FOTOgraphia 238 febbraio 2018

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ANNO XXV - NUMERO 238 - FEBBRAIO 2018

Cinquant’anni SESSANTOTTO

Anniversari FOTOGRAFICI IN OTTO

In promessa STESSE PAROLE


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Prologo d’obbligo di Maurizio Rebuzzini (Franti)

S

Soprattutto, contiamo di mantenere la promessa implicita nel titolo, declinata in forma esplicita: stesse parole, sia in qualità (è un impegno), sia in quantità (è un obbligo) Da cui, eccoci qui: a fronte di una condizione aziendale che non può più contare su una partecipazione sostanziosa e sostenuta da parte delle componenti commerciali della fotografia, continuiamo a considerare nutriente la nostra partecipazione alla materia, affrontata con consistenti e inderogabili “Riflessioni, osservazioni e commenti sulla Fotografia”, come -da ventiquattro anni- recitiamo e assicuriamo dal colophon iniziale di sintesi editoriale, là dove è opportuno e necessario farlo... oltre le burocrazie d’obbligo. Così, allungando in avanti un nostro sacrificio personale (va rilevato, oltre che manifestato, per quanto non necessariamente confessato), resistiamo e persistiamo nella pubblicazione di questa rivista in forma cartacea. Certo, l’appoggio in Rete, che per il vero dovremmo seguire di più e -sicuramente- meglio, è qualcosa che compensa certe logiche dei nostri (tormentati) giorni; ma, non basta. E -soprattutto- non ci basta, quantomeno nella nostra irremovibile e imperturbabile convinzione che siano sempre e comunque necessari spazi e momenti di riflessione (e osservazione e commento) ponderati nella propria forma, in forza di contenuti che non si esauriscono in alcuna frenesia fine a se stessa. Certo, ribadiamo, confermandolo, «resistiamo nella pubblicazione di questa rivista in forma cartacea»: però, conti alla mano, siamo obbligati a farlo in forma editoriale riveduta, a partire (e limitandoci) alla fogliazione del numero, già da questo di febbraio duemiladiciotto, il duecentotrentottesimo dall’origine, nel (lonta-

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STESSE PAROLE

no) maggio 1994. Però, persiste l’intenzione di non depauperare, né spogliare, i contenuti, sia impliciti sia espliciti. A conseguenza, ci saranno meno fotografie proposte in generose dimensioni, magari meno portfolio d’autore, in modo da conservare il tasso di contenuti ricercati e perseguiti di “Riflessioni, osservazioni e commenti sulla Fotografia”. Per quanto riguarda gli utensili (macchine fotografiche dintorni), da tempo le loro passerelle sono state drasticamente ridotte ai minimi termini, in considerazione che altra informazione assolve questo compito... magari non risolvendolo... ma non è tempo, né spazio, per disquisire su termini che ormai hanno imboccato altre vie che non quella che è sempre stata uno dei perni dell’editoria

specializzata, tecnicamente/tecnologicamente indirizzata. In questo senso, intendiamo non alterare quanto abbiamo da condividere in termini fotografici, sempre e costantemente secondo due princìpi inviolabili: uno, che la Fotografia non sia mai arido punto d’arrivo, ma sempre e soltanto (non solo soprattutto) fantastico, privilegiato e favorevole s-punto di riflessione... verso la Vita, per la Vita; due, concentrazione verso come e quanto la stessa Fotografia influisca sulla Vita, abbia influito sulla Vita. Allo stesso momento, intendiamo anche mantenere il profilo medio-alto entro il quale agiamo e ci esprimiamo. Del resto, c’è una storia personale che parla per noi, e per se stessa: è una storia che rivela co-

me e quanto -non certo a dispetto della testata di richiamo, didascalicamente FOTOgraphia- questa sia una rivista principalmente di parole. In questo senso, è più che mai indispensabile riflettere sul senso di pensiero: e sono queste deviazioni che definiscono, magari qualificandola, la personalità di questa rivista... forse. Allora, sia chiaro, pensare non è soltanto un esame sistematico di dati immagazzinati nella mente. Meglio, e più nel profondo, pensare è un processo di collegamento costruttivo tra una informazione e le altre. Infatti, la mente può essere intesa come un enorme deposito che contiene ogni fatto a noi noto dentro un insieme di scatolette della memoria, diciamola così. Ogni scatoletta, ogni cartella di file (diciamola ancora così), può venire aperta per consentire l’esame del contenuto: ma, se ci limitiamo a questo, il procedimento finisce per essere sterile. Invece e però, se conserviamo la disciplina mentale per esaminare il significato e il senso dei fatti, se possiamo porli a confronto con altri fatti correlativi, saremo allora in grado di raggiungere una conclusione mediante l’esercizio della forza costruttiva del pensiero. Nelle nostre intenzioni, c’è anche uno spirito d’amore che guida e governa lo svolgimento della professione: del resto, a ben considerare, la Fotografia è essa stessa un inviolabile e irrinunciabile gesto d’amore. Da una parte, riveliamo una certa attenzione al supporto formale della nostra confezione; dall’altra, rivendichiamo una costante attenzione ai contenuti... mai casuali (spesso collegati tra loro, edizione dopo edizione [altrove, l’abbiamo detta così: «Nulla è casuale, sia nel proprio contenuto, sia nell’inevitabile forma»]), spesso originali nel proprio indirizzo. Fino al punto tale che, va riconosciuto, ogni


Prologo d’obbligo numero di FOTOgraphia è un “tomo” / una “storia”: nel corso della produzione, prima della stampa litografica a tutti visibile, immaginiamo il numero, lo vediamo; alla fine, sopraggiunge la soddisfazione intima per quanto realizzato. Sempre e comunque. Del resto, deve essere chiaro che non è mai un problema di sapere (erudizione?), ma di voglia di condividere. E (forse) capacità di farlo. Essendo la Fotografia un esercizio volontario, consapevole e convinto, deve essere necessariamente svolto con competenza. Ovvero, è un esercizio (un’arte?, una disciplina?, una materia?) da rispettare e assecondare con senso delle proporzioni: da e con Phil Stern, straordinario fotografo del secondo Novecento, intervistato nell’ottobre 2009, in occasione del suo novantesimo compleanno (3 settembre 1919-2009; nel frattempo, è mancato, il 13 dicembre 2014): «Con tutte le cose meravigliose che ci sono nell’universo, la fotografia non è così importante...». Comunque, nel corso dell’esistenza individuale, non cerchiamo mai parole che facciano la differenza nella nostra vita. A volte, però, le incontriamo: per quanto oggi la si interpreti al contrario, l’allocuzione latina Verba volant, scripta manent intendeva di non scrivere soltanto libri, che rimangono chiusi in propri spazi, ma andare tra la gente, e parlare... perché la parola vola nell’aria e può essere colta da tutti. In consecuzione, si registra la nostra continuità e costanza nel segnalare idee, opinioni, riflessioni, mostre e libri (anche), da respirare, ascoltare, assimilare, imparare. La Vita può cambiare. Quindi, nello specifico della Fotografia, punto di vista istituzionale che condividiamo tra noi, siamo ormai consapevoli che «La mancanza di fotografie significa mancanza di storia» [da e con Joel Meyerowitz], ovvero di coscienza: ci piaccia o meno che così sia, nel nostro mondo contemporaneo. Infatti, in ulteriore ripetizione da precedenti

annotazioni, «La storia non può insegnarci niente, se scegliamo di dimenticarla (o ignorarla)» [da e con Anne Perry, in I peccati di Callander Square]. In ulteriore citazione dal passato remoto, che respira qui accanto a noi, «La semplice contemplazione delle cose così come sono, senza superstizioni o inganni, errori o confusioni, vale più di tutti i frutti dell’invenzione» [da e con Francis Bacon (1561-1626), in Novum Organum; 1620]. Tornando nello specifico della rivista, della sua ideazione e realizzazione, c’è un’altra stima da esprimere, che determina un dovere dal quale non possiamo sottrarci: la qualità e profondità del pensiero (senza false riservatezze, ma in onestà intellettuale). Quando ci consideriamo, individuiamo

presto la nostra modestia e semplicità cerebrale e spirituale; allo stesso momento, quando ci confrontiamo, l’unità di misura balza in alto e impone considerazioni maggiori. In questo senso, siamo orgogliosi delle parole via via espresse mese dopo mese, durante i quali abbiamo scritto di linguaggio, tecnica e costume della fotografia applicando idee che, di fatto, hanno abbattuto confini tra i diversi punti di osservazione: siamo arrivati al lessico fotografico partendo dalla presentazione di apparecchi (o fingendo di farlo), così come, con percorso analogo, abbiamo anche inquadrato e identificato l’apporto dell’applicazione tecnica affrontando il linguaggio espressivo. Ancora, oltre un passo cadenzato con concentrazione e im-

pegno e applicazione, ci sono state edizioni particolari, tra le quali, in scelta quantitativamente contenuta, ne ricordiamo quattro almeno, in ordine cronologico: nel (lontano) settembre 1998, quasi venti anni fa, in tempi anticipati e non sospetti del fenomeno preavvisato delle macchine fotografiche giocattolo (a partire da Holga), la consecuzione Gioco o son desto? dischiuse le porte di una espressività fotografica che ha inciso profondamente negli anni a seguire, approdando addirittura -se è il caso di sottolinearlo- nell’edizione 2018 dell’autorevole Calendario Epson / Terre di basso, illustrato con immagini di Cristina Omenetto, straordinaria interprete anche di quell’eloquenza visiva; nel dicembre 1999, di fine anno-decenniosecolo-millennio, è stata la volta dell’ampia e condensata riflessione d’obbligo (forse) di Salviamo il salvabile, in ipotesi catastrofica simulata di profetica fine dei giochi; quindi, nel marzo 2001, in occasione pubblica di Photoshow (quando ancora è valsa la pena di ragionare attorno a noi, per quanto a partire dalla passerella merceologica di settore), l’edizione particolare di analisi del colore approdò, addirittura, a una confezione riservata ai visitatori del nostro stand, in selezione cromatica di solo giallo, magenta, ciano e nero; in un certo senso, abbiamo ripetuto la particolarità della forma, sul valore dei contenuti, quando, nell’aprile 2011, dieci anni dopo, in occasione del nostro ritorno al Photoshow (ormai agonizzante), dopo edizioni di assenza volontaria e indotta (da componenti riottose e rissose del mercato... niente nomi, per cortesia), abbiamo sollecitato la considerazione di Vogliamo parlarne?, in ardita confezione formale di Numero Nero... inviolabilmente Nero. Ma non sono queste escursioni che hanno fatto la differenza, quanto, invece, la costanza di impegno e cammino. La stessa che intendiamo continuare a percorrere. Imperterriti. Stesse parole. ❖

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prima di cominciare SULL’EDITORIALE. Per motivi intuibili, a pagina nove, l’Editoriale di questo numero considera la notizia relativa alla interpretazione in chiave “robotica” degli antichi testi indiani Veda come complemento oggetto della considerazione espressa, rivolta al soggetto esplicito di ipotizzata Rivoluzione Culturale nei nostri (tormentati) giorni. Per questo, il richiamo non è dettagliato... forse, è addirittura incomprensibile nella propria sostanza. Così, a integrazione, proponiamo come l’Agenzia giornalistica Ansa ne ha data notizia, con il titolo Gli antichi testi indiani ispirano le auto senza pilota. Suggeriscono come progettare robot capaci di fare scelte giuste. Testuale (circa).

Gli antichissimi testi indiani Veda custodiscono i segreti per progettare robot capaci di prendere decisioni etiche, a partire dalle auto senza pilota. A interpretarli, per la prima volta, con gli strumenti della logica matematica, è il gruppo guidato dall’italiana Agata Ciabattoni, del Politecnico di Vienna, e da Elisa Freschi, esperta di sanscrito dell’Accademia Austriaca delle Scienze. «I Veda sono testi che risalgono a più di duemila anni fa, e sono i primi incentrati su obblighi e proibizioni», ha riferito Agata Ciabattoni all’Ansa. «Sono una sorgente enorme di idee, alle quali nessun logico o informatico ha mai potuto accedere, per via del fatto che sono scritti in sanscrito; e, anche quando tradotti, sono incomprensibili». Ora, ha proseguito, «abbiamo il gruppo giusto, composto da esperti di logica, informatica e sanscrito», per analizzarli e tradurre in un linguaggio matematico, comprensibile da un computer, le regole etiche che riguardano divieti e obblighi. I ricercatori si stanno basando sull’interpretazione di questi testi, realizzata dalla scuola filosofica [riflessione profonda], che considera i precetti contenuti nei Veda come leggi alle quali dare un significato razionale e equo. «Si interrogano, per esempio, su che cos’è un obbligo, a che cosa e a chi si applica, e che cosa fare in casi di conflitti tra obblighi e proibizioni», ha spiegato Agata Ciabattoni. Una ricerca preliminare dello stesso gruppo ha rivelato che «uno dei principali filosofi della scuola parla di obblighi da seguire in situazioni non volute, in modo da ottenere il “male minore”’». Da qui, ha proseguito la ricercatrice, la connessione con i robot e le auto a guida autonoma: «Si possono trovare in situazioni in cui sarebbe bene scegliere il male minore, per esempio quando si è costretti a scegliere se far male a qualcuno o andare a sbattere contro un muro». I ricercatori puntano a trasformare le antichi leggi in formule matematiche, per aiutare le macchine a decidere da sole se un determinato comportamento sia accettabile o meno, e «in modo da aiutarle a compiere le scelte più giuste possibili». Queste operazioni non possono basarsi sulla logica classica, che si occupa di definire se determinate affermazioni siano vere o false: «Quando abbiamo a che fare con divieti e obblighi -ha osservato Agata Ciabattoni-, non siamo interessati a ciò che è vero o falso, ma a ciò che dovremmo o non dovremmo fare». Pertanto, è richiesta una logica completamente diversa, che riguarda obblighi e proibizioni, e -proprio come quella classica- può essere espressa con formule matematiche, «che ci permettono di dimostrare inequivocabilmente se un determinato ragionamento sia corretto o meno».

La fotografia è la ruggine della Storia che rode la coscienza degli Uomini, testimonia lo sprofondare e le qualificazioni delle cose e il fuoco della bellezza che le suscita... o le divora. Porta con sé il profumo del disincanto davanti alle giustificazioni delle morali. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 50 Allora, sia chiaro, pensare non è soltanto un esame sistematico di dati immagazzinati nella mente. mFranti; su questo numero, a pagina 4 Oggigiorno, si può e deve richiamare la Eura Ferrania anche in collegamento diretto con il consistente fenomeno della fotografia con apparecchi giocattolo. Antonio Bordoni; su questo numero, a pagina 36 Poi, passano gli anni, e un Uomo non più permettersi di vivere nel passato e con il passato. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 28

Copertina Moderatamente ritagliata rispetto l’originale a composizione quadrata, peraltro integralmente proposta a pagina diciassette, in apertura redazionale di portfolio-presentazione, una delle immagini allestite nell’affascinante mostra Liu Bolin. The invisible man, esposta a Roma, fino al prossimo Primo luglio. Esempio lampante del suo mimetismo espressivo

3 Fotografia nei francobolli Dalla compendiosa analisi Fotografia nei francobolli, di Maurizio Rebuzzini, in corso d’opera e prossima pubblicazione, dettaglio da una emissione filatelica di Antigua & Barbuda (isola indipendente del Commonwealth, tra l’Oceano Atlantico e i Caraibi), del 15 giugno 2005, in occasione del sessantesimo anniversario dalla fine della Seconda guerra mondiale. Da un foglio Souvenir, che include altre immagini note e riconosciute di quei lontani giorni: fotoricordo, in posa, di Winston Churchill (Gran Bretagna), Franklin Delano Roosevelt (Stati Uniti) e Stalin (Unione Sovietica) alla Conferenza di Jalta, dal 4 all’11 febbraio 1945; (per l’appunto) bandiera statunitense issata sul monte Suribachi, dell’isola di Iwo Jima, il 23 febbraio 1945 (fotografia di Joe Rosenthal); il 2 settembre 1945, a bordo della corazzata USS Missouri (BB-63), ancorata nella Baia di Tokyo, il generale statunitense Douglas MacArthur firma l’atto di resa del Giappone per conto degli Alleati; quindi, in legame, i rappresentanti giapponesi prima della firma dello stesso atto di resa

4 Stesse parole Intendendo continuare in questa esperienza giornalistica, dobbiamo rivedere la forma, senza intaccare i contenuti


FEBBRAIO 2018

RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA

9 Editoriale Ipotizziamo una necessaria Rivoluzione Culturale. Oggi

Anno XXV - numero 238 - 6,50 euro DIRETTORE

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

10 Alfredo Pratelli

IMPAGINAZIONE

Ricordo di una personalità fotografica fondamentale nel percorso professionale italiano: in equilibrio tra un proprio rigore e l’attenzione verso la categoria tutta

REDAZIONE

Maria Marasciuolo Filippo Rebuzzini

FOTOGRAFIE Rouge

12 Da quegli anni

SEGRETERIA

Con i dovuti distinguo, più che necessari, sia chiaro, a quarant’anni dalla propria cronaca, la polaroid dell’onorevole Aldo Moro, prigioniero delle Brigate Rosse (16 marzo - 9 maggio 1978), idealmente ripresa in un film statunitense leggero: Prima di mezzanotte (Midnight Run), del 1988 Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

HANNO

14 Abusi fotografici Certo, dobbiamo indignarci di fronte a notizie di molestie e prevaricazioni sessuali. Però, dobbiamo anche valutare quanto avviene accanto a noi, nel nostro mondo vicino

17 Camaleontico Il mimetismo espressivo di Liu Bolin in mostra a Roma, su una cadenza programmata di sette sezioni di Angelo Galantini

26 Sessantotto Ricorrenza fatidica, allo scoccare dei cinquant’anni. Visione trasversale, con sostanziosi accompagnamenti di Maurizio Rebuzzini (in veste di Franti)

34 Anniversari in Otto Oltre i cinquant’anni dal Sessantotto (qui sopra), carrellata di ricorrenze soltanto fotografiche. Tante di Antonio Bordoni

42 Fotografi giovani

Maddalena Fasoli COLLABORATO

Pino Bertelli Alcide Boaretto Antonio Bordoni mFranti Angelo Galantini Franco Sergio Rebosio Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.com; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 1027671617 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard e PayPal (graphia@tin.it). ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano

In mostra, i finalisti al concorso GD4PhotoArt 2018

45 Dopo il Sessantotto

Rivista associata a TIPA

Gli “anni di piombo” in una fotografia, anzi due! di Pino Bertelli Nella stesura della rivista, a volte, utilizziamo testi e immagini che non sono di nostra proprietà [e per le nostre proprietà valga sempre la precisazione certificata nel colophon burocratico, qui accanto: «È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo)»]. In assoluto, non usiamo mai propietà altrui per altre finalità che la critica e discussione di argomenti e considerazioni. Quindi, nel rispetto del diritto d'autore, testi e immagini altrui vengono riprodotti e presentati ai sensi degli articoli 65 / comma 2, 70 / comma 1bis e 101 / comma 1, della Legge 633/1941 / Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio.

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editoriale MAURIZIO REBUZZINI (FRANTI)

V

iviamo e ragioniamo: nel nostro specifico comune, anche con la Fotografia, magari a partire dalla stessa Fotografia. E ne parliamo, pur non estraniandoci dal mondo circostante e dalle sue relative manifestazioni collaterali e tangibili, alcune delle quali possono anche toccarci direttamente, averci toccato direttamente. Così, su questo numero -ci auguriamo in occasione sola e unica-, rievochiamo i cinquant’anni conteggiati dal fatidico e discriminante Sessantotto [da pagina ventisei]. Nel farlo, in appoggio d’obbligo, commentiamo con il senno di oggi la fatidica Rivoluzione Culturale cinese, dalla quale molto ha avuto origine. Ora, a conoscenza di altro, rispetto quei giorni in cronaca, possiamo anche riconoscere la perfida personalità di quel movimento, edificato su e con persecuzione e tirannia. Essenzialmente, oggigiorno, si possono esprimere giudizi meno preconcetti sulla Rivoluzione Culturale... ma! Ma, sue deviazioni a parte, rimane il fatto che ancora oggi -soprattutto oggi- avremmo necessità di una sostanziosa Rivoluzione Culturale, non fosse altro che per contrastare -con la capacità del pensiero e della riflessione- pericolosi effetti collaterali della socialità dei nostri giorni, invasa da influencer dalla Rete, youtuber compulsivi, blogger ignoranti... e contorni: tutti sostenuti dalla Società dello spettacolo, televisione in testa a tutti. Da cui e per cui, sogniamo che possa prendere avvio una risposta compita e concentrata, magari anche con ramificazione fotografica (perché no?), che indirizzi altrimenti la naturale predisposizione giovanile all’apprendimento, oggi confusa/confuso da mille e mille effetti collaterali. Per l’appunto (e, comunque, non si confonda la cultura con la sola erudizione). A questo proposito una notizia recente ci pare a dir poco fantastica, superba, superlativa, affascinante, coinvolgente, densa di speranza: soprattutto a dispetto anche di quel clima sociale che ha favorito, determinandolo addirittura, il malcostume della molestia sessuale come base di rapporti professionali e dintorni. Due ricercatrici italiane che agiscono all’estero, Agata Ciabattoni, del Politecnico di Vienna, e Elisa Freschi, esperta di sanscrito presso l’Accademia Austriaca delle Scienze, dirigono un gruppo di studio finalizzato a identificare una certa trasversalità in chiave attuale degli antichissimi testi indiani Veda [raccolta in sanscrito vedico di testi sacri dei popoli arii, che invasero l’India settentrionale, intorno al 2200 avanti Cristo; sono la base della civiltà religiosa vedica, che esprime un articolato insieme di dottrine e credenze filosofiche che stanno alla base del concetto di doveri e diritti della gente]. Oggi, in linea con l’idea di programmazione della robotica, combinazioni tra matematica e indicazioni sacre sono considerate basilari per programmi che insegnino agli stessi robot/computer ad apprendere dal proprio cammino. Sono sorgente enorme di visioni, alle quali gli odierni logici e informatici potranno accedere grazie alla loro più chiara e pertinente traduzione dal sanscrito originario. Passo fondamentale di Rivoluzione Culturale. Maurizio Rebuzzini

Aeroporto Internazionale di Lamezia Terme “Sant’Eufemia”, in provincia di Catanzaro, venerdì diciannove gennaio: in attesa di imbarco sull’aereo per l’Aeroporto di BergamoOrio al Serio (Aeroporto Internazionale Il Caravaggio). Ognuno per motivi propri, comunque sia tutti compulsivi, cinque passeggeri su sei (una seminascosta) agiscono con il proprio smartphone, occhio al monitor: segno indelebile dei nostri tempi tormentati. Probabilmente, sarebbe il caso di rivelare meno passività, meno accettazione, in favore di effettiva e proficua libertà di pensiero/azione. Vogliamo ipotizzare la necessità di una sostanziosa Rivoluzione Culturale?

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Il lungo addio di Maurizio Rebuzzini

ALFREDO PRATELLI

M

Mentre si stanno per celebrare i fatidici cinquant’anni dal Sessantotto, stagione per mille e mille motivi spartiacque (a nostra volta, licenziamo l’argomento -senza altri ritorni nel corso dell’anno... speriamo-, su questo stesso numero, da pagina 26: come promesso, senso e valore della parola), registriamo anche l’inevitabile scorrere del Tempo... con tutto quanto questo comporti. Così, ancora oggi, come già in altre occasioni precedenti, siamo qui a salutare un amico che è mancato: Alfredo Pratelli, eccellente fotografo che ha illuminato una lunga stagione professionale, allungatasi sui decenni, a partire dai fatidici Cinquanta. Pensare a quegli anni, soprattutto dal punto di vista di Milano, significa rievocare straordinari momenti di entusiasmo, cultura e ardore sociale, ai quali la fotografia professionale ha offerto contributi e sostegni a dir poco folgoranti. Non ci riferiamo tanto alla (sopravvalutata) fotografia d’autore, che la Storia considera e scandisce, ma a quella fantastica fotografia commerciale quotidiana e granitica, svolta e assolta in sala di posa, e alla cadenza fotogiornalistica capace di raccontare in cronaca la vita nel proprio svolgimento. Eccoci qui: a partire dal suo impegno presso l’Agenzia Publifoto, una delle leggende del secondo dopoguerra, e proseguendo con la sua CPS, realizzata con i medesimi connotati professionali, Alfredo Pratelli è stato per decenni protagonista indiscusso e apprezzato di quel mondo, di quella fotografia a tutto campo. È paradossale richiamarli oggi, ma quelli sono stati momenti di studi articolati, dalla sala di posa alle complesse lavorazioni di laboratorio; momenti di imprese fotografiche nelle quali hanno agito e operato decine e decine di addetti, che hanno macinato impressionanti quantità (e qualità) di fotografie che hanno scandito un’epoca... un mondo... quello in cui viviamo e agiamo tutti noi. Nel caso di Alfredo Pratelli -che non è più qui (è da qualche altra parte, ma non qui)-, il suo carico professionale ha fatto il paio con un altrettanto concentrato impegno verso la categoria

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Nella sala di posa milanese di Giancolombo, all’alba degli anni Sessanta, rituale gruppo fotografico dei soci fondatori dell’Afip, Associazione Fotografi Italiani Professionisti. Alfredo Pratelli è al centro, in alto, nella composizione su tre file; tra (da sinistra) Giancolombo, Gianni Della Valle e Fedele Toscani; quindi, ancora, Luciano Ferri e Gian Greguoli; i quattro della seconda fila sono Mario Dainesi, Roberto Zabban, Aldo Ballo e Italo Pozzi; i tre in primo piano, Davide Clari, Edoardo Mari e Gian Sinigaglia.

tutta, quando, in una pattuglia di tredici fotografi del tempo -lui compreso- (qui sopra), all’alba degli anni Sessanta, ha fondato l’Afip: nata come Associazione Fotografi Italiani Professionisti, e oggi ancora presente come Afip International, che sottintende considerazioni aggiornate al mondo globalizzato dei nostri giorni. Dell’Afip, per tutti questi anni, Alfredo Pratelli è stato l’anima pulsante e la mente pensante. Sempre attento a ogni dettaglio, ha traghettato l’Associazione verso la sua attuale personalità; tanto che, per quanto discosto, come ogni eminenza grigia che si rispetti, è stato identificato come “Presidente a vita”, come lungimirante Presidente onorario. Fotograficamente, Alfredo Pratelli ha spaziato in lungo e largo attraverso i sentieri della fotografia commerciale, passando con disinvoltura dalla sala di posa al laboratorio, dalla produzione alla gestione delle immagini, sia in termini chimici originari, sia nella successiva trasformazione digitale, che lo ha visto e annoverato tra i primi (e pochi, va rilevato) capaci di cambiare

passo, di adeguarsi all’evoluzione tecnologica arrivata a fine Novecento. Diversamente da molti, e non siamo lontani dal vero quando annotiamo che lo ha fatto meglio di tutti, Alfredo Pratelli non ha affatto subìto le trasformazioni, ma le ha cavalcate e governate. Ovvero, non ha mai tralasciato quei solidi princìpi produttivi sui quali ha edificato sia la propria professionalità sia -a diretta conseguenza- i propri passi esistenziali. E qui, e ora, corre l’obbligo di precisare, per approdare, poi, a un episodio personale, ma non privato. I campi della promozione visiva (pubblicità e cataloghi) sono ormai tanto pieni di sciocchezze così assolute da essere diventati indiscussi paradigmi del concetto [da e con il filosofo statunitense Harry G. Frankfurt]. Comunque, a dispetto di tanta superficialità ormai endemica, questo settore è comunque ancora frequentato da raffinati professionisti che -con l’aiuto di tecniche evolute e sofisticate- mettono ogni cura nella scelta delle immagini giuste (per quanto più ci interessa e, forse, compete).


Il lungo addio

Qui e ora, evochiamo un curioso allineamento fotografico. Quello di e con Alfredo Pratelli, ai tempi fotocronista e in seguito abile interprete della sala di posa, che il 23 giugno 1959 fu tra i fotogiornalisti che accolsero la visita di Stato del presidente francese Charles De Gaulle. Lo testimonia una fotografia del tempo, con Alfredo Pratelli in primo piano, a destra dell’inquadratura, accanto ai corazzieri di scorta d’onore dell’automobile presidenziale. Tra le mani, ha una Speed Graphic con tanto di flash a lampadina, che -da tempo in disuso- ha finito per fare bella mostra di sé nell’arredamento della sua casa milanese. Da lì, la Speed Graphic non è mai uscita (circa). Soltanto nell’estate 2009, in deroga a un ferreo princìpio di Alfredo Pratelli, la Speed Graphic ha lasciato temporalmente la mensola dalla quale controlla

Il senso di questa rilevazione/annotazione/riflessione è chiaro. «Nei tempi antichi, artisti e artigiani non si concedevano scorciatoie. Lavoravano con attenzione, e curavano ogni aspetto della loro opera. Prendevano in considerazione ogni parte del prodotto, e ciascuna era progettata e realizzata esattamente come avrebbe dovuto. Non allentavano la loro attenta autodisciplina nemmeno riguardo ad aspetti che di norma non sarebbero stati visibili. Anche se nessuno si sarebbe mai accorto di tali imperfezioni, loro dovevano rispondere alla propria coscienza. Perciò, non si nascondeva lo sporco sotto il tappeto» [ancora da e con Harry G. Frankfurt, professore emerito di filosofia morale all’Università di Princeton, Stati Uniti: Stronzate. Un saggio filosofico (edizione originaria On Bullshit); Rizzoli, 2005]. A conseguenza, un’altra considerazione. Nel passato remoto (da quale avremmo ancora molto e molto da imparare, sapendo discernere), una certa forma di materialismo ha (mal) esaminato il problema della conoscenza, senza tener conto della natura sociale

l’ingresso dell’appartamento. Sabato diciotto luglio, ha accompagnato la solenne inaugurazione della mostra The Weegee Portfolio, che ha dato lustro al programma di RoveretoImmagini 2009 con l’esposizione di una delle due copie ancora integre e complete della tiratura originaria di ventisei esemplari andata distrutta in seguito a un malaugurato allagamento (l’altra è di proprietà del MoMA di New York, l’altisonante Museum of Modern Art!). Nelle settimane a seguire, fino a domenica trenta agosto, è stata accostata scenograficamente alle quarantacinque fotografie di Weegee, stampate in carta baritata 40x50cm da Sid Kaplan, che definiscono il luminoso percorso di uno dei grandi autori del Novecento. Tra tanto e tanto altro, inviolabilmente collegato sia alla Speed Graphic sia all’immancabile sigaro tra i denti.

dell’Uomo e dell’evoluzione storica della società; perciò, non ha potuto comprendere che la conoscenza dipende dalla pratica, cioè dalla produzione e dalla propria attività professionale. Oggigiorno, non possiamo ignorare che l’attività produttiva dell’Uomo sia l’attività pratica fondamentale, che determina anche ogni altra forma di attività (e, nello specifico, pensiamo alla vita di Alfredo Pratelli, tra fotografia ed esistenza). La conoscenza umana dipende soprattutto dall’attività produttiva materiale: attraverso questa, ciascuno riesce a comprendere grado a grado i fenomeni, le proprietà e le leggi della natura, come pure i propri rapporti con la natura e la realtà; inoltre, attraverso l’attività produttiva, a poco a poco, ognuno raggiunge i diversi livelli di comprensione di certi rapporti reciproci tra gli Uomini. Tutte queste conoscenze non possono essere acquisite al di fuori dell’attività produttiva. Nella società, nel corso della propria attività professionale, ogni persona collabora con altri, entra in determinati rapporti di produzione con il prossimo e s’impegna nell’attività produttiva per

risolvere i problemi della vita materiale. A tutti gli effetti, questa è la principale fonte di sviluppo della conoscenza umana, ed è logico ritenere che la conoscenza individuale evolva passo a passo, dagli stadi più bassi ai più alti, cioè dal superficiale al profondo, dall’unilaterale al multilaterale. Ancora, e poi basta (forse), la pratica professionale è uno dei criteri con i quali raggiungere il senso della realtà e della verità, ovvero l’autentica conoscenza del mondo esterno. Però, ciascuno di noi riceve conferma della verità della propria conoscenza solo dopo che, nel corso del processo esistenziale, materiale ha raggiunto i risultati previsti. Così, episodio personale, ma non privato, ricordo qui che Alfredo Pratelli ha assistito a dieci miei speech (oggi si dice così... leggi “incontri”, oppure “parole”) sulla Consapevolezza della fotografia, svolti per conto di Afip / CNA Professioni e rivolti ai soci, soprattutto ai più giovani, da poco entrati in un mondo ricco di valori, storia ed esperienze... da conoscere. A parte la rilevazione secondo la quale, in sala, settimana dopo settimana, fino all’esaurimento dei dieci temi stabiliti, si sono presentati soprattutto fotografi anagraficamente meno giovani (capeggiati dall’intrepido e assiduo Alfredo Pratelli), è stato sintomatico che lui, proprio lui, non abbia mai, proprio mai, commentato i contenuti: che ha dato per scontati, in un reciproco rapporto di professionalità riconosciute (in tragitto di andata-e-ritorno, senza alcuna soluzione di continuità). Ma, in una occasione, direi all’ultima puntata, si è compiaciuto che le visualizzazioni via via proiettate, in PowerPoint, composte da parole e immagini, fossero sempre state formalmente precise nella propria messa in pagina: dimensioni identiche, sovrapposizioni assolute e armonia visuale. Bene: lo presi come un complimento, da parte di chi, nel corso della propria professione, è sempre stato attento al proprio “artigianato senza scorciatoie” alla propria “espressività progettata e realizzata esattamente come avrebbe dovuto essere”. Nato nell’estate 1929, il venticinque luglio, Alfredo Pratelli è mancato questo inverno, lo scorso diciotto gennaio. La sua lezione non scompare con la sua assenza fisica, ma accompagnerà ancora il nostro cammino. È un dovere inviolabile. ❖

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Cinema

di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

S

DA QUEGLI ANNI

Su questo stesso numero, da pagina 45, l’impavido Pino Bertelli evoca una fotografia-icona degli “anni di piombo” (in realtà, due fotografie coincidenti), che in Italia -soprattutto in Italia- sono stati tragica conseguenza del Sessantotto, ricordato e liquidato, sempre su questo stesso numero, da pagina 26, nel cinquantenario. Nel suo attento testo, Pino Bertelli richiama anche la polaroid con la quale le Brigate Rosse hanno immediatamente certificato la prigionia dell’onorevole Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana, rapito la mattina del 16 marzo 1978 (quarant’anni fa), in e con un agguato durante il quale furono uccisi i cinque poliziotti della sua scorta (anche loro, soprattutto loro, vanno ricordati: Domenico Ricci, Oreste Leonardi, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi). Su questa prima polaroid abbiamo ragionato in diverse occasioni, soprattutto in relazione alla propria certificazione consequenziale, ribadita dalla prima pagina di La Repubblica, la mattina seguente: «Moro è vivo, ecco la foto» (e nostro relativo rimando ai casi analoghi, per quanto in declinazione inversa -è morto-, di Pancho Villa, del 20 luglio 1923, Emiliano Zapata, del 10/19 aprile 1919, Ernesto “Che” Guevara, del 9 ottobre 1967, Benito Mussolini, del 26 aprile 1945, e Osama bin Laden, del maggio 2011). Quindi, a seguire, per confermare la detenzione di Aldo Moro, ancora in vita, ci fu una seconda polaroid, del successivo ventuno aprile, con inquadratura comprensiva della stessa Repubblica del giorno, in e per attestazione di data. Ora, in tono lieve, ci accodiamo proprio a questa seconda polaroid, divenuta emblematica anche di una certa veridicità del proprio contenuto, ricordando una brillante commedia statunitense del 1988. Nel film Prima di mezzanotte (Midnight Run), diretto da Martin Brest, il protagonista Jack Walsh (Robert De Niro) è un cacciatore di taglie (Bounty Hunter) a Los Angeles. Incaricato da Eddie Moscone, titolare di una agenzia che anticipa cauzioni nel campo giudiziario (interpretato da Joe Pantoliano), di ritrovare un tran-

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21 aprile 1978: seconda polaroid di Aldo Moro, prigioniero delle Brigate Rosse, che certifica che è (ancora) in vita.

quillo ragioniere, Jonathan Mardukas, detto “Il Duca” (l’attore Charles Grodin), Jack Walsh si infila in un curioso ginepraio. Nella vicenda, si inserisce anche un secondo cacciatore di taglie, Marvin Dorfler (l’attore John Ashton), lui pure mobilitato da Eddie Moscone. Nel film, la fotografia fa capolino quando il secondo Bounty Hunter (Marvin Dorfler) riesce a sottrarre il Duca a Jack Walsh, per consegnarlo alla mafia, con la quale si è accordato, tradendo l’incarico ufficiale e legale di cacciatore di taglie. Acquistata una Polaroid, Marvin Dorfler fotografa Jonathan Mardukas in modo da poter certificare di averlo prigioniero tra le proprie mani: sottolineiamo che l’attestazione della prigionia si basa sulla certificazione fotografica autenticata dalla combinazione in inquadratura con l’immancabile quotidiano del giorno, la data in bella evidenza. Insomma, con i dovuti distinguo, che collocano la fantasia e leggerezza dello spettacolo altrove rispetto certe tragicità della vita reale, si può allineare la consecuzione cinematografica Marvin Dorfler / Jonathan Mardukas / mafia, che visualizziamo in questa pagina, con la successione a noi italiani dolorosamente nota Brigate Rosse / Aldo Moro: una delle espressioni della Fotografia come ❖ documento inoppugnabile (?).

Dal e nel film Prima di mezzanotte, di Martin Brest ( Midnight Run; 1988): applicazione della fotografia a sviluppo immediato. Espressione della Fotografia come documento inoppugnabile (?). Acquistata una Polaroid, il Bounty Hunter Marvin Dorfler (l’attore John Ashton) fotografa Jonathan Mardukas (Charles Grodin) in modo da poter certificare alla mafia, con la quale si è accordato, di averlo prigioniero tra le proprie mani. Appunto: apertura della confezione (e inserimento del filmpack di pellicola), inquadratura, scatto con flash e copia a sviluppo immediato.



Precisiamolo di Angelo Galantini

ABUSI FOTOGRAFICI

C

Chiariamolo subito: la nostra posizione personale non prescinde, non può prescindere, dalla difesa dei deboli, in qualsiasi circostanza si manifestino malversazioni, peculati e abusi di potere... in qualsiasi modo e forma svelino le proprie malefatte. Per conseguenza, come anche per appartenenza di pensiero, in merito alle recenti/attuali rivelazioni di molestie sessuali a danno di donne dello spettacolo (e su questo preciseremo) ci schieriamo accanto a loro: sia nello specifico delle considerazioni, sia anche in relazione, base e dipendenza del nostro pensiero sovrastante, appena enunciato. Se non che, immediatamente a seguire e in approfondimento di considerazioni mirate, sono opportuni alcuni distinguo, così come sono necessari altrettanto appropriati richiami fotografici: insomma, dal generale allo specifico, dal complessivo al nostro piccolo-grande mondo di riferimento e appartenenza. Con ordine. Quello che è stato appena scoperchiato -e le rivelazioni e relative diffusioni si stanno susseguendo le une alle precedenti a ritmo sempre più vertiginoso- è il classico e mitologico Vaso di Pandora: il leggendario contenitore di tutti i mali che si riversano nel mondo dopo la sua apertura. Se non che, la vicenda sta per rimanere concentrata sul mondo dello spettacolo, entro il quale è scaturita. E qui, subito una precisazione che consideriamo d’obbligo: che dubbi abbiamo mai avuto che le luci di certa ribalta siano sempre brillate in base a princìpi che non sempre coincidono con termini etici e morali da tutti condivisi (più esattamente, soltanto da molti... forse)? Che dubbi possiamo aver avuto che molte presenze femminili nel cinema e nella televisione, soprattutto in questa seconda, non dipendessero da capacità interpretative o profondità di pensiero? Niente nomi, per cortesia, ma la consapevolezza di cosce al vento e scollature vertiginose offerte a piene mani, indipendentemente dal contenitore sovrastante. Però, un conto è il malcostume, un altro la molestia, la violenza, il ricatto

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Che dubbi abbiamo mai avuto riguardo presumibili trasversalità che potrebbero attraversare / aver attraversato lo svolgimento di workshop estivi, indirizzati e guidati verso la fotografia di nudo, priva di qualsivoglia sbocco professionale plausibile? Quindi, per quanto sia giusto scandalizzarci quando sentiamo parlare di molestie, ricatti e imposizioni, rivolgiamo anche lo sguardo verso distanze prossime, che ci scorrono accanto. Molestatori e ricattatori sessuali vivono e agiscono anche tra noi.

sessuale. Allora: se ci sono state molestie accertate, violenze indagate e rilevate, ricatti provati, nessun altro spazio di considerazione e giudizio è più opportuno di quei luoghi preposti alla loro attenta valutazione. Ovvero, se ne dibatta in tribunale (non soltanto alla televisione, in ulteriore forma di spettacolo). Quindi, si perseguano con strumenti idonei coloro i quali hanno abusato di proprie posizioni sociali e/o professionali per sottomettere donne, insidiate e raggirate in dipendenza di una loro fragilità (altrettanto) professionale. Ancora però, in Italia, dobbiamo tenere anche conto che nel nostro sistema politico e governante abbiamo avuto un primo ministro che ha invitato i giovani maschi di valore ad andare all’estero, per trovare sbocco alla proprie capacità e le giovani femmine a cercare un maschio ricco, presso il quale accasarsi. A parte, poi, potremmo registrare la vicenda giudiziaria privata, con tanto di impianto accusatorio che ha ottenuto condanne per induzione alla prostituzione e sfruttamento della prostituzione per suoi intermediari.

In forma di intervallo, prima di approdare a considerazioni su molestie, ricatti sessuali e contorni nel mondo fotografico pubblico, ricordiamo che una certa idea di “favori sessuali” può anche ispirare sceneggiature serene e lievi, e -proprio per questo- apprezzabili. Ne individuiamo una nel film-commedia A proposito di omicidi... (The Cheap Detective), del 1978, diretto da Robert Moore su sceneggiatura di Neil Simon. Storicamente, è conteggiata come la seconda parodia del genere poliziesco scritta dal celeberrimo drammaturgo e sceneggiatore statunitense, che tanto ha dato sia al teatro sia al cinema; la prima è quell’amabile Invito a cena con delitto (Murder by Death), del precedente 1976, da molti considerato autentico cult del cinema contemporaneo. Ancora di più, A proposito di omicidi... è specificamente parodia dell’iconografico Casablanca, con tanto di Peter Falk (che ha caratterizzato il tenente Colombo [FOTO graphia, maggio 2009, luglio 2011 e maggio 2016]) nei panni di un Lou Peckinpaugh tagliato su Humphrey Bogart / Rick Blaine.


Precisiamolo

Comunque, in un passaggio del leggero film, Lou Peckinpaugh (Peter Falk) chiede notizie alla sua segretaria (Betty DeBoop, interpretata da Eileen Brennan?) circa una donna che l’ha cercato. Risposta lieve (per quanto, oggi politicamente scorretta?): «È più bella di me...», rivela; «... Ma con me è più facile», conclude. Beh, l’abbiamo tirata lunga per allontanare l’approdo -inevitabile- al mondo fotografico. Tenendoci ancora a distanza, certi possibili mal comportamenti nell’ambito professionale hanno avuto la propria esaltazione nel caso, anche giudiziario, che ha coinvolto il fotografo statunitense Terry Richardson, per il quale le molestie sul set sono una imperdonabile consuetudine. Ci sono testimonianze dirette. Per esempio, la modella danese Rie Rasmussen ha dichiarato che il fotografo ha abusato del suo potere chiedendo alle ragazze rapporti sessuali. Alcune delle quali, per paura di perdere il lavoro, avrebbero soddisfatto le sue richieste. In un certo senso, abbiamo già preso in considerazione questa vicenda, lo scorso settembre, in tempi anticipati

rispetto l’esplosione planetaria dell’argomento, quando abbiamo commentato la trasversalità fotografica (giusto questa) nell’episodio Fashionable Crimes (tradotto in Crimini alla moda), della serie televisiva Law & Order: Special Victims Unit, il ventesimo della diciassettesima stagione, andato in onda la scorsa estate in Italia. Per l’appunto, la sceneggiatura racconta di molestie sessuali perpetuate dal fotografo Alvin Gilbert (l’attore Fisher Stevens) ai danni delle proprie modelle. Come annotato allora, e qui ribadiamo, confermandolo, per quanto ogni puntata della serie (spin-off dell’originaria e longeva Law & Order) sottolinei la casualità di eventuali richiami al reale, non siamo lontani dal vero quando osserviamo quanto la vicenda abbia legami di parentela con il fotografo Terry Richardson e i suoi riconosciuti e condannati abusi sessuali (qui sopra, in ripetizione). In Italia, ora. Che dubbi abbiamo mai avuto riguardo presumibili trasversalità che potrebbero attraversare / aver attraversato lo svolgimento di workshop

L’episodio Fashionable Crimes ( Crimini alla moda), della serie televisiva Law & Order: Special Victims Unit, ventesimo della diciassettesima stagione, racconta di molestie sessuali perpetuate dal fotografo Alvin Gilbert (l’attore Fisher Stevens; in alto) ai danni delle proprie modelle: a sinistra, il tenente Olivia Benson (l’attrice Mariska Hargitay, anche produttrice della serie) consegna l’atto giudiziario d’accusa. Come rileviamo, per quanto la sceneggiatura sottolinei la casualità di eventuali richiami al reale, non siamo lontani dal vero quando osserviamo quanto la vicenda abbia legami di parentela con il fotografo Terry Richardson e i suoi riconosciuti e condannati abusi sessuali.

estivi, in riva al mare piuttosto che sulla terraferma, indirizzati e guidati verso la fotografia di nudo, priva di qualsivoglia (o intenda) sbocco professionale plausibile? In questo senso, ahinoi, non parliamo per solo “sentito dire” -per quanto, a dire il vero, molto abbiamo sentito al proposito, da fonti informate, accreditate e credibili-, ma per conoscenza personale. Si è trattato di molestie?, di ricatti?, di imposizioni? Sperando mai di violenza, anche questo è un clima che abbiamo respirato, sul quale non si è mai potuta (o voluta?) fare chiarezza: per mille e mille convenienze. Che le modelle da workshop (idolatrate da un pubblico che ne apprezza la disinvolta/sfacciata disponibilità a posare nude per decine e decine di obiettivi famelici, in frenesia di scatti) siano estranee al circuito professionale, ma -con la propria indiscutibile avvenenza fisica ben esposta- alimentino un certo sottobosco, non giustifica comportamenti indotti e imposti dei quali siamo a conoscenza: sia da parte di fotografi, sia per conto dell’infrastruttura operativa, sia dal potere economico detenuto dagli sponsor tecnici (con intermediazione di persone che hanno gestito elargizioni di soldi sostanziosi: almeno per questo, sia benedetta l’attuale crisi che impone attenzioni mirate e concentrate, per quanto non sempre diligenti). Quindi, è giusto scandalizzarci quando sentiamo parlare di molestie, ricatti e imposizioni. Però, non guardiamo sempre soltanto lontano; è nostro dovere rivolgere anche lo sguardo verso distanze prossime, che scorrono qui accanto a noi. Molestatori e ricattatori sessuali vivono anche qui, nel nostro piccolo-grande mondo della fotografia, di certa fotografia. Ragionano ai nostri stessi dibattiti, allestiscono mostre che visitiamo, ci emozionano con le loro immagini, usano parole allineate alle nostre... forse. Ma! Ma... non sempre controllano le proprie pulsioni. Non sempre rispettano il proprio ruolo gerarchico. Non sempre rispondono a quell’etica e morale che dovrebbero essere non negoziabili, non interpretabili. A volte, approfittano dei deboli (delle deboli), venendo meno al decoro implicito, oltre che esplicito, acquisito in base e dipendenza di propri meriti sacrosanti e incontestabili. Ecco qui! ❖

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ARENA ; VERONA, 2008 (COURTESY BOXART, VERONA)

In mimetismo espressivo, il cinese Liu Bolin ripete e replica coerentemente la propria azione, andandosi a collocare nei pressi di architetture celebrate e accreditate. Dopo aver predisposto l’inquadratura, rimane immobile come una scultura vivente, per integrare il proprio corpo, camuffato da un accurato body-painting, con il contesto alle sue spalle e, infine, si fa fotografare. Dunque, e in definitiva, sintesi di molteplici linguaggi creativi, in reciproca contaminazione: performance, pittura e fotografia... non necessariamente in questo ordine

CAMALEONTICO

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di Angelo Galantini

E

splicito nelle proprie intenzioni, l’artista cinese Liu Bolin ha rilevato che «Il camaleonte ha la straordinaria prerogativa di cambiare colore, per uniformarsi al colore dello sfondo come forma di auto-protezione. [...] Gli esseri umani non sono animali, perché non sanno proteggere se stessi». Da qui, l’essenza di un’azione d’arte che trova la propria celebrazione (a tutti visibile, da tutti raggiungibile) nella fotografia. Attenzione, però, a non confondere i termini della vicenda. Liu Bolin non è un fotografo, almeno non lo è secondo la prassi che stabilisce contenuti e azioni in coordinamento con un lessico preposto alla rivelazione di elementi e accadimenti che palesino la vita nel proprio svolgersi, sia dal vero sia in allestimenti scenici preordinati e predisposti. Il suo mimetismo, che prende a prestito dalla condotta esistenziale del camaleonte, ribadiamolo, si realizza con soggetti, per lo più architettonici (incarichi pubblicitari inclusi), entro i quali e nei pressi dei quali la sua presenza fisica è mascherata in una combinazione tra prospettiva ottica e messinscena visiva. Semplifichiamo: si fa dipingere il corpo per sovrapporsi al soggetto, in una composizione/inquadratura entro la quale si occulta, si nasconde all’occhio superficiale, per rivelarsi soltanto all’osservazione concentrata. Elevando a cifra stilistica il suo camouflage -per allinearci al lessico acquisito della sua critica ufficiale e colta [camouflage deriva dalla fusione della parola “camuffare” con il termine francese “maquillage”: da cui, tecnica di trucco volta a nascondere più che evidenziare]-, Liu Bolin ripete e replica coerentemente la propria azione, andandosi a collocare nei pressi di architetture celebrate e accreditate. In ripetizione necessaria, dopo aver predisposto l’inquadratura, rimane immobile come una scultura vivente, per integrare il proprio corpo, mimetizzato da un accurato body-painting, con il contesto alle sue spalle e, infine, si fa fotografare. Dunque, e in definitiva, sintesi di molteplici linguaggi creativi, in reciproca contaminazione: performance, pittura e fotografia... non necessariamente in questo ordine. Dopo introduzioni mirate, prevalentemente allestite in mostre mercato (a cura della attenta e autorevole Galleria d’Arte Boxart, di Verona, che lo rappresenta nel nostro paese), per la prima volta in Italia, una consistente quantità di settanta scenari di Liu Bolin sono riuniti insieme in un allestimento nelle sale espositive del Complesso del Vittoriano, Ala Brasini, di Roma: per l’appunto, Liu Bolin. The invisible man, da due marzo al Primo luglio. Questa solida quantità e qualità di immagini -comprensiva di anteprime mondiali di soggetti italiani (tra i quali, il Colosseo, di Roma, l’interno del Teatro alla Scala, di Milano, e la Reggia di Caserta)- racconta il processo di assimilazione tra l’artista e il mondo che lo circonda: testimonianza visiva silenziosa, ma -al contempo- consapevole, di processi per i quali ogni individualità, ogni singolarità è tassello impercettibile dell’Esistenza, nel proprio insieme e complesso. Ancora, è certificazione e testimonianza del presente edificato in consapevolezza e memoria del passato. La mostra romana si scompone e ricompone in sette cicli, che scandiscono, ripercorrendola, la poetica del convincente e affascinante Liu Bolin: dalle opere originarie di percorso, della serie Hiding in the City, del 2005, fino ai giorni nostri, in un viaggio ideale tra la Cina -con i suoi celebri edifici, i miti, le problematiche sociali- e l’Italia. Ovvero, dall’avvio del suo tragitto espressivo alla reinterpretazione in coinvolgente personalità visiva e creativa di una sorta di “Grand Tour” (tanti i nostri richiami precedenti riguardo questo ritmo), che impegna l’autore da dieci anni.

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DUOMO

DI

MILANO ; 2010 (COURTESY BOXART, VERONA)


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PIAZZA SAN MARCO ; VENEZIA, 2010 (COURTESY BOXART, VERONA)


Da cui, per accumulo quantitativo e qualitativo, si identifica la serie Hiding in Italy, attraverso la quale Liu Bolin si è immerso/mimetizzato in luoghi simbolo del nostro paese, in tempi e con modi ripresi anche in altre geografie: quelle di Hiding in the rest of the world, scandite da inquadrature di Londra, Parigi, New York, Nuova Delhi, Bangalore (in India). Nelle tappe di questo intenso itinerario planetario, oltre le architetture altisonanti, con la propria apparente neutralità (soltanto apparente), l’autore affronta anche temi sociali di pressante attualità -quali sono la frenesia del consumismo (Shelves) e l’intrico della migrazione (Migrants, per l’appunto)-, concedendosi, nel frattempo, anche alla committenza commerciale e pubblicitaria. Comunque, le sette sezioni di Liu Bolin. The invisible man. Prima sezione: Hiding in the City. È l’inizio del cammino artistico di Liu Bolin. È il 2005, e l’amministrazione di Pechino abbatte il Suojia Village, quartiere a nord-est della città, sede di molti studi d’artista, tra i quali anche quello dello stesso Liu Bolin. In modalità artistica ed espressiva coerente ai propri sentimenti molestati e offesi, si fa dipingere in modo da far parte ed essere parte delle rovine, e si fa fotografare immobile tra loro. È qui, è in questo modo, che inizia la messa a punto di un linguaggio creativo trasversale tra performance, pittura, installazione e fotografia, capace di sottintendere valori concettuali di una espressività che, forte dell’apparente semplicità della mimetizzazione, rivela il perseguimento di un concentrato processo di conoscenza, che passa attraverso la sovrapposizione della propria identità con quella degli “elementi fisici” che gli stanno attorno. In consecuzione, è da qui che prende avvio un viaggio attraverso luoghi distintivi di Pechino e della Cina tutta, senza alcuna soluzione di continuità, dalle architetture classiche alle nuove urbanizzazioni, senza tralasciare le contraddizioni che si sono formate tra passato e presente, tra identità culturali e problematiche sociali. Seconda sezione: Hiding in Italy. Cronologicamente e concettualmente, il viaggio in Italia si configura come prima prova di Liu Bolin fuori dal proprio paese natale (è nato nello Shandong, provincia orientale della Cina, affacciata sul Mar Giallo, nel 1973). Non è improprio ricondurlo alle esperienze storiche e culturali degli artisti europei del passato, che rientrano nel fragoroso contenitore del “Grand Tour”: luoghi, architetture e opere di una cultura profondamente diversa dalla sua, con le quali e attraverso le quali l’autore continua il proprio processo di conoscenza. Ancora, Liu Bolin alterna luoghi caratteristici e celebri (e celebrati) a situazioni inconsuete, confermando la propria originaria continuità espressiva, in sovrapposizione della propria identità fisica. Terza sezione: Hiding in the rest of the world. Dalla Cina di partenza, all’Italia di passaggio... al mondo intero. Liu Bolin parte dall’identità rappresentata dalle bandiere nazionali della Cina, degli Stati Uniti d’America e di quella transnazionale dell’Europa -le tre principali realtà politiche ed economiche del pianeta-, per sovrapporsi a quella della sommatoria colorata di tutte quelle dei vari paesi del mondo, con l’opera significativamente intitolata The Future. Arriva a Londra e Parigi, passando per Arles. Approda a New York e a Nuova Delhi, passando per Bangalore, capitale dello stato indiano meridionale di Karnataka, principale centro dell’industria tecnologica dell’India, nella quale si immedesima con una centrale di smaltimento dei rifiuti (Bangalore Garbage Disposal Station; 2014). Queste opere sono racconto di un’esperienza del mondo, di un viaggio alla ricerca di una conoscenza dei luoghi, delle loro tipicità, ma anche degli accadimenti che li hanno segnati, com’è anche, e soprattutto, il caso di Ground Zero, a New York City. (continua a pagina 24)

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SALA DEL TRONO ; REGGIA DI CASERTA, 2017 (COURTESY BOXART, VERONA)

COLOSSEO N°2 ; ROMA, 2017 (COURTESY BOXART, VERONA)


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JEAN PAUL GAULTIER; 2011 (COURTESY BOXART, VERONA)

ANGELA MISSONI; 2011 (COURTESY BOXART, VERONA)


THE HOPE ; 2015 (COURTESY BOXART, VERONA)

WALL STREET BULL ; NEW YORK, 2011 (COURTESY BOXART, VERONA) MIGRANTS ; 2015 (COURTESY BOXART, VERONA)

(continua da pagina 21) Quarta sezione: Shelves. A partire da Supermarket n°1, del 2009, la serie degli scaffali di merce commerciale rivela che la concentrazione di Liu Bolin, intesa come conoscenza del mondo, si rivolge anche verso quelle manifestazioni di consumismo (compulsivo / esibito) che, volente o nolente, definiscono, fino a caratterizzarla, la cultura sociale dei nostri giorni. Il suo identificarsi con i prodotti disposti in bell’ordine sugli scaffali dei supermercati e dei centri commerciali coincide con l’anonimato di tutti i giorni (e da questo escluderemmo gli scaffali delle librerie... se non che, anche molti di questi si sono accodati, abbandonando l’originaria personalità culturale): siamo quello che consumiamo e quello che consumiamo ci consuma, erode la nostra identità più intima e privata, rendendoci tutti simili, soprattutto in virtù della diffusione planetaria degli stessi prodotti. Quinta sezione: Fade in Italy. “Svanire” in Italia, divenendone parte: tra cibo, vino, cultura, design e il mito della Ferrari, Liu Bolin gioca con l’ovvio, ovvero i luoghi comuni, ma anche con l’essenza di un luogo e di un popolo, facendosene parte. In questo modo, in aggiunta alla precedente sezione Shelves, e a suo completamento ideale, l’artista dimostra quanto il processo di globalizzazione sia patrimonio consolidato del nostro tempo. Sesta sezione: Cooperations. Come molti dei più importanti artisti contemporanei, anche Liu Bolin declina la propria creatività verso sbocchi commerciali e professionali. Ha prestato il proprio linguaggio, forte di una modalità rappresentativa di grande personalità, a rinomate case di moda: Valentino, Lanvin, Jean Paul

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Gaultier, Angela Missoni. Recentemente, ha firmato una campagna comunicazione di Moncler. In un certo senso, quello che poi conta davvero, due considerazioni nostre: riconoscimento di una identificata popolarità raggiunta da Liu Bolin, a partire dal proprio territorio di arte contemporanea, e declinazione nel quotidiano di un gesto originariamente d’arte (Bahuaus e contorni). Quindi, una giustificazione ufficiale (non richiesta): desiderio di non esimersi da manifestazioni della nostra contemporaneità. Settima sezione: Migrants. L’altra faccia della medaglia e del mondo, quella nella quale gli scaffali pieni, le automobili potenti, gli abiti e i tessuti più pregiati non sono nemmeno un desiderio possibile, ma piuttosto il dato di fatto di una distanza incolmabile, di una frattura profonda che attraversa il nostro tempo e che le immagini riescono a malapena a raccontare. L’immedesimarsi di Liu Bolin sia con gli uni sia con gli altri, il suo propriamente essere cosa-tra-cose, di volta in volta tra loro tanto diverse, è dimostrazione di quanto la sua arte attinga proficuamente parte dalla vita nel proprio svolgersi, in tutta la propria complessità. Mimetismo esplicito. ❖ Liu Bolin. The invisible man ; a cura di Raffaele Gavarro. Complesso del Vittoriano, Ala Brasini, via di San Pietro in Carcere, 00186 Roma; 06-6780664; www.ilvittoriano.com. Dal 2 marzo al Primo luglio; lunedì-giovedì, 9,30-19,30; venerdì e sabato, 9,30-22,00; domenica, 9,30-20,30. Mostra allestita con il patrocinio della Regione Lazio e Roma Capitale Assessorato alla Crescita culturale e della Fondazione Italia Cina; prodotta e organizzata da Arthemisia, in collaborazione con la Galleria Boxart, di Verona.



SESSANT

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA


di Maurizio Rebuzzini (in veste di Franti)

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TOTTO

roprio no! Non vogliamo entrare nel merito di alcun giudizio politico sul Sessantotto, perché non è nostro compito farlo. Inoltre, non siamo neppure competenti, e -soprattutto- siamo condizionati da un punto di vista assolutamente personale. Noi c’eravamo! Noi ci siamo stati! Precisato questo, allertiamo sulla quantità di parole a sproposito che si spenderanno, che hanno già cominciato a essere spese; cioè, possiamo soltanto mettere tutti in guardia dalle troppe parole inutili e superflue che inevitabilmente stanno per scorrere a fiumi: in televisione e sui giornali non dovrebbero mancare le infinite ricostruzioni postume del Maggio Sessantotto, che in quanto tale -Maggio, per l’appunto- fu soltanto francese. L’aria di rinnovamento politico, sociale e culturale fu però senza confini: per certi versi, prese avvio con la Rivoluzione Culturale cinese (che, ai tempi, in Occidente, fraintendemmo in declinazione positiva... ma! [riquadro a pagina 28]), si ingrossò nelle contestazioni nei Campus californiani (soprattutto toccati dalla guerra in Vietnam), esplose nel Maggio francese e dilagò in tutta Europa, a partire dall’autunno successivo, con sistematiche proteste studentesche e operaie. Nonostante tutto quello che potremo sentire, non sarà facile capire che il Sessantotto rappresenta comunque una linea di demarcazione, con un prima e un dopo. Ma non c’è stato un durante; per cui, non lasciamoci ingannare dalle parole che stiamo per sentire: allora, non si poteva capire che si stava “facendo il Sessantotto”. Dopo, anche subito dopo, ciascuno di noi prese atto dei nuovi equilibri stabiliti da tanti eventi travolgenti; durante, ognuno si è impegnato nella propria vita quotidiana.

Dettaglio da serigrafia 65x42cm su carta da giornale (in originale, rosso su fondo bianco) [a pagina 29].

La ricorrenza è fatidica, e ci sarà ricordata in molte salse e da infiniti punti di vista... attuali. Nel fatale cinquantenario, si è tornati a parlare -celebrandolodel premonitore Sessantotto (per l’appunto, 19682018), che nell’esuberante vivacità e vitalità del suo Maggio fu soprattutto questione francese e parigina. Ragionando con il senno di poi, e considerando perfino quegli aspetti quotidiani che allora fecero e stabilirono differenze sostanziose -che, volente o nolente, hanno condizionato la Storia a seguire-, esprimiamo riflessioni nostre, con accompagnamento di immagini che scorrono a sé, magari raccontando addirittura qualcosa di altro... soprattutto (soltanto?) la comunicazione spontanea nata in quei lontani giorni 27


QUELLA RIVOLUZIONE (?)

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA

La grande Rivoluzione Culturale, ufficialmente grande Rivoluzione Culturale Proletaria, è ufficiosamente acquisita con la connotazione semplificata di Rivoluzione Culturale. Fu lanciata nella Repubblica Popolare Cinese, nel 1966, da Mao Zedong, in difficoltà nel Comitato centrale del Partito Comunista. Di fatto, per riconquistare un ruolo primario nella direzione del paese, Mao promosse un’azione forte e pubblica contro gli avversari politici, a partire da Deng Xiaoping (pioniere della riforma economica cinese e artefice di un “socialismo con caratteristiche cinesi”, che mirava a una transizione economica pianificata, aperta al mercato, ma comunque supervisionata dallo Stato [tornato in auge negli anni Ottanta, all’indomani della scomparsa di Mao, mancato nel settembre1976, a ottantatré anni, è considerato il padre dell’attualità socio-politica della Repubblica Popolare Cinese d’oggi]) e Liu Shaoqi (presidente della Repubblica). Ufficialmente, l’azione di Mao venne politicamente motivata con l’esigenza di frenare una individuata ondata controriformista; ufficiosamente, ma intenzionalmente, si intese ripristinare una severa e rigida ortodossia marxista-leninista, correntemente attualizzata, se è il caso di rilevarlo, dal pensiero dello stesso Mao. L’epurazione in seno al politburo (ufficio politico del Partito) fu drastica e spietata. Quindi, per un coinvolgimento complessivo della nazione, intervennero personalità politiche in appoggio. Il principale alleato di Mao, fu Lin Biao, un generale leader militare, di quattordici anni più giovane di Mao, subito considerato suo delfino e designato come successore, quindi a propria volta epurato (e ucciso) nel 1971, con un’infamante accusa di tradimento. Comunque, Lin Biao fu l’ideatore e curatore della prima edizione del leggendario Libretto rosso, ufficialmente Citazioni dalle opere del presidente Mao Tse-tung (in grafia antecedente l’adozione del sistema di trascrizione Pinyin): per l’appunto, una antologia di citazioni da scritti e discorsi di Mao, ampiamente utilizzato per fare propaganda all’interno dell’Esercito di liberazione popolare... le famigerate Guardie Rosse, guidate dello stesso Lin Biao. Sulla base del pensiero di Mao, e in particolare su estratti dal suo Sulla giusta soluzione delle contraddizioni in seno al popolo (discorso pronunciato all’undicesima sessione allargata della Conferenza suprema dello Stato, il 27 febbraio 1957), la Rivoluzione Culturale mobilitò giovani rivoluzionari, universitari e non, contro le strutture dello stesso Partito Comunista Cinese. In ogni città e provincia, qualsiasi Unità di lavoro fu investita dalla critica radicale contro gli esponenti di spicco del Partito e della società (docenti universitari, intellettuali, letterati, artisti...), costretti all’autocritica e alle dimissioni, sempre seguite da un periodo di rieducazione presso sperduti villaggi contadini.

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Da qui e da questo, prese avvio un lungo periodo di disordine e confusione, allungatosi fino al successivo 1969... almeno. Molte/troppe furono le azioni intimidatorie e discriminanti giustificate dalla Rivoluzione Culturale, per la quale si stima addirittura la morte di milioni di persone (fonti ufficiose). In occidente, in Italia, molti (noi compresi, non ci esimiamo) attinsero alla Rivoluzione Culturale, intendendola come straordinario momento di libertà e democrazia (eravamo illusi e sognanti, come si può esserlo all’alba dei propri vent’anni): ignari del suo terribile e intollerabile carico di persecuzione e tirannia. Il nostro miraggio ci faceva ipotizzare un mondo migliore di quello entro il quale stavamo vivendo. Abbiamo persino credute vere le parole che Mao pronunciò nel 1956: «Che cento fiori fioriscano, che cento scuole di pensiero gareggino». Fino al punto che, nell’Ottanta, avviando una esperienza in forma di cooperativa, ancora ci richiamammo ai Centofiori! Poi, passano gli anni, e un Uomo non più permettersi di vivere nel passato e con il passato. Comunque, l’onestà intellettuale e lo spessore analitico dei quali andiamo fieri e orgogliosi nacque in quegli anni e con quelle persone attorno a noi e con quell’inviolabile riferimento ideologico. A seguire, ritornando in tema, oltre i resoconti in forma di saggio, insistiamo sul valore del romanzo. Con Francesco Alberoni (in estratto mirato dal fondo Pubblico&Privato, sul Corriere della Sera, del 10 novembre 2008): «[Molti] preferiscono la saggistica o il giornalismo che tratta di storia, di politica, economia, scienza, argomenti che considerano seri, impegnativi. Da questi libri pensano di imparare cose importanti, pratiche, utili. Hanno fiducia nel pensiero razionale, costruito su concetti. [...] La narrativa, invece, dà loro l’impressione di essere un flusso disordinato di accadimenti fantasiosi che non aiutano a comprendere la realtà e il comportamento degli esseri umani. [...] Senza negare importanza alla saggistica, posso però dire che sbagliano. «La narrativa [...] ti dà quanto la saggistica non potrà mai darti: il flusso reale della vita umana, il significato delle azioni, i pensieri nascosti, i mille contraddittori motivi che stanno dietro le nostre decisioni. La narrativa ti fa partecipare al mondo interiore di uomini e donne che sperano, sognano, amano, soffrono, lottano, vincono, sono felici e hanno paura. Un mondo che non è lineare, dove si mescolano passato, presente e futuro, tenerezza e passione, dubbi e certezze, odio e compassione, violenza e pentimento». Quindi, registriamo la trasversalità della Rivoluzione Culturale, e dei relativi misfatti, rintracciabile in un romanzo poliziesco ben confezionato. Non siamo in odore di Nobel, o altro riconoscimento prestigioso, ma di qualcosa che -comunque- raggiunge il cuore: Quando il rosso è nero, di Qiu Xiaolong (Marsilio Editori, 2006). Una sola testimonianza d’epoca, in rappresentanza delle tante che ci potrebbero stare: copertina e quarta di copertina del mensile propagandistico La Cina, edito in tante lingue e diffuso nel mondo, del dicembre 1968, con sottolineatura del pensiero di Mao Zedong, guida della grande Rivoluzione Culturale Proletaria.


ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2)

Per cui, anche la maggior parte dei reportage di quell’anno, che ci verranno puntualmente riproposti in diversi assemblaggi, furono soprattutto mestiere di tutti i giorni, e non rappresentarono necessariamente una presa di posizione dei singoli fotografi rispetto ai fatti documentati. Siamo comunque grati al loro impegno, ma non esigiamo la loro beatificazione storica. Anche se hanno fotografato per una routine di mestiere, seppure con tanta dedizione (di alcuni), non pretendiamo che i fotografi siano anche raffinati politologi dotati di alcuna preveggenza. Soltanto in alcuni casi possiamo pensare a una sorta di capacità (di qualcuno) di cogliere l’anima dei fatti attraverso visioni al confine degli avvenimenti. Tornando al Maggio Sessantotto non contano tanto le immagini di quei giorni, che per lo più raccontano di scontri tra manifestanti e polizia e di lunghi cortei, quanto la comunicazione spontanea che, in Francia, diede vita a una prolifica produzione di affissioni. Più di tante parole, proprio questi manifesti raccontano in diretta il clima dei giorni francesi: la contrapposizione al Potere, la solidarietà dei lavoratori (dalle grandi fabbriche -Renault / parastatale in testa- alle piccole botteghe), la partecipazione del mondo culturale (scrittori e protagonisti di cinema e spettacolo prima di altri), oltre che la diffidenza verso il giornalismo della carta stampata, della radio e della televisione. Non sappiamo se esistono raccolte che riuniscono in modo sistematico e ragionato il materiale che noi abbiamo visto cinquant’anni fa, e del quale possediamo una testimonianza parziale (che proponiamo, in queste pagine, in una significativa selezione). Se non esistesse, sarebbe un peccato, perché nel Mag-

gio Sessantotto, al di là di quanto ci possano dire i commentatori di oggi, trionfò soprattutto la spontaneità e la voglia di fare. E quei manifesti sono l’autentica attestazione di quello spirito. Così come abbiamo appena sottolineata la differenza tra la banale cronaca dei fatti (cortei e scontri) e la capacità di quei fotografi che hanno saputo vedere oltre, dando il vero senso (storico) degli avvenimenti, dobbiamo anche ribadire che -comunque li si consideri- quei momenti hanno cambiato il modo di pensare delle persone che vi hanno partecipato, e hanno indelebilmente inciso sulla storia contemporanea.

Offset 55x48cm su carta da stampa grafica (blu su fondo bianco). Serigrafia 65x42cm su carta da giornale (rosso su fondo bianco).

QUEL SESSANTOTTO Date certe, ora. Riferimenti sicuri. L’apice del Maggio francese si registra il dieci e l’undici maggio, quando, nel Quartiere latino di Parigi, si verificano cruenti scontri tra la polizia e gli studenti delle università di Nanterre e della Sorbona. Immediatamente, il successivo tredici, la sinistra organizza una manifestazione nella capitale francese, alla quale partecipano ottocentomila persone. Le proteste continuano ininterrotte per tutti i giorni a seguire, fino al trenta maggio, quando, a seguito delle continue proteste contro il governo centrale, l’allora autorevole presidente della Repubblica Charles De Gaulle scioglie l’Assemblea Nazionale e indice nuove elezioni. Le date italiane registrano altrettanto fermento. Riferiamole in successione cronologica. Primo marzo, violenti e sanguinosi scontri tra la polizia e gli studenti nei pressi della Facoltà di Architettura dell’Università di Roma, a Valle Giulia, dai quali prende avvio una sostanziosa e capillare serie di occupazioni in molti atenei italiani... diciamo in tutti. Il successivo

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CAMPO-CONTROCAMPO: GIANNI BERENGO GARDIN

Tra i fotografi impegnati nella documentazione di quei momenti c’era anche Gianni Berengo Gardin, che successivamente ha individuato una immagine di cronaca che si configura come autentico controcampo a una sua celebre inquadratura del pittore Emilio Vedova che si scaglia contro uno schieramento di polizia pronto a caricare i manifestanti. Ecco qui, il campo e il controcampo di quella tumultuosa estate veneziana. Campo: il pittore Emilio Vedova fotografato da Gianni Berengo Gardin durante la contestazione della Biennale d’Arte di Venezia del 1968.

GIANNI BERENGO GARDIN

Controcampo: Gianni Berengo Gardin mentre fotografa Emilio Vedova, fotografato a propria volta dagli inviati di Camera Photo, di Venezia.

diciotto marzo, il mondo del lavoro risponde alla ventata di rinnovamento radicale dal basso, quando gli operai della Pirelli-Bicocca, di Milano, uno dei riferimenti primari dell’industria metalmeccanica, creano il primo Cub (Comitato Unitario di Base), che nega, rifiuta e mette in sostanzioso dubbio l’accordo sindacale sul contratto nazionale della gomma, firmato il precedente tre febbraio. Il ventisei marzo, al Liceo ginnasio statale Terenzio Mamiani, di Roma, si svolge la prima assemblea studentesca autorizzata della scuola italiana. E il diciannove aprile, a Valdagno, in provincia di Vicenza, gli operai degli stabilimenti Marzotto in sciopero vengono duramente caricati dalla polizia: si accende una autentica battaglia per le strade della cittadina, che si conclude con quarantadue arresti. A margine, annotiamo che il clima paternalistico dell’industria del tempo, sostanziosamente falso e ingannevole nei propri termini, è clamorosamente demolito con il significativo abbattimento della rituale statua del fondatore, il conte Gaetano Marzotto (1894-1972). In giugno e a fine agosto è stata la volta di due appuntamenti internazionali veneziani: rispettivamente, contestazione della Biennale d’Arte e del Festival del cinema, con i relativi protagonisti -artisti e registi e attori- in prima fila (per la Biennale d’Arte, riquadro qui sopra, relativo a un curioso campo-controcampo del fotografo Gianni Berengo Gardin). Quindi, in conclusione di percorso, per quanto la spesso citata opposizione all’inaugurazione della stagione lirica del Teatro alla Scala, di Milano, nel giorno di Sant’Ambrogio, protettore della città, il sette dicembre, altro non fu che folcloristica (con luci della ribalta accesi sull’esordio di Mario Capanna, leader

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del Movimento studentesco, e la partecipazione di Giangiacomo Feltrinelli, editore e libraio, che nel 1972 sarebbe morto / stato ucciso in circostanze ancora non chiarite), non possiamo ignorare le prime vittime italiane. Il due dicembre, la polizia spara sui braccianti in sciopero, ad Avola, in Sicilia, in provincia di Siracusa: due morti e oltre cinquanta feriti. Il successivo trentuno, nella notte di fine/inizio anno, una manifestazione organizzata e svolta dal Movimento studentesco di Pisa e militanti di Potere Operaio, uno dei primi gruppi extraparlamentari di quegli anni, di fronte al selettivo locale notturno La Bussola, di Viareggio (Marina di Pietrasanta, in provincia di Lucca), è duramente repressa dalla polizia: colpito da un proiettile, lo studente sedicenne Soriano Ceccanti rimane paralizzato. E questo è lo specifico. Se così possiamo dire e considerare... oggi. A cui, aggiungiamo altro, per sottolineare il clima del tempo. Rapidamente. La guerra in Vietnam registra la leggendaria Offensiva del Têt, pianificata dal leggendario comandante dell’esercito nord-vietnamita Võ Nguyên Giáp (1911-2013), già vincitore sulla Francia, che prende avvio la notte tra il trenta e trentuno gennaio, per essere fermata dall’esercito statunitense il ventiquattro febbraio. Negli stessi momenti, vanno registrati i massacri di Phong Nhi e Phong Nhàt, da parte dei marines (dodici febbraio), e quello nel villaggio di My Lai, dove furono sterminati quattrocentocinquanta cittadini inermi (in gran parte anziani, donne e bambini; sedici marzo), del quale venimmo a conoscenza tempo dopo, in base a rivelazioni fotografiche fornite da un soldato presente sul luogo. Cento morti a una manifestazione studentesca a

CAMERA PHOTO

Il vento del Maggio Sessantotto ha soffiato da Parigi su tutta l’Europa, sollecitando una serie di proteste che hanno coinvolto prima di tutto il mondo studentesco e quello dell’arte. Alla Biennale d’Arte di Venezia, quell’estate, gli artisti inscenarono una contestazione che -di fatto- mise in crisi l’intera manifestazione, che non sarebbe più stata la semplice e borghese passerella dei decenni precedenti.


ARCHIVIO FOTOGRAPHIA

Città del Messico, repressa dall’esercito a suon di mitragliatrici. È il due ottobre, in anticipo sui giochi della Ventinovesima Olimpiade (dodici-ventisette ottobre), durante la quale, il sedici ottobre, sul podio dei duecento metri, la medaglia d’oro, Tommie Smith, e la medaglia di bronzo, John Carlos, entrambi afroamericani, alzarono il pugno guantato del movimento del Black Power (icona del Novecento!). Comunque, a margine, tra i feriti gravi del due ottobre, ci fu anche la giornalista italiana Oriana Fallaci, inviata del settimanale L’Europeo. Al culmine di un anno di scontri con la polizia statunitense, comprensivi anche di una forte e decisa opposizione alla Convention democratica, a Chicago, in Illinois, il cinque novembre, il repubblicano Richard Nixon è eletto presidente: primo dei suoi due mandati, conclusi poi con le dimissioni a seguito dello scandalo Watergate (9 agosto 1974), rivelato e cocciutamente seguìto da due giornalisti del quotidiano Washington Post, Bob Woodward e Carl Bernstein.

ALTRO SESSANTOTTO In forma di metafora, attingendo alla casa e storia della Fotografia, nostro intenzionale campo comune. Quando rileviamo che all’indomani dell’annuncio ufficiale dell’inizio del 1839, il sette gennaio, in forma di dagherrotipo, altri due pionieri si fecero avanti, rivendicando l’altrettanta originalità di propri rispettivi processi della natura che si fa di sé medesima pittrice (il parigino Hippolyte Bayard e l’inglese William Henry Fox Talbot), invitiamo a riflettere che l’idea, l’ipotesi era nell’aria, era palpitante. Fatte salve le nozioni basilari chimiche e fisiche millenarie (in questo ordine, l’azione della luce e la formazione dell’immagine proiettata, prima da un

semplice foro [stenopeico, diciamo oggi], poi da un obiettivo), in quel primo Ottocento erano maturate condizioni filosofiche che orientavano il pensiero anche in quella direzione. Non la facciamo ulteriormente lunga, ma ci basta riconoscere -individuandoli- i segni tracciati dal Tempo, nella propria linea evolutiva sociale. Così, in parallelo e verso l’attualità delle riflessioni odierne, indipendentemente dal Maggio -ma comprendendolo a piene mani, sia chiaro-, il Sessantotto è stato autenticamente tale... Sessantotto in una accezione collettiva e universale certamente senza paragoni. Vogliamo parlarne? Parliamone! In questa chiave, per il Sessantotto, registriamo almeno tre accadimenti globali sostanziali, oltre e a dispetto delle relative origini nazionali. Assassinio del reverendo Martin Luther King, leader del movimento antisegregazionista statunitense (quattro aprile, a Memphis, in Tennessee). L’integralista e razzista bianco James Earl Ray, omicida riconosciuto, punta d’iceberg di una ampia cospirazione fu arrestato il successivo cinque giugno; il 10 marzo 1969, fu condannato a novantanove anni di reclusione. Assassinio di Robert Fitzgerald Kennedy, fratello del presidente John Fitzgerald, ucciso a Dallas, in Texas, il 22 novembre 1963 [FOTOgraphia, novembre 2013], in corsa per le primarie democratiche alle elezioni di novembre, dove si affermò Richard Nixon (cinque giugno, a Los Angeles [straordinario reportage di Paul Fusco, RFK Funeral Train, presentato e commentato in FOTOgraphia, del luglio 2008]). Invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del Patto di Varsavia (alle ventitré della notte del venti agosto; con straordinaria testimonianza visiva del tren-

Serigrafia 50x70cm su carta da affissione (nero su fondo bianco [colorato da noi, per questa occasione]).

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ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (4)

Serigrafia 100x65cm su carta da affissione (esiste anche in altre dimensioni più piccole; nero su fondo bianco [colorato da noi, per questa occasione]). Offset probabilmente 60x50cm su carta da stampa grafica (nero su fondo bianco [colorato da noi, per questa occasione]).

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tenne Josef Koudelka, che da qui si impone all’attenzione internazionale). Con pugno forte, l’Unione Sovietica demolì l’esperimento politico di “socialismo dal volto umano” condotto da Alexander Dubček, che avviò la Primavera di Praga salendo al potere, il cinque gennaio. Missione spaziale Apollo 8, la prima a circumnavigare la Luna, in preparazione dell’allunaggio di Apollo 11 (20 luglio 1969 [FOTOgraphia, luglio 2009]), nello spazio dal ventuno al ventisette dicembre: due orbite attorno la Terra e le prime dieci orbite attorno la Luna, con debutto dell’Hasselblad 500 EL/70, con motore elettrico incorporato e magazzino per pellicole 70mm a doppia perforazione (annotazione d’obbligo). Da cui, come e quanto la Fotografia influisce / ha influito sulla Vita. Tutte le fotografie riprese nel corso della missione ebbero un’importanza determinante nell’ambito dell’intero progetto Apollo. Agli astronauti Frank Frederick Borman II, James “Jim” Arthur Lovell Jr e William Alison Anders fu affidato anche l’incarico di fotografare la superficie della Luna, alla ricerca del punto più indicato per l’allunaggio programmato per la missione Apollo 11. In assoluto, quelle di Apollo 8, per importanza missione seconda soltanto all’allunaggio del 20 luglio 1969, furono le fotografie più affascinanti riprese dagli astronauti statunitensi. Una delle sequenze più significative riportate dai voli spaziali è giusto quella nella quale si vede il globo terrestre, d’un blu marmorizzato, sorgere a poco a poco sul desolato orizzonte lunare, per stagliarsi, infine, luminoso sullo sfondo nero profondo dello Spazio: per la prima volta nella storia dell’Umanità, ci si allontanò tanto dalla Terra, da poterla inquadrare e fotografare. Da e con Piero Raffaelli [in FOTOgraphia, del luglio 1994 e luglio 2009]: «Un anno prima dell’allunaggio,

ci arrivarono dallo Spazio altre immagini. Non furono gasate da una diretta televisiva, ma si imposero ugualmente nella memoria di tutti. Nel corso della missione Apollo 8, gli astronauti si allontanarono dalla Terra tanto da poterla inquadrate tutta intera sullo sfondo nero. E poi, raggiunta l’orbita lunare, dopo aver sorvolato l’emisfero nascosto, videro e fotografarono la Terra che “sorgeva” sopra la Luna. Con questo primo controcampo, lo sguardo umano non si volgeva più verso l’infinito, bensì verso il luogo finito, lì dove c’erano le radici. «Quella piccola sferetta bianca-azzurra-verdegiallina, sospesa sopra il deserto lunare, appariva in tutta la sua preziosa anomalia. Teschi corrosi, come quelli della Luna, dovevano essercene molti nel Cosmo; la Terra era forse unica. Forse non si sarebbe mai visto un posto più bello. Tutti gli esploratori, Cristoforo Colombo compreso, espressero meraviglia per i nuovi luoghi scoperti. Gli astronauti Frank Borman, James Lovell e William Anders si commossero nel guardare la Terra. Il migliore luogo del Cosmo era “home”, come poi avrebbe scoperto anche ET, l’omuncolo extraterrestre di Spielberg. «Guardando la sferetta colorata, si poteva immaginare che tutte le creature viventi ci potessero vivere in simbiosi (John Lennon cantava Imagine). Gli allarmi ecologici che si sarebbero diffusi negli anni seguenti erano stati preparati da quell’impressione di delicatezza: era facile immaginare che il sottile alone azzurrino potesse bucarsi. Certi slogan politici non si sarebbero espressi come progetti “globali” se non ci fosse stato quello sguardo rivolto alla Terra da lontano. “L’uso razionale delle risorse”, “il governo mondiale”, “lo sviluppo sostenibile”, “l’indipendenza tra nord e


sud” e altre utopie divennero credibili perché le fotografie arrivate dallo Spazio le aiutavano. Era il Natale del 1968, quando arrivarono». Aneddoto, leggenda, storia: questa celebre sequenza fotografica stava per non essere realizzata. Frank Borman, il comandante, vide che la Terra stava per sorgere e chiese a William Anders, l’esperto fotografico della missione, di scattare. Questi si rifiutò, dicendo che quanto gli veniva richiesto non era previsto dal protocollo operativo. Lo stesso Borman prese allora l’Hasselblad di Anders e scattò lui stesso.

IN CONTORNO AL SESSANTOTTO Dalla cronaca alla Storia, altre annotazioni complementari sul Sessantotto. Magari minori, rispetto quelle appena richiamate, ma! (In omaggio agli amici calabresi che si possono sentire anche destinatari di questo), dall’unione amministrativa dei comuni di Nicastro, Sambiase e Sant’Eufemia Lamezia, il quattro gennaio, viene costituita la città di Lamezia Terme, in provincia di Catanzaro. Il quindici gennaio, il Terremoto del Belice, in Sicilia, causa la morte di trecentosettanta cittadini e apre le porte a successive speculazioni criminali della politica, in forte odore di mafia. Il ventiquattro marzo, a Torino, il cardinale Michele Pellegrino officia la prima messa in italiano (in precedenza, il rito veniva svolto in latino). Il ventisette marzo, muore Jurij Alekseevič Gagarin, cosmonauta sovietico, il primo Uomo a completare una missione spaziale, il primo Uomo nello spazio, il 12 aprile 1962, con la navicella Vostok 1 (Oriente 1): «Da quassù, la Terra è bellissima, senza frontiere, né confini».

Il venticinque luglio, viene pubblicata l’enciclica Humanae Vitae, con la quale papa Paolo VI (Montini; 1897-1978) condanna ogni forma di contraccezione con metodi artificiali e ribadisce come legittima la sola sessualità coniugale a scopi procreativi. Il venti dicembre, la Corte Costituzionale dichiara illegittimi due commi dell’articolo 559 del codice penale, che discriminano tra uomo e donna in caso di adulterio (leggi, delitto d’onore). Intanto, i Beatles cantavano Lady Madonna, Hey Jude e Blackbird... soprattutto. Enzo Jannacci illuminò con il suo Ho visto un re; Simon & Garfunkel si rivolgevano a Mrs Robinson; Fabrizio De André regalava La canzone di Marinella; Paolo Conte componeva Azzurro. Perché, dal Sessantotto, anche la musica accompagna la Vita e ne scandisce il Tempo [da e con Roberto Mutti]. Cinquant’anni fa, in tempi antecedenti l’attuale stagione del consumo esibito, anche noi abbiamo visto un re «che piangeva seduto sulla sella / piangeva tante lacrime, ma tante che / bagnava anche il cavallo!». «Povero re! / - E povero anche il cavallo!». Poi, nel corso del Sessantotto, abbiamo visto anche un contadino, che «il vescovo, il re, il ricco, l’imperatore, / persino il cardinale, l’han mezzo rovinato / gli han portato via: la casa, il cascinale, la mucca, il violino, la scatola di kaki, la radio a transistor, i dischi di Little Tony, la moglie! / gli hanno ammazzato anche il maiale». «Ma lui no, lui non piangeva, anzi: ridacchiava!». «Il fatto è che noi villan... noi villan... / E sempre allegri bisogna stare / che il nostro piangere fa male al re / fa male al ricco e al cardinale / diventan tristi se noi piangiam!». Sessantotto e basta. ❖

Stencil / matrice 120x80cm, in genere riportata su carta da disegno (nero e rosso su fondo bianco; esiste anche su fondo giallo). Serigrafia 85x65cm su carta da giornale (grigio-verde su fondo bianco).

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PHILIPPE HALSMAN

Il 6 ottobre 1948, settant’anni fa, Victor Hasselblad (1906-1978) presentò l’originaria Hasselblad 1600F, a New York, alla presenza di qualificati foto-giornalisti americani, durante una cena presso l’Athletic Club. La sua concezione reflex 6x6cm monobiettivo, con sistema ampiamente intercambiabile, a partire dai magazzini portapellicola (rullo 120 e 220, e film 70mm a doppia perforazione), ha influito sostanziosamente sulla storia tecnica della fotografia, con relativa proiezione sul lessico e linguaggio dell’immagine ottica. Un certo culmine di questo luminoso cammino si può conteggiare e considerare con la collaborazione Hasselblad / Nasa, culminata con l’allunaggio di Apollo 11, del 20 luglio 1969 [ FOTOgraphia, luglio 2009].

Fotografo svizzero di terza generazione, Carl Koch (1916-2005 [ FOTOgraphia, giugno 1996 e febbraio 2006]) rivoluzionò i concetti di apparecchio fotografico grande formato a banco ottico con l’originaria Sinar, del 1948, storicizzata in Sinar Norma. In un tempo di grandi entusiasmi, straordinarie intuizioni, voglie e capacità inventive -immediatamente successivo la Seconda guerra mondiale-, modificò una realtà tecnica nella quale nulla era cambiato dalla notte dei tempi. A seguire, ci furono configurazioni (Sinar-p e Sinar-f) che adottarono regolazioni geometriche ragionate dei corpi mobili.

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A

nniversari fotografici sul 2018, con prologo necessario. Nel corso degli anni, sopra tutti, Leica e Hasselblad hanno fatto ampio uso e consistente propaganda dei propri, celebrati con coni speciali, che spesso hanno raggiunto consistenti quotazioni antiquarie (almeno, fino a quando ci si è espressi in termini di fotografia chimica). Celebrazioni, va rilevato, che hanno riguardato sia le proprie date, sia date di proprie combinazioni (per esempio, quelle della prestigiosa collaborazione tecnica di Hasselblad con la Nasa, l’ente spaziale statunitense al quale ha fornito gli apparecchi fotografici per le proprie missioni, culminate con l’allunaggio del 20 luglio 1969), sia date di richiamo generale (come le Leica M6 Colombo, nel cinquecentenario della scoperta dell’America 1492-1992, riservate al distributore italiano Polyphoto e proiettatesi verso il collezionismo fotografico planetario [FOTOgraphia, giugno 1995]). Sia chiaro, non solo Leica e Hasselblad hanno realizzato apparecchi celebrativi, molti dei quali con finiture dorate; l’elenco potrebbe allungarsi su tanti altri marchi, praticamente su tutti. Però, e nonostante questi richiami sostanziosi e significativi, complice un certo disorientamento generale, causato dall’incombenza delle nuove tecnologie, che hanno fatto anche credere di poter abbandonare le storie e la Storia, in tempi recenti, le celebrazioni degli anniversari e i richiami ai fondatori sono stati spesso relegati in soffitta, quasi ci si vergognasse delle proprie anagrafi e origini. Invece, a sorpresa, da qualche stagione, il passato è tornato a essere valore degno di essere ricordato ed evocato: fino al recente centenario Nikon, 1917-2017, che abbiamo cadenzato nei nostri numeri da settembre a dicembre scorsi. Ma allora? Allora, dovremmo arricchirci della nostra storia e del nostro passato, ai quali dare senso, valore

e spessore in molteplici chiavi. Tutte quelle che certa e presto identificata industria fotografica ignora e sottovaluta, sacrificandole a malintese convenienze di stretta urgenza commerciale. In questo panorama, che stiamo per censire, soltanto Kodak ha ormai rinunciato al proprio anniversario, dal 1888 di origine della Eastman Kodak Company, nata a contorno di quella Box Kodak tanto discriminante sull’evoluzione della fotografia, sia dei connotati tecnici, sia della relativa proiezione sul commercio, sia dell’inevitabile collegamento e influenza sul linguaggio espressivo [più recente evocazione, in FOTOgraphia, del novembre 2017]. Stando a un’opinione ufficiosa, raccolta personalmente, l’attuale mancanza e assenza di segnalazioni ufficiali si dovrebbe al nuovo indirizzo aziendale: alla lettera “consumer-oriented”, interpretazione che parrebbe escludere ogni eventualità di rimando e riferimento retrospettivo. Non per questo, però, rinunciamo a ricordare la data. Per farlo, lo scorso novembre, appena citato, abbiamo ripreso il senso del Tempo, partendo da una lettera autografa di George Eastman, che fa parte del carteggio con i propri legali per la richiesta del brevetto di quella che sarebbe poi stata la Box Kodak originaria, e riprendendo una storia statunitense a tema, ritmata sulla cadenza a fumetti: da cui... 1888-2018.

1888-2018: BOX KODAK, LA PRIMA Centotrenta anni fa, nel 1888, la Box Kodak, con la quale nasce il marchio di fabbrica (Kodak, appunto), stabilì una linea spartiacque, anzi due. Da un punto di vista commerciale, nasce il mercato fotografico come ancora oggi l’intendiamo; quindi, anche l’espressività fotografica cambiò radicalmente, rendendo la pratica fotografica accessibile tutti. Infatti, in precedenza, la fotografia era materia per pochi: anzitutto costosa, e poi anche ingombrante e difficoltosa, tanto da essere limitata soltanto alla posa: ritratto, paesaggio.

MAURIZIO REBUZZINI

di Antonio Bordoni

Due rivoluzioni fotografiche datate 1948: settant’anni fa, in attuale ricordo sul finale “otto”. L’Hasselblad 1600F (poi, 1000F, dal 1952, e 500C, dal 1957) avviò il comparto tecnico-commerciale delle reflex 6x6cm monobiettivo a sistema. La Sinar Norma (qui una versione successiva all’originaria [a pagina 41]) interpretò una sostanziosa originalità del banco ottico.

ANNIVERSARI IN OTTO Da e con Ray Bradbury, in Fahrenheit 451: «E quando ci domanderanno che cosa stiamo facendo, tu potrai rispondere loro: ricordiamo. Ecco dove alla lunga avremo vinto noi»... e ci speriamo... e ci contiamo. Oltre i cinquant’anni dal Sessantotto, evocati altrove, su questo stesso numero, il piccolo-grande mondo della Fotografia -all’interno del quale e a partire dal quale ragioniamo- registra una significativa quantità di anniversari, nell’anno che c’è, in finale otto. Zigzaghiamo, dal 1888 al 1958, al 1948 (in quantità)... e altro ancora

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ANTONIO BORDONI (3)

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA

1958: Eura Ferrania [ FOTOgraphia, settembre 1998]. A parte considerazioni attuali, declinate nell’ambito degli “apparecchi giocattolo” (stile Holga e Diana), l’originaria commercializzazione, a 2650 lire, avvicinò alla fotoricordo una consistente quantità di famiglie. La sua semplificazione tecnica (banalizzazione?) fu esemplare, tant’è che divenne ben presto capostipite di una genìa fotografica immediatamente seguìta da altri-tanti costruttori.

Proprio le dimensioni contenute e la sostanziale facilità di uso consentirono alla fotografia di scendere per la strada, applicandosi alla vita reale; ovverosia, da qui si data la registrazione fotografica della vita nel proprio svolgersi, nel momento in cui si svolge. Tanto per quantificare, le immagini di Jacob A. Riis che rivelarono le terribili condizioni di vita degli immigrati a New York, raccolte in How the Other Half Lives, sono del 1890. Reportage è un termine sostanzialmente moderno, che ai tempi era estraneo a qualsiasi intenzione. Però, ciò che cominciò allora è proprio reportage: per la prima volta, la fotografia non si limitò al proprio esercizio, ma si mise al servizio della società. A partire dalla fotografia sociale e umanista di Jacob A. Riis (appena evocato) e Lewis W. Hine, il valore documentativo e di racconto della fotografia si è proiettato all’esterno del solo (e sterile) dibattito interno. Giusto questo è quanto non dobbiamo sottovalutare, e neppure ignorare: è il punto di partenza di una fotografia che certifica la propria appartenenza alla società, senza dover pietire il proprio presunto contenuto artistico degno di stare accanto ogni altra arte visiva (contenuto che non è in discussione). Ancora, consideriamo altre consecuzioni della Box Kodak, discriminanti sulla storia evolutiva del linguaggio fotografico. Tra tanto, con quell’apparecchio portatile, facile da usare, acquistabile da un’ampia schiera di persone, nacque la fotografia istantanea, a partire dalla fotoricordo familiare, che rappresenta una delle più consistenti applicazioni sociali della stessa fotografia [da e con 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, di Maurizio Rebuzzini].

1958-2018: EURA FERRANIA Per cause di forza maggiore, da tempo, non si ricorda un altro anniversario. Quindi, ecco qui la celebrazione

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dei sessant’anni dalla straordinaria Eura Ferrania, che in Italia ha rappresentato il fenomeno della fotografia di massa all’alba degli anni Sessanta. Oggigiorno, si può e deve richiamare la Eura Ferrania anche in collegamento diretto con il consistente fenomeno della fotografia con apparecchi giocattolo, che -a partire dalle sollecitazioni statunitensi Diana e Holga- ha tracciato termini di una sostanziosa applicazione creativa. Esaurite le intenzioni originarie, che affondano le radici nei momenti a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, in molti ambiti, l’italiana Eura Ferrania si ripropone oggi in una veste concettualmente nuova, appunto di stravolgimento espressivo. A sessant’anni dalla propria attualità tecnico-commerciale, oggi la Eura Ferrania è protagonista di straordinarie interpretazioni e frequentazioni della creatività fotografica, che si manifestano a partire dall’uso di “apparecchi giocattolo”. Per quanto non sia stato codificato e ufficializzato un definibile “fenomeno Eura”, perlomeno nei termini con i quali in tutto il mondo si sono affermate sia la “fotografia Holga” (e Diana) sia la “Lomografia”, non possiamo ignorarne l’affascinante rinnovata personalità contemporanea [FOTOgraphia, settembre 1998]. Prodotta dal 1958, la Eura Ferrania fu il più luminoso esempio di semplificazione della ripresa fotografica, che, all’alba degli anni Sessanta, cominciò il proprio cammino verso una ricercata espansione commerciale (venduta a 2650 lire, nel 1958, raggiunse il prezzo di 6500 lire, nel 1964). Oltre i più nobili e costosi apparecchi, oltre le configurazioni economicamente meno onerose, ma ugualmente indirizzate a un pubblico di fascia medio-alta, la banalizzazione tecnica dell’Eura Ferrania fu esemplare; tant’è che la Eura Ferrania divenne ben presto capostipite di una genìa immediatamente seguìta da altri costruttori, analogamente in-


ANTONIO BORDONI

teressati ad incrementare la penetrazione verso un pubblico sistematicamente più ampio. Allo stesso tempo, “Eura Ferrania” divenne sinonimo di apparecchio fotografico semplice e affidabile.

1948-2018: NIKON A TELEMETRO Lo scorso 2017 sono stati celebrati i cento anni Nikon, conteggiati dal 1917 di origine. Nel 2019, sarà indispensabile ricordare i sessant’anni dalla Nikon F, del 1959, prima reflex a sistema, anticipatoria di una luminosa stagione, nel corso della quale la stessa Nikon F è stata elevata a sinonimo di reflex e autentica leggenda. Nel mezzo, ci stanno i settant’anni dalla prima macchina fotografica Nikon. E sono questi che evochiamo. Apparecchio a telemetro con obiettivi intercambiabili, la Nikon I non nacque 24x36mm, ma 24x32mm. Infatti, l’ingerenza statunitense sul Giappone occupato militarmente (e non solo) indirizzò alcune produzioni fotografiche nazionali dell’immediato dopoguerra verso formati di negativo che fossero proporzionali ai tagli di carta e agli standard americani: per dire, vicini al rapporto tra i lati delle pellicole piane 4x5 e 8x10 pollici (10,2x12,7cm e 20,4x25,4cm). A differenza del medio formato 6x7cm, che ha avuto ragione sul 6x9cm europeo, i definiti “Japan Size” non ebbero fortuna. Dunque, Nikon I, con incisione “Made in Occupied Japan” sul fondello del dorso estraibile: formato di ripresa 24x32mm su pellicola 35mm, con autonomia di quaranta pose. Otturatore a tendina sul piano focale, con tempi di otturazione in doppia scala, da un secondo a 1/20 di secondo e da 1/30 di secondo a 1/500 di secondo, più le pose B e T. Corpo macchina cromato [FOTOgraphia, settembre 2017]. Nella primavera 1949, la Nikon I cede il passo alla evoluzione Nikon M, che ne ripropose le caratteristiche tecniche salienti, andando però ad allargare il foto-

gramma a 24x34mm. Ancora 24x34mm, la successiva Nikon S si affiancò alla precedente e coesistente Nikon M dal gennaio 1950, rimanendo in catalogo fino a tutto il gennaio 1955. Le note esteriori ripetono i termini originari, fino all’ampio bottone di avanzamento della pellicola. Soltanto, si registra la dotazione standard della sincronizzazione flash, con riferimenti ai diversi tipi di lampeggiatori, a lampadina piuttosto che elettronici, che si sarebbe allungata fino alla reflex Nikon F. Persiste e perdura l’incisione “Made in Occupied Japan” sul fondello, sostituita dalla precisazione “Japan” dall’8 settembre 1951, quando l’esercito americano lasciò il Giappone. Il 10 dicembre 1954, vede la luce la Nikon S2, che approda al formato di esposizione 24x36mmm (l’effimero “Japan Size” se ne va in pensione) ed è definita e disegnata da e con finiture rivisitate. Arriva la leva di avanzamento della pellicola e si segnalano i tempi di otturazione a progressione internazionale: ancora in doppia sequenza, da un secondo a 1/30 di secondo e da 1/30 di secondo a 1/1000 di secondo, più le pose B e T. La base del telemetro di rilevazione della messa a fuoco è allargata e il mirino di visione più ampio e brillante. Quindi, si registra la configurazione Nikon S2-E, il cui prototipo (al quale non seguì la produzione) fu presentato all’Ipex di Chicago, fiera specializzata, attualmente proiettata verso le arti grafiche: predisposta per il motore di avanzamento della pellicola dopo lo scatto, è stata ideologicamente anticipatoria sia della imminente Nikon SP sia del concetto di sistema fotografico, che, dopo la stagione del telemetro (anni Cinquanta), si affermerà con la costruzione reflex, dalla sempre ricordata Nikon F, del 1959. La Nikon SP (19 settembre 1957 - giugno 1965) è probabilmente la più affascinante delle Nikon a telemetro (giudizio personale). All’interno della propria genìa,

Probabilmente, la Nikon SP, del 1957 (in alto), è la più affascinante delle Nikon a telemetro (giudizio personale). In ogni caso, in cronologia: Nikon I (1948), Nikon S2 (1954), Nikon S3 (1958) e Nikon S3M (1960).

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la si riconosce per il disegno particolare del mirino, per le rinnovate finiture dei comandi operativi e per il selettore dei tempi di otturazione da un secondo a 1/1000 di secondo, che verranno replicati nelle successive configurazioni, fino a proiettarsi sulla reflex originaria Nikon F. Nella sigla Nikon SP, la “P” finale richiama “Professional” e identifica l’orientamento tecnico-commerciale che andrà a definire i decenni successivi del marketing Nikon. Il suo otturatore sul piano focale fu realizzato in due versioni, in tessuto (seta gommata) e titanio, certificando così quattro versioni, con finitura cromata e nera. Il mirino telemetro comprende le delimitazioni di sei lunghezze focali, accoppiate agli obiettivi intercambiabili: 28, 35, 50, 85, 105 e 135mm. Dal marzo 1958, e rimanendo in catalogo fino al marzo 1961, la Nikon S3 è considerabile come modifica della precedente SP: soprattutto, niente selettore per le cornici luminose nel mirino, all’interno del quale rimangono fisse le cornici delle focali 35, 50 e 105mm. Diverse anche le finiture del corpo macchina e sostanzialmente confermate le caratteristiche tecniche. Ancora quattro versioni, cromata e nera, con tendina in tessuto e in titanio. Per i giochi olimpici di Tokyo, già da cinque anni in tempi Nikon F, nel 1964 fu realizzata una riproposizione Nikon S3 Olympic, con tendina al titanio, configurata con particolari costruttivi ripresi dalla stessa Nikon F. Gli ultimi due apparecchi a telemetro, a propria volta coevi anche alla Nikon F (sempre lei! troppo lei!), sono la Nikon S4 e la Nikon S3M: rispettivamente vendute dal marzo 1959 al luglio 1960 e dall’aprile 1960 all’aprile 1961. La Nikon S4 è una sostanziale semplificazione delle precedenti SP e S3, proposta a un prezzo ridotto; invece, dal punto di vista antiquario e collezionistico, la Nikon S3M è la più rara e preziosa tra le Nikon a telemetro. Prodotta in centonovanta-

Annunciata alla Fiera di Milano del 1947, la prima del dopoguerra, la Rectaflex fu presentata da Telemaco Corsi alla successiva esposizione fieristica della primavera 1948: prima reflex 35mm dotata di pentaprisma. La sua storia è stata ben raccontata da Marco Antonetto, nel suo saggio Rectaflex, la Reflex Magica (Nassa Watch Gallery; 2001).

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA

Ancora del 1948 è la Janua, ottima e convincente 35mm a telemetro con obiettivi intercambiabili dotati di innesto a baionetta, prodotta dalla genovese San Giorgio.

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cinque esemplari, è una derivazione della S3 originaria, per il mezzo formato 18x24mm, con relativo contafotogrammi fino a settantadue pose. Ancora, vanno ricordate le Nikon a telemetro celebrative, in edizione limitata: Nikon S3 Y2K, del nuovo Millennio (2000), sua versione nera Limited Edition e Nikon SP Black Limited Edition, che ha ripreso i valori del modello originario del 1957 (2005).

ANTICHITÀ IN FINALE “OTTO” Indietro nei secoli, il finale “otto” della data sollecita clamorosi richiami, che risolviamo in fretta. Il primo è avvincente: nel 1558, in Magiae Naturalis, straordinaria raccolta di segreti svelati, altresì arricchita di fantastiche astuzie e osservazioni singolari, Giovanni Battista della Porta (1538-1615) descrive il princìpio della camera obscura con foro stenopeico come ausilio al disegno (l’aggiornamento alla camera obscura dotata di lente è del successivo 1589). Quindi, sullo stesso tema, non va ignorato lo scienziato giapponese Otsuki Gentaku (1757-1827), stabilitosi in Olanda: a propria volta, nel 1788 descrive la camera obscura (“donkuru-kaamuru”, in giapponese con pronuncia olandese), che ridefinisce “shashin-kyo”, cioè “specchio del vero”; in giapponese, “Shashin” significa tutt’ora fotografia. E poi, in anticipo sull’annuncio e presentazione del processo dagherrotipico originario (7 gennaio e 19 agosto 1839), nel 1838, Louis Jacques Mandé Daguerre ha fotografato il Boulevard du Temple, di Parigi, realizzando la prima immagine con presenza/figura umana: un gentiluomo fermo dal lustrascarpe. E su questo si dovrebbe riflettere, con considerazioni che si proiettano avanti nei decenni, attraversando tutta la luminosa epopea della fotografia del/dal vero, che a volte ha comportato anche l’applicazione di sti-


lemi raffigurativi di interpretazione della realtà a fine fotografico. Il gentiluomo in questione, che si ipotizza sia rimasto fermo per almeno una decina di minuti, altri non dovrebbe essere che un “complice” dello stesso Daguerre, appositamente istruito. In abbinamento, richiamiamo La valle dell’ombra della morte (The Valley of the Shadow of Death ), di Roger Fenton, del 1855, scattata durante la guerra di Crimea (1853-1856), fotografia che colpì l’immaginazione dei contemporanei, e ancora oggi riesce a turbare già a partire dal titolo. Non compaiono figure, ma solo un gran numero di palle da cannone disseminate in una zona collinosa attraversata da una strada deserta. Roger Fenton impressionò due lastre: nella prima, riprese l’immagine così come si presentava ai propri occhi; nella seconda, quella più pubblicata e più nota, dispose le palle di cannone, componendo fin nei minimi dettagli la scena, così come l’aveva percepita dal vivo. Altri discorsi, altre consecuzioni, che qui soltanto evochiamo, rimandando gli approfondimenti tempi e spazi individuali. Speriamolo.

1948-2018: PERLE DI TECNOLOGIA Appena anticipato dal rimando alla Nikon I, l’originaria telemetro 35mm (ma non ancora 24x36mm, bensì 24x32mm), con la quale prese avvio la produzione fotografica del celebre marchio, a cento anni dal “Quarantotto” per antonomasia, il Millenovecentoquarantotto è stato un anno fotograficamente prolifico. All’indomani della Seconda guerra mondiale, la ripresa industriale coinvolse anche il nostro settore. Sono obbligatorie alcune segnalazioni particolari. La prima riguarda una meteora, che proprio per questo è ambìta nel particolare e discordante mondo dell’antiquariato e collezionismo. Con doppio mirino, come altri apparecchi del tempo, l’ungherese Duflex

è conteggiata come prima reflex dotata di specchio a ritorno istantaneo (per pellicola 35mm e fotogrammi 24x32mm). Fu prodotta da Gamma Works, di Budapest, fabbrica presto confiscata dallo Stato: ne furono assemblati soltanto mille pezzi. Quindi, sottolineiamo due casi della luminosa stagione dell’industria fotografica italiana, che peraltro si è esaurita in sé, senza sopravvivere ai controversi anni Cinquanta e, per estensione, Sessanta. Dopo la presentazione del moke-up in legno alla precedente Fiera di Milano del 1947, la prima del dopoguerra, allo stesso appuntamento di primavera, Telemaco Corsi espone la Rectaflex, prima reflex 35mm dotata di pentaprisma. Curiosamente, si tratta di primato storico che per decenni si è inchinato all’autoattribuzione della Contax S dell’anno dopo, realizzata dalla Zeiss Jena: ma, in tempi recenti, accreditati ricercatori hanno ristabilito le corrette paternità (in testa a tutti Marco Antonetto, autore di una avvincente rievocazione Rectaflex, la Reflex Magica). Ancora del 1948 è la Janua, ottima 35mm a telemetro con obiettivi intercambiabili dotati di innesto a baionetta, prodotta dalla genovese San Giorgio. Sul fronte internazionale, registriamo l’adozione da parte di Praktica dell’innesto a vite 42x1 degli obiettivi intercambiabili; successivamente utilizzato anche da Asahi Pentax, diventerà l’innesto universale per più di vent’anni. Quindi, nel 1948, Fuji realizza la prima pellicola negativa a colori giapponese. Dal 1947 al 1948: dopo il clamoroso (e leggendario) annuncio del 21 febbraio 1947, la fotografia a sviluppo immediato arriva al pubblico alla fine del 1948, settant’anni fa. La vendita della Polaroid Model 95 originaria inizia ai grandi magazzini Jordan Marsh, di Boston (Massachusetts), il ventisei novembre. Dopo lo scatto, in sessanta secondi, il sistema produce fotografie sep-

1838: in anticipo sulle date di annuncio e presentazione del proprio processo dagherrotipico (7 gennaio e 19 agosto 1839), Louis Jacques Mandé Daguerre ha fotografato il Boulevard du Temple, di Parigi, realizzando la prima “fotografia” con presenza/figura umana: un gentiluomo fermo da un lustrascarpe. Ripresa dalla sua abitazione al 5 di rue des Marais, la sua costruzione si basa certamente sulla partecipazione di un figurante/complice.

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pia 7,3x9,6cm su un supporto 8,3x10,8cm dai bordi frastagliati: 89 dollari e 75 centesimi, l’apparecchio; 1,75 dollari, il caricatore di pellicola Type 40, per otto fotografie a sviluppo immediato.

1948: E FU SEI-SEI REFLEX

Annunciata a New York, il 21 febbraio 1947, con una sorprendente e plateale dimostrazione di Edwin H. Land, la fotografia a sviluppo immediato (polaroid) è stata commercializzata dal 26 novembre 1948: prima dimostrazione pubblica e vendita dell’originaria Polaroid Model 95, ai grandi magazzini Jordan Marsh, di Boston. Qui, due momenti di quella giornata e la sua proiezione commerciale nelle vetrine del fotonegoziante Claus Gellote, in Harvard Square, a Boston, dal dieci dicembre.

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Una data del 1948 che sovrasta è quella del sei ottobre, quando Victor Hasselblad presenta a New York la sua reflex monobiettivo formato 6x6cm: l’originaria 1600F. Realizzata sulla scorta di precedenti esperienze nel campo della rilevazione aerea, maturate nel corso degli anni Quaranta, è la prima reflex 6x6cm monobiettivo a magazzini portapellicola intercambiabili: una configurazione che ha indelebilmente segnato i decenni a seguire, soprattutto in campo professionale, ma anche nell’ambito della fotografia non professionale. La conferenza stampa newyorkese, per la presentazione sul fertile e remunerativo mercato fotografico statunitense, fu organizzata dalla Willoughby Company, allora una delle più valide società americane di distribuzione di articoli fotografici, partner di Hasselblad nell’avventurosa impresa. Ricorda lo stesso Victor Hasselblad, dalla monografia che gli è stata dedicata nel 1981, pubblicata anche in edizione italiana: «Joseph G. Dombroff, allora direttore della Willoughby, invitò all’incirca una ventina dei più qualificati fotogiornalisti americani a una cena presso l’Athletic Club, di New York, il 6 ottobre 1948. La cena avrebbe avuto luogo al decimo piano, sale quattro e cinque, con inizio alle 19,45. Il mio ingegnere-capo e progettista, Einar Cronholm, un genio della tecnica e mio buon amico, era presente quando, dopo cena, presentammo la macchina fotografica. Avevo un prototipo, completato dai suoi accessori, certo non tanti come in seguito, ma comunque tutti quelli che allora eravamo in grado di costruire. [...] Quando conclusi la mia re-

lazione, avevo la netta sensazione di aver presentato qualcosa di veramente utile». I resoconti e gli articoli pubblicati sui giornali e sulla stampa specializzata rivelarono che il progetto aveva avuto fortuna. Necessariamente, il passo successivo avrebbe dovuto essere l’avvio della produzione, con pieno soddisfacimento di tutti i requisiti concernenti la precisione e affidabilità anticipati e promessi. Domanda: come fu che la macchina fotografica venisse chiamata “Hasselblad”? Ancora Victor Hasselblad: «Avevo una lista di proposte, ma ogni qualvolta cercammo di ottenere la registrazione del marchio a livello mondiale, ci imbattemmo sempre in nuove difficoltà. Un giorno, nel corso di una mia visita alla Kodak Company, a Rochester, feci casualmente cenno ai nostri problemi sul reperimento di un marchio adeguato. Con assoluta spontaneità, i responsabili Kodak mi chiesero “Ma perché non la chiama semplicemente Hasselblad?”. E così fu».

ANCORA 1948: SINAR Per un certo periodo della nostra vita professionale, siamo stati molto vicini a Sinar, nobile produzione svizzera di apparecchi grande formato a banco ottico: i primi e gli unici che non sono stati soltanto tali -grande formato, appunto-, ma hanno incluso regolazioni configurate su base efficacemente geometrica. Dunque: S-in-ar (Studio INdustria ARchitettura, in origine) e S-i-n-a-r (Studio Industria Natura Architettura Riproduzione, dalla p2, del 1984). Alla fine dei luminosi anni Quaranta, in un momento nel quale tutto il comparto fotografico rivelò straordinarie intuizioni, voglie e capacità inventive (Nikon, Hasselblad, Polaroid, Rectaflex, Janua, ma anche Magnum Photos, fondata nel 1947), il fotografo svizzero Carl Koch, erede di una dinastia di professionisti, presentò la


MAURIZIO REBUZZINI

propria interpretazione del banco ottico grande formato, che si rivelò subito folgorante e avvincente. In una realtà nella quale nulla era cambiato dalla notte dei tempi, l’originaria Sinar impose i tratti e termini della propria autentica differenza: leggera, semplice nelle regolazioni e, soprattutto, modulare. Al pari di pochi altri esempi fotografici (Nikon? Hasselblad?), ancora oggi, in epoca multidigitale, si possono intercambiare tra loro gli elementi basilari del sistema realizzati nei decenni della lunga storia (settant’anni: 1948-2018). Dopo la Norma, sono stati progettati e messi a punto straordinari apparecchi a corpi mobili, con movimenti razionali di basculaggio. Invece delle rotazioni di basculaggio casuali, la Sinar-p e, in subordine, anche la semplificazione Sinar-f adottarono regolazioni geometriche ragionate, tutte finalizzate al massimo e più proficuo controllo dell’estensione della nitidezza del soggetto inquadrato. Per quanto la Sinar Norma originaria avesse già stabilito concetti innovativi, la nuova era della fotografia grande formato fu avviata, dalla fine degli anni Sessanta, con il progetto Sinar-p dell’asse di basculaggio asimmetrico giacente sul piano focale, dal quale sono poi nate le evoluzioni meccaniche Sinar p2, Sinar e(lettronica) e Sinar x, e da qui sono state elaborate le attuali configurazioni per l’acquisizione digitale di immagini.

ALTRE CADENZE Ottant’anni: 1938. La tedesca Metz, di successo internazionale nel campo dell’elettronica applicata, è stata fondata nel 1938 da Paul Metz, che l’ha gestita in prima persona fino alla sua scomparsa, nel 1993, a ottantadue anni. Nel 1947, all’indomani della Seconda guerra mondiale, è stata avviata una produzione originaria di apparecchi radio, ai quali, negli anni successivi, sono seguìti diversi indirizzi tecnico-commerciali, tra i

quali l’efficace linea di flash elettronici per fotografia che hanno accompagnato l’impegno professionale e la fotografia non professionale di generazioni: fino al giorno d’oggi, quando la gamma Metz Mecablitz è ancora e sempre ai vertici tecnologici della fotografia. Settanta, sessanta e cinquant’anni: 1948, 1958 e 1968. Mentre molti artigiani locali non hanno mai allargato i propri orizzonti commerciali, sia per volontà manifesta (tra questi, l’italiano Adriano Todde), sia per incapacità (niente nomi, per favore), tre interpretazioni europee del flash elettronico professionale si sono affacciate alla ribalta internazionale a dieci anni di distanza una dall’altra: la tedesca Multiblitz, fondata a Colonia, da D. A. Mannesmann, nel 1948; la svizzera Bron Elektronik (marchio Broncolor), di Basilea, dei fratelli Pierre e Joseph Bron, già distributori di prodotti fotografici dal 1948, nel 1958; e la svedese Profoto, creata a Stoccolma, dagli intraprendenti Conny Dufgran e Eckhard Heine, nel 1968. Sessant’anni: 1958. Da tempo, svincolata dalla gestione statale, che tutto ha omogeneizzato per decenni, la cinese Shen Hao, di Shanghai, certifica oggi la propria storia. Ora lo veniamo a sapere: senza soluzione di continuità, non è mancato nulla, con marchio Seagull o altra identificazione: dagli apparecchi 35mm a telemetro, copie Leica (punto di partenza per molti marchi), alle folding 6x6cm e 6x9cm, alle biottica 6x6cm simil Rolleiflex, alle reflex con obiettivi intercambiabili, agli accessori, a infinite e variegate interpretazioni grande formato. E oggi? Sono disponibili versioni attuali del percorso storico, tutte rigorosamente analogiche, tra le quali segnaliamo affascinanti combinazioni grande formato in legno, con escursioni a dimensioni di ripresa inconsuete, per lo più panorama: per esempio, 4x10 pollici (10,2x25,4cm) e tanto altro ancora. È tutto. Forse. ❖

Dal 1948, di origine (qui sopra), la Sinar Norma è poi evoluta con finiture rivisitate e ammodernate, che hanno resistito fino alla fine degli anni Sessanta, quando arrivò la versatile Sinar-p. Estetica a parte, che personalmente consideriamo tra le più efficaci della tecnica fotografica, la Sinar Norma è stata comunque banco ottico estremamente pratico e funzionale. Testimoniamo anche di una situazione nella quale lo stesso Carl Koch (a destra dell’inquadratura) agisce con tre apparecchi 4x5 pollici in batteria (a sinistra dell’inquadratura, un giovane Rolf Wessendorf, che ne rilevò l’attività fotografica).

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In divenire di Antonio Bordoni

FOTOGRAFI GIOVANI

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© MARI BASTASHEVSKI

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Mari Bastashevski: Emergency Managers - State Business Capitolo I. Area residenziale abbandonata a causa dell’avvelenamento da piombo; Flint, Michigan, Usa, 2017.

Cristobal Olivares: R. (38) (dalla serie Il Deserto; 2017).

© CRISTOBAL OLIVARES

Subito una precisazione, fedele e coerente a quella nostra risolutezza così poco amata da coloro i quali -in merito e virtù di ammiccamenti complici- non richiedono più giornalismo, ma consensi indiscriminati; non esigono più scambio di opinioni, ma pretendono accettazioni passive. Comunque, lontani e distanti da quella società dello spettacolo, che tanto combattiamo e contrastiamo [in comunione di intenti con Pino Bertelli, fustigatore con il quale, solitamente, si conclude la fogliazione della rivista; e in allineamento lieve da e con Guy Debord], non possiamo esimerci, neppure ora, neppure in anticipo sulla segnalazione di una iniziativa che consideriamo di peso e valore. Allora, di questo si tratta. Fin dai tempi, ormai lontani, di un concorso fotografico Canon, analogamente declinato, ancora oggi non gradiamo la precisazione e dizione rivolta ai “giovani fotografi”, alla quale preferiamo di gran lunga “fotografi giovani”. La differenza non è minima, ma sostanziosa: pensateci bene. La collocazione dell’aggettivo accompagnatorio, prima o dopo il sostantivo principale di riferimento, determina l’appartenenza di categoria. Quindi, in semplificazione, oltre che chiusura di prologo, pensiamo che sia più lecito parlare in termini di “fotografi giovani”, con tutto il relativo carico di entusiasmo e invenzione, piuttosto che di “giovani fotografi”, di sapore definitivo e passivo. Tutto questo, per onorare, celebrandolo in presentazione, il concorso GD4PhotoArt, che da questa quinta edizione 2018 diventa Mast Foundation for Photography Grant on Industry and Work: selezione biennale di fotografia (“di giovani fotografi” recita l’ufficialità), che ha lo scopo di documentare e sostenere l’attività di ricerca sull’immagine dell’industria, la trasformazione che induce nella società e nel territorio, il ruolo del lavoro per lo sviluppo economico e produttivo. Originariamente promosso da G.D, azienda leader mondiale nel settore delle macchine per il packaging, dal 2013, il concorso GD4PhotoArt è entrato a far parte di un progetto più am-


© SARA CWYNAR

In divenire

© SOHEI NISHINO

Sara Cwynar: Tracy Grid (Green to Red) (dalla serie Colour Factory; 2017).

Sohei Nishino: Il Po; 2017. Vecchia centrale elettrica, Pontelagoscuro, frazione di Ferrara.

pio coordinato dalla Fondazione Mast, organizzazione non profit che promuove le attività legate all’omonimo centro multifunzionale, fornendo servizi di welfare aziendale e mettendoli a disposizione del territorio. Attivo a Bologna dal 2013 [FOTOgraphia, dicembre 2013; e, poi, numerose presentazioni delle mostre via via allestite], il Mast (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia) è un complesso innovativo adiacente alla storica fabbrica G.D, e si configura come luogo di condivisione e collaborazione che ospita diverse funzioni, tra le quali l’Academy, il Ristorante Aziendale, il Wellness, l’Auditorium, la Gallery tecnologica e quella fotografica, dove la fotografia industriale è parte della missione primaria della Fondazione. Anche attraverso le immagini si favorisce un processo culturale che stimoli nelle nuove generazioni la motivazione e l’interesse verso la meccanica, la tecnologia, l’imprenditorialità e il senso di appartenenza a un territorio tra i più virtuosi nel fare impresa in Italia. Dal 2007, di origine, GD4PhotoArt (ora Mast Foundation for Photography Grant on Industry and Work) ha contribuito alla creazione di una raccolta fotografica di artisti contemporanei che ora fanno parte della articolata collezione di fotografia industriale della Fondazione Mast, curata da Urs Stahel, che per venti anni è stato direttore del Museo di Winterthur, in Svizzera. A fine gennaio, è stata inaugurata la solenne mostra dei finalisti del concorso GD4PhotoArt 2018 / Mast Foundation for Photography Grant on Industry and Work. Sono presentati i progetti realizzati per il concorso dai quattro finalisti individuati: Sara Cwynar (Canada), Mari Bastashevski (Danimarca-Russia), Sohei Nishino (Giappone) e Cristobal Olivares (Cile). Quindi, il primo premio è stato assegnato, in ex aequo, alla canadese Sara Cwynar, per il suo progetto elaborato attorno la cosmesi (diciamola così), e al giapponese Sohei Nishino, per la sua documentazione lungo le rive del Po, qui in Italia. ❖ Finalisti al concorso GD4PhotoArt 2018 / Mast Foundation for Photography Grant on Industry and Work ; a cura di Urs Stahel. Mast Gallery (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia), via Speranza 42, 30133 Bologna; www.mast.org. Fino al Primo maggio; martedì-domenica, 10,00-19,00.

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(Centro Commerciale Le Vele) via Nausica, 88060 Montepaone Lido CZ • 0967 578608 www.cinesudmegasgtore.com • info@cinesudmegasgtore.com

un negozio di terroni* per terroni** In un paese ed epoca in cui la forma apparente ha sostituito il contenuto, perché non agire per sovvertire questa tragica condizione, per tornare alla parola che sia se stessa, e sia densa di significati propri? Perché non considerare che il rispetto è valore concreto, da frequentare e perseguire? Perché non agire nella convinzione che etica e morale siano ancora qualità e doti, insieme con garbo, eleganza e grazia? Una volta ancora, una volta di più, non certo per l’ultima volta: vogliamo parlarne?

* Terróne (sostantivo maschile / terróna, al femminile). Derivazione da “terra”; probabilmente, tratto da denominazioni di zone meridionali, quali “Terra di Lavoro” (in Campania), “Terra di Bari” e “Terra d’Otranto” (in Puglia). Appellativo dato, con intonazione spregiativa (talvolta anche scherzosa), dagli abitanti dell’Italia settentrionale a quelli dell’Italia meridionale [Enciclopedia Treccani ]. Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato in tono dispregiativo (talvolta in tono scherzoso, a seconda del contesto) per designare un abitante dell'Italia meridionale. Ha diverse varianti piuttosto diffuse e riconoscibili nelle lingue locali: terún, terù, teron, tarùn, tarù (lombardo); terún (ligure); terù, terún, tarún (piemontese); tarùn, taroch, terón (veneto, friulano); teròch, tarón (emiliano-romagnolo); terón, terró (marchigiano); teróne, taròne in altri idiomi dell'Italia settentrionale, mentre rimane terrone in toscano e romanesco [Wikipedia ].

** L'espressione politicamente corretto (traduzione letterale dell'inglese politically correct) designa una linea di opinione e un atteggiamento sociale di attenzione al rispetto generale, soprattutto nel rifuggire l'offesa verso determinate categorie di persone. Qualsiasi idea o condotta in deroga più o meno aperta a tale indirizzo appare, quindi, per contro, politicamente scorretta (politically incorrect ). L'opinione, comunque espressa, che voglia aspirare alla correttezza politica dovrà perciò apparire chiaramente libera, nella forma e nella sostanza, da ogni tipo di pregiudizio razziale, etnico, religioso, di genere, di età, di orientamento sessuale, o relativo a disabilità fisiche o psichiche della persona [Wikipedia ].


Sguardi su

di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 29 volte gennaio 2018)

DOPO IL SESSANTOTTO

(*)

a Renato Curcio, perché sapeva che quando il sogno di pochi si trascolora nel sogno di tanti, diventa Storia!

P

Prologo in forma di eresia. L’obbedienza non è mai stata una virtù! o del vento che provoca il pianto! «Ho solo cattivi discepoli», diceva un professore universitario. «Mentre cercano d’imitarmi, mi tradiscono, e quando vogliono apparire simili a me, si discreditano». «Sono più fortunato di te», gli rispose un maestro di strada. «Ho trascorso la mia vita nell’interrogazione, ed è naturale che ora non abbia alcun discepolo». E aggiunse: «È questo il motivo che ha spinto i controllori dell’ordine a condannarmi per attività sovversive» (a ricordo di Edmond Jabès, nei vicoli di Napoli). Conficcare le pietre nei Cieli o agguantare la coda della Luna, disse il visionario! La prima scalata dell’Umanità si svolge qui, con quel sentimento di umiltà che serve a ogni inizio. Non ne voglio mangiare di quel pane, disse ancora, che non sia del fratello che accolgo e spezzo con lui: sarai fuorilegge, fuori casa, fuori patria, fino al giorno che anche l’ultimo degli Affamati avrà messo fine alla secolarizzazione delle lacrime. La fotografia imperfetta è pericolosa, perché unisce le distanze (respinge l’approssimativo e il conforme), è uno scambio di vite con la Vita! (non so cosa ho detto, ma non dev’essere una cosa intelligente, o forse tutto il contrario). La fotografia del dissidio non è mai stata molto legittimata (spesso premiata, e non sempre a ragione) dai profittatori dell’ordine mercatale e militare che tengono le leve del mondo; figuriamoci la fotografia che contiene lo “spirito rivoluzionario” di un’epoca... cioè quella fotografia sulla disobbedienza civile (o in armi) che interroga la causa dei Vinti e quella dei Vincitori... la fotografia radicale, che dà inizio a qualcosa

«Erano i giorni migliori, erano i giorni peggiori, era un’epoca di saggezza, era un’epoca di follia, era tempo di fede, era tempo di incredulità, era una stagione di luce, era una stagione buia, era la primavera della speranza, era l’inverno della disperazione, ogni futuro era di fronte a noi, e futuro non avevamo»

Charles Dickens di nuovo, di diverso, che contiene azioni di contrasto e il desiderio di cambiare il mondo. La partecipazione attiva della fotografia contro la dittatura dell’economia-politica fa appello ai princìpi del dissenso e dell’arte di dissociarsi da tutte le imposture che determinano la schiavitù e la servitù a ogni angolo della Terra. I governi dell’economia globale sono tirannie dove una sparuta cosca di saprofiti si arricchisce (con guerre e neocolonialismi) con lo sfruttamento del maggior numero... e spetta a tutte le forme di disobbedienza rivendicare i diritti fondamentali dell’Uomo.

IL PIOMBO, IL PANE E LE ROSE In principio è stato il Sessantotto... la più grande festa planetaria, libertaria, che la Storia abbia mai conosciuto. In quell’anno di profondi sconvolgimenti sociali, le giovani generazioni avevano sdoganato l’arrembaggio al potere, non per possederlo, ma per meglio distruggerlo. In quella primavera di bellezza, anche i vini e le marmellate vennero più buoni! Erano belli quei giovani che

sulle barricate di Parigi chiedevano il diritto di avere diritti, e dopo nessuno è stato bello così! E niente è stato più come prima! [Pino Bertelli: Il cinema di Guy Debord. Breviario sull’Internazionale Situazionista e la rivoluzione della gioia nel ’68; Interno 4, 2018]. «Ho nostalgia della gente povera e vera che si batteva per abbattere quel padrone, senza diventare quel padrone» (Pier Paolo Pasolini diceva). Il tacito consenso non è una finzione: è una complicità, ed è propria della condizione umana, come, del resto, la disobbedienza contro i partiti, gli apparati, le burocrazie che impediscono la partecipazione dei cittadini alla redistribuzione del bene pubblico. Nel Sessantotto, il conflitto politico uscito dalla rivoluzione della gioia divampò ovunque e si ramificò in tutti i luoghi del sociale. «Lo scontro percorse tutti gli anni Settanta, uno scontro duro, forse il più duro, tra le classi e dentro la classe, che si sia mai verificato dall’unità d’Italia. Quarantamila denunciati, quindicimila arrestati, quattromila condannati

a migliaia di anni di galera, e poi morti e feriti, a centinaia, da entrambe le parti. Nei cortei si gridava: ”Basta coi parolai, armi agli operai”» (Primo Moroni e Nanni Balestrini: L’orda d’oro (19681977. La grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale); SugarCo Edizioni, 1988 / L’orda d’oro 1968-1977. La grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale; Feltrinelli, 2015). Il tema era un po’ forte... il vento della Resistenza ancora soffiava sul collo della meglio gioventù (Pier Paolo Pasolini diceva) e in molti di quei ragazzi c’era il desiderio, il bisogno, il sogno di vedere sorgere il sol dell’avvenire nella vita quotidiana [Malgrado alcune cadute di stile («Se avessimo preso il potere, con la testa di cazzo che avevamo, Pol Pot ci avrebbe fatto un baffo»), il documentario Il Sol dell’Avvenire, di Gianfranco Pannone, del 2008, che riunisce al tavolo di una trattoria emiliana alcuni militanti della lotta armata (Alberto Franceschini, Paolo Rozzi, Tonino Loris Paroli, Roberto Ognibene) ci sembra un frammento notevole e vitale per ricostruire e/o analizzare i sentori rivoluzionari (giusti o sbagliati che fossero) di un’epoca nella quale un certo numero di giovani si erano presi il diritto di resistere e agire contro il monopolio del potere. «Sembra che sia meglio essere padroni e servi di se stessi -Georg Wilhelm Friedrich Hegel diceva- anziché di qualcun altro»: ciò che importa è che l’Uomo combatta per il perseguimento del bene, del giusto e del bello per il maggior numero. Il resto è bassa letteratura]. I popoli hanno adorato soltanto coloro che li hanno messi a catena; qualche volta, nella Storia, qualcuno ha detto no! e ha fatto

(*) Titolo originario: Gli “anni di piombo” in una fotografia, anzi due!

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Sguardi su ciò che era giusto... sapendo anche che Gulliver può essere sconfitto soltanto da una folla indignata di nani. A volte, le favole si avverano, altre volte restano a memoria di quanti vogliono toccare il Cielo con la punta delle dita. Come sappiamo, semplificando, gli “anni di piombo” sono situati tra il 1969 (venerdì dodici dicembre: strage di piazza Fontana, a Milano) e il 1980 (sabato due agosto: strage alla stazione di Bologna); in mezzo, ci stanno le stragi di Gioia Tauro (27 luglio 1970), Gorizia (Primo maggio 1972, in località Peteano, frazione di Sagrado), Questura di Milano (17 maggio 1973), Brescia (28 maggio 1974), del treno Italicus (notte tra il 3 e 4 agosto 1974), il “caso Moro” (16 marzo - 9 maggio 1978). Dal 1969 al 1975, si contano quattromilacinquecento ottantaquattro attentati (4584), l’ottantatré percento dei quali di chiara impronta della destra eversiva (alla quale si addebitano centotredici morti, cinquanta dei quali vittime delle stragi, e trecentocinquantuno feriti): la protezione dei servizi segreti verso i movimenti eversivi appare sempre più plateale) [Tribunale di Savona, ufficio del giudice per le indagini preliminari, Decreto di archiviazione procedimento penale 2276/90 R.G., pagine da 23 a 25, citato nel libro-intervista al generale dei carabinieri Nicolò Bozzo (in Michele Ruggiero: Nei secoli fedele allo Stato; Fratelli Frilli Editori, 2006)]. Seguiranno altre morti, altre carcerazioni, altri tradimenti, altri pentimenti... ma questa è un’altra storia... sapremo la verità sugli “anni di piombo”, le “stragi di Stato” e le connivenze tra politica e mafie soltanto quando gli armadi dei servizi segreti e le cloache dei partiti (e della chiesa) saranno scardinati. Qui, è d’altro che ci occupiamo. Del senso profondo e del disincanto di una fotografia -anzi, due!- che contiene/contengono il disavanzo di un’epoca nella quale l’immaginazione osava pensare e lottare per la conquista di un mondo tra liberi e uguali. A rivedere il piombo, il pane e le rose nella creatività in utopia nel Movimento ’77 -una messe di fil-

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«Il sistema rappresentativo è in crisi, in parte perché nel corso del tempo si è privato di tutte quelle istituzioni che consentivano l’effettiva partecipazione dei cittadini e in parte perché è affetto dalla malattia che attanaglia il sistema partitico: la burocratizzazione e la tendenza [degli schieramenti] a non rappresentare nessuno, eccetto i propri apparati» Hannah Arendt mati, fotografie, fumetti, giornali, riviste-, si resta abbacinati di tanta fantasia e voglia di cambiare il mondo. C’è dignità, amore, bellezza in quelle tracce di vita e, più ancora, c’è la verità che scende in strada e diventa rivoluzionaria. Per non dimenticare: «La nostra penisola, dopo aver inventato la Chiesa, il papato, il capitalismo, la banca, il debito pubblico, la cambiale, la Controriforma, la mafia, il fascismo, il terrorismo sotto falsa bandiera, il “compromesso storico”, Gladio e la Loggia P2, dopo aver eretto ad arte l’assassinio politico, quest’Italia continua a far storia escogitando ed esportando tutto il peggio che si può infliggere all’umanità: Godi, Italia, poiché se’ sì grande, Che per mare e per terra batti l’ali, E per lo Inferno il tuo nome si spande. [da Dante Alighieri, Canto XXVI: Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande, / che per mare e per terra batti l’ali, / e per lo ’nferno tuo nome si spande!] «Già durante la Restaurazione, Giacomo Leopardi notava che “Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio

italiano è il più cinico di tutti i popolacci”. È a causa di questo cinismo che gli italiani sono rassegnati a lasciarsi violentare senza reagire» (Gianfranco Sanguinetti) [Il piombo e le rose. Utopia e Creatività nel Movimento 1977, di Tano D’Amico e Pablo Echaurren (testi di Gabriele Agostini, Tano D’Amico, Pablo Echaurren, Diego Mormorio, Raffaele Perna, Kevin Repp, Claudia Salaris, Gianfranco Sanguinetti); Postcart Edizioni, 2017]. Il genio del paradosso, dell’iperbole, dell’ironia s’addossa alla burocrazia politica, alle stragi di Stato, al terrorismo pilotato dai servizi segreti deviati, alla droga diffusa dai centri di potere per cancellare i giovani ribelli dalla Storia. Non si è veramente letta la Storia, finché non la si è riletta, vista e raccontata nelle testimonianze e riflessi vitali di chi l’ha vissuta. Davanti al dolore degli altri restano solo la commozione e il ringraziamento per tutti quegli spiriti liberi, sensibili alle foglie, che hanno dato l’assalto al parassitismo, per respingere dappertutto l’infelicità. Il 14 maggio 1977, in via De Amicis, a Milano, il Movimento ’77 ha organizzato un corteo, in teoria

pacifico, per protestare contro l’uccisione della diciannovenne Giorgiana Masi, tragico “danno collaterale”, a Roma, due giorni prima, colpita a morte da una pallottola sparata dalla polizia durante una manifestazione indetta dai radicali per festeggiare il terzo anniversario della vittoria nel referendum sul divorzio. Quel giorno, l’architetto Paolo Pedrizzetti (fotografo non professionista) scatta una immagine che fa il giro del mondo (a differenza di altri quotidiani e televisioni, il Corriere della Sera rifiuta di pubblicarla). L’icona è quella di un ragazzo (Giuseppe Memeo), con passamontagna e pistola impugnata con due mani che spara contro la polizia. [Un’altra icona del Movimento ’77 è una fotografia di Tano D’Amico: una ragazza con il viso coperto dal fazzoletto, che sfida i carabinieri con lo sguardo... sembra dire che la stupidità vede ovunque simulazioni, violenze e proclami elettorali; l’intelligenza, solo ingiustizie, repressioni e rivolte sociali]. Nel conflitto a fuoco milanese resta ucciso Antonio Custra (Antonino), venticinque anni, vicebrigadiere (la moglie era all’ottavo mese di gravidanza): come si vedrà poi, lo sparatore era un altro che non il ragazzo fotografato, e l’ironia acida di qualcuno (dal passato guerrafondaio e antisemita, anche) lo renderà meno innocente [Indro Montanelli e Mario Cervi: L’Italia degli anni di piombo; Rizzoli, 1991]. Per alcuni, quella fotografia ha indicato il tempo della scelta: «Era chiaro che da quell’istante in poi, da quando si decise di sparare in piazza -ricorda l’allora giudice istruttore Guido Salvini, che condusse le indagini che individuarono tutti gli sparatori-, si sarebbe andati verso un’accelerazione e un innalzamento dello scontro armato: c’è chi scelse di uscirne, altri invece di entrare nelle Brigate Rosse, in Prima Linea e altre formazioni combattenti. Il fatto che non fossero stati individuati subito gli aggressori diede un forte senso di impunità, che favorì il passaggio di molti alla lotta armata» (dal sito web Ansa Lombardia, 12 mag-


Sguardi su gio 2017: 40 anni fa fotografia icona Anni di piombo. Il 14 maggio ’77 a Milano fu ucciso poliziotto Antonino Custra). La storia, tuttavia, non è solo avere la pistola sotto il banco, né fuggire le proprie responsabilità [Enrica Recalcati: La pistola sotto il banco. Lettera a un compagno di scuola ex terrorista; Miraggi Edizioni, 2012]... e non ci sono epiloghi, quando si è combattuto e perso: solo la fine di qualcosa che indicava una via, anche sbagliata... nondimeno, era espressione di un tempo nel quale regnava l’ingiustizia e, come ai nostri giorni, una minoranza di saprofiti teneva i popoli inginocchiati e rendeva gli Uomini servi. La ricerca della verità e della giustizia non passa solo dall’uso della polvere da sparo, certo..., ma anche nei maglioni inzuppati di sangue di quei ragazzi che chiedevano l’impossibile, lasciati sui marciapiedi della Storia: «Le ideologie [e le religioni monoteiste] furono inventate solo per dare lustro al fondo di barbarie che si mantiene attraverso i secoli, per coprire le inclinazioni omicide comuni a tutti gli uomini» (Emil M. Cioran: Sommario di decomposizione; Adelphi, 1996) e a tutti gli Stati. Nel 1989, la scoperta delle fotografie di Antonio Conti e la collaborazione di alcuni pentiti permisero di conoscere chi aveva esploso il colpo sul poliziotto, Marco Ferrando, detto “Coniglio”. Come è noto -dopo il primo processo, durante il quale non era stato individuato il responsabile della morte di Antonio Custra-, nel processo-bis Mario Ferrandi, Giuseppe Memeo, Marco Barbone, Corrado Alunni e altri furono condannati a varie pene [rimandiamo a: Procedimento penale nei confronti di Giuseppe Memeo e altri 24 imputati per i fatti di via De Amicis e l’uccisione del brigadiere Antonio Custra, Tribunale Civile e Penale di Milano, n. 609/85F R.G.G.I. - n. 3216/85A R.G.P.M., Giudice Istruttore Guido Salvini]. I fotografi (tra altri più defilati) che si trovarono il 14 maggio 1977 in via De Amicis erano cinque: Paolo Pedrizzetti, Antonio Conti, Paola Saracini, Dino Fracchia e Marco Bini. Paolo Pe-

«La conclusione è che l’istituzione dei partiti sembra proprio costituire un male senza mezze misure. Sono nocivi nel princìpio, e dal punto di vista pratico lo sono i loro effetti. La soppressione dei partiti costituirebbe un bene quasi allo stato puro. È perfettamente legittima nel princìpio e non pare poter produrre, a livello pratico, che effetti positivi» Simone Weil drizzetti e Dino Fracchia fornirono le fotografie ai giornali e furono obbligati a consegnare i propri negativi alla polizia... e anche se lo scatto di Paolo Pedrizzetti [affermato product manager, a Milano, e militante del PD: è morto con la moglie, Raffaella Mattia, il 16 dicembre 2013, precipitando dal balcone di casa ad Arona, in provincia di Novara, mentre stavano allestendo gli addobbi dell’albero di Natale] è passato alla Storia; le fotografie decisive per le indagini furono quelle di Antonio Conti. Niente incuriosisce più della nascita di un’icona, e poco importa se sia quella degli “anni di piombo” o della Rivoluzione sociale di Spagna del Trentasei (la morte del miliziano, di Robert Capa, che giornalisti, fotografi e il giudice Salvini citano in varie interviste) [In un’intervista televisiva, il giudice Salvini ha comparato l’immagine di Pedrizzetti con quelle di certi film americani e con la fotografia-icona di Robert Capa sulla Rivoluzione di Spagna, la morte del miliziano, ma ha confuso Frank Capra con Robert Capa (tra i più grandi fotogiornalisti di guerra). Invece, Frank Capra è un regista hollywoodiano, autore, tra gli altri, di celeberrimi film sentimentali co-

me È arrivata la felicità, del 1936, e La vita è meravigliosa, del 1946, riproposti a ogni Natale in tutte le programmazioni televisive . Sono sceneggiature raccomandate a famiglie, nonni e nipoti, ma con la scorta di fazzoletti]. Poco importa questa distinzione preventiva. Degno del nostro interesse è soltanto chi non ha mai tradito il proprio passato, né per convenienze, né per mancanza di stupore davanti all’irrimediabile. Nel libro Storia di una foto (quella di Paolo Pedrizzetti), Sergio Bianchi annota: «Milano,14 maggio 1977. Giorno di una manifestazione contro la repressione. Lo spezzone dell’“Autonomia Operaia” si stacca dal percorso ufficiale, per sfilare sotto il carcere di San Vittore. Nei pressi della prigione, un collettivo di quartiere imbocca via De Amicis e, armi in pugno, spara sulla polizia schierata per contenere i manifestanti. Un agente, Antonio Custra, viene colpito a morte. Uno dei tanti fotografi presenti immortala la figura di un dimostrante col passamontagna, solo, in mezzo alla strada, con le gambe divaricate e le braccia tese a impugnare con ambo le mani una pistola

puntata verso la polizia. Quella foto diventa la rappresentazione dell’aspetto tragico del Movimento del ’77: così nasce l’immagine icona degli “anni di piombo”». Un’immagine che è stata l’incubo di una generazione e che, oltre quarant’anni dopo, continua a evocare un passato che non passa per tutti quelli che ne furono i protagonisti: i rivoltosi, le vittime, le istituzioni, i politici, i media e l’opinione pubblica. Umberto Eco ne scrisse al riguardo: «Questa foto non assomiglia a nessuna delle immagini in cui si era emblematizzata, per almeno quattro generazioni, l’idea di rivoluzione. Questa immagine evoca altri mondi, altre tradizioni narrative e figurative che non hanno nulla a che vedere con la tradizione proletaria, con l’idea di rivolta popolare, di lotta di massa. Manca l’elemento collettivo e l’eroe individuale ha il terrificante isolamento degli eroi dei film polizieschi americani o degli sparatori solitari del west». Il libro è composto da una ricca documentazione iconografica e offre -per la prima volta- la possibilità di analizzare a fondo il contesto politico e sociale che ha prodotto l’evento fissato in quelle immagini. A offrire credibilità a questa analisi vi è il fatto che, tra gli autori, figura Raffaele Ventura, regista documentarista esule a Parigi da tre decenni, che per quei fatti è stato condannato in via definitiva a ventisei anni di carcere per «concorso improprio», ovvero per non aver tentato di evitare l’omicidio dell’agente Antonio Custra [Sergio Bianchi: Storia di una foto; DeriveApprodi, 2011]. Ma, ripetiamolo, sono i negativi di Antonio Conti che, comunque, consentono un’effettiva cronaca dei fatti di Milano. L’icona degli “anni di piombo”. Un ragazzo col viso coperto dal passamontagna (Giuseppe Memeo), leggermente piegato sulle gambe, punta la pistola (verso la polizia) e spara. Accanto, ci sono ragazzi che scappano tra le auto in sosta e un fotografo (per l’appunto, Antonio Conti) appoggiato a un albero che punta la macchina fotografica verso lo sparatore.

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Sguardi su L’atmosfera (e la postura del ragazzo con la pistola) è quella classica dei film gangster più accreditati, e riprodotta fino alla caricatura nei B-movie italiani, che solo un coglione del mercato come Quentin Tarantino poteva celebrare! A un certo grado d’impostura, anche gli stupidi appaiono intelligenti e finiscono in politica, nel cinema! I loro film sono concepiti altrettanto male del mondo spettacolare che li suscita. Proprio come i fotografi dell’entusiasmo, che accettano tutte le convenzioni indecenti dell’ordine sociale, fino a celebrare lo spettacolo indecoroso dell’ingiustizia umana. Però, l’immagine del “ragazzo con la pistola e il passamontagna” non è solo una fotografia di cronaca (quale pure è): nell’inquadratura originaria (spesso ritagliata dai giornali, per renderla più “sensazionalistica”) si coglie una certa asciuttezza formale... alla sinistra dello sparatore c’è un’ombra sfocata (sulla quale poggia l’intera architettura fotografica)... il ragazzo è poco più avanti, impugna (con due mani) la pistola con forza e uno spicchio di viso esce dalla fessura del passamontagna... lo sguardo è diretto contro le figure del conflitto (che non si vedono), il corpo ha una leggera inclinazione verso la sua sinistra... subito dietro, ragazzi in fuga... un fotografo inquadra la medesima scena dall’altro lato, è Antonio Conti... la visione ha qualcosa di surreale e rituale, al contempo... una sorta d’inclinazione al “manierismo” d’occasione... la prefigurazione di qualcosa che scopre la vita nel momento che l’annienta. I personaggi che raccontano la tragicità del momento sono neri (alcuni impugnano altre pistole), la strada e la Fiat 500 sul marciapiedi, bianca... il fotografo, forse per un innato senso delle proporzioni (in fondo è un architetto), mette lo sparatore al centro di molte confluenze strutturali e ciò che ne esce è il carattere distintivo di un tempo che alle minacce si rispondeva con le minacce... non si tratta di sostenere una ragione o un torto (non solo

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in fotografia)... ciò che conta è il racconto di una fotografia (quale che sia) che, quando è compiuta, figura il ritratto di un’epoca.

14 MAGGIO 1977: BREVE STORIA DI UNA FOTOGRAFIA, ANZI, DUE! A ritroso. Nel 1989 (dietro rivelazioni di qualche pentito, come si è detto), il giudice Guido Salvini ordina una perquisizione in casa di Antonio Conti (cognato di Oreste Scalzone, una delle figure preminenti di Autonomia Operaia). In mezzo alle pagine di un libro, vengono trovati ventotto negativi che riguardano gli scontri di via De Amicis, del maggio 1977, e permettono una più chiara ricostruzione dei fatti (che si svolgono tra le 15,37 e le 15,39 di quel quattordici maggio). Dopo l’uccisione di Giorgiana Masi, a Roma (dodici maggio [abbiamo già ricostruito]), e l’arresto di due avvocati di Soccorso Rosso, Nanni Cappelli e Sergio Spazzali, il Movimento ’77 organizzò la manifestazione del quattordici, a Milano. Così Stefano Nazzi: «Esiste la trascrizione di una registrazione radiofonica che venne fatta nel pomeriggio del quattordici maggio. Il corteo arriva da via Olona, gira verso via Carducci. C’è un urlo: ”Romana fuori”. Una quarantina in tutto, non di più, escono dal corteo, corrono in via De Amicis, tra di loro ci sono anche ragazzini. Ci sono Maurizio Azzolini, Walter Grecchi e Massimo Sandrini. La polizia è all’incrocio con via Ausonio. Saltano fuori le pistole, sparano in tanti. Quello nella foto più famosa è Giuseppe Memeo, lo chiamavano “Terrone” per il fortissimo accento meridionale. Nel 1979, entrerà nei Pac, i proletari armati per il comunismo, quelli di Cesare Battisti. Memeo parteciperà al feroce assassinio del gioielliere Torregiani. Dal Brasile, Battisti scriverà una lettera ai giornalisti, scaricando tutte le colpe di quell’omicidio proprio su Memeo e su altri. Memeo rispose: “Per quei fatti ho pagato, non ho barattato la mia libertà con quella di altri”. Spararono Mario Ferrandi detto “Coniglio”, Enrico Pasini

Gatti, Giancarlo De Silvestri, Luca Colombo, Marco Barbone. In una sequenza di immagini, Memeo corre verso la fotografa Paola Saracini, le punta la pistola alla testa, la fa inginocchiare e si fa consegnare il rullino. Ma altri stanno fotografando [...] Un manifestante spara contro un fotografo, il proiettile si conficca nel muro. Ci furono feriti: Maurizio Golinelli, un passante, venne colpito a un occhio. Patrizia Roveri, anche lei passava di lì per caso, venne ferita da un pallino di fucile. Due agenti sono feriti, un altro, Antonio Custra, è a terra, morirà ventiquattro ore dopo. Armi e proiettili erano arrivati il giorno prima dal gruppo terrorista di Corrado Alunni: duecento proiettili, acquistati regolarmente in un’armeria da un insospettabile. Grecchi, Sandrini e Azzolini vennero individuati dalle fotografie e arrestati qualche mese dopo, mentre erano in classe, durante una lezione. Il giudice Guido Salvini stabilì, anni dopo, che a sparare il colpo di 7,65 che uccise Custra fu Mario Ferrandi. È sua la voce che -nella registrazione audio- urla “Romana fuori”. Lui e Barbone erano incaricati di dare l’ordine dell’assalto. La figlia di Custra, Antonia, due anni fa, ha voluto incontrare Ferrandi, sono andati insieme in via De Amicis, proprio all’incrocio con via Ausonio, sotto la targa che ricorda la morte di suo padre. Quel giorno, Ferrandi ha raccontato tutto ad Antonia Custra, l’ha fatto senza reticenze, davanti a un giornalista: ”La verità giudiziaria dice che fui io a uccidere tuo papà. Non lo vidi cadere, non vidi nulla. Mi assumo tutta la responsabilità di ciò che accadde quel giorno”. Lei disse: “Sono qui per mettere una lapide sul mio passato, per fare il funerale a mio papà”. «C’è una fotografia ripresa pochi minuti dopo la sparatoria in via Carducci. Scappando, i manifestanti hanno dato fuoco al Pantea, una discoteca allora piuttosto famosa. C’è un ragazzo, con un berrettino in testa, che cammina tranquillo. È Marco Barbone, spiega la didascalia. Se ne va lungo via Carducci con calma. Nella mano destra ha un fucile

con il manico segato. Barbone compare anche in altre fotografie, sul lato sinistro di via De Amicis. «Due anni dopo, Barbone fondò a Milano la Brigata XXVIII marzo: con Paolo Morandini, Daniele Laus, Manfredi De Stefano, Francesco Giordano e Luigi Marano, il 28 maggio 1980, uccise Walter Tobagi. La storia è nota: Barbone fu arrestato nell’ottobre del 1980, si pentì e collaborò con i magistrati. Venne condannato a otto anni e sei mesi, ma -in base alla legge sui pentiti- venne scarcerato. Oggi, lavora per la Compagnia delle Opere, legata a Comunione e Liberazione. Marco Ferrandi ha pagato il suo debito con la giustizia, ha lavorato a lungo nella comunità Exodus, di don Mazzi. Molti furono arrestati, alcuni scapparono in Francia. Azzolini ha pagato; poi, non so quando, è stato assunto dal Comune di Milano. Sono passati trentacinque anni, la storia di un giorno maledetto a Milano torna in prima pagina. Quegli anni, che conosciamo come “anni di piombo”, restano sempre sospesi lì, in attesa che qualche rivolo di storia giunga fino a noi e si riapra, tra polemiche e urla. «Una pistola P38 impugnata con le braccia tese, pronta a sparare, impugnata da Giuseppe Memeo. Una foto inconfondibile, scattata a Milano, in via De Amicis, il quattordici maggio del 1977, nei cosiddetti “anni di piombo”» (Stefano Nazzi, giornalista del settimanale Gente, in http://www.ilpost.it). La lunga citazione si è resa necessaria per non innalzare monumenti ai caduti, né inoltrare pratiche di beatificazione di apostoli folgorati dalla fatalità dell’atto... occorre l’ossequio di un credente o il vuoto di un idiota per credere che i privilegi possano essere azzerati con un’opera di merletto. Mettete le persone al proprio posto: avrete solo l’apprezzamento dei ciarlatani e il riso delle iene... la verità che caratterizza i momenti culminanti della Storia non ha equivalenti, se non nell’Uomo in rivolta e nel ribelle che esce dal bosco e oltrepassa la linea dell’universo convenuto. Il film fotografico delle “compa-


Sguardi su gne P38” di via De Amicis (dicono giornali e mezzi di comunicazione prezzolati, che nulla c’entrano con quegli avvenimenti) [Porci con la P.38, di Gianfranco Pagani, del 1978, è un film di bassa levatura, che -non solo nel titolo- richiama i conflitti dell’epoca e li rovescia in omicidi di mafia. Riprende in malo modo il titolo del romanzo di Marco Lombardo Radice e Lidia Ravera, sotto lo pseudonimo di Rocco e Antonia, i due protagonisti, Porci con le ali. Diario sessuo-politico di due adolescenti (Savelli Editore, 1976), e il film omonimo, di Paolo Pietrangeli, che esce nel 1977. In vero, né il romanzo, né il film entrano a fondo nel cuore dei rapporti genitori-figli che hanno promesso di trattare. La fine della scuola coincide anche con la loro rottura, e forse con l’impegno politico. Un po’ poco per ciò che circolava nelle teste dei giovani di quegli anni, e anche le scene di omosessualità sono, come dire, un po’ all’acqua di rose. Tuttavia, il romanzo-diario e il film ebbero notevole successo, dovuto anche a problemi con la censura, e non pochi ci videro dentro la ribellione giovanile del tempo. Però, a noi, sembrò che l’uno e l’altro contenessero poco delle realtà profonde, anche sconnesse, di quella generazione all’inferno, forse. Paolo Pietrangeli, vogliamo ricordarlo, è l’autore di una delle più importanti canzoni di protesta degli anni Sessanta, Contessa: fu pubblicata nel 1968 e divenne colonna sonora del Sessantotto: nei cortei, i ragazzi cantavano il suo ritornello: «Compagni dai campi e dalle officine / prendete la falce, portate il martello /scendete giù in piazza, picchiate con quello / scendete giù in piazza, affossate il sistema». Formidabili quegli anni]. I fotografi che sono nel cuore degli eventi, e arrivano là dove le telecamere della Rai si fermano, sono Paolo Pedrizzetti, Marco Bini, Paola Saracini, Dino Fracchia e Antonio Conti. Circa quaranta aderenti all’Autonomia, con il volto coperto (armati di molotov, pistole, fucili, sassi), si staccano dal corteo e -dopo essere passati davanti al carcere di San Vittore- procedono

verso via De Amicis... un reparto della Celere è inviato sul posto e incrocia la manifestazione... un filobus è dato alle fiamme... si aprono gli scontri a fuoco con la polizia... i fotografi documentano come possono... qualcuno scatta qualche fotografia e poi fugge, altri restano sulla strada invasa dal fumo... Paolo Pedrizzetti si rifugia in un portone (civico 59), insieme con Paola Saracini (poi scapperà sul tetto dell’edificio)... Giuseppe Memeo alza la pistola contro la polizia, nella strada, di fronte a Pedrizzetti... che scatta due volte senza inquadrare... con la macchina fotografica appoggiata sulla pancia... anche Paola Saracini scatta qualche immagine... Memeo va verso di lei e le chiede la macchina fotografica, lei rifiuta, hanno una colluttazione e la ragazza cade per terra... Memeo le punta la pistola addosso... la ragazza apre il dorso della reflex e brucia i negativi con la luce. La sparatoria dura poco più di un minuto... ma la guerriglia continua... sorgono barricate, una discoteca va a fuoco... la sera, il telegiornale di Rai 1 (Emilio Fede) dà la notizia che l’agente napoletano Antonio Custra è stato colpito alla testa ed è in fin di vita, morirà il giorno dopo. Il quotidiano del pomeriggio Corriere d’Informazione [che ha cessato le pubblicazioni a fine 1981] è il primo a pubblicare l’immagine di Polo Pedrizzetti con il titolo: Il poliziotto assassinato. Ecco l’ultrà che spara (documento esclusivo) e diventerà l’immagine/tomba del Movimento ’77. I fotografi Paolo Pedrizzetti e Dino Fracchia inviarono le immagini alle redazioni dei giornali, e poi furono costretti a consegnare i rullini alla polizia. L’Espresso definisce i manifestanti guerriglieri, e pubblica una fotografia di Dino Fracchia in copertina (tre ragazzi col viso coperto che fuggono, uno spara contro il cordone dei poliziotti): sono Walter Grecchi, Massimo Sandrini e Maurizio Azzolini... li arrestano a scuola (Istituto Cattaneo), due sono minorenni... i fotografi sono accusati di delazione dal Movimento, e lo scantinato di Dino Fracchia va a fuoco.

I ragazzi del Cattaneo sono condannati per concorso in omicidio, ma -come è chiaro- nessuno di loro può avere ucciso l’agente Custra (erano molto distanti dallo sbarramento di polizia). Il processo per il delitto di via De Amicis si chiude senza l’identificazione dell’uccisore. Nelle fotografie, si vedono diverse persone armate... il giudice Salvini scoprirà, poi, che tra i protagonisti di quella battaglia ci sono anche quelli che “salteranno il fosso” (dice Salvini) ed entreranno in clandestinità, si schiereranno dalla parte della lotta armata (Brigate Rosse, Prima Linea e altri gruppi eversivi). Dopo la manifestazione, in molti (non solo quelli di Rosso) si ritrovano nei locali di un appartamento in via Gluck (Adriano Celentano non c’era [e neppure la redazione di FOTOgraphia... oggi, sì])... c’è apprensione e si comincia a riflettere sull’accaduto. A volte, delitti e sogni si confondono! La cartografia fotografica allestita dal giudice Giorgio Salvini sulla sua scrivania [dal Procedimento penale nei confronti di Giuseppe Memeo e altri 24 imputati per i fatti di via De Amicis e l’uccisione del brigadiere Antonio Custra, Tribunale Civile e Penale di Milano, n. 609/85F R.G.G.I. - n. 3216/85A R.G.P.M., Giudice Istruttore Guido Salvini] dice che la morte dell’agente è avvenuta all’inizio dell’attacco, da una quarantina di metri di distanza; i rullini di Antonio Conti consentono di individuare chi ha sparato in via De Amicis. In sequenza temporale: i ragazzi del Cattaneo lanciano molotov contro i blindati della polizia, la sparatoria sta per iniziare, poi si ritirano, Antonio Custra è già stato colpito; dietro di loro, due manifestanti incappucciati, armati di pistole, sono i più vicini alla polizia, al riparo di una autovettura, sparano contro i blindati (dietro di loro, si vede Memeo, quasi inginocchiato, che spara), uno è Mario Ferrandi. La sua pistola è calibro 7,65 e quella di Memeo, calibro .22: l’arma che ha ucciso il poliziotto è calibro 7,65. Mario Ferrandi si assumerà tutte le responsabilità dell’azione

e del delitto [Lotta Armata - Uccisione Antonio Custra, La storia siamo noi, da https://www.you tube.com]. Le fotografie di Antonio Conti sono convulse, quasi anonime... il taglio non è professionale, incerto, confuso, financo banale... non suscitano nessun interesse estetico, hanno solo valore d’indizio. L’immagine che resterà nell’immaginario collettivo del Movimento ’77 (e di tutta una casistica ribellistica legiferata dalla partitocrazia) è quella di Paolo Predrizzetti (dettata più dalla paura o dall’occasione), che contiene la figurazione di un tempo nel quale miti e dottrine non hanno avuto più senso: la libertà rifioriva nella conoscenza e la conoscenza ridestata spazzava via la volgarità di tutti i poteri. L’immagine-simbolo del Movimento ’77 è stata analizzata da letterati, politologi, sociologi, critici, giornalisti, servizi segreti. Si è parlato di Far West, gangster, banditismo efferato, ma a molti è sfuggita la vestizione architetturale della fotografia. La disattenzione generale su questa immagine parte dalla noncuranza alla storia del momento: quanto significato in quello scatto non riguarda solo i vocaboli e le articolazioni di un omicidio (che nei fatti non era stato commesso dal “pistolero”), ma è proprio la ridondanza della fotografia che fa da eco ai flussi iconografici della società spettacolare, fa infeudare l’immaginale popolare nell’infelicità (e nella paura) degli epigoni. I commentari che ne seguono non suscitano interesse soltanto per i seguaci della restaurazione e i falliti della gloria divina: il consenso contro la “perduta gente” è generale, e nessuno sa più dove comincia il bene e finisce il male... restano, comunque, disprezzo e disgusto verso tutto ciò che stato bollato come naufragio generazionale! Davanti all’ultimo dei tribunali, nemmeno gli angeli sarebbero assolti. Una stagione dopo, accadrà la medesima cosa con le polaroid di Aldo Moro prigioniero delle Brigate Rosse. L’immagine non racconta solo la cronaca di un evento tragico, ma-soprattutto- diventa me-

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Sguardi su moria e profilo di una caduta al di qua e al di là di conquistare l’impossibile e renderlo possibile. Lo statista non è più Moro, né il prigioniero delle Brigate Rosse: è un’effigie addolorata, specchio di qualcosa che sorge e si ricompone sulla sua deposizione. Tutti (i partiti e i loro gazzettieri) s’intrecciano nella menzogna, ma ciò che vogliono è sono l’instaurazione di un potere più duro. L’immagine dell’onorevole Moro è solo il mezzo per giungere al fine, non proprio secondo gli ordinamenti militari sognati da Machiavelli [Niccolò Machiavelli: L’arte della guerra; in tante e tante edizioni] o la lezione su come dominare gli uomini col minimo dispendio, di Clausewitz [Carl von Clausewitz: Della guerra; altrettante edizioni], ma è l’Arte della guerra, di Sun Tzu (manuale usato nelle moderne tecniche di addestramento per manager, diplomatici, chiave di lettura di mo-

vimenti politici, strategie militari, un vero e proprio trattato di antropologia dei comportamenti), che deborda dall’immagine di Moro con la stella a cinque punte alle sue spalle. Lo scenario è spoglio, quasi dolente, come si conviene a certi santi marginali... l’aureola è la sua condanna, e le istituzioni, i partiti, il papa giocano a mosca cieca con la vittima... solo la fotografia lo assolve! Volge le spalle al Tempo, ne fa una questione di Lingua non di Esistenza! Travolge la maschera, figura l’epitaffio del politico, non dell’Uomo! L’assassinio dello statista passa, l’impronta del suo tormento orchestrato nel gioco dei poteri resta nella fotografia a memoria di un crimine istituzionalizzato. È quanto sosteneva Sun Tzu (verso la fine del Sesto secolo avanti Cristo), e cioè «Manovrare un’armata è molto vantaggioso, con una moltitudine indisciplinata è molto

pericoloso» (Sun Tzu: L’arte della guerra; ancora tante edizioni, tra le quali scegliere). Pertanto, i potenti “illuminati” dovranno tener conto di spie, sicari, doppiogiochisti e -nella “manipolazione divina delle trame”- raggiungere obiettivi straordinari d’assoggettamento delle masse. Si deve guidare uno Stato o un’armata come un solo uomo, non offrire nessuna opportunità al nemico e instaurare il consenso. E tutto questo si chiama “essenza dell’inumanità”. La fotografia non mente [nondimeno, a cavallo del Novecento, l’attendibile Lewis W. Hine ha completato con l’ipotesi che, però, i bugiardi possono fotografare]. Va oltre la secolarizzazione del dolore e di ogni apologia di riscatto. Ogni epoca è intossicata da ideologie, assoluti, apparenze, e la fotografia -quale che sia il proprio valore estetico/etico- risveglia l’immaginario dal vero e

lo riconduce al proprio Tempo. La Verità comincia e finisce con il romanzo di ciascun individuo; e, come scriveva il Bardo (antico poeta e cantore di imprese epiche presso i popoli celtici): «La vita è un tempo breve, se viviamo è per danzare sulla testa dei re». La fotografia è la ruggine della Storia che rode la coscienza degli Uomini, testimonia lo sprofondare e le qualificazioni delle cose e il fuoco della bellezza che le suscita... o le divora. Porta con sé il profumo del disincanto davanti alle giustificazioni delle morali, dei princìpi e delle formule che annunciano l’Apocalisse. Non c’è alcun bisogno di credere a una Verità per sostenerla, né di amare un’epoca per giustificarla, diceva: dato che ogni avvenimento precede ed è legittimato dal clima d’insensatezza nel quale affoga la lezione della Storia. O la rovescia. ❖




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