventata celebre per essere stata raffigurata al petto di Alan L. Bean. Lontana dal rigore delle documentazioni scientifiche di protocollo, al pari dell’immagine-simbolo di Apollo 11 (dell’Uomo sulla Luna: il ritratto di Edwin “Buzz” Aldrin, con Neil A. Armstrong riflesso nella visiera), anche questa fotografia è analogamente curiosa, perché raffigura ancora due astronauti simultaneamente: Charles Conrad Jr è riflesso nella visiera dorata, come in uno specchio. Per tanti versi, la doppia raffigurazione di Alan L. Bean con Charles Conrad Jr riflesso nella propria visiera è emblematica delle missioni lunari. Hasselblad a parte, che richiama soprattutto l’attenzione del mondo fotografico, l’inquadratura sintetizza il senso delle rilevazioni scientifiche assegnate agli astronauti. Alan L. Bean regge uno speciale contenitore per campioni, appositamente studiato per l’analisi dell’ambiente lunare. Insieme a Charles Conrad Jr, l’ha appena riempito di sabbia del Cratere Sharp, nell’Oceano delle Tempeste. Sul polso sinistro della tuta è visibile l’elenco delle operazioni da svolgere; l’Hasselblad sul petto è agganciata al quadro di controllo. Una interpretazione adattata di questa fotografia è stata usata per un’emissione filatelica svedese del 29 marzo 1988: sei soggetti dedicati al contributo svedese alla storia universale [a pagina 3 e qui accanto]. Le missioni spaziali statunitensi debbono non poco alla propria documentazione fotografica, realizzata appunto con apparecchi Hasselblad, prodotti in Svezia. Il bozzettista Czeslaw Slania ha adattato la fotografia originaria alle esigenze del valore postale, per esempio eliminando il riflesso nella visiera.

La fotografia ereticale dello stupore infrange la comunicazione della lusinga, mette in discussione il concetto stesso di progresso, ormai divenuto inseparabile da quello di epilogo. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 47 Sempre che ci sia motivo per farlo, quando ci si riferisce all’esercizio fotografico (disciplina, materia, creatività), soprattutto in termini professionali, ma anche in pratica individuale non professionale, fa lo stesso, non possiamo mai precludere dalla cultura di chi fotografa: per qualsiasi motivo lo faccia. Antonio Bordoni; su questo numero, a pagina 30 Nessuno di coloro i quali compilano testi social compulsivi è intenzionato a passare a una bella penna stilografica. mFranti; su questo numero, a pagina 8 Ogni impressione è lecita, tutti i coinvolgimenti possibili sono buoni, se indicano che il tuo vicino è uguale a te. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 29

Copertina Con l’occasione, o pretesto, fa lo stesso, di una riedizione Taschen Verlag, che leggiamo come fonte di conoscenza e cultura mirata (Film noir, per l’Italia Il noir ), richiamiamo un fantastico e avvincente servizio moda di Gian Paolo Barbieri, del 1975, declinato in ispirazione, citazione e omaggio dal/del film Caccia al ladro, di Alfred Hitchcock, del precedente 1955 (quante vite fa?). Analizziamo e consideriamo da pagina 20

3 Fotografia nei francobolli Dalla compendiosa analisi Fotografia nei francobolli, di Maurizio Rebuzzini, in corso d’opera e prossima pubblicazione, dettaglio da una emissione filatelica svedese del 29 marzo 1988, in una serie di sei soggetti celebrativi del trecentocinquantesimo anniversario di New Sweden. In celebrazione della partecipazione Hasselblad (di Göteborg, in Svezia) alle missioni spaziali statunitensi, con primo allunaggio di Apollo 11, il 20 luglio 1969 [FOTOgraphia, luglio 2009], visualizzazione di una sei-per-sei Hasselblad (appunto), al petto dell’astronauta Alan L. Bean, di Apollo 12 (qui accanto, dettagli e approfondimento della vicenda).

7 Editoriale Una volta ancora, una volta di più: senso e valore della Parola. Senso e valore della Fotografia... anche

NASA

8 Nuovo Rinascimento (?) Per quanto il richiamo sia altisonante, registriamo come i produttori di smartphone richiamino la Fotografia


APRILE 2018

RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA

10 Cadillac d’autore

Anno XXV - numero 240 - 6,50 euro

A integrazione del pellegrinaggio alla camera oscura di Ansel Adam, da pagina 28, ritorno a un suo feticcio

DIRETTORE

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

IMPAGINAZIONE

12 Stephen Hawking Ricordo del celebre e amato scienziato, matematico e astrofisico, mancato lo scorso quattordici marzo... cabalisticamente pi-greco. Oltre la fotografia, c’è altro di Lello Piazza

Maria Marasciuolo

REDAZIONE

Filippo Rebuzzini

CORRISPONDENTE Giulio Forti

FOTOGRAFIE Rouge

SEGRETERIA

17 Stanley Kubrick Indipendentemente dai propri valori cinematografici, in puro e dichiarato senso feticistico, perché no?, carrellata di macchine fotografiche del celebre regista Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

20 A casa Adams La camera oscura di Ansel Adams è un luogo della Storia della Fotografia. Nel proprio insieme, rivela quella razionalità che sta alla base della creatività di Giulio Forti

24 L’isola che c’è Accompagnate da coinvolgenti poesie di Roberta Dapunt, le fotografie di L’odore della roccia, dell’attento e riflessivo Urs Bernhard configurano l’Esistenza perpetua di Maurizio Rebuzzini

30 Ispirazioni in noir Più che recensire una recente riedizione libraria (Film Noir, per l’Italia Il noir ), ci soffermiamo sull’idea e ipotesi di creatività alimentata e influenzata da mille e mille sollecitazioni esistenziali. Da cui e con cui, omaggi e suggestioni di Gian Paolo Barbieri dal cinema noir di Antonio Bordoni

38 Ritorno a Pittsburgh Al Mast, di Bologna, W. Eugene Smith: Pittsburgh. Ritratto di una società industriale, in imponente mostra di Angelo Galantini

45 Oliviero Toscani e...

Maddalena Fasoli

HANNO

COLLABORATO

Gian Paolo Barbieri Urs Bernhard Pino Bertelli Antonio Bordoni mFranti Angelo Galantini Lello Piazza Emmanuele Carlo Randazzo Mora Franco Sergio Rebosio Oliviero Toscani Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.com; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 1027671617 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard e PayPal (graphia@tin.it). ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano

Rivista associata a TIPA

Don Milani, la scuola di Barbiana e il Sessantotto di Pino Bertelli Nella stesura della rivista, a volte, utilizziamo testi e immagini che non sono di nostra proprietà [e per le nostre proprietà valga sempre la precisazione certificata nel colophon burocratico, qui accanto: «È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo)»]. In assoluto, non usiamo mai propietà altrui per altre finalità che la critica e discussione di argomenti e considerazioni. Quindi, nel rispetto del diritto d'autore, testi e immagini altrui vengono riprodotti e presentati ai sensi degli articoli 65 / comma 2, 70 / comma 1bis e 101 / comma 1, della Legge 633/1941 / Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio.

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editoriale P

arole come pietre: dovrebbe essere un imperativo vincolante. Purtroppo, al giorno d’oggi, una certa diffusione di presunte libertà di espressione e divulgazione sta sminuendo il valore e senso della parola, a favore di urgenze altre. Questa deviazione dalla linea retta vale per la Parola, come per la Fotografia, che si manifesta sempre più spesso nei medesimi territori e con le stesse declinazioni, in una forma sociale che nulla ha da spartire con quanto si è inteso come Fotografia, fino a qualche stagione fa (e ancora oggi). Allineate tra loro, la Nuova Parola e la Nuova Fotografia condividono la clamorosa assenza di disciplina e coniugazione, per lo meno riguardo quella combinazione di costituenti che compongono i tratti delle attinenti sintassi e grammatica. Rispetto momenti di altro rigore esistenziale, guidato e governato da regole e norme, l’attualità di queste personalità alterate rivela l’assenza di considerazione di se stessi, sia in partecipazione collettiva sia per contributi alla pluralità di pensiero. Ora, dopo aver volato alto, richiamando e impegnando qualcosa di prossimo ai Massimi Sistemi, torniamo tra noi: anche la parola che declina riferimenti fotografici, nostro territorio comune, sta soffrendo di malesseri in attualità. Non certo per caso, da malesseri che trovano terreno fertile nella Rete e nelle sue esigenze di rapidità e immediatezza, diverse dalla riflessione e approfondimento: soprattutto, si sta privilegiando una ricercata quantità invece di una (altrimenti) necessaria qualità. Lontani da tutto questo, nell’impegno giornalistico-redazionale in forma cartacea (questa nostra), conserviamo il senso e valore delle consecuzioni sottotraccia: dunque, a diretta conseguenza, la qualità è anteposta alla quantità. E, in modo particolare, lo è la qualità finalizzata a quella trasmissione di idee, riflessioni e considerazioni che possono fare la differenza... per quanto ci riguarda, in Fotografia; in assoluto, nella Vita, sia individuale sia collettiva. A ben guardare, mese dopo mese, questa intenzione a proposito della Fotografia sta percorrendo un cammino in solitudine, un tragitto nel quale pochi procedono accanto a noi (e non ci concedono di incedere accanto a loro). Soprattutto l’industria produttrice è sempre più distaccata dal fine ultimo della Fotografia, affaticata com’è tra i disagi del commercio quotidiano dei nostri giorni. Certo, per proprio mandato esplicito, ognuno di loro dovrebbe soprattutto produrre apparecchi fotografici (soprattutto, non soltanto). Ma non bisogna dimenticare, né trascurare, che -a propria volta- le macchine fotografiche creano immagini. Ed è questa la fantastica e magica differenza che dovrebbe distinguere anche il processo produttivo, proiettandolo verso una missione che si presenti nella società, sia quando la fotografia è realizzata da attori (professionisti) che raccontano la vita nel proprio svolgersi, sia quando la fotografia è declinata in ambito e territorio privato: in ogni caso, azione creativa attiva e non passiva. In definitiva, questa dovrebbe essere una condizione trasversale e sovrastante a tutto l’impianto commerciale della fotografia, ma in genere non lo è. Maurizio Rebuzzini

Parola nostra, su parole e fotografie... altrui. Accompagnate da coinvolgenti poesie di Roberta Dapunt, in forma e con passo di trilogia sui sensi, le fotografie dell’attento e riflessivo Urs Bernhard [su questo stesso numero, da pagina trentadue] scandiscono un cammino intimo, una contemplazione, attraverso cui l’autore rivela il proprio avvicinamento alla montagna, disegnata e definita da rocce millenarie che configurano l’Esistenza perpetua. Emozioni e partecipazioni sincere, che provengono da un altro Tempo, un’Epoca che non dovrebbe mai finire... forse. Così che, l’armonia di immagini e parole della appassionante raccolta L’odore della roccia ( Der Geruch der Felsen / The Scent of the Crag ) identifica un’isola fantastica, che le piccolezze dell’Uomo non arrivano neppure a sfiorare.

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A parlare di di Maurizio Rebuzzini (Franti)

NUOVO RINASCIMENTO (?)

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Da fine marzo, circa, una intensa campagna pubblicitaria promuove la nuova/innovativa generazione di smartphone Huawei P20 / P20 Pro con un headline che sta facendo discutere, che ha fatto sollevare scudi indignati: per approdare al concetto magnificato e ostentato di La Fotografia non sarà più la stessa, ci si fa tirare la volata (in metafora ciclistica) dall’ipotesi altisonante di Un nuovo Rinascimento della Fotografia... sia in affissione stradale (meno in Italia che all’estero), sia in spot televisivi, sia in video divulgati sulla e dalla Rete. Ovviamente, certo sdegno arriva da un approccio alla Fotografia rigorosamente puro e candido, in odore di intransigenza preconcetta e, dunque, intollerante. Certo, il richiamo al Rinascimento è (quantomeno) impegnativo e roboante, forse addirittura tronfio. Ma, diamine, è pubblicità: verso il cui linguaggio e le cui promesse ciascuno di noi è armato di proprio senso di interpretazione e/o misura, e da questo è difeso. Diversamente da quanto leggiamo in letteratura e giornalismo (?), sappiamo collocare gli accordi della pubblicità entro il proprio territorio fantastico, non necessariamente aderente a qualsivoglia idea/ipotesi di realtà e oggettività. Altrettanto certo, il Rinascimento meriterebbe altre considerazioni e approfondimenti, che non un headline pubblicitario, non fosse altro che in onore e merito a quanto e per quanto ha profondamente inciso sulla Cultura del mondo e sull’evoluzione del Pensiero, sia individuale sia collettivo. Però, nonostante tutti i distinguo possibili, non possiamo negare al linguaggio pubblicitario la ricerca e proposizione di parole e richiami in volo alto, per quanto in alto si possa voler andare. Ciò detto, e come di consueto, non prendiamo le parti di nessuno, non abbracciamo isterismi, né assecondiamo intransigenze e ostinazioni; piuttosto, cerchiamo di dialogare, analizzare e approfondire, magari anche in trasversalità di concetti. Quindi, non assecondiamo né l’esuberanza pubblicitaria, né l’intolleranza che le si è scagliata contro. Soltanto, ragioniamo: una volta

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Ognuno può intendere il Rinascimento a proprio piacere e comodo. Ovviamente, il recente richiamo di una intensa campagna pubblicitaria Huawei, per la generazione di smartphone P20 / P20 Pro (qui, in affissione internazionale), è funzionale al proprio messaggio (che, comunque, richiama la Fotografia). Personalmente, rimaniamo vincolati e fedeli al Rinascimento propriamente tale. Per esempio: La nascita di Venere, di Sandro Botticelli; tempera su tela di lino (172x278cm), databile al 1482-1485. Realizzata per la villa medicea di Castello, l'opera è attualmente conservata nella Galleria degli Uffizi, a Firenze.

ancora, una volta di più, speriamo non per l’ultima volta (forse). Eccessi fonetici a parte, come anche eccessi fonetici inclusi, qual è la trasversalità che ci pare più lecita individuare? Quella, clamorosa, che alla Fotografia si riferiscono soltanto i produttori di smartphone (Huawei, nello specifico, ma anche Apple iPhone e Samsung Galaxy). Invece, i produttori di macchine fotografiche parlano soltanto di queste, appunto macchine fotografiche, senza mai richiamare o evocare l’emozione della Fotografia (per quanto, in un certo senso, Lomography è giusto questo che ha inteso, quando ha proposto di Non pensare, scatta!; per quanto, in altro certo senso, il Photography Needs Reflection / But No Mirror, di Leica, per la sua mirrorless SL, fu pubblicitariamente declinato sulla bivalenza della Riflessione... non soltanto in termini tecnici, ma di contenuto e applicazione). Ovvero, i produttori di macchine fotografiche, ahinoi nessuno escluso, continuano ad agire come se il mercato non si fosse trasformato alla luce dello tsunami tecnologico digitale, rivolgendosi soltanto all’utenza già con-

vinta, già consapevole, alla quale insiste a proporre una eterogeneità di regolazioni tecniche. Mentre, al contrario, gli smartphone sdoganano la componente tecnicistica della ripresa fotografica, per evocarne il fascino, mistero e... gratificazione. Se ce lo consentiamo, la differenza non è poca e non va sottovalutata: soprattutto oggi, in un tempo nel quale non imperano più solo utensili predisposti (macchine fotografiche impugnate con la volontà di farlo), ma l’ipotesi di Fotografia appartiene a un quotidiano lieve e trasversale. Certo, se dovessimo approfondire verso i contenuti, tanto Rinascimento proposto si mortifica in una marea e sovrabbondanza di immagini inutili e perfino dannose, sostanzialmente divergenti da quella Fotografia che noi intendiamo, frequentiamo e promuoviamo (qualsiasi cosa questa significhi per ciascuno di noi). Ma, attenzione, i tempi sono cambiati, certe realtà, ieri l’altro inesistenti, si sono prepotentemente affacciate su una ribalta di grande visibilità. Sì, lo sappiamo; sì, ne siamo convinti: più che Fotografia, questa è Socialità... comunque sia, del nostro Tempo. Quindi, e a conclusione (di nulla, ahinoi), osserviamo con ulteriore amarezza quel nostro mondo statutario e di riferimento e di frequentazione storica (anagrafica) che valuta l’attuale diffusione di Fotografia -pardon, di Socialità- come fonte possibile e potenziale del proprio commercio. Addirittura, studi approfonditi, redatti nella compiacenza delle risposte che i commissionanti desiderano, quantificherebbero in una percentuale sostanziosa coloro i quali sarebbero potenzialmente disposti ad evolversi dallo smartphone alla macchina fotografica. Illusione! Del resto, in altro ambito (quello della parola, quantomeno scritta), non sono previste consecuzioni analoghe, né le si sognano. Ovvero, non si confondono i social con alcuna forma di letteratura. Ovvero, nessuno di coloro i quali compilano testi social in misura compulsiva è intenzionato a passare a una bella penna stilografica. Io... mi tengo la mia! ❖



Altro feticismo di Antonio Bordoni

In integrazione al resoconto di Giulio Forti dall’abitazione-studio di Ansel Adams, uno dei più conclamati fotografi del Novecento (dal cui apprezzamento incondizionato prendiamo le distanze: quantomeno, senso delle proporzioni), pubblicato su questo stesso numero, da pagina 28, è opportuno ricordare un accadimento trasversale alla Fotografia, ma coincidente con la sua socialità, di qualche stagione fa. Il 16 gennaio 1992, la filiale statunitense Victor Hasselblad Inc, di Fairfield, New Jersey, ha organizzato e svolto un’asta benefica a doppio indirizzo (allora di stringente attualità): sostenere l’economia gestionale dell’autorevole Center for Creative Photography, dell’University of Arizona (Tucson), e raccogliere fondi a favore della ricerca medica sull’Aids. Ufficialmente organizzata e svolta dall’associazione Photographers+ Friends United Against Aids, che è stata attiva dal 1988 al 1996, l’asta riguardò una sola proposta: la Cadillac Sedan DeVille bianca, del 1977, appartenuta, per l’appunto, a Ansel Adams. Se la memoria non ci tradisce, come è anche probabile che faccia, dalla base di partenza di diecimila dollari, l’aggiudicazione superò abbondantemente i settantamila dollari... senza alcuna garanzia di verità e autenticità (i documenti del tempo sono andati smarriti, per incuria). Comunque, nello specifico, sono certi i valori oggettivi dell’automobile, con targa personalizzata Zone V, l’area di grigio medio intermedia alla scala tonale perseguita da Ansel Adams attraverso il suo teorizzato Sistema Zonale, sul quale si è molto dibattuto e approfondito in tempi di fotografia bianconero esclusivamente chimica (anche su queste stesse pagine, nei mesi di origine, dal maggio 1994, soprattutto a cura di Roberto Sellitto). Completamente accessoriata e integrata con certificazioni ufficiali e ufficiose di appartenenza, questa Cadillac Sedan DeVille bianca aveva un contachilometri che attestava una percorrenza di cinquantasettemila miglia, pari a quasi novantaduemila chilometri

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In anticipo sul 16 gennaio 1992, di asta di vendita a fini benefici della Cadillac Sedan DeVille bianca, del 1977, appartenuta a Ansel Adams, l’automobile è stata presentata ed esposta in occasione del Photo East 91, a New York City, l’autunno precedente. In quei giorni, abbiamo avuto modo di avvicinare questo feticcio trasversale alla Fotografia. In documentazione, dettagli dalle targhe anteriori e posteriori della vettura, che certificano la personalizzazione Zone V, area di grigio medio, intermedia alla scala tonale perseguita da Ansel Adams attraverso il suo Sistema Zonale. Quindi, sul lunotto della Cadillac Sedan DeVille, il suo portadocumenti con i riferimenti di appartenenza... a Ansel Adams, Carmel, CA 93923.

MAURIZIO REBUZZINI (3)

I

CADILLAC D’AUTORE

(un miglio equivale a 1,60934 chilometri). È stata l’ultima automobile di Ansel Adams, che è mancato il 22 aprile 1984, a ottantadue anni (era nato il 20 febbraio 1902). Ancora, nella proposizione d’asta, l’automobile si completò, allora, con

una reflex sei-per-sei Hasselblad 500 Classic, un treppiedi Bogen 3040 (versione statunitense del Manfrotto Triman) e cento pellicole professionali Kodak. Il lancio dell’iniziativa fu allestito in occasione della fiera specializzata Photo East 91, a New York


Altro feticismo

La moderna Cadillac Sedan DeVille bianca è stata un’automobile privata di Ansel Adams, molto probabilmente la sua ultima automobile: datata al 1977 di produzione, è stata con il celebrato autore fino alla sua morte,

il 22 aprile 1984, a ottantadue anni (era nato nel 1902). Altro discorso per la leggendaria Pontiac Streamliner, del 1947 (altrove storicizzata come Ford Woody Wagon, dello stesso anno), con efficace pianale superiore.

City, in autunno, dove anche noi abbiamo avuto occasione di avvicinare questo feticcio trasversale alla Fotografia: da cui, tre istantanee di documentazione e certificazione. Ovviamente, e sempre in ambito feticistico (per certi versi trasversale a diverse considerazioni ospitate su questo stesso numero della rivista, come anche su altri numeri), la moderna Cadillac Sedan DeVille bianca è stata un’automobile privata di Ansel Adams. Non ha nulla a che vedere, né spartire, con la Pontiac Streamliner, del 1947 (altrove storicizzata come Ford Woody Wagon, dello stesso anno), con pianale superiore per la collocazione di punti di ripresa fotografica sopralzati, storicizzata in un backstage della fine degli anni Quaranta, in un’area dello Yosemite National Park, tra le montagne della Sierra Nevada, in California, all’interno del quale Ansel Adams ha realizzato molte e molte delle sue note e apprezzate fotografie. ❖


Attorno a noi di Lello Piazza

STEPHEN HAWKING

C

Cari e affezionati lettori, amanti di Robert Capa, Gian Paolo Barbieri, Gianni Berengo Gardin, W. Eugene Smith, abituati a credere a quello che vedete con i vostri occhi, ispirati dall’aforisma una fotografia val più di mille parole (che, probabilmente, ha origine dalla considerazione «Use a picture. It’s worth a thousand words», apparsa sul quotidiano The Post-Standard, di Syracuse, New York, generalizzato in Syracuse Post Standard, il 28 marzo 1911), non vi sorprenderà leggere queste righe. Le dedichiamo a Stephen Hawking, il grande astrofisico inglese, recentemente scomparso a settantasei anni (è mancato a Cambridge, lo scorso quattordici marzo). Un grandissimo uomo, che merita un posto anche nella nostra rivista e un angolino nel cuore dei nostri lettori. Stephen Hawking è un uomo di scienza e la scienza dell’Età Contemporanea, la fisica, l’astrofisica, la chimica, la biologia, ci ha abituati a non credere a quello che vedono i nostri occhi nella esperienza quotidiana (sarebbe come dire a non credere che un’immagine da sola valga più di mille parole). Sono incredibili le verità suggerite dalla Fisica Quantistica (il gatto contemporaneamente vivo e morto dell’esperimento, ideato nel 1935, da Erwin Schrödinger), e dalla Astrofisica (l’ipotesi del Multiuniverso, cioè degli infiniti universi, di cui, quello in cui viviamo, sarebbe uno dei tanti, mai verificata sperimentalmente, ma compatibile con le equazioni). Molte cose incredibili si sono dimostrate vere. Faccio un solo esempio elementare, che viene dalla Fisica. Tra molto altro che sta alla base della scienza moderna, Galileo Galilei dimostrò che una sfera che pesa un chilo e una che ne pesa venti, se lasciate cadere insieme da una torre, arrivano per terra nello stesso istante. Cioè, la velocità di caduta non dipende dal peso del corpo (per migliaia di anni, gli umani sono rimasti convinti dell’esatto contrario). A proposito dell’incredulità, quando ero piccolo, mi aveva colpito un passaggio di Attraverso lo specchio e

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quel che Alice vi trovò, di Charles Lutwidge Dodgson, universalmente conosciuto sotto lo pseudonimo di Lewis Carroll [anche fotografo; ripetute le menzioni in FOTOgraphia]. Infatti, in questo libro (seguito del più noto capolavoro Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie, sempre semplificato in Alice nel Paese delle Meraviglie) leggevo: «– Questo non lo posso credere, – disse Alice. / – No? – disse la Regina in tono di compatimento. – Provaci. Fa un respiro lungo, e poi chiudi gli occhi. / Alice si mise a ridere. / – È inutile che ci provi, – ella disse, – non si può credere alle cose

Il grande scienziato, matematico e astrofisico, Stephen Hawking sulla sua sedia a rotelle super accessoriata, con il computer che gli permetteva di comunicare col mondo.

impossibili. / – Forse non hai la pratica necessaria, – disse la Regina. – Quando io avevo la tua età, m’esercitavo per mezz’ora al giorno. Ebbene, a volte credevo nientemeno che a sei cose impossibili prima della colazione...». Allenarsi a credere a cose (apparentemente) impossibili, tutti i giorni a colazione, deve essere stata una delle specialità di Stephen Hawking (e di molti altri eminenti scienziati, Albert Einstein, Niels Bohr, Werner Karl Heisenberg). Per esempio, credere ai Buchi Neri, entità astronomiche mostruose che divorano luce e stelle, e che si sarebbero formate nei primi


Attorno a noi istanti di vita dell’Universo. Attraverso lo studio dei Buchi Neri, Stephen Hawking si è dedicato a realizzare il modello di una teoria unificatrice delle quattro forze fondamentali che reggono l’Universo (quattro, a quanto ne sappiamo oggi): la forza elettromagnetica, che agisce tra gli atomi e le molecole ed è alla base delle reazioni chimiche; la forza nucleare forte, che tiene uniti i quark che costituiscono neutroni e protoni, ma che tiene uniti anche protoni e neutroni all’interno di un atomo; la forza nucleare debole, che determina il decadimento radioattivo; e la forza gravitazionale, che tiene uniti, su scala galattica, pianeti stelle e, appunto, galassie. Queste forze si sarebbero separate nei primi istanti dopo il Big Bang, oggi universalmente accettato come nascita del Tutto.

MARCO GROB

IN BREVE (MA NON IN VELOCITÀ)

1942. Stephen William Hawking nasce a Oxford, l’otto gennaio, esattamente trecento anni dopo la morte di Galileo Galilei: ci teneva a sottolinearlo. 1946. All’età di quattro anni, comincia a frequentare la scuola primaria presso la Byron House School, nel sobborgo londinese di Highgate, e -inizialmente- mostra difficoltà a imparare a leggere («Ero uno studente medio, e la mia calligrafia era la disperazione dei miei insegnanti. Ma i miei compagni di classe mi hanno dato il soprannome di Einstein, quindi, presumibilmente, hanno visto in me di qualcosa di meglio dei miei insegnanti»: da My Brief History, di Stephen Hawking, del 2013). 1959. All’età di diciassette anni, entra all’università, dove rivela e coltiva un grande interesse per la musica, la scienza e la fantascienza. 1962. Si laurea con lode in Scienze Naturali e comincia il suo lavoro presso la Trinity Hall, di Cambridge (quinto college più antico dell’Università di Cambridge, fondato, nel 1350, da William Bateman, vescovo di Norwich). Si appassiona all’argomento accademico di maggior dibattito in quegli anni: il Big Bang e l’origine dell’Universo. 1963. Gli viene diagnosticata una malattia degenerativa simile alla Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA) e due soli anni di vita. 1965 - 1970. Prosegue gli studi sui Buchi Neri ed elabora alcune teorie che spiegano l’evoluzione dell’Universo. 1979. Viene nominato titolare della Cattedra Lucasiana di Matematica (Lucasian Chair of Mathematics), all’Università di Cambridge, che fu coperta da Isaac Newton (1643-1727), uno dei suoi idoli scientifici. 1985. Stephen Hawking viene colpito da una grave polmonite: sottoposto a una tracheotomia permanente, perde la voce. Mentre si trova in coma farmacologico, i medici vorrebbero staccarlo dalle macchine che lo mantengono in vita, ma la moglie Jane si oppone. Un tecnico di Cambridge, l’ingegnere informatico David Mason, in questi anni, costruisce per lui un sintetizzatore vocale che trasforma in suono ciò che Stephen Hawking scrive su un apposito computer. In questo modo, lo scienziato riesce a comunicare, molto lentamente e con una frequenza di non più di quindici parole al minuto. 1986. Nonostante il suo ateismo, Stephen Hawking viene nominato membro della Pontificia accademia delle scienze, dello Stato del Vaticano. 1988. Pubblica il suo capolavoro Dal Big Bang ai Buchi Neri. Breve storia del Tempo [in grafia che preferiamo]. 2005. A causa della debolezza dovuta all’invecchiamento, perde i movimenti impercettibili alle dita, che gli permettono di muovere autonomamente la sua sedia a rotelle elettrica e digitare sulla tastiera. Viene messo a punto, per lui, un sistema di riconoscimento facciale, che trasforma in parole i movimenti minimi della bocca, della guancia destra e delle sopracciglia, collegato al computer tramite infrarossi sugli occhiali. Con questo sistema, Stephen Hawking riesce a scrivere quasi dieci parole al minuto. 2009. Rischia nuovamente la vita, per una polmonite. Lascia la Cattedra Lucasiana, rimanendo, però, fino alla morte, direttore del Dipartimento di Matematica Applicata e Fisica Teorica. 2018. Cambridge, muore il quattordici marzo. Per chi è interessato alla cabala, il giorno dedicato/riconducibile a pi-greco (il numero irrazionale trascendente che rappresenta il rapporto tra la lunghezza di una circonferenza ideale e quella del suo diametro, usualmente scritto con il troncamento 3,14, che nella notazione americana mese-giorno indica, per l’appunto, il quattordici marzo, data che anche FOTOgraphia ha ricordato, prima, e festeggiato, poi, nel 2015, in occasione di una opportunità assolutamente unica, che si ripete ogni mille anni! In grafia anglosassone, con mese anteposto alla data, seguìto da anno, e poi dall’orario, il 14 marzo 2015 si sono allineate le prime nove cifre decimali: alle 9,26 e 53 secondi, si è avuto 3,141592653 [FOTOgraphia, febbraio e aprile 2015]).

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Attorno a noi

Stephen Hawking è apparso in cartoni animati, quali I Simpson e Futurama (a destra), e nelle serie tv Star Trek: The Next Generation e Big Bang Theory. Come personaggio contemporaneo, è stato protagonista del film-biografia Hawking (di Philip Martin, del 2004, interpretato da Benedict Cumberbatch) e del film La teoria del tutto ( The Theory of Everything, di James Marsh, del 2014, interpretato da Eddie Redmayne, che ha vinto l’Oscar come miglior attore per la sua performance). Ancora dal cinema, va citata la biografia Hawking (in Italia, Hawking: questa è la mia vita), di Stephen Finnigan, del 2013, nella quale fu co-sceneggiatore insieme con lo stesso regista e attore interpretante

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se stesso adulto (nel cast, altri cinque attori in età crescenti). A certificazione di fama e apprezzamento planetari e incondizionati, ricordiamo anche che Stephen Hawking viene citato in due brani dei Pink Floyd: Keep Talking (1994) e Talkin’ Hawkin’ (2014). A sinistra, per concludere, visualizziamo la chiusura della puntata dei Simpson andata in onda all’indomani della sua scomparsa, il quattordici marzo. Stephen Hawking, co-protagonista nell’episodio Hanno salvato il cervello di Lisa, alla fine della decima stagione, appare mentre trasporta in volo la stessa Lisa Simpson, seduta sulle sue ginocchia, a bordo della sua leggendaria sedia a rotelle.


Stephen Hawking è stato sul punto di riuscirci, ma, per il momento, le osservazioni sperimentali non hanno confermato le equazioni del suo modello unificante. Per esempio, la formulazione dell’ipotesi dell’esistenza di una radiazione, denominata Radiazione di Hawking, una delle poche forme di energia che riuscirebbe a sfuggire a un Buco Nero, non è mai stata osservata sperimentalmente, anche se le equazioni dicono che esiste. Questa mancanza di conferme sperimentali sarebbe anche il motivo per cui non gli è mai stato assegnato il premio Nobel. Che, però, gli sarebbe dovuto essere assegnato per almeno un altro motivo. L’importanza straordinaria e unica che Stephen Hawking ha avuto nel portare alla conoscenza della gente comune la struttura incredibile dell’Universo nel quale viviamo e la natura

SINTESI A CURA DI LELLO PIAZZA

Stephen Hawking sperimenta la gravità zero, durante un volo a bordo di un Boeing 727 modificato della Zero Gravity Corp, uno degli aerei su cui si addestrano gli astronauti, per imparare a lavorare in assenza di gravità. Alla sua destra, Peter Diamandis, fondatore della Zero Gravity, e, a sinistra, Byron Lichtenberg, ex Shuttle Payload Specialist e ora presidente di Zero Gravity. Stephen Hawking aveva sognato di partecipare a un volo sub-orbitale, da realizzarsi nel 2009 su un veicolo spaziale della Virgin Galactic.

© JIM CAMPBELL / AERO-NEWS NETWORK

Attorno a noi

altrettanto incredibile del Tempo. Il suo libro Dal big bang ai buchi neri. Breve storia del tempo ha venduto nove milioni di copie (titolo originale dell’opera A Brief History of Time: From the Big Bang to Black Holes [e, per mille motivi, tutti leciti, in adeguata graduatoria di scrittura, l’edizione italiana avrebbe dovuto titolare Dal Big Bang ai Buchi Neri. Breve storia del Tempo: la differenza è sostanziale]). Attraverso una non difficile lettura, si compie un viaggio emozionante nel nostro Universo. Ve lo consiglio. A me dà lo stesso piacere sentimentale che provo leggendo L’infinito, di Giacomo Leopardi. Altre ragioni contribuiscono a rendere Stephen Hawking un gigante della specie Homo sapiens. Il grande coraggio con cui ha affrontato una malattia degenerativa dei motoneuroni, una specie di SLA (Sclerosi Laterale Amiotrofica), che gli fu diagnosticata nel 1963, insieme a una previsione di vita di un paio d’anni. In realtà, Stephen Hawking è riuscito a sopravvivere, studiare e fare scoperte per altri cinquantacinque anni. Tre figli, due mogli, pubblicazioni scientifiche tra le più importanti della Storia recente della Fisica, dalla sua sedia a rotelle, Stephen Hawking ha trovato anche il tempo e la forza di manifestare le proprie preferenze in campo sociopolitico. È stato uno strenuo difensore del Welfare State (Stato sociale), che in Inghilterra ha subìto crudeli ridimensionamenti a causa degli interventi di Margareth Thatcher (primo mi-

nistro del Regno Unito dal 4 maggio 1979 al 28 novembre 1990). È stato un sostenitore del Labour (il Partito Laburista di sinistra, in Inghilterra) e si è pronunciato contro la Brexit. Nominato dalla regina Elizabeth II commendatore dell’Ordine dell’Impero Britannico, Stephen Hawking ha rifiutato il cavalierato, che prevede il titolo di “sir” davanti al nome. Ha motivato, affermando di detestare il concetto stesso di “cavaliere”. Ha polemizzato anche con il governo israeliano, per la politica attuata nei confronti dei palestinesi della Striscia di Gaza, annullando una serie di conferenze previste in Israele. Nel 1979, è stato nominato titolare della Cattedra Lucasiana di Matematica (Lucasian Chair of Mathematics), all’Università di Cambridge, che fu coperta da Isaac Newton, uno degli idoli scientifici di Stephen Hawking. Chiudo con i suggerimenti che ha lasciato per i suoi tre figli: «Uno: abbiate come riferimento le stelle e non la punta dei vostri piedi. Due: non smettete mai di lavorare. Il lavoro vi dà delle motivazioni e la vita non ha senso senza lavoro. Tre: se sarete abbastanza fortunati di trovare l’amore sulla vostra strada, coltivatelo e non lasciate che vi sfugga via» («One, remember to look up at the stars and not down at your feet. Two, never give up work. Work gives you meaning and purpose and life is empty without it. Three, if you are lucky enough to find love, remember it is there and don’t throw it away»). La cultura è bellezza. ❖

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Cinema

di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

Nel proprio privato, molti personaggi del cinema e dello spettacolo frequentano / hanno frequentato la fotografia. Alcuni, perfino con risultati espressivamente e contenutisticamente consistenti. Nessun nome, nessun casellario; quantomeno, non qui, non ora. Soltanto, e subito in argomento, una menzione si eleva sopra tutte, sia per la statura del regista in questione, sia per una considerazione presto riferita: prima di impegnarsi nel cinema, Stanley Kubrick (1928-1999) è stato fotografo professionista, nell’ambito del fotogiornalismo (circa). Tra tanto altro, lo hanno certificato e testimoniato due iniziative autonome, ma collegate (in un certo modo e senso): una lontana monografia illustrata Stanley Kubrick. Ladro di sguardi, pubblicata in edizione italiana da Bompiani, nel 1994, e una più recente mostra Stanley Kubrick Fotografo - Gli anni di Look (1945-1950), allestita al centrale Palazzo della Ragione, di Milano, nella primavera-estate 2010, alla quale sopravvive l’ottimo volume-catalogo Stanley Kubrick. Fotografie 1945-1950, pubblicato da Giunti Editore. A queste due edizioni librarie, sta per aggiungersene una terza, prevista per la tarda primavera, come volume-catalogo dell’imponente allestimento scenico della mostra Through a Different Lens. Stanley Kubrick Photographs, al Museum of the City of New York, dal prossimo tre maggio al successivo ventotto ottobre. A cura di Luc Sante, personalità di spicco della riflessione fotografica, figura più che degna di nota, e con i contributi redazionali di Sean Concoran (Curator of Prints and Photographs dello stesso Museum of the City of New York, già Assistant Curator of Photographs alla George Eastman House) e Donald Albrecht (Curator of Architecture and Design al Museum of the City of New York), Stanley Kubrick Photographs. Through a Different Lens è una monografia di trecentoventotto pagine 26,7x33cm proposta in edizione monolingua inglese, francese o tedesco: 50,00 euro... e avremo modo di approfondire, di analizzare, di presentare.

(PRESUMIBILMENTE) JACK KUBRICK

N

STANLEY KUBRICK

Fine anni Quaranta, prossimo ai vent’anni, Stanley Kubrick in posa da fotografo, in sala di posa, con Rolleiflex Standard e flash a lampadine. Immediatamente a seguire, sarà fotografo professionista, inviato del settimanale Look Magazine [da cui, la mostra Stanley Kubrick Gli anni di Look (1945-1950), al Palazzo della Ragione, di Milano, nell’estate 2010].

(Quindi, a parte le centinaia di monografie che raccontano il cinema del leggendario regista -in testa alle quali collochiamo, senza alcun dubbio, le edizioni Taschen Verlag [ancora loro, sempre loro!] di The Stanley Kubrick Archives, Stanley Kubrick’s “Napoleon”. The Greatest Movie Never Made e The Making of Stanley Kubrick’s “2001: A Space Odyssey” [FOTOgraphia, dicembre 2014 e novembre 2015]-, ricordiamo ancora e anche l’ottimo e imperdibile Stanley Kubrick. Una vita per immagini, a cura della moglie Christiane Kubrick, con prefazione di Steven Spielberg, pubblicato in italiano da Rizzoli, alla fine del 2003 [FOTOgraphia, aprile 2004]). Da cui, e in consapevole feticismo dell’oggetto -al quale, peraltro, ci riferiamo spesso, soprattutto là dove

e quando riflettiamo a nostro modo sugli utensili della fotografia, come, per esempio, sul Significato delle cose, lo scorso marzo-, non torniamo tanto alla Fotografia di Stanley Kubrick, per la quale rimandiamo alle due edizioni librarie appena richiamate e a quella in arrivo (sulla quale torneremo), ma ci limitiamo a incontrare gli apparecchi fotografici che ha usato e con i quali si è espresso e con i quali ha dialogato: come ciascuno di noi fa, siamo sinceri (una volta tanto), nella propria frequentazione individuale della stessa Fotografia... qualsiasi cosa questa significhi per ognuno di noi. In questo senso, la prima testimonianza visiva e tangibile di Stanley Kubrick con una macchina fotografica la dobbiamo al padre Jack, che lo ha fotografato in posa / posato (da fotogra-

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Cinema

Nel 1947, Stanley Kubrick fu inviato da Look sul set del film The Naked City, di Jules Dassin (in alto, a sinistra), dove e quando conobbe e fotografò Weegee (qui sopra), la cui monografia Naked City, del 1945, ha ispirato la sceneggiatura del film. A seguire, lo ingaggiò come fotografo di scena del suo film Il dottor Stranamore (in alto, a destra). Quindi... apparecchi fotografici Nikon a telemetro e reflex in parata: Nikon S2 al collo, sul set di Lolita, del 1962 (a sinistra); ancora Nikon S2, sul set di Spartacus, nel 1959 (a destra, al centro); Nikon F appena acquistata, con Peter Sellers (nel film, colonnello Lionel Mandrake, presidente Merkin Muffley e dottor Strangelove), nei giorni di riprese di Il dottor Stranamore (a destra, al centro); ancora Nikon F al collo del sergente-fotografo Joker interpretato da Matthew Modine, protagonista di Full Metal Jacket (qui a destra).

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Cinema

Stanley Kubrick Photographs. Through a Different Lens; a cura di Luc Sante; con contributi redazionali di Sean Concoran e Donald Albrecht; Taschen Verlag, 2018 (distribuzione: Inter Logos, strada Curtatona 5/2, 41100 Modena; 059-412648; www.books.it); in edizione monolingua inglese, francese o tedesco; 328 pagine 26,7x33cm, cartonato con sovraccoperta; 50,00 euro. ❯ Volume-catalogo della mostra Through a Different Lens. Stanley Kubrick Photographs, al Museum of the City of New York, dal tre maggio al ventotto ottobre prossimi.

fo), alla fine degli anni Quaranta, prossimo ai vent’anni [a pagina 17], con Rolleiflex Standard (K2), in produzione dal 1932 al 1938, in tre varianti (gennaio 1932 - gennaio 1934, febbraio 1932 - gennaio 1935 e novembre 1932 - maggio 1938). Ancora Rolleiflex tra le proprie mani, sul set del film The Naked City, di Jules Dassin (1948; in Italia, La città nuda), in veste e adempimento di inviato da Look Magazine [pagina accanto, in alto, a sinistra]. Proprio su questo set ha conosciuto e fotografato il mitico Weegee [pagina accanto, in alto, al centro], la cui epocale raccolta fotografica Naked City, del 1945, ha ispirato la sceneggiatura del film. Quindi, sedici anni dopo, Stanley Kubrick regista ingaggiò Weegee come fotografo di scena per il suo film Il

dottor Stranamore - Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba, del 1964 (Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb); in un curioso backstage dell’epoca, i due personaggi osservano con attenzione una biottica Rolleiflex insonorizzata [pagina accanto, in alto, a destra]. Altre macchine fotografiche di Stanley Kubrick: con Nikon S2, sul set di Lolita, del 1962 (esterno in un garage di Aston Clinton, nei pressi di Aylesbury, trasformato per l’occasione in una stazione di servizio statunitense; a sinistra, Oswald “Ossie” Morris, direttore della fotografia) [pagina accanto, a sinistra], e Spartacus, nel 1959 (con altre Nikon a telemetro al collo) [pagina accanto, al centro]; con Nikon F, nuova fiam-

Stanley Kubrick con Polaroid 110A, sul set di 2001: Odissea nello spazio, film cult del 1968. Nella monografia Stanley Kubrick. Una vita per immagini, la moglie Christiane annota: «Scattava in bianconero per controllare luci e esposizione; conservo tuttora migliaia di polaroid di 2001, che non sono affatto sbiadite nei successivi trent’anni» (e altri venti si sono aggiunti, nel frattempo).

mante, comperata assieme con Peter Sellers, durante la lavorazione di Il dottor Stranamore [pagina accanto, al centro]; con Polaroid 110A sul set di 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey, del 1968 [FOTOgraphia, dicembre 2014 e novembre 2015], quando, da testimonianza della moglie Christiane (in Stanley Kubrick. Una vita per immagini ), «scattava in bianconero per controllare luci e esposizione») [qui sopra]; dietro la cinepresa, sul set di Full Metal Jacket, del 1987, con Matthew Modine (attore con frequentazione fotografia vera), il sergente-fotografo Joker, protagonista del film (con Nikon F Photomic) [pagina accanto, al centro, in basso]. Cosa significa tutto questo? Forse niente. ❖

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A CASA ADAMS

Classica e iconica mailbox davanti all’abitazione di Ansel Adams, a Carmel, sulla penisola di Monterey, nella contea omonima, in California, Stati Uniti, centoventi miglia a sud da San Francisco (centonovanta chilometri).

di Giulio Forti

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ella camera oscura di Ansel Adams (19021984) avevo sentito parlare più volte dai colleghi americani. Nel 1993, non c’erano le possibilità che abbiamo oggi per sbirciare tra le fotografie del web o guardare un video su YouTube, tanto per farsi un’idea di come fosse quella darkroom; l’unica opzione di avvicinamento si basava sulla sua trilogia tecnico-manualistica edita in italiano da Zanichelli (Il negativo, La stampa e La fotocamera, del 1987, 1988 e 1989 [FOTOgraphia, aprile 2005]; ai quali, ancora, si aggiunge anche L’autobiografia, del 1993). Trovandomi a San Francisco, andai a vedere di persona: Carmel, sulla penisola di Monterey, nella contea omonima, in California, dove Ansel Adams ha vissuto, dista soltanto centoventi miglia da San Fran-

cisco, centonovanta chilometri a sud. [A proposito di Carmel-by-the-Sea: l’attore e regista Clint Eastwood ne è stato sindaco, dall’aprile 1986 al gennaio 1988]. In ordine con la tecnologia di comunicazione del tempo, via fax, contattai Andrea Stillman, sua assistente molti anni prima, in stagioni di attività fotografica, e poi, dopo la sua scomparsa (22 aprile 1984), curatrice delle scelte editoriali delle opere per manifesti, calendari e altri utilizzi, oltre alle monografie che vengono ancora pubblicate, tra le quali, va ricordata l’anomala e imprevista (?) Ansel Adams in Color (pubblicata da Little, Brown Book Group, in quello stesso 1993 [dal 2009, è disponibile una Revised and Expanded Edition]), alla cui selezione aveva collaborato. Carmel Highlands è a quindici minuti d’auto da Monterey, e trovare casa Adams non è stato difficile, anche grazie alla classica mailbox lungo la strada.

La camera oscura di Ansel Adams è diventata un luogo della Storia della Fotografia che non rivela armi segrete del grande fotografo, ma solo razionalità. L’arma vera è stata la straordinaria sensibilità tecnica ed estetica dell’Uomo: anche questa è la base ideologica della Fotografia 20


GIULIO FORTI (4)

Andrea, giovane e bella signora, mi accolse e mi guidò alla scoperta dello studio, dopo un’occhiata allo splendido panorama sul Pacifico, che «diventa uno spettacolo, quando passano le balene». La casa sembra costruita attorno alla camera oscura di Ansel Adams, stretta e lunga come un corridoio, e all’area per la finitura delle copie. Oggi, il salotto è una sala di esposizione, ma allora era arredato con poltrone, divani e tavolini, disposti accanto a un pianoforte a coda. Per chi non lo sapesse, Ansel Adams nasce come pianista... dunque si trattava del suo strumento musicale. Sulle pareti, tinte con quel grigio medio del suo teorizzato Sistema Zonale (ampiamente noto... speriamo), spiccavano incorniciate molte delle famose fotografie di Ansel Adams: in grandi dimensioni, Monolith, the Face of Half Dome, del 1927. Ovviamente, sia il lucernario sia le lampade della stanza sono stati studiati per la migliore illuminazione delle fotografie esposte.

LA CAMERA OSCURA Nella camera oscura di Ansel Adams si entra attraverso una stretta porta scorrevole. Subito a destra,

un ampio banco di lavoro, con una bilancina di precisione, è l’area dei prodotti chimici. Una cinquantina di contenitori fanno mostra di sé, occupando tre mensole con prodotti liquidi e in polvere con i quali preparare i bagni rivelatori e di fissaggio: idrochinone, metolo, fenidone, borace, iposolfito, selenio... e chissà cos’altro. Molti sono etichettati Kodak (Eastman Kodak Company), a cominciare dal leggendario, longevo e tanto frequentato D-76 [sviluppo in polvere per pellicola bianconero; è (stato) sempre usato in soluzione stock oppure monouso, in diluizione 1:1, per una maggiore nitidezza, per quanto accompagnata da un lieve aumento dell’effetto grana; tra le sue caratteristiche e proprietà, si segnala il rendimento ottimale della sensibilità della pellicola, accompagnato con una gamma ampia tonale e una eccellente modulazione tonale; ancora, pertinente latitudine di posa, anche in caso di sovra sviluppo]. Accanto alla mensola, appesi, ci sono i grembiuli di lavoro, sponsorizzati Oriental, produttore della carta preferita da Ansel Adams... ma Andrea non nasconde che la preferenza non era puramente tecnica.

L’abitazione di Ansel Adams è strutturata attorno la sua leggendaria camera oscura, stretta e lunga come un corridoio. Tinteggiato nel grigio medio del suo teorizzato Sistema Zonale [ Zone V; anche da pagina 10, su questo stesso numero], oggi, il salotto si offre e propone come sala di esposizione delle opere (sulla parete di sinistra, un ingrandimento di generose dimensioni di Monolith, the Face of Half Dome, del 1927). In origine, era arredato con poltrone, divani e tavolini, disposti accanto al pianoforte a coda di Ansel Adams, abile pianista.

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La razionalità della camera oscura di Ansel Adams, elemento basilare dell’esercizio fotografico senza tempo, è scandita da una consecuzione logica di elementi, materiali e utensili. I prodotti chimici, in polvere e liquidi, con i quali preparare i bagni di trattamento, sono ordinati su tre mensole. Quindi, si segnala l’ingranditore orizzontale artigianale per negativi 8x10 pollici (20,4x25,4cm), a illuminazione diffusa, con trentasei lampadine spot indipendenti da 50 watt ciascuna. Ampie vasche per il trattamento delle copie e grembiuli di lavoro, sponsorizzati Oriental, produttore di ottime carte fotografiche.

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Sulla sinistra, l’ingranditore orizzontale artigianale, che Ansel Adams fece costruire a San Francisco, per stampare in grandi dimensioni dalle sue lastre e pellicole piane 8x10 pollici (20,4x25,4cm). L’illuminazione è diffusa, ma la sorgente di luce, tipo bromografo, è costituita da trentasei lampadine spot da 50 watt, ognuna dotata di proprio interruttore. Questa soluzione permette di regolare l’intensità della luce in proiezione in relazione alle diverse densità delle aree del negativo. Quanto al calore, i 1800 watt delle lampade vengono fatti sfogare attraverso due camini, mentre l’ambiente circostante offre una ventilazione adeguata. Di fronte all’apparato, centrata sull’obiettivo di proiezione/ingrandimento, è collocata una parete metallica, sulla quale fissare la carta sensibile in foglio con un marginatore magnetico; ma è prevista anche per l’uso di carta in bobina. I due elementi sono mobili su rotaie, e lo spostamento/scorrimento per le diverse necessità è gestito da motori elettrici. Dietro la parete mobile, c’è l’area per la stampa dei negativi 4x5 pollici (10,2x12,7cm), fornita di due efficaci ingranditori Beseler (altro marchio nobile e storico della fotografia chimica), uno dei quali dotato di filtri per

stampare su carta bianconero a contrasto variabile. Per la durata dell’esposizione, nessuno strumento: Ansel Adams si è sempre affidato quasi esclusivamente al conteggio mnemonico.

TRATTAMENTO E FINISSAGGIO Sul lato opposto dei bagni di trattamento, separato dall’area umida, un piccolo spazio è riservato al caricamento delle pellicole piane e a rullo nelle bacinelle per lo sviluppo. La lunga vasca per lo sviluppo può ospitare tre bacinelle 50x60cm accostate (sviluppo, arresto, fissaggio), e anche qui sono a portata di mano i componenti liquidi da un gallone, pronti per la diluizione. All’estremità sinistra della vasca, un fusto d’acciaio da quindici galloni contiene il Kodak Dektol, rivelatore in polvere per carta, a elevata capacità e velocità di sviluppo uniforme; all’estremità opposta, c’è un altro fusto d’acciaio da venticinque galloni, per il fissaggio. Numerosi i cilindri graduati per miscelare le giuste quantità e, ad asciugare, le tank in acciaio per lo sviluppo delle pellicole. Tre termometri controllano la temperatura dei bagni a 20°C; il tempo di sviluppo è affidato, sulla mensola, al più clas-


GIULIO FORTI (9)

sico dei timer da camera oscura, il GraLab (uno dei classici senza tempo, ancora oggi in produzione). Tutte le luci, chiare e di sicurezza, si accendono con cordicelle. Altre vasche quadrate sono riservate al lavaggio di negativi e stampe. Operazione da non sottovalutare (mai!); condizione importantissima per la conservazione nel tempo, alla quale, al pari di ogni autore scrupoloso, Ansel Adams dedicava molta attenzione. Le copie nei formati fino al 30x40cm venivano lavate nelle vasche verticali di Zone VI (produttore statunitense specializzato in dotazioni per la fotografia fine art ), dotate di separatori per più copie: il lavorio meccanico dell’acqua corrente garantisce un risultato eccellente e idoneo. Per le copie da archivio, di dimensioni superiori, occorrevano -invece- due bacinelle: la superficie della copia viene mossa e rivoltata più e più volte in poca acqua pulita, poi passa nella seconda bacinella con acqua pura, per lo stesso trattamento, e così via, passando dall’una all’altra bacinella, ogni volta con acqua pulita, per almeno una dozzina di volte. Questa azione ripetuta può apparire tediosa, e forse lo è anche, ma ottimale per raggiungere il risultato migliore, e pre-

fisso, con coerente riduzione di consumo di acqua. Concluso il lavaggio, la copia fotografica su carta baritata va poggiata su un piano liscio e leggermente inclinato, per eliminare l’acqua in eccesso usando una apposita spatola, tipo lavavetro, ma con una lama in gomma morbida, prima di essere messa ad asciugare all’aria. Per questo, Ansel Adams si è costruito un essiccatoio con tanti ripiani estraibili, costituiti da un telaio e da una rete di plastica ben tesa, che fa passare l’aria che lentamente asciuga la copia a faccia in su (in un locale ben spolverato, sia detto). Fin qui, osservazioni a partire da valori concreti e tangibili. Quindi, c’è dell’altro ancora: in tutti gli spazi aleggia la presenza percepibile di Ansel Adams; gli oggetti testimoniano del suo passaggio, della sua azione, della sua esistenza. Non si tratta di un fantasma, come quello di Alfred Stieglitz, che qualcuno asserisce di aver avvertito passando, a New York City, accanto a quella che fu la sua 291 Art Gallery (per l’appunto, al civico 291 della Fifth Avenue, a Midtown, tra la trentesima e trentunesima street). No! È esistenza risolta. ❖

Dopo il trattamento delle copie, grande attenzione per il lavaggio: condizione fondamentale per la conservazione nel tempo delle stampe. Vasche verticali di Zone VI, produttore statunitense specializzato in dotazioni per la fotografia fine art, per i formati fino a 30x40cm, e bacinelle per le copie di dimensioni maggiori. Il finissaggio si conclude con l’essiccazione all’aria delle copie, in un essiccatoio a ripiani estraibili. Tutto qui: dopo una piccola galleria di pubblicazioni, l’addio... da un luogo leggendarie, nel quale è proibito fumare.

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CERNERA

L’ISOLA

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CHE C’È Accompagnate da coinvolgenti poesie di Roberta Dapunt, in forma e con passo di trilogia sui sensi, le fotografie dell’attento e riflessivo Urs Bernhard scandiscono un cammino intimo, una contemplazione, attraverso cui l’autore rivela il proprio avvicinamento alla montagna, disegnata e definita da rocce millenarie che configurano l’Esistenza perpetua. Emozioni e partecipazioni sincere, che provengono da un altro Tempo, un’Epoca che non dovrebbe mai finire... forse. Così che, l’armonia di immagini e parole della appassionante raccolta L’odore della roccia (Der Geruch der Felsen / The Scent of the Crag ) identifica un’isola fantastica, che le piccolezze dell’Uomo non arrivano neppure a sfiorare

Urs Bernhard: L’odore della roccia ( Der Geruch der Felsen / The Scent of the Crag ); poesie di Roberta Dapunt in trilogia sui sensi; Edition Longo, 2018 (www.edition-longo.it); edizione trilingue, italiano, tedesco e inglese; cinquantatré fotografie stampate in tri-tone su carta Garda Pat; 132 pagine 31x28,5cm, cartonato; 47,00 euro. ❯ Il libro può essere ordinato anche all’autore (www.ursbernhard.com).

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di Maurizio Rebuzzini

SAS PORDOI

(DOPPIA PAGINA PRECEDENTE) TORRE

DEI

SCARPERI

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vizzero-tedesco di nascita (origine), educazione e formazione, il convincente Urs Bernhard è un fotografo capace di osservare attorno a sé con tale e tanta partecipazione emotiva, che prontamente con/divide con generosità. Filtrata attraverso commosse composizioni e inquadrature, la sua visione del mondo gode di una vista esclusiva e, per certi versi, edulcorata: dal proprio vetro smerigliato, spesso quadrato (Rolleiflex biottica, come nella combinazione con Gudrun Thielemann, presentata in FOTO graphia, del febbraio 2007), più frequentemente grande formato 4x5 pollici a banco ottico, le eventuali imperfezioni del reale scompaiono, sono meno evidenti, e l’insieme che raccoglie dà impressione di Entusiasmo e Storia. A diretta conseguenza, con tra le mani l’ottima edizione della sua monografia L’odore della roccia, in edizione trilingue (con Der Geruch der Felsen e The Scent of the Crag ), rimaniamo tutti intrappolati in una sorta di vuoto extratemporale: nelle fotografie che si susseguono le une alle altre, che si anticipano e avvicendano in armonia, non c’è traccia di alcuna (eventuale) inquietudine della Vita, ma solo una percepibile volontà che evidenzia che è ancora possibile credere nell’esistenza di un Mondo perfetto. Tanto che, rileviamolo subito, non si tratta soltanto di una raccolta di fotografie che mostra fotografie, come l’apparenza potrebbe far supporre, ma di un cammino intimo, di una contemplazione, attraverso cui Urs Bernhard rivela il proprio avvicinamento alla montagna, disegnata e definita da rocce millenarie che configurano l’Esistenza perpetua. In questo tragitto, in questo percorso, l’autore fotografo non è solo, come peraltro è stato solo al momento delle sue composizioni armoniche;


TRE CIME

RA ZESTA - SORAPISS

nella messa in pagina di L’odore della roccia (Der Geruch der Felsen / The Scent of the Crag ), le sue immagini sono accompagnate, introdotte, da poesie di Roberta Dapunt (che su quelle stesse montagne vive, assimilandone la maestosità), che cadenzano una convivente trilogia sui sensi a passo scandito: La ferma visione, L’odore dell’anima e L’organo pari. Insieme con una prefazione dello stesso Urs Bernhard, in forma di autentica lettera d’amore, sono proprio queste parole che camminano, mano nella mano, con le fotografie, fino a comporre e sottolineare un passo di emozioni e partecipazioni tanto sincere da far quasi male all’anima. Diversamente da quanto ormai ci circonda, condizionato da azioni guidate da finalità momentanee, sempre più proiettate verso la realizzazione di proprie ambizioni nascoste (ma palesi), sia la fotografia di Urs Bernhard, sia la poesia di Roberta Dapunt agiscono per quanto interessa loro elargire. Entrambi consapevoli, distinguono bene tra indirizzo privato e interesse pubblico. Le loro voci singole, così come le loro stesse voci in sintonia di intenti, provengono da un altro Tempo, un’Epoca che non dovrebbe mai finire... forse. In questa armonia di immagini e parole, L’odore della roccia (Der Geruch der Felsen / The Scent of the Crag ) si profila così come un’isola fantastica, che le piccolezze dell’Uomo non arrivano neppure a sfiorare, lontana dalle città che brulicano nel mondo. Alla fine, sollecitati da queste visioni, ciascuno di noi impara -presto o tardi, non importa- che le isole esistono, quantomeno in quelle cartoline mentali per le quali non è necessario trovare un francobollo appropriato. Ogni impressione è lecita; tutti i coinvolgimenti possibili sono buoni, purché indichino, come questa monografia sottolinea, che il tuo vicino, anche in gesto d’amore, è patologicamente uguale a te. L’odore della roccia. ❖

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Precisazione d’obbligo. Qui e oggi, si incontrano tre elementi fondamentali di ragionamento: Citazione, Omaggio e Ispirazione. Nell’esercizio della fotografia, al quale ci riferiamo e richiamiamo, a volte sono coincidenti, altre volte indipendenti. In ogni caso, insieme con Fantasia e Invenzione, sono condizioni e princìpi necessari e sostanziali della Creatività individuale, dell’azione d’autore, della sua Immaginazione: in qualsivoglia indirizzo intende esprimersi.

di Antonio Bordoni

S

empre che ci sia motivo per farlo -e noi pensiamo che ci sia proprio-, quando ci si riferisce all’esercizio fotografico (disciplina, materia, creatività), soprattutto in termini professionali, ma anche in pratica individuale non professionale, fa lo stesso, non possiamo mai precludere dalla cultura di chi fotografa: per qualsiasi motivo lo faccia. Quando introduciamo questo parametro, che consideriamo discriminante, oltre che determinante e influente, allineiamo tra loro due valori personali dell’autore; ovvero, cultura in due componenti, almeno due: un sapere che arriva dall’erudizione coltivata e alimentata individualmente -nel senso di patrimonio di conoscenze-, in combinazione con una formazione

intellettuale intima, oltre che endemica e radicata. In questo senso, i percorsi singoli e specifici sono diversi, per quanto ognuno per sé e i due insieme rispondono alla medesima matrice: l’erudizione si nutre e sostiene con lo studio e l’assimilazione di nozioni; la formazione intellettuale appartiene al proprio animo, e cresce, istante dopo istante, a partire da una radice spontanea e naturale. Meteore a parte, che si manifestano e brillano fugacemente in base e relazione a momenti contingenti (per esempio, pensiamo a certa attualità dell’indotto social e dintorni), è soltanto la coerenza culturale che sostiene e rinforza personalità fotografiche in grado di attraversare il Tempo, quantomeno i decenni, per imporsi, poi, sulla Storia. Siano professionisti o non professionisti, è lo stesso, gli autori ai quali si riconosce

ISPIRAZIONI IN NOIR GIAN PAOLO BARBIERI (4)

Più che presentare una recente riedizione libraria, che -comunque- assolviamo, quantomeno tra le righe (Film Noir / Il noir, pubblicato da Taschen Verlag), è il caso di soffermarci sull’idea e ipotesi di creatività alimentata e influenzata da sollecitazioni che arrivano da mille e mille esperienze e visioni della propria esistenza. Nel caso della Fotografia, e in allungo sulla monografia qui considerata, omaggi e suggestioni di Gian Paolo Barbieri dal cinema noir

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Nel 1975 (quante vite fa?), Gian Paolo Barbieri realizzò un fantastico servizio moda per il numero di giugno di Vogue Italia, ispirato al cinema noir, con esplicito richiamo al film Caccia al ladro ( To Catch a Thief), di Alfred Hitchcock, del 1955 (quante vite fa?). Con abilità fuori dal comune -la stessa che sempre si riferisce alla sua fotografia, di moda piuttosto che etnica, di fiori piuttosto che di introspezione-, Gian Paolo Barbieri richiamò le gesta e l’atmosfera del film, rievocando i passi della vicenda interpretata sullo schermo da Cary Grant e Grace Kelly, nelle rispettive parti del ladro John Robie e della affascinante Frances Stevens. Oggi, a distanza di decenni da quei momenti, non possiamo che rimpiangere quel cinema di atmosfera, che avvolgeva e presentava i propri contenuti in relativa chiave interpretativa, nella propria sostanza differente -perché miglioredell’attuale passo cinematografico, che antepone l’emozione (spesso artificiosa e spettacolarizzata) a ogni altro sentimento, a ogni ulteriore partecipazione passionale dello spettatore. Non certo a caso, il testo di accompagnamento di questo avvincente e convincente servizio moda di Gian Paolo Barbieri, ripetiamo e confermiamo, in Vogue Italia, del giugno 1975 [a pagina 32, la sequenza delle dodici pagine dell’intero servizio], fece esplicito richiamo all’epopea d’oro del cinema Metro e Paramount (a altre mayor, ancora); posta una domanda discriminante, in riferimento alle gesta del cinema noir [a pagina 33], la conclusione è stata esplicita: «Se la risposta è sì, l’abito lungo prêt-à-porter ha tutte le carte in regola per le sere d’estate».

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FONDAZIONE GIAN PAOLO BARBIERI

un ruolo lungo il cammino dell’evoluzione espressiva della fotografia hanno manifestato (tutti!) un modo di agire concentrato (perfino allegro), che ha permesso loro di abolire ogni sfumatura negativa dai problemi più scottanti, senza compromettere l’argomento del quale si sono occupati, rendendoli banali. E questo, a ben considerare, è servito a far sentire loro più intensamente una crescente irrequietezza creativa, nella gratificante sensazione di far parte di qualcosa, di essere importanti per qualcuno. Questi autori sono tutti gli Uomini / Donne che vedono qualcosa per la prima volta, ma che lo vedono da un’angolazione diversa. Questi stessi autori meritano tutti gli onori che il mondo e ciascuno di noi possono concedere. In queste considerazioni, a volte, non sappiamo bene come valutare, come misurare. In un certo senso, ci sentiamo un poco come quel giudice (statunitense) che si sforza di pronunciarsi in un caso di pornografia. Allo stesso modo, non siamo in grado di definire i valori in campo, ma li riconosciamo... quando li incontriamo. Comunque: valutare e misurare, non giudicare. Del resto, in interpretazione e adattamento da Memorie di Adriano, di Marguerite Yourcenar, rispondendo a una natura formata in parti uguali di cultura (erudizione?) e istinto, il vero luogo natio è quello dove per la prima volta si è posato lo sguardo consapevole su se stessi: la nostra prima (e unica) patria sono stati i libri. Ancora, la parola scritta ci ha insegnato ad ascoltare le voci. La vita ci ha chiarito i libri: osservare, piuttosto che giudicare, fino al linguaggio fotografico, straordinaria combinazione di regole logiche e usi arbitrari.

Messa in pagina del servizio moda di Gian Paolo Barbieri ispirato al film Caccia al ladro ( To Catch a Thief), di Alfred Hitchcock, del 1955, in Vogue Italia, del giugno 1975. Annotiamo che le immagini originarie, distribuite in queste pagine, sono state volontariamente scurite di tono, in ragione di una ulteriore accentuazione (forzata? spettacolare?) dell’atmosfera richiamata. Al solito, nessun giudizio, ma sola constatazione.

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IN ISPIRAZIONE (RICHIAMO) Tanto prologo (magari lungo, certamente necessario... forse), per arrivare al dunque: a una recente edizione Taschen Verlag -per la verità, riedizione in forma e contenuti riveduti-, che ha modo e maniera di suggerire, fino a ispirarle, riflessioni consequenziali. A cura degli accreditati e competenti Alain Silver, James Ursini, Paul Duncan, e Jürgen Müller, dalla fine dello scorso 2017, Film Noir è ora pubblicato nella confortevole collana Bibliotheca Universalis (tanti e qualificati i titoli), di libri che celebrano l’eclettico e composito punto di vista della prestigiosa casa editrice tedesca, sistematicamente proposti e offerti a un prezzo conveniente (tanto da poter essere addirittura identificato come “democratico”!, nel senso di popolare; tra le edizioni precedenti, si impone quella della primavera 2014). Per il vero, la copertina italiana evita il richiamo al cinema, che giudica sottinteso, per segnalare, semplicemente, Il noir. Ma il senso, ma il contenuto sono confermati; comunque, seicentoquarantotto pagine 14x19,5cm, riccamente illustrate e altrettanto cospicuamente commentate. Di fatto, la monografia, affronta capillarmente cento titoli (capolavori?) del cinema di riferimento -per l’appunto, noir-, costellato nelle proprie sceneggiature da occhi che spiano, gangster, psicopatici e femmes fatales, in un insieme nel quale inganno, tradimento e avidità dominano incontrastati. Filologicamente, questa avvincente e convincente raccolta si offre e propone come autentico e inviolabile libro fotografico a schede

sul cinema noir : dai film muti francesi e tedeschi, che hanno avviato il genere ai propri albori, fino ai riconosciuti classici, quali Il postino suona sempre due volte (The Postman Always Rings Twice), nella propria sceneggiatura originaria del 1946, diretta da Tay Garnett [nota], Vertigo (del 1958, di Alfred Hitchcock; che, in Italia, è più facile trovare come La donna che visse due volte ) e La fiamma del peccato (Double Indemnity, di Billy Wilder, del 1944). Ancora, e in doverosa continuità temporale e cinematografica, si approda a titoli più recenti, che comunque esulano dalle considerazioni che stiamo per esprimere: citazioni d’obbligo per i noti e riconosciuti Chinatown (di Roman Polanski, del 1974), Pulp Fiction (di Quentin Tarantino, del 1994), Heat (di Michael Mann, del 1995; in Italia, Heat - La sfida), Memento (di Christopher Nolan, del 2000, che abbiamo considerato nell’ottobre 2011, in relazione e dipendenza al proprio alto tasso fotografico, con polaroid) e Drive (di Nicolas Winding Refn, del 2011). Per ogni opera, Film Noir / Il noir offre locandine, rari fotogrammi, dettagli sul cast, citazioni, pareri critici e un’analisi del film. In convincente introduzione, si segnalano approfondite considerazioni di Paul Schrader, regista ed esperto del genere, nonché sceneggiatore di Taxi Driver, di Martin Scorsese, del 1976, cult cinematografico illuminato dall’interpretazione di Robert De Niro... hai detto poco!

IN ARGOMENTO Però, a conti fatti, per quanto ci riguarda direttamente, quantomeno qui, quantomeno oggi, l’essenza di questo libro non dipende dalla propria natura esplicita, quanto da un certo indotto implicito, che individuiamo e sottolineiamo: esattamente in questa consecuzione. Dall’intenso e ben confezionato apparato fotografico di accompagnamento e presentazione, a scopo fotografico mirato, individuiamo un massiccio e compatto richiamo e riferimento a un tempo e a modi di cinema nei quali, siamo sinceri, l’atmosfera sovrastava i con(continua a pagina 36) Nota. A differenza di quanto siamo soliti fare, con incisi di precisazione, il film Il postino suona sempre due volte (in originale, The Postman Always Rings Twice) richiede sostanziose considerazioni aggiuntive. Anzitutto, va sottolineato come la regia originaria di Tay Garnett, del 1946, abbia diretto le straordinarie interpretazioni dei due attori protagonisti Lana Turner e John Garfield, rispettivamente nelle parti di Cora Smith e Frank Chambers: che non hanno potuto essere superate da quelle dei pur bravi e convincenti (ma!) Jessica Lange (per l’occasione Cora Papadakis) e Jack Nicholson (Frank Chambers), del remake del 1981, firmato dal regista Bob Rafelson. Quindi, non possiamo ignorare che il romanzo originario di James M. Cain, del quale le produzioni cinematografiche statunitensi hanno conservato il titolo, è stato sostanziosa base per la sceneggiatura del film italiano Ossessione, di Luchino Visconti, del 1943 (in anticipo sulla prima trasposizione statunitense), che per mille e mille motivi politici del tempo non ha potuto accreditare ufficialmente la propria genesi. Allo stesso momento, è obbligatorio sottolineare come e quanto le interpretazioni di Clara Calamai (nei panni di Giovanna Bragana), convocata per l’indisponibilità di Anna Magnani, prima scelta, e Massimo Girotti (Gino Costa) siano state quantomeno all’altezza di quelle, appena menzionate, di Lana Turner e John Garfield. E qui, se ce lo consentiamo, potremmo anche allungarci sul valore e autorevolezza della regia (in ripetizione, di Luchino Visconti) e capacità di gestione del set cinematografico. Altra storia? Forse... ma storia con la quale fare i propri conti e allineare le proprie considerazioni.


GIAN PAOLO BARBIERI (3)

Dall’articolo L’abito da sera prêt-à-voler, testo di accompagnamento all’avvincente e convincente servizio moda di Gian Paolo Barbieri ispirato al film Caccia al ladro ( To Catch a Thief), di Alfred Hitchcock, del 1955, e declinato in forma di autentico omaggio (questo va sottolineato), in Vogue Italia, del giugno 1975: «Chiediamoci: lo indosserebbe una ladra di gioielli? Di quelle che nei film dell’epoca d’oro della Metro e Paramount vediamo sgusciare dentro camere di Grand Hotel, appiattirsi contro pareti buie, strisciare lungo i cornicioni, fuggire sui tetti e, alla fine, sempre splendide in abito lungo, coi diamanti in pugno, volar via su lustre dueposti a fianco di un impeccabile Cary Grant?».

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© 1955 ALLIED ARTISTS / TASCHEN

© 1944 RKO / TASCHEN

Film Noir (in Italia, Il noir); a cura di Alain Silver, James Ursini, Paul Duncan, Jürgen Müller; Taschen Verlag / collana Bibliotheca Universalis, 2017 (distribuzione: Inter Logos, strada Curtatona 5/2, 41100 Modena; 059-412648; www.books.it); 648 pagine 14x19,5cm, cartonato; 15,00 euro.


© 1941 FIRST NATIONAL PICTURES INC. / WARNER BROS. / TASCHEN

Femme fatale: in L’ombra del passato ( Murder, My Sweet), di Edward Dmytryk, del 1944, Helen Grayle (Claire Trevor) lavora per l’investigatore privato Philip Marlowe (Dick Powell), il personaggio seriale creato dalla penna di Raymond Chandler.

In I trafficanti della notte ( Night and the City), di Jules Dassin, del 1950, Richard Widmark interpreta Harry Fabian, un americano a Londra, imbroglione e truffatore di bassa lega. Un classico, un’icona: Humphrey Bogart nei panni di Sam Spade, coinvolto nella ricerca di una misteriosa statuetta, in Il falcone maltese (altrove, Il mistero del falco / The Maltese Falcon), di John Huston, del 1941. Il leggendario direttore della fotografia John Alton ha composto l’immagine iconica finale di La polizia bussa alla porta ( The Big Combo), di Joseph H. Lewis, del 1955: Susan Lowell (Jean Wallace) e il detective della polizia Leonard Diamond (Cornel Wilde) escono da un hangar avvolto nella nebbia.

© 1946 MGM / TASCHEN

© 1950 20TH CENTURY FOX / TASCHEN

(in questa doppia pagina, dall’alto e da sinistra)

Nella prima versione, originaria, di Il postino suona sempre due volte ( The Postman Always Rings Twice), di Tay Garnett, del 1946, Nick Smith (Cecil Kellaway), marito della perfida Cora (Lana Turner), è interrogato dalla polizia in merito alla scabrosa vicenda con omicidio [a proposito del film e della sua sceneggiatura, Nota a pagina 22].


Per il rilancio dell’ennesima edizione italiana di Playboy, nell’estate 2015 (luglio/agosto), è stato commissionato a Gian Paolo Barbieri il servizio di copertina, per il quale è stata declinata una interpretazione attuale del cinema noir.

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(continua da pagina 32) tenuti, in relativa chiave interpretativa. Forse non è semplice farlo intendere oggi, quando e per quanto il cinema ha cambiato passo, anteponendo l’emozione a ogni altro sentimento, a ogni ulteriore partecipazione passionale dello spettatore. Quindi, dopo aver individuato questo, rimarchiamo -evidenziandolo- un aspetto che si è proiettato nelle percezioni e azioni della Fotografia, in alcuni suoi tratti espressivi dominanti e determinanti. Ovvero, coscienti che ogni processo creativo recupera e riprende da infinite sollecitazioni, la stagione del cinema noir, soprattutto quello in bianconero, dalle tinte forti, ha ispirato anche tanta fotografia, ha influito sulla sua declinazione... suggestionandola. Sereno e trasparente nel proprio cammino, Gian Paolo Barbieri, figura fondante della Storia della Fotografia del secondo Novecento, è esplicito quando riconduce al cinema noir molte delle proprie visioni, prontamente riportate a un lessico fotografico di stupefacente efficacia visiva. Questo, anche questo, a conferma che, nella pro-

pria azione creativa, gli autori più capaci sono coloro i quali sanno cogliere... da tutto, non soltanto da molto, in rapida traduzione entro i propri termini espressivi. La creatività non è arida azione svincolata dall’esistenza, anche individuale, ma singolare capacità di vedere (tutto e in tutto), oltre il semplice guardare. La creatività non si coltiva, né manifesta, in uno spazio asettico e sterilizzato, ma si rivela e palesa con e nella capacità di cogliere e raccogliere stimoli e sollecitazioni, immediatamente dopo averli individuati e riconosciuti. Delle due, entrambe (e oggi, e qui, approfittiamo della trasversalità del cinema noir, consapevoli che c’è di che cogliere anche da altro tanto). Ogni progetto visivo risponde appieno alla semplificazione (non banalizzazione) con la quale l’eccezionale designer Bruno Munari ha sintetizzato il processo della creazione artistica: «Fantasia: tutto ciò che prima non c’era, anche se irrealizzabile. Invenzione: tutto ciò che prima non c’era, ma esclusivamente pratico e senza problemi estetici. Creatività: tutto ciò che prima non c’era, ma realizzabile in modo essenziale e globale. Immaginazione: la fantasia,


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l’invenzione e la creatività pensano, l’immaginazione vede». E lascia libero quello spazio individuale nel quale ciascuno può cercare le proprie strade e verifiche. Così, nello specifico, riconosciamo come e quanto Gian Paolo Barbieri abbia assimilato mille e mille lezioni, tra le quali questa specifica del cinema noir, per tracciare una strada propria, lungo la quale ha segnato una impronta di eccezionale personalità, che è sua e soltanto sua. Le ispirazioni sono sfumate e si sono diradate, una volta esaurito il proprio compito. In testimonianza, certifichiamo come e quanto la sua libreria personale sia composta da monografie illustrate quantomeno “consumate”, le cui pagine, a furia di essere sfogliate e consultate, sono ormai sfilacciate dalla rilegatura originaria (con tra le mani una copia di John Huston’s The Maltese Falcon, a cura di Richard J. Anobile, in edizione Universe Book, del 1974, ormai sfasciata e zeppa di post-it identificatori di pagine e/o immagini, lo stesso Gian Paolo Barbieri rivela... «Ci ho ricavato tante fotografie»). Quindi, eccoci qui, eccoci al nocciolo della questione, che si estende a tutta la Fotografia di Gian Paolo

Barbieri (e non solo su questa sua, qui considerata come esempio, modello e campione di una concentrazione, di un passo, di un atteggiamento: a ciascuno, il proprio). Vedere, e non solo guardare, per assimilare quella composizione dell’inquadratura capace di disporre luci e ombre significanti ed espressive. Capacità di usare il buio. Composizione pittorica del quadro, entro il quale i personaggi stanno coerentemente nella scena. Esprimere ciò che c’è, anche in evocazione di quanto si deve intuire. In una parola, unica e definitiva... Fotografia, nell’autentico senso del proprio lessico implicito ed esplicito. Oltre i richiami dichiarati che Gian Paolo Barbieri ha declinato in merito al cinema noir, per il quale ha confezionato emozionanti omaggi (che qui e oggi proponiamo in richiamo selettivo), in un tempo nel quale il redazionale della moda palpitava sulle commozioni del pubblico, andando a richiamarle e sollecitarle, c’è anche e ancora la sostanza esplicita di ulteriori appelli distribuiti nel Tempo e nel Cammino. D’autore. ❖

Passo a passo, richiamo dopo richiamo, ispirazione su ispirazione, omaggi in consecuzione e citazioni colte: la cadenza fotografica di Gian Paolo Barbieri per la prima uscita della rinnovata edizione italiana di Playboy (luglio/agosto 2015) attraversa con abilità e intelligenza l’epopea d’oro del cinema noir, evocata da una eccellente riedizione libraria di Taschen Verlag [alle pagine 34 e 35].

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© W. EUGENE SMITH / MAGNUM PHOTOS

In avvicinamento al centenario dalla nascita di W. Eugene Smith (30 dicembre 1918-2018), tra le personalità fondamentali del fotogiornalismo del secondo Novecento, la Fondazione Mast, di Bologna, propone il primo allestimento italiano del suo leggendario progetto fotografico su Pittsburgh, uno dei monumenti più concreti della Storia della Fotografia: W. Eugene Smith: Pittsburgh. Ritratto di una società industriale. In sequenza serrata, visione della Città, negli anni Cinquanta, tra luci, ombre e promesse di felicità e progresso... «Non voglio, stavolta, conoscere (fotograficamente) nessun individuo come persona completa. L’individuo, qui a Pittsburgh, è parte del fare squadra nel brulicante insieme che è la città»

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RITORNO A PITTSBURGH

W. Eugene Smith: Forgiatore ( Steelworker); 1955-1957. Stampa ai sali d’argento 23,49x33,34cm (Gift of Vira I. Heinz, Fund of the Pittsburgh Foundation).

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di Angelo Galantini

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© W. EUGENE SMITH / MAGNUM PHOTOS (3)

W. Eugene Smith: Operaio in un’acciaieria ( Workman in Mill); 1955-1957. Stampa ai sali d’argento 33,97x23,49cm (Gift of the Carnegie Library of Pittsburgh, Lorant Collection).

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iciamolo chiaramente: tutto, non solo molto, dipende dal rapporto individuale che ciascuno di noi stabilisce con quanto lo circonda. Da cui, senza approdare a una Verità assoluta e incondizionata, ovvero universale, confessiamo di intravedere i fantasmi. Lasciamo perdere quelli che tormentano la nostra esistenza individuale, che già non sono pochi, né in numero né in merito, e occupiamoci soltanto di quelli che possiamo condividere, quantomeno da qui, quantomeno da questo territorio comune che ci fa frequentare la Fotografia... qualsiasi cosa questa significhi per ciascuno di noi. Per quanto consapevoli di percepire questi fantasmi, che aleggiano qui, attorno a noi, siamo altrettanto coscienti che siamo noi a crearli e farli vivere, con i nostri ricordi. Peraltro, ricordi che riempiamo per dare senso alla nostra stessa storia. Punto. Lo scorso settembre Duemiladiciassette, abbiamo commemorato la scomparsa di John G. Morris (19162017), celebre e celebrato photo editor, mancato il precedente ventotto luglio, alla venerabile età di cento anni,

riprendendo e riproponendo un intervento rievocativo di Andy Grundberg (da The New York Times on line, dello stesso giorno, ventotto luglio), in traduzione di Lello Piazza. Questo/quel John G. Morris, Renowned Photo Editor in the Thick of History, Dies at 100 (ovvero, John G. Morris, celebre picture editor nella profondità della Storia, è mancato a cento anni ) è stato proposto e offerto come testo meritevole e valido ricordo di una delle più straordinarie personalità della fotografia del secondo Novecento. Allo stesso tempo e momento, abbiamo illustrato con ritratti di Vincenzo Cottinelli e completato con una sua testimonianza al proposito. In prologo sul soggetto esplicito di questa annotazione giornalistica -che si riferisce alla avvincente e convincente mostra fotografica W. Eugene Smith: Pittsburgh. Ritratto di una società industriale, programmata alla Fondazione Mast, di Bologna (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia), dal prossimo sedici maggio al successivo diciotto settembre-, richiamiamo questo nostro citato precedente intervento redazionale, per riprenderne un passaggio qui e ora fondante: che contestualizza e storicizza l’intero corpus fotografico di riferimento esplicito.


Testuale, da Andy Grundberg: «Una volta alla Magnum Photos, [nel 1955] John Morris crea le basi affinché W. Eugene Smith svolga un breve incarico a Pittsburgh, per realizzare un libro sulla città [per commemorarne il duecentesimo compleanno], progettato da Stefan Lorant, altro celebre picture editor [...]. W. Eugene Smith si trasferisce a Pittsburgh e vi rimane per un intero anno. Riprende più di undicimila immagini [uno dei monumenti più importanti della Storia della Fotografia]. Life è interessata a pubblicarne una selezione, ma l’autore insiste sul fatto che le fotografie migliori del lavoro debbano essere pubblicate in un inserto di sessanta pagine, all’interno della rivista. Life rifiuta, e le immagini appaiono su Photography Annual, una pubblicazione fotografica annuale, che gli dedica trentotto pagine. W. Eugene Smith si dimette da Magnum Photos, perché non riesce a produrre un fatturato adeguato, probabilmente a causa della sua ossessione per il progetto Pittsburgh, e perché non riesce a restituire un anticipo di settemila dollari avuto dall’Agenzia». Ora, questa vicenda -fondamentale nel percorso fotografico di W. Eugene Smith (1918-1978; uno dei capisaldi del fotogiornalismo del secondo Novecento), oltre

che della sua parabola esistenziale e del suo incrocio con Magnum Photos, altro Mito- rivive in allestimento scenico nelle sale della Fondazione Mast, di Bologna. Per la prima volta in Italia, viene proposto e presentato l’intero corpus fotografico che il celebrato autore (spesso beatificato) ha realizzato su Pittsburgh, in Pennsylvania, Stati Uniti, che a metà degli anni Cinquanta del Novecento si imponeva come la città industriale più famosa del pianeta. In questo Duemiladiciotto di centenario dalla nascita di W. Eugene Smith (30 dicembre 1918), l’imponente rassegna bolognese evidenzia come e quanto i suoi crediti fotografici assoluti e mai negoziati siano pienamente legittimi. A Pittsburgh, W. Eugene Smith ha confezionato e realizzato un ritratto grandioso e autentico della dinamica città statunitense, al culmine del proprio sviluppo economico. Ancora, ha composto una delle visioni più profondamente umane nella Storia della Fotografia. Anche in base a questo, anche in dipendenza di questo, in ripresa dall’incipit, «per quanto consapevoli di percepire fantasmi, che aleggiano qui, attorno a noi, siamo altrettanto coscienti che siamo noi a crearli e farli vivere, con i nostri ricordi. Peraltro, ricordi che ri-

(centro pagina) W. Eugene Smith: Area residenziale ( City Housing); 1955-1957. Stampa ai sali d’argento 33,97x26,67cm (Gift of the Carnegie Library of Pittsburgh).

W. Eugene Smith: Ragazza accanto a un parchimetro, Camera di commercio di Shadyside, Walnut Street ( Girl leaning on a parking meter, Shadyside Chamber of Commerce carnival, Walnut Street); 1955-1957. Stampa ai sali d’argento 33,66x22,22cm (Gift of the Carnegie Library of Pittsburgh, Lorant Collection).

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© W. EUGENE SMITH / MAGNUM PHOTOS (3)

W. Eugene Smith: Stabilimento National Tube Company, U.S. Steel Corporation, McKeesport, e ponte ferroviario sul fiume Monongahela ( National Tube Company works, U.S. Steel Corporation, McKeesport, and Union Railroad Bridge over the Monongahela River); 1955-1957. Stampa ai sali d’argento 22,86x34,29cm (Gift of the Carnegie Library of Pittsburgh, Lorant Collection).

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empiamo per dare senso alla nostra stessa storia». Anche in richiamo/riferimento a Pittsburgh, ma in estensione su una vita fotografica prodigiosamente scandita, W. Eugene Smith è uno dei fantasmi che ci accompagnano, giorno dopo giorno, istante dopo istante, nella nostra Vita: per quanto ci riguarda, qui e ora, qui e sempre, quantomeno in quella per e con la Fotografia. A cura di Urs Stahel, curatore della Collezione di Fotografia Industriale della Fondazione Mast, l’allestimento di W. Eugene Smith: Pittsburgh. Ritratto di una società industriale propone il nucleo principale del progetto esplicitato: centosettanta stampe vintage (per quanto possa essere Valore e costituire Differenza), provenienti dalla collezione del Carnegie Museum of Art, di Pittsburgh. In sequenza serrata, visione della Città, negli anni Cinquanta, tra luci, ombre e promesse di felicità e progresso. Tra l’altro, e oltre tanto altro reportage di spicco (nessuna citazione; ognuno si confronti con le proprie conoscenze), va ribadito che questo progetto è stato considerato dall’autore come uno dei più ambiziosi e riusciti della propria carriera; ancora, questa documentazione ha stabilito un momento di svolta nella vita professionale e personale del fotografo, allora trentaseienne.

A questo punto, e con immancabile e inderogabile autonomia di pensiero e azione (la stessa che ci rende spesso sgraditi e sgradevoli alla Società dello spettacolo della fotografia italiana), scartiamo a lato le considerazioni ufficiali e canoniche che accompagnano l’appuntamento bolognese (tra le quali, «W. Eugene Smith lottava per rappresentare l’assoluto»). Magari, e con l’occasione, rimandiamo allo Sguardo su W. Eugene Smith, di Pino Bertelli, che abbiamo ospitato e pubblicato nel maggio 2003. Ma non è ancora abbastanza, quantomeno per evocare alcun fantasma. Le storie su questo reportage sono infinite: in Rete, se ne possono trovare a centinaia. Tutte sono vere e autentiche, fino a essere... false. Ovvero, sceneggiature da favola, per accontentare il nostro attuale spirito e le nostre aspettative, nella confusa e contraddittoria era social. La Verità è un’altra: non ci sono Verità, ma supposizioni di autenticità. Ahinoi, tutte sincere. Ne proponiamo un’altra... nostra. W. Eugene Smith a Pittsburgh, alla metà degli anni Cinquanta del Novecento: esperimento (riuscito!) di intuizione fotografica nell’immediato sempre transitorio di una città che sta vivendo. Le sue caratteristiche fisiche (e il ritratto fisico)


W. Eugene Smith: Bambini che giocano tra Colwell Street e Pride Street, Hill District ( Children playing at Colwell and Pride Streets, Hill District); 1955-1957. Stampa ai sali d’argento 34,61x23,18cm (Gift of the Carnegie Library of Pittsburgh, Lorant Collection).

OF

ficamente) nessun individuo come persona completa. L’individuo, qui a Pittsburgh, è parte del fare squadra nel brulicante insieme che è la città». W. Eugene Smith ha fotografato ossessivamente, dal suo arrivo, nel marzo Cinquantacinque, fino alla sua partenza, un anno dopo (?). La gamma di luoghi e scenari che ha avvicinato attesta della capacità del suo occhio promiscuo: i ritratti dei pranzi mondani si mescolano a colpi di baraccopoli di città; le sagome spoglie delle ciminiere si appoggiano ai tableau nourish della città di notte; gli arabeschi argentati dei cortili dei treni imitano la lucentezza delle strade suburbane e la sinuosità dei letti dei fiumi. I nomi delle strade evocative di Pittsburgh -Breed Street, Love Street, Dream Street, Pride Street, Climax Street, Strawberry Way- sono diventati presagi, comprendenti dozzine, se non centinaia, di fotografie. Fantasmi personali. ❖

ARCHIVES

attraverso la linea di superficie e la caratteristica dettagliata della propria personalità, attraverso un’eloquenza di panorami data dal pensiero e dai dettagli di molti frammenti. Gli edifici lunghi e squallidi delle sue industrie, l’indistinguibilità dei suoi bassifondi, e come -a volte- entrambi abbiano lasciato posto alla pulizia di una vegetazione curata nei parchi di nuova costruzione, vicini a edifici di nuova fabbricazione. Anche quando è morbida, dal degrado imperante, la bellezza sensuale di una città che può essere osservata, guardando lungo le sue strutture e il fiume, fino alla luna che si è appena affermata al di sopra dell’orizzonte. Un ulteriore tentativo di penetrazione fotografica deriva dallo studio, dalla consapevolezza e dalla partecipazione: un risultato che trasmette un senso del carattere della città, anche allo spirito e allo spirituale. Il risultato è derivato da una prospettiva ragionevole. Altrove, nella stessa applicazione, W. Eugene Smith ha declinato un approccio più onnisciente e panoramico che in qualsiasi altro dei suoi reportage precedenti: «Con un attento esame fotografico, osserverò questi individui mentre li incontro durante la partecipazione alla vita quotidiana della città. [...] Non voglio, stavolta, conoscere (fotogra-

AMERICAN ART / SMITHSONIAN INSTITUTION

W. Eugene Smith: Operaio di un’acciaieria che prepara le bobine ( Mill Man Loading Coiled Steel); 1955-1957. Stampa ai sali d’argento 22,86x34,61cm (Gift of the Carnegie Library of Pittsburgh, Lorant Collection).

Arnold Crane: W. Eugene Smith in his workroom (da Portraits of the Photographers / 1968-1969, nella monografia On the Other Side of the Camera, del 1995 [ FOTOgraphia, dicembre 1996]).

W. Eugene Smith: Pittsburgh. Ritratto di una società industriale; a cura di Urs Stahel, in collaborazione con Carnegie Museum of Art, Pittsburgh, Pennsylvania, Usa. Mast Gallery (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia), via Speranza 42, 40133 Bologna; www.mast.org. Dal 16 maggio al 18 settembre; martedì-domenica, 10,00-19,00.

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Sguardi su

di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 28 volte febbraio 2018)

OLIVIERO TOSCANI E...

Don Milani, la scuola di Barbiana e il Sessantotto

I

Il Sessantotto è stato un’eruzione libertaria generazionale, che ha infranto l’ingiustizia che governava l’Universo. Uno dei libri che hanno annunciato la rivoluzione della gioia, nel Sessantotto, in Italia, Lettera a una professoressa (Scuola di Barbiana - don Lorenzo Milani: Lettera a una professoressa: Libreria Editrice Fiorentina, 1967 / e tante e tante edizioni successive), è opera di un

prete un po’ burbero, un po’ diverso, un po’ sovversivo: don Lorenzo Milani (e dei ragazzi della scuola di Barbiana). Esce nel maggio 1967; don Lorenzo Milani muore per un linfoma, a quarantaquattro anni, un mese dopo, il ventisei giugno: e, da quella canonica sperduta nell’Appennino toscano, senza acqua, né corrente elettrica, né una strada per arrivarci (ci vivono nemmeno quaranta anime), il grido del parroco contro l’autoritarismo nella scuola è diretto, qualche volta fe-

roce... è un testo scritto per i figli dei lavoratori, di fatto esclusi dall’università (che in massima parte accoglie i figli dei ricchi). Alla solerte professoressa fiorentina, che non voleva i pidocchiosi in classe (che non parlavano correttamente l’italiano, anche per la fame che avevano addosso), scrive: «Del resto, bisognerebbe intendersi su cosa sia la lingua corretta. Le lingue le creano i poveri, e poi seguitano a rinnovarle all’infinito. I ricchi le cristallizzano, per poter sfottere chi non

parla come loro [...]. Che siete colti, ve lo dite da voi. Avete letto tutti gli stessi libri. Non c’è nessuno che vi chieda qualcosa di diverso [...]. Solo i figlioli degli altri, qualche volta, paiono cretini. I nostri, no. E neppure svogliati. O, per lo meno, sentiamo che sarà un momento, che gli passerà, che ci deve essere un rimedio. Allora, è più onesto dire che tutti i ragazzi nascono eguali e, se in seguito non lo sono più, è colpa nostra, e dobbiamo rimediare [...]. La lotta di classe, quando la fanno i signori, è signo-

«Ma come è poca parola questa che tu m’hai fatto dire. Come è poco capace di aprirti il Paradiso questa frase giusta, che tu m’hai fatto dire. Pipetta, fratello, quando per ogni tua miseria io patirò due miserie, quando per ogni tua sconfitta io patirò due sconfitte, Pipetta quel giorno, lascia che te lo dica subito, io non ti dirò più come dico ora: “Hai ragione”. Quel giorno, finalmente, potrò riaprire la bocca all’unico grido di vittoria degno d’un sacerdote di Cristo: “Pipetta hai torto. Beati i poveri perché il Regno dei Cieli è loro”. Ma il giorno che avremo sfondata insieme la cancellata di qualche parco, installata insieme la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordatene Pipetta, non ti fidar di me, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno, io non resterò là con te. Io tornerò nella tua casuccia piovosa e puzzolente a pregare per te davanti al mio Signore crocifisso. Quando tu non avrai più fame né sete, ricordatene Pipetta, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno, finalmente, potrò cantare l’unico grido di vittoria degno d’un sacerdote di Cristo: “Beati i... fame e sete”» don Lorenzo Milani (da Lettera a Pipetta, scritta a un giovane comunista)

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Sguardi su rile. Non scandalizza né i preti né i professori, che leggono l’Espresso [...]. Il fine giusto è dedicarsi al prossimo. E in questo secolo come vuole amare se non con la politica o col sindacato o con la scuola? Siamo sovrani. Non è più tempo delle elemosine, ma delle scelte. Contro i classisti che siete voi, contro la fame, l’analfabetismo, il razzismo, le guerre coloniali» (don Lorenzo Milani: Lettera a una professoressa: Libreria Editrice Fiorentina, 1967). Tutto vero. Qui, don Lorenzo Milani tocca le tematiche del proprio tempo, e lo fa con la forza della sfrontatezza e dell’utopia. Afferma: «Io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi» (don Lorenzo Milani: L’obbedienza non è più una virtù. Documenti del processo di don Milani; Libreria Editrice Fiorentina, 1965). Si capisce perché il Sant’Uffizio ordina la censura del suo primo libro, Esperienze pastorali (don Lorenzo Milani: Esperienze pastorali; Libreria Editrice Fiorentina, 1957 / e edizioni recenti, ancora in distribuzione libraria) e, successivamente, il prete di Barbiana viene più volte minacciato di sospensione a divinis: tra i ragazzi del Sessantotto, la seminagione dei suoi scritti fu esplosiva, dilagante, atonale a quanto correva nella sinistra comunista e nei beghini democristiani. Le parole di don Lorenzo Milani rinnegavano i titoli risolutivi della civiltà moderna e mostravano anche possibilità e disobbedienze contro tutto ciò che rappresentava l’assoluto della chiesa e dei partiti. Sotto ogni formula, giace un’oppressione secolare; e i politici, insieme alle gerarchie ecclesiastiche, sono gli assassini gentili di vittime predestinate.

LA RIVOLUZIONE DELLA GIOIA NEL SESSANTOTTO Una delle letture più attente di Lettera una professoressa è quella di Pier Paolo Pasolini. Il libro lo impressiona, scrive che il «contenuto ideale violentissimo, addirittura, in certi momenti, meravigliosamente terroristico, dei ragazzi di Barbiana, si immerge però, prende for-

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ma, dentro uno schema, che è lo stesso schema della moralità contadina diventata piccolo-borghese della professoressa»... dice anche che si è trovato tra le mani uno dei più bei libri che abbia letto negli ultimi anni (Pier Paolo Pasolini: Saggi sulla politica e sulla società; Mondadori, 1999). Nella filosofia educatrice di don Lorenzo Milani, Pier Paolo Pasolini aveva avvertito quella fierezza delle sconvenienze che non s’impara a scuola, ma nella strada... l’ostilità appassionata di una folgorazione del giusto, del buono, del bello, che farà saltare in aria le illusioni degli dèi e le mediocrità delle caste istituzionali. I giovani irrequieti del Sessantotto, e per un certo tempo, riusciranno a far provare paura a chi l’aveva sempre inflitta, e nella creatività dei loro

eccessi, dismisure e sregolatezze mostrare di che nullità erano fatti i partiti (Pino Bertelli: Il cinema di Guy Debord. L’Internazionale Situazionista e la rivoluzione della gioia nel ’68; Interno4, 2018). L’ostilità delle giovani generazioni verso coloro che sono ossessionati dal peggio, incarnato dai politici, è frutto di una lucidità culturale e passionale che porta all’insubordinazione, e l’abdicazione -anche estrema- di qualsiasi tirannia verrà sempre troppo tardi. Nel disordine delle idee, la fotografia ereticale di Oliviero Toscani riporta allo stupore del cuore: e, dentro la pratica di una fenomenologia dei sentimenti struccati, insegna a decostruire l’ordine del discorso fotografico imperante e disseminare la felicità possibile nel rovesciamento di prospettiva di un

destino imposto, che non va aiutato a sopravvivere, ma a crollare. Etty Hillesum (1914-1943), prima di passare per i Forni di Auschwitz, appuntava sul suo diario: «Anche oggi, il mio cuore è morto più volte, ma ogni volta ha ripreso a vivere. Io dico addio di minuto in minuto e mi libero da ogni esteriorità. Recido le funi che mi tengono ancora legata, imbarco tutto quel che mi serve per intraprendere il viaggio. Ora sono seduta sulla sponda di un canale silenzioso, le gambe penzolanti dal muro di pietra, e mi chiedo se il mio cuore non diventerà così sfinito e consunto da non poter più volare liberamente come un uccello» (Etty Hillesum: Diario 1941-1943; Adelphi, 1996). Ecco, la fotografia di Oliviero Toscani è come un volo d’uccello che s’innalza ai quattro venti della Terra (e nelle strade del mondo) e libera il piacere di esistere fuori dalle devastazioni culturali, politiche, religiose sulle quali regna la disumanità dominante. È lo stile di un’infanzia interminabile, quello che Oliviero Toscani affabula nel proprio fare-fotografia. Nelle sue immagini, anche quelle più criticate o censurate (o celebrate), fiorisce la bellezza di tutto ciò che è giusto, e la poesia a venire che si fa storia -la felicità, come la libertà- non si concede, si prende. «Non c’è dubbio che oggi è soprattutto di questo che avremmo bisogno: di un po’ di luce sopra la nostra frammentaria esperienza morale, ma anche di un po’ di voce articolata o di ragione da dare alla meraviglia, allo sgomento e alla pietà» (Roberta De Monticelli: L’ordine del cuore. Etica e teoria del sentire; Garzanti, 2003). Tutto vero. I servi contenti, come i fotografi del mondano, non sembrano capire che il bisogno più importante e più disconosciuto è quello dell’anima bella o dell’angelo necessario che si oppone alla dissipazione della bellezza, tanto del passato quanto del futuro. «La perdita del passato -ci ricorda Simone Weil-, collettivo o individuale, è la grande tragedia umana, e noi abbiamo gettato via il nostro come un bambino strappa una rosa» (Si-


Sguardi su

mone Weil: La prima radice. Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano; SE, 1990). L’immaginario fotografico di Oliviero Toscani, appunto, riprende un passato disconosciuto e lo dissemina in un futuro dell’accoglienza, rispetto, condivisione: contrasta il brutto e l’osceno nell’elevazione delle forme, nella sapienza delle luci, nel coraggio di fotografare l’indicibile... non alimenta il marketing internazionale della moda, ma lo denuda e restituisce le sue spoglie all’autodistruzione della coscienza personale e collettiva. La fotografia di Oliviero Toscani architetta una filosofia del risveglio, una catenaria del dolore e dell’amore, che, incidentalmente, è anche una grande espressione comunicativa, e al di là dalla campagna pubblicitaria (ma non solo)

dalla quale parte, passa dal disagio sociale alla disobbedienza civile. Ci ricorda che morale, giustizia, politica, religione si rinnovano a partire dalla coscienza verso la bellezza, vista come fondamento di valori e giustizia sui quali si poggia. La conquista di una società libera e giusta sbaraglia tutte le banalità del male e rivendica lo spirito pubblico di una pubblica felicità. «Noi siamo liberi di cambiare il mondo e di introdurvi il nuovo. Senza questa libertà mentale di riconoscere o negare l’esistenza, di dire sì o no, non ci sarebbe alcuna possibilità di azione; e l’azione è, evidentemente, la sostanza stessa di cui è fatta la vita politica» (Hannah Arendt: La disobbedienza civile e altri saggi; Giuffrè, 1985) e sociale. La cultura non è pane, ma lo difende e lo offre alla bocca degli Esclusi, nel gioco delle parti. Il turbamento della legalità imposta fuoriesce dall’azione culturale libera, innovativa del fare-fotografia di Oliviero Toscani, e alla pratica dell’ingiustizia risponde con la violazione dell’ordine costituito (non solo dei mercati): sa che l’arte fine a se stessa è il marchio di cui si servono i codardi e gli artisti falliti. La sola obbligazione che incombe a un artista è di fare sempre quello che crede sia bene, bello e giusto, e tutto ciò che fa non può mai essere genuflesso a nessun potere. La radicalità visuale di Oliviero Toscani ha pochi eguali, nel gazebo culturale di questo paese (e oltre); in questa landa di abusi e soprusi impuniti, le immagini storiche di Oliviero Toscani contengono il giusto e l’onesto, sconosciuto a molti fotografi. Al fondo di questo fare-fotografia, c’è lo splendore del vero, del nobile, dell’autentico, che sono aspetti importanti della giustizia. Oliviero Toscani combatte l’osceno, la bruttezza, la volgarità attraverso le sue fotografie (interviste, articoli, saggi, video, incursioni televisive), e ovunque dice che l’idiozia, la violenza e la domesticazione sociale sono parte della vita totalmente svalorizzata. In qualche modo, insegna a fare buon uso del mezzo fotografico a fianco

della sofferenza, dell’indignazione, della diversità... denuda l’irresponsabilità e l’impotenza della politica di fronte ai calcoli gelidi della finanza e fa dell’eccellenza estetica/etica il princìpio libertario della sua poetica. La fotografia ereticale dello stupore (come quella di Oliviero Toscani) infrange la comunicazione della lusinga, mette in discussione il concetto stesso di progresso, ormai divenuto inseparabile da quello di epilogo: lo stupore deriva da un desiderio d’eresia -quella della disgregazione e squartamento del pensiero codificato- e ne suscita la bellezza, che fruga nelle ferite della vita quotidiana; e non importa essere perfetti in nessun campo, perché il gusto dell’artista di corte è il carattere della mediocrità. In ogni opera d’arte,

la perfezione è il lavatoio dove tutti i talenti mancati si danno convegno... l’imperfezione è il terreno della resistenza e dell’insubordinazione, dove il temperamento dei poeti maledetti si forgia e rompe i vertici artistici dell’infamia. Non riesco a immaginare la Fotografia, senza pensare che è meglio un fotografo da scoop al quale hanno spaccato la testa con un tomahawk, che le lacrime secche di un bambino violato dalla guerra. Forse per questo ci siamo sempre trovati dalla parte sbagliata, ma in questo non abbiamo sbagliato mai, forse... che bello! C’è chi ancora crede che un manipolo di politici, affaristi, criminali in formato grande, arroccati agli scranni dei parlamenti, possa davvero fare gli interessi del popolo e non occuparsi dei propri

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Sguardi su privilegi... l’appannaggio dei tarati risplende nella servitù volontaria. Se guardata fuori dalle categorie e classificazioni, l’iconografia (tutta) di Oliviero Toscani desta meraviglie e interrogazioni: i contenuti oltrepassano i contenitori dai quali parte, e si portano dietro il romanzo autobiografico dello stupore. Ma è uno stupore che non stupisce affatto; anzi, rivela il mistero dello stupore: è il risultato di una cosmogonia sovversiva, che -attraverso la fotografia- infonde un’idea del mondo. La storia delle democrazie spettacolari e dei regimi comunisti smentisce i loro princìpi; l’omologazione delle folle in atto orchestra politiche, guerre e merci; l’accumulazione, il possesso, la discriminazione sono gli strumenti adeguati sulla passività generalizzata. I Poveri non hanno diritto che alla propria miseria e alle speranze elettorali che li mantengono in questa miseria: solo una società partecipata da tutti i cittadini può rimuovere l’indegnità della politica, distruggere l’incompetenza e l’arroganza della ragione imposta e farle precipitare nella storia di un nuovo umanesimo.

SULLA FOTOGRAFIA SOVVERSIVA DELLA BELLEZZA

La perfezione dell’incompiutezza della fotografia di Oliviero Toscani non infeuda menzogne, né persevera nella volgarità e nell’apoteosi della necessità: rifiuta come accessorio il futile e l’entusiasmo degli stolti... libera la giovinezza sopra i tabernacoli dei potenti e si abbevera alla generosità della commedia umana. S’accosta a un’idea, spesso controcorrente, e la rende contagiosa... liquida le ossessioni dell’artista inafferrabile e sceglie la diversità contro l’indecenza. Oliviero Toscani è un intruso nella fotografia che conta, sconfina nelle grammatiche del linguaggio definito e non teme sconfitte, né adulazioni. È un incursore nella saga generale della fotografia come mito realizzato e decreta morte tutte le formule di salvezza e cristologie d’illuminazione. È fotografo nella presenza dei propri atti, più corrosivo di un

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barattolo di acido solforico... sempre in lotta contro i dispotismi e le nullità del pensiero dominante e, più ancora, è un incendiario dell’immaginario! Da e con Herman Melville, di Moby Dick, è un capitano Achab sempre in cerca della balena bianca, del mostro da rigettare negli abissi; impugna la macchina fotografica come un arpione e imbarca nel Pequod della fotografia del disinganno (sempre da e con Herman Melville, di Moby Dick), una ciurma di passatori di confine, che alla dissolutezza dell’arte preferiscono l’arte di gioire della vita. Appena ventunenne (nel 1963), Oliviero Toscani sale sui monti del Mugello, insieme con il giornalista Giorgio Pecorini, per insegnare ai ragazzi di don Lorenzo Milani la macchina fotografica. Su una parete della scuola c’è scritto, in grande, “I CARE”: è il motto -altrimenti intraducibile- dei giovani americani migliori, traduce il priore... “Me ne importa, mi sta a cuore”. È il contrario esatto della sentenza fascista “Me ne frego”. Il pensiero disarmato di don Lorenzo Milani ricongiunge le proprie origini ebraiche con il cristianesimo (Paolo Levrero: L’ebreo don Milani; il Nuovo Melangolo, 2013), ma a noi importa poco. Quello che conta è il valore pedagogico che il curato infonde ai propri ragazzi, la forza emotiva con la quale opera uno spaesamento della mendicità professorale, della creazione raffazzonata di una vita senza amore di una società che ha costruito le cattedrali come i campi di sterminio e si è emancipata con gli orrori delle bombe. Come ha detto uno sciamano cieco del deserto del Mali: «Quando un solo bambino piange per la fame, altre migliaia sono già morti perché qualcuno possa avere uno smartphone di ultima generazione e ascoltare la musica dei neri d’Africa». Misero quel popolo che ha bisogno di genocidi e di altre porcherie per parlare -solo parlare- di Libertà e Diritti dell’Uomo. Il priore di Barbiana aveva le idee chiare su molte cose. Aveva compreso che, una volta diventata sovrana, l’intelligenza si erge

contro tutti i condizionamenti della società istituita e non offre nessun appiglio o speranza ai bastonatori della storia: «Avere il coraggio di dire ai giovani che loro stessi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo, né davanti agli Uomini né a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto» diceva (don Lorenzo Milani: L’obbedienza non è più una virtù. Documenti del processo di don Milani; Libreria Editrice Fiorentina, 1965). È il viatico della conoscenza che soppianta tutte le attività sospette dei governi: un principio di elevatezza che si accompagna al tramonto delle belle glorie dei partiti e delle fedi che ammaestrano le genti alla sottomissione... giacché non è la politica che rende liberi, ma il desiderio di rivolta per la conquista di un mondo più giusto e più umano. A Barbiana, Oliviero Toscani scatta alcune fotografie: sulla pellicola, fissa lo sguardo del prete che fa lezione all’aperto. Si vede don Lorenzo Milani che pensa o legge il giornale, attorniato da ragazzi impegnati nello studio. Le immagini esprimono un senso di serenità e spiritualità, anche, ma non come predica della gerarchia cattolica, piuttosto come maestro di vita che lotta e invita a lottare per un divenire migliore. I ragazzi sono educati alla fatica della conoscenza, e più di ogni cosa avviati a una ricerca della Verità come congedo dal dolore di vivere. Di più... nella scuola di Barbiana, l’idea-esperienza del bene comune non è una religione, ma il suo contrario, un legame profondo tra la Vita dello spirito e il raggiungimento della Libertà: «Concepire il mondo nella luce dell’idea di creazione è concepirlo come continua genesi del nuovo» (Roberta De Monticelli: Sullo spirito e l’ideologia. Lettera ai cristiani; Dalai Editore, 2007). La scienza, l’arte, la filosofia, la letteratura, la politica sono trattate da don Lorenzo Milani come forme di sviluppo della persona, sostengono e rimandano alla felicità

personale e collettiva, che è autentica solo se condivisa. Ogni ragazzo è più del libro che ha nelle mani, e la somma dei monologhi è nulla rispetto a un abbraccio, una carezza, un atto d’amore fra chi non ne ha mai ricevuti. La scuola di Barbiana è una comunità inclusiva, fondata sul dialogo... sulla disobbedienza civile, anche, che si prende cura del destino degli Ultimi. Se c’è tanta miseria nel mondo, vuol dire che ci sono responsabili di questa miseria, e vanno smascherati e detronizzati. Il male non è mai stato raffinato: va combattuto con il sapere, la conoscenza, la radicalità di persone aiutate a pensare; non è il voto o la delega che trasforma le cose, ma il gesto, l’azione, il disinganno che si fa desiderio, passione, eresia e fuoco di mutamento sociale. Migliore è la conoscenza, migliore sarà la persona in cammino per la conquista di una vita sganciata da ogni forma di autoritarismo. La fotografia non è una dottrina o una merce... soltanto. Ma un’attività culturale che filosofa col martello di Nietzsche (Friedrich Nietzsche: Il crepuscolo degli idoli. Ovvero come si filosofa col martello; Adelphi, 1983) e opera nella “trasvalutazione” di tutti i valori, il rovesciamento degli “idoli” che impongono la storia del più forte. Il mondo vero diviene favola, quando la favola impedisce di vedere la realtà: Hannah Arendt, Edith Stein, Simone Weil, Michel Foucault, Carl Gustav Jung, Martin Buber, Hans Jonas, Buenaventura Durruti ci hanno fatto comprendere che una serie di colpi ben assestati contro gli archivi della mediocrità politica liberano i pregiudizi, e con questi franano anche i simulacri. Fuori dalle semplificazioni sommarie, don Lorenzo Milani insegnava che uno spirito rassegnato non può che insegnare la rassegnazione, uno spirito libero, la ricerca della verità. «La forza è ciò che trasforma in cosa chiunque le sia sottomesso. Quando viene esercitata fino in fondo, tramuta l’uomo in un cosa nel senso letterale del termine, perché ne fa un


Sguardi su cadavere» (Simone Weil: Il libro del potere; Chiarelettere, 2016). I servi non hanno diritto di esprimere niente, tranne ciò che può compiacere il padrone, ed è il capovolgimento di questa regola che don Lorenzo Milani ha lasciato in sorte a quanti vogliono spezzare i guinzagli (etici, estetici e morali) che li tengono a catena. Davanti all’insurrezione dell’intelligenza, i padroni tremano quanto gli schiavi, e nessuno mai può fare violenza senza pensare che un giorno non sarà pagato con lo stesso sale. Le fotografie di Oliviero Toscani figurano l’agorà della Scuola di Barbiana. Don Lorenzo Milani osserva attentamente i cuccioli: i ragazzi sono chini sui quaderni, sui libri, discutono, leggono, scrivono; qualcuno guarda il fotografo in macchina, altri affondano la curiosità nelle pagine di chissà quale testo. L’impronta di Oliviero Toscani è rigorosa, spuria dal reportage occasionale. C’è un’immagine (corale) notevole e rilevante: si vede don Lorenzo Milani che legge il giornale, in fondo allo spiazzo bianco davanti alla Scuola; al suo fianco, alcuni allievi, dietro una piccola cattedra un po’ rotta, un altro ragazzo guarda verso il giornale del priore... in primo piano, alla sinistra dell’inquadratura, alcuni ragazzi sono seduti su panche, parlano, prendono appunti, qualcuno (in piedi) si guarda intorno svagato... alla destra della composizione, due ragazzi, su una panchinetta, sono immersi nello studio, uno si tiene la testa con una mano... l’insieme visuale ha la forza di un film western di John Ford o la filosofia libertaria dei ragazzi felici di Summerhill (Alexander S. Neill: I ragazzi felici di Summerhill; Red Edizioni, 1990). La composizione istintiva di Oliviero Toscani è subito bruciante: mostra una realtà che supera e recupera la meraviglia del vero, per definirla come presenza del giusto. È una fotografia del profondo, questa di Oliviero Toscani, che non si rifugia nel tasso giornalistico, né in forme raffinate della nostalgia: coglie alla radice l’agire di anime sensibili, che nulla hanno a che vedere con i parametri consueti della scuola dell’ordine.

Il fine della fotografia qui non è la tirannia della ragione, ma la seminagione della libertà! Oliviero Toscani privilegia l’insieme, e all’interno dell’immagine architetta frammenti di Verità; i neri e i bianchi s’intrecciano a figure dell’innocenza, e non includono l’oscuro, ma la luce del divenire. L’originalità è il principio di ogni fotografia, è il desiderio di fare dell’immagine una fonte di bellezza. Per conoscere la Fotografia non basta conoscere la Storia, e una fotografia è importante quando comincia a splendere di Verità e Bellezza non compromesse con i luoghi comuni; ogni fotografia che obbliga a prendere coscienza di una società dell’inganno e del dolore è un atto rivoluzionario. A ragione, James Hillman scrive: «Sono fermamente convinto che se i cittadini si rendessero conto della loro fame di bellezza, ci sarebbe ribellione per le strade. Non è stata forse l’estetica ad abbattere il Muro di Berlino ed aprire la Cina? Non il consumismo e i gadget dell’Occidente, come ci viene raccontato, ma la musica, il colore, la moda, le scarpe, le stoffe, i film, il ballo, le parole delle canzoni, la forma delle automobili. La risposta estetica conduce all’azione politica, diventa azione politica, è azione politica» (James Hillman: Politica della bellezza; Moretti & Vitali, 2002). Tutto vero. È la bellezza che fa la politica, ecco perché è il brutto

che domina il mondo. Il brutto è conseguente al successo che lo incensa come bello; e nei governi, come nei musei, il regime del brutto s’accorda al lezzo del potere che lo smercia. La forza del potere è l’arte di modificare la realtà e mortificare la conoscenza; solo alcuni bombaroli del bello piazzano ovunque interrogazioni: non basta che una fotografia sia pericolosa, più importante è che il pensiero che l’ha affabulata sia sovversivo quanto basta per far crollare il mondo apparente. Un giorno, un Maestro di Bellezza incontrò un grande artista della fotografia e lo salutò con amorevolezza. «Io non so nulla della Bellezza, Maestro», disse il fotografo. «Ma io vedo che tu conosci il segreto della fotografia», rispose il Maestro. «So solo scattare fotografie. Non so nulla, se non che morirò e non m’importa di essere consacrato da nessuno», rilevò il fotografo. «Allora conosci il segreto della Bellezza», concluse il Maestro, sorridendo. Ogni fotografia è condannata prima di nascere. Non si comprende nulla della Fotografia se non si ha il coraggio del fallimento e dell’eversione contro i vincitori o quelli che detestiamo: «Cari ragazzi, ho voluto più bene a voi che a Dio, ma sono sicuro che non baderà a queste piccolezze», diceva il priore di Barbiana. E queste parole riverberano nell’intimità alchemica delle fotografie di Oliviero To-

scani: quei volti, quei gesti, quel modo di accogliere del precettore e dei ragazzi di Barbiana travalicano il momento fotografico. Oliviero Toscani non scippa niente all’evento, né rende eccezionale qualcosa o qualcuno che lo è già. Il fotografo -ma è solo un esempio fatturale- s’accosta a quella fragilità, e al contempo risolutezza infantile, in eguale misura di Pier Paolo Pasolini, quando errabondava nelle periferie di Roma, e, per mano a ragazzini scalzi nel fango, cercava quella «straziante meravigliosa bellezza del creato» (Pier Paolo Pasolini: Che cosa sono le nuvole?, quarto episodio del film Capriccio all’italiana, del 1968; gli altri episodi sono firmati da Mario Monicelli [La bambinaia], Steno [Il mostro della domenica], Mauro Bolognini [Perché? e La gelosa], Franco Rossi e Pino Zac [Viaggio di lavoro]). Il realismo nudo delle immagini di Oliviero Toscani racconta una vivenza senza vergogna, un risveglio spirituale, culturale, ben più importante delle affermazioni politiche che cadono nel vuoto di sentenze sommarie. Il giovane fotografo non lascia niente all’improvvisazione, semmai aderisce alla passionalità di una Fotografia che è coscienza della coscienza... si tiene in disparte e mostra che non c’è storia autentica che non sia dell’anima liberata. C’è un’altra fotografia (che configura Oliviero Toscani già come artista fuori dagli schemi e dai vezzi dell’elogio interessato), nella quale si vede il priore attorniato da quattro ragazzi, che cammina in una strada sterrata, con dietro un casolare. Don Lorenzo Milani guarda in macchina, sicuro, bello, con il corpo e il passo del giusto... i ragazzi camminano ciascuno per proprio conto e si disinteressano alla macchina fotografica... tre hanno gli ombrelli, l’altro, più grande, è accanto al padre... sembra di “toccare” l’atmosfera di alcune fotografie scattate proprio a Pier Paolo Pasolini tra le baracche di Roma, quando cercava gli esterni dove girare Accattone. Il giovane fotografo interroga la storia di un prete inviso alle gerarchie della chiesa e raccoglie il ro-

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Sguardi su manzo della sua vita. In quell’immagine c’è un’evidente linea di confine che separa chi ha potere e chi non ne ha. Ma c’è anche altro: la bellezza della dignità di una geografia umana che non vuole essere condannata all’invisibilità, alla paura, alla solitudine, al silenzio e si prende il diritto all’istruzione, alla bellezza e alla libertà... a fare della propria vita un’opera d’arte. «Cos’è l’arte -don Lorenzo Milani diceva- se non una mano tesa al nemico perché cambi». Quando raggiungono il limite estremo della povertà, gli esseri umani trovano il servaggio, oppure sfuggono a ogni controllo istituzionale e cominciano a scavare alle fondamenta del Palazzo, per minarlo alle radici e farlo crollare. Ci piace pensare anche che la fotografia di don Lorenzo Milani con i ragazzi seduti nei banchi, disposti a cerchio nella scuola di Barbiana (un ragazzino più piccolo è al centro della stanza, accanto alla stufa), l’abbia scattata Oliviero Toscani. Ma questo importa poco: contiene la medesima bellezza creativa/sovversiva di molte immagini d’impianto sociale del fotografo milanese, come quelle, per esempio, scattate nella metropolitana di New York (o davanti a Wall Street), i pretini che sorridono alla macchina fotografica nelle strade di Palermo, i bambini morenti per la carestia in Somalia (Oliviero Toscani: Più di 50 anni di magnifici fallimenti; Electa, 2015), o il cieco con la fisarmonica in Oxford Street, a Londra, che risplende di dignità (1962). Qui, come altrove, Oliviero Toscani mostra che l’atto creativo non è un elemento di fuga o elusione dei problemi trattati, ma è una condizione mentale, culturale, politica che profana le speranze istituzionalizzate, banalizzate al rango di pretesti, e -in più- deterge le giustificazioni, le definizioni, gli inganni che contribuiscono a mantenere la magnificenza dei privilegiati sulla disperazione degli Ultimi. La verità della Fotografia (non solo di Oliviero Toscani) vive nobilmente negli avvenimenti che la negano. Lo scorso maggio 2017, al Salone Internazionale del Libro, di Torino, in un incontro a tema, Oli-

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viero Toscani ha ricordato don Lorenzo Milani con affetto e acutezza critica: «Don Milani era un uomo di grandissima intelligenza, che capì subito i meccanismi della comunicazione di massa; comprese che per far passare il suo messaggio doveva implicarsi in prima persona... e così fece. Non solo quelli di Barbiana, ma tutti coloro che lo hanno conosciuto, letto e studiato sono suoi allievi. Don Milani è un patrimonio degli italiani» (www.lastampa.it). E poi, don Lorenzo Milani è stato «un irriducibile sovversivo e anche una prima donna, nel senso che era primo», ha continuato Oliviero Toscani, «un sovversivo che vedeva in anticipo, un “beginner”, come scriveva Walt Whitman: “Appaiono raramente sulla Terra, solo a intervalli / E alla Terra sono cari, e al tempo stesso pericolosi / Si mettono a repentaglio, più di chiunque altro”. Anche io mi sento un “beginner”, un iniziatore» (www.vita.it). Oliviero Toscani è davvero un ini-

ziatore, ma spesso viene male copiato e peggio compreso; chiunque non parla il linguaggio dell’utopia non può capire la visione profonda dell’esistenza che Oliviero Toscani sparge sulle strade della Terra: sono atti di coraggio, che appartengono solo a coloro che sfidano l’illusione che sostiene il mondo, e lavorano alla caduta dei suoi miti. «Se un fiore cade è un fiore completo, ha detto un giapponese. Si è tentati di dire altrettanto di una civiltà» (Emil M. Cioran: Squartamento; Adelphi, 1981). Come certi fiori di maggio, le immagini ereticali di Oliviero Toscani rifiutano la rassegnazione, e nell’indignazione estetica/etica si trascolorano in segni di vita. La fotografia sovversiva della bellezza è un rivolgersi, cambiare prospettiva, vedere la realtà con altri occhi: il vuoto alle mie spalle, il vero accanto a me, diceva. La pratica della fotografia d’impegno civile è una filosofia al servizio degli Esclusi, lavora al divenire dell’insieme sociale che si libera della so-

praffazione dei pochi a danno del maggior numero... si porta dietro cambiamenti epocali, che ancora molti non comprendono ma, anzi, vorrebbero impedire... e forse a ragione: perché quando gli Uomini conosceranno la forza della bellezza, i responsabili di tanta sofferenza si pisceranno addosso dalla paura di ricevere quello che loro stessi hanno dispensato. Nessuno può governare innocentemente: il male si subisce o si serve. Non vogliamo condannare un padrone, vogliamo ucciderlo, diceva (con un certo garbo) di Luigi XVI Georges Jacques Danton. Il terrore riproduce le forche che voleva abbattere. La pace armata presuppone il mantenimento indefinito del capitalismo parassitario, e solo la sua soppressione può mettere fine all’impero delle disuguaglianze. «Mi rivolto dunque siamo, ma al siamo soli della rivolta metafisica, la rivolta alle prese con la storia aggiunge che invece di uccidere e morire per produrre l’essere che non siamo, dobbiamo vivere a far vivere per creare quello che siamo» (Albert Camus: L’uomo in rivolta; Bompiani, 1981). Va detto. Considerare la Storia degli Uomini come strettamente legata all’impostura delle religioni monoteiste significa svuotare l’Uomo della propria intelligenza e la Storia della sua sostanza. Nelle simbologie terroriste delle religioni solo gli angeli sono innocenti, e i santi -come i martiri- sono avvolti nella beatitudine della stupidità celeste. La speranza è la sola condizione che i padroni dello spirito concedono volentieri agli schiavi, e agli Uomini senza dio basta solo un colpo di fucile. La paura è l’ostia di tutti i regimi che fanno della distruzione del diverso da sé il consolidamento dei propri terrori. Se un dio esistesse veramente, andrebbe avvolto a una croce di sputi [?], per cosa ha rappresentato e rappresenta sulla Terra. Non deploreremo mai abbastanza le morali da ghigliottina che le religioni impongono al genere umano. Il cammino dell’umanità passa dalla liberazione dell’Uomo sull’Uomo. E, comunque vada, senza nessun rimorso. ❖




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