FOTOgraphia 234 settembre 2017

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ANNO XXIV - NUMERO 234 - SETTEMBRE 2017

GIAN PAOLO BARBIERI FIORI DELLA MIA VITA


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prima di cominciare IMMAGINE DEL PAESE. Complice il ritmo esistenziale rallentato dal periodo di ferie canoniche e collettive, rimanendo in città, d’agosto, ho avuto modo di prestare attenzioni a qualcosa che, di solito, non mi appartiene, né interessa più di tanto: la pubblicità televisiva. Anzitutto, ho constatato l’impossibilità di comperare un divano pagandone il prezzo di listino, ovviamente composto su un calcolo plausibile e legittimo di costi e ricavi. Se formule di sconto sono costanti e continue, significa anche che il richiamo promozionale è ingannevole nella propria declinazione (fraudolento, addirittura?). In parallelo, rimando a considerazioni espresse, nel novembre 2009, a proposito di comportamenti di studentesse che si presentano a un esame universitario. Allora, si annotò che sottolineare intensamente e sistematicamente tutte le pagine di un libro (di riferimento) significa... sottolineare nulla, perché si abbatte qualsivoglia scala gerarchica di valori, richiami e intenzioni. Analogamente, lo sconto istituzionalizzato equivale a un listino prezzi. Punto.

Che la fotografia abbia una qualche ragione di sopravvivere alla propria demenza accettata (dei discorsi sulla più recente macchina fotografica [...]) ... l’abbiamo scritto spesso e lo ripetiamo ancora. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 64 Spesso, Gian Paolo Barbieri vorrebbe essere più vecchio di una mezz’ora, per affrontare le decisioni fondamentali con maggiore saggezza. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 41 Penso che sia ancora possibile, in questa estate Duemiladiciassette, scrivere questa bella storia... di Evar. mFranti; su questo numero, a pagina 34

Copertina «Mentre tocco il ramoscello di rovo» (a pagina nove; Morte - Nascondino, di Branislav Jankic; in Fiori della mia vita, di Gian Paolo Barbieri). In due tempi autonomi e consequenziali, da pagina 8 e 34

3 Fotografia nei francobolli Potremo più comperare un divano al prezzo di listino?

Ma questo è soltanto colore, così come lo è l’immagine di una nazione nella quale, leggendo sopra le righe della pubblicità incessante, sono diventati fondamentali valori complementari, come i capelli (soprattutto, in ogni propria manifestazione visibile) e la cura della casa, attività che parrebbe primaria rispetto a tutto. In sé, questi dati sarebbero insignificanti, o poco eloquenti, se non che, questi annunci pubblicitari accompagnano e avvolgono notizie in cronaca, che raccontano la vita nel proprio svolgersi. Quindi, è inevitabile il riferimento alle tragedie esistenziali, a partire dai terremoti in attualità e a quelli in ricorrenza di date. Allora, in un paese nel quale, senza soluzione di continuità tra governi di diversa formazione, siamo in ritardo e difetto politico/istituzionale di almeno tre sismi (L’Aquila, 6 aprile 2009; Emilia, 20 maggio 2012; Centro Italia / Amatrice, Norcia, Visso, 24 agosto 2016), ai quali si è aggiunto quello di Ischia, dello scorso ventuno agosto, dovrei sentirmi in colpa se non destino donazioni economiche alla ricerca medica: che è problema e compito dello Stato. Quello stesso Stato che non ha ancora fatto nulla per le popolazioni terremotate, ma tanto per la propria sopravvivenza istituzionale. Immagine del paese. Franti

Dalla compendiosa analisi Fotografia nei francobolli, di Maurizio Rebuzzini, in corso d’opera e prossima pubblicazione, dettaglio da una emissione filatelica di Togo (ufficialmente, Repubblica Togolese), del 15 settembre 1980, in una serie di sei valori dedicati a personaggi di Walt Disney. Nello specifico, scimmia fotografa, con Mickey Mouse (in Italia, Topolino), in allineamento volontario e consapevole al Macaco fotografo, da pagina 20

7 Editoriale Il tema dell’amicizia è articolato e complesso. Addirittura, certe prudenze individuali, certe diffidenze, dipendono anche dal fatto che l’amico di oggi è -spessoil dolore di domani (per esperienza personale). Comunque, amicizia non è sinonimo di complicità; da e con Pitagora: «Amico è colui che è l’altro me stesso, come accade ai numeri 220 e 284». Forse

8 Fiori per Evar Sì, certo, la commovente monografia Fiori della mia vita va inclusa nella bibliografia di Gian Paolo Barbieri. Ma, allo stesso tempo, è qualcosa di diverso, certamente di più, che scandisce un ritmo proprio

11 Stereotipi? È certo! Oltre che riprendere da una certa realtà fotografica, in misura di malcostume, un episodio della serie televisiva Law & Order: Special Victims Unit ribadisce anche una immagine travisata del fotografo di moda. Ecco qui Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini


SETTEMBRE 2017

RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA

14 A cento anni! L’autorevole e ammirevole photo editor John G. Morris, capace di riflettere in avanti, oltre il proprio specifico, è mancato lo scorso ventotto luglio. Aveva cento anni di Andy Grundberg (in The New York Yimes on line) traduzione di Lello Piazza fotografie di Vincenzo Cottinelli

Anno XXIV - numero 234 - 6,50 euro DIRETTORE

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

IMPAGINAZIONE

Maria Marasciuolo

REDAZIONE

Filippo Rebuzzini

FOTOGRAFIE Rouge

20 Macaco... fotografo

SEGRETERIA

A proposito di una discussione divertente, quanto grottesca, sollecitata da una ipotesi di selfie, che si sarebbe scattato una femmina di macaco cinopiteco. E altre considerazioni, in allungo

HANNO

25 Epopea reflex Nel centenario Nikon (25 luglio 1917 - 2017), cronologia di pietre miliari del sistema fotografico di Antonio Bordoni

34 Fiori per Evar Fortemente fotografica, la monografia Fiori della mia vita, di Gian Paolo Barbieri, edifica la propria energia non sulle sole immagini, ma sul dialogo con le parole. In conversazione con Evar, mancato troppo presto di Maurizio Rebuzzini

44 Tradizioni di montagna Il bravo Stefano Torrione svolge progetti fotografici intensi. Alpimagia unisce le popolazioni alpine in un unicum di Lello Piazza

52 Perfezione della forma La cadenza Pattern Geometrico si offre e propone come eccellente certificazione del percorso fotografico del talentuoso Roger Corona, che eleva la rappresentazione del corpo a propria cifra stilistica

61 Antonio Leoni L’apprezzato fotografo cremonese è mancato il tre luglio di Sandro Rizzi

64 James Nachtwey

Maddalena Fasoli COLLABORATO

Gian Paolo Barbieri Pino Bertelli Antonio Bordoni Roger Corona Vincenzo Cottinelli mFranti Angelo Galantini Andy Grundberg Branislav Jankic Lello Piazza Emmanuele Carlo Randazzo Mora Franco Sergio Rebosio Sandro Rizzi Stefano Torrione Lidia Zaccaro Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.com; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 1027671617 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard e PayPal (graphia@tin.it). ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano

Rivista associata a TIPA

Sguardi sulla fotografia del dolore e le lacrime dei vinti di Pino Bertelli Nella stesura della rivista, a volte, utilizziamo testi e immagini che non sono di nostra proprietà [e per le nostre proprietà valga sempre la precisazione certificata nel colophon burocratico, qui accanto: «È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo)»]. In assoluto, non usiamo mai propietà altrui per altre finalità che la critica e discussione di argomenti e considerazioni. Quindi, nel rispetto del diritto d'autore, testi e immagini altrui vengono riprodotti e presentati ai sensi degli articoli 65 / comma 2, 70 / comma 1bis e 101 / comma 1, della Legge 633/1941 / Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio.

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editoriale A

nche se non sono mai stato a Oslo, in Norvegia, credo a coloro i quali ne certificano l’esistenza: magari, anche a partire dalle carte geografiche del Nord dell’Europa. Ciò a dire che non serve sempre e solo la conoscenza diretta, ma sono proficue anche le opinioni e testimonianze altrui: forse, addirittura, è proprio su queste che edifichiamo le nostre comprensioni del Mondo e della Vita. Con ciò, ammetto e riconosco che l’amicizia possa anche esistere, per quanto non ne possa vantare esperienza personale intensa e proficua (per cortesia, nessuno si offenda, ma ognuno intenda il senso globale dell’affermazione, quantomeno in forma di metafora utile al ragionamento). Meravigliosa nella propria teoria, e pratica, anche, l’amicizia è un sentimento estremo di accettazione degli altri, addirittura del diverso: è dimostrazione tangibile di altruismo e generosità, non fosse altro che d’animo. Purtroppo, però, soprattutto nel nostro paese, in particolar modo nel nostro piccolo-grande mondo fotografico -spesso troppo sventurato-, si confonde la nobiltà dell’amicizia con l’incoscienza della complicità. Ovvero, si trattano gli “amici in alleanza” con comprensione, disponibilità e indulgenza negate ai non “amici”. In definitiva, questo atteggiamento non ci permette mai di capire se le parole spese per qualcuno o qualcosa, autore o utensile della fotografia, siano pronunciate in onestà di intenti, piuttosto che in connivenza di interesse specifico. Questo malaugurato favoreggiamento a priori non è dannoso solo per chi riceve il messaggio, peraltro ingannato nel suo percorso, ma toglie, addirittura, dignità a chi lo manifesta e a chi ne trae (presunto) beneficio. Certamente, svolgendo il proprio mestiere canonico, in forma di giornalismo o di critica esplicativa, per quanto ci riguarda direttamente, capita di presentare “amici”. Non è questa la discriminante, quanto, invece, lo sono i modi e i preconcetti che possono guidare i giudizi. Si è “amici” in tante manifestazioni delle rispettive esistenze, e non lo si deve mai essere nella trattazione professionale, se e quando questa altera il senso delle proporzioni e l’attribuzione di (eventuali) valori. Ovvero: tanti “amici” sono soggetto delle nostre considerazioni giornalistiche, ma nessuno lo è in quanto tale... “amico”. Tutti lo sono per la qualità della propria personalità in fotografia: materia istituzionale verso la quale rivolgiamo la nostra attenzione e le nostre riflessioni. Da cui, non facciamoci confondere dall’attuale pensiero occidentale (ma universale), che scompone la scienza dalle discipline umaniste: il sapere matematico (per esempio, di Talete, Euclide e Pitagora) ha debiti di riconoscenza con la filosofia, e viceversa. Tanto che, Pitagora, che non è stato certamente un personaggio facile, come certifica l’organizzazione della sua “scuola”, ha definito per primo il concetto di “amicizia”: «Amico è colui che è l’altro me stesso, come accade ai numeri 220 e 284» (due numeri sono amici -o amicabili- se ognuno di essi è la somma di tutti i divisori interi dell’altro; per esempio, appunto, le cifre 220 e 284). Maurizio Rebuzzini

Il numero 220 ha come divisori interi: 1, 2, 4, 5, 10, 11, 20, 22, 44, 55 e 110, la cui somma fa 284. In “amicizia”, la somma dei divisori interi di 284 (1, 2, 4, 71 e 142) fa 220. Da e con Pitagora: «Amico è colui che è l’altro me stesso, come accade ai numeri 220 e 284». Questo è un pensiero filosofico con origine matematica. A maggior ragione, la fotografia è un pertinente esercizio di tecnica e creatività. La tecnica si può imparare (insegnare); la creatività si educa.

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Soprattutto questo di Maurizio Rebuzzini (Franti)

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Progetto della Fondazione Gian Paolo Barbieri, creata recentemente a tutela di un patrimonio fotografico di straordinario valore espressivo e creativo, la monografia Fiori della mia vita esula dal percorso lineare e scandito della bibliografia del celebrato autore. Infatti, per quanto sia alternato almeno tanto quanto lo è la sua fotografia, il casellario delle opere librarie di raccolta e presentazione risponde a correnti riconosciute del suo percorso: in semplificazione di chiarimento, ma non certo banalizzazione di proponimenti, la fotografia di Gian Paolo Barbieri è stata riunita e ordinata per linee conduttrici chiare e inequivocabili, per quanto anche eterogenee nei rispettivi aspetti superficiali [Sguardo su, di Pino Bertelli, in FOTO graphia, del luglio 2011]. La sintesi è presto richiamata: retrospettive cadenzate, soprattutto a partire dal riferimento principale e assodato della moda ( Artificial, del 1982; nella collana I Grandi Fotografi, in Edizione Fabbri; dello stesso 1982; Gian Paolo Barbieri, ancora Fabbri Editori, del 1988; History of Fashion, del 2001; e il volume-catalogo dell’imponente mostra Gian Paolo Barbieri, all’autorevole Palazzo Reale, di Milano, pubblicato da Federico Motta Editore, nell’autunno 2007 [FOTOgraphia, settembre 2007]); richiami diretti, in riferimenti espliciti oltre i titoli ap-

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FIORI PER EVAR

Fiori della mia vita, di Gian Paolo Barbieri; poesie di Branislav Jankic; introduzione di Annalena Amthor; Silvana Editoriale, 2017; 108 pagine 27,5x35cm, cartonato; 90,00 euro. ❯ Oltre questa presentazione mirata e usuale (ma non consueta) dell’edizione libraria della monografia, su questo stesso numero, da pagina trentaquattro, presentazione in forma di portfolio di una selezione rappresentativa di immagini: con testo criptico... volontariamente e adeguatamente oscuro e misterioso. Un testo in emozione, di emozioni, per emozioni.

pena altrimenti evocati (Pappa e ciccia, 1991; The Maps of Desire / Pomellato, 1989; Innatural, 2001 [FOTOgraphia, novembre 2004]; Sud (Un viaggio con Dodo), 2006; e Body Haiku, 2007); visioni etniche, di sorprendente personalità e visione a dir poco singolare (Silent Portraits, 1984; Tahiti Tattoos, 1989 e 1998 [per certi versi: FOTOgraphia, aprile 2011]; Madagascar, 1994 e 1997 [FOTOgraphia, luglio 1995]; Equator, 1999; e Exotic Nudes, 2003); erotismo onirico (Dark Memories, 2013 [FOTOgraphia, giugno e novembre 2013]; e Skin, 2015 [FOTO graphia, ottobre 2015]). Quindi, ancora in forma di prologo, prima di immergerci nell’argomento proprio degli attuali Fiori della mia vita (in portfolio, da pagina 34, con accompagnamento di un testo quantomeno criptico), va registrata l’edizione della monografia Fiori, esplicita dell’argomento proposto e promesso [FOTOgraphia, marzo 2015]. E qui, riprendendo la nota iniziale, è necessaria una chiarezza assoluta, una distinzione fondante: per quanto la coinvolgente e commovente rappresentazione scenica di Fiori della mia vita debba essere conteggiata anche nella bibliografia di Gian Paolo Barbieri (Silvana Editoriale, 2017; 108 pagine 27,5x35cm, cartonato), è qualcosa di assolutamente diverso dalle consuetudini bibliografi-


Soprattutto questo INNOCENZA... AMORE... MORTE

Come commentato nel corpo centrale di questo intervento redazionale, le testimonianze del ricordo scandito dalla successione di pagine della raccolta Fiori della mia vita, di Gian Paolo Barbieri, sono collegate tra loro in una cadenza di tre tempi consequenziali... Innocenza... Amore... Morte. Il passo delle poesie di Branislav Jankic scandisce le emozioni, sottolinea gli affetti, collega il cammino: «[Quello di Gian Paolo Barbieri] è un tempo cadenzato e riflessivo che dà senso e motivo al lessico implicito nel linguaggio: per quanto tante cose, un eccesso di cose, scorrano troppo in fretta, nell’istante di un tempo breve, la sua fotografia suggerisce

spiegazioni lunghe, commozioni intense e emozioni profonde. Ne deriva una libertà condivisa (con l’osservatore) di parlarsi con comodo, di vedersi in faccia, negli occhi». Da cui, le poesie di Branislav Jankic:

Innocenza Sogno Ragazzo 11 chilometri sempre dritto Amore Ti proteggeva la madre Ramoscello di rovo Casa al mare Esercito Poesia Parole belle Ore Piccola rosa rossa Cara Neva Morte Ferite Occhi di tua madre Sogno Nascondino

[...] Al buio cerco i tuoi occhi, verdi. Stiamo giocando a nascondino... Uno, due, tre... via! Dove sei? Uno, due, tre... via! Ti cerco... sono passati già venticinque anni. Tu sei vicino... ti sento ridere... Al buio cerco i tuoi occhi verdi. Mentre tocco il ramoscello di rovo, Sento il tuo fiato sul collo. Uno, due, tre... Mi giro... Ti vedo! che accreditate e accettate. In conferma... anche! Nel senso di cronologia anagrafica ufficiale. Poi, come anticipato, c’è ben altro. Fiori della mia vita ha nulla da spartire con le raccolte che hanno cadenzato il lungo passo fotografico di Gian Paolo Barbieri, in qualsivoglia visione si sia incamminato. Non è una raccolta che svolge un tema prefissato, ma un incontro che ne registra uno accaduto. Fortemente fotografico, non è sulle sole immagini che edifica la propria personalità e energia, ma sul dialogo delle stesse immagini con le parole, con la poesia esplicita e dichiarata (di Branislav Jankic). Le fotografie di Gian Paolo Barbieri sono qui a ritmo alternato e cadenzato: i fiori della sua vita, per l’appunto, dialogano con Evar, la cui esistenza è stata spezzata da un incidente in moto, nel 1991, a ventuno anni. Troppo presto! Così che, va rivelata la genesi di questa messa in pagina di parole e immagini e testimonianze, in accompagnamento e ritmo (ogni tanto, scatta una molla, e un ricordo tende un’imboscata).

All’indomani della scomparsa prematura, tragicamente prematura, del giovane Evar, Gian Paolo Barbieri ha raccolto in un album una serie di ricordi intimi. Dolcemente confezionato, e rilegato in cuoio, l’album è stato riposto in un cassetto, nel quale è stato custodito -in privato- per decenni. In tutto questo tempo, sono trascorse stagioni cadenzate da giorni nei quali il pensiero è stato spesso rivolto a Evar, forse... sempre. Quindi, inaspettatamente, l’album è stato scoperto da Branislav Jankic, che ne ha immediatamente individuato lo spessore emotivo: una sinapsi si è messa a lampeggiare e ha indirizzato l’attuale edizione libraria in tiratura, rispettosa dell’album originario (per quanto, in forma litografica). Dunque, ritratti di Evar dialogano con fiori fotografati da Gian Paolo Barbieri con ammirevole maestria [FOTOgraphia, marzo 2015], messaggi scambiati, oggetti comuni. Non possiamo mai prevedere quali eventi accidentali vadano a svegliare ricordi sopiti nella nostra mente: una fotografia

dimenticata sul fondo di una scatola; parole pronunciate con una certa intonazione; una canzone; il verso di una poesia. Improvvisamente, la mente oscilla tra passato e presente. Va verso Gian Paolo e Evar, che decenni fa -in reciproca felicità-, ipotizzarono tempi di esistenza condivisa, con il cuore pieno di sogni. Solennità della sorte -ma le coincidenze possono essere intese come i soli accadimenti che rivelano che la vita possa avere un qualsivoglia senso-, il ritrovamento estraneo (a Gian Paolo Barbieri, per quanto vicino) avviene nel venticinquesimo anniversario dalla data definitiva della scomparsa di Evar: da cui la sollecitazione a una celebrazione che certifichi il suo breve e intenso passaggio terreno. Le testimonianze del ricordo (in forma di foglietti scambiati, ciuffi d’erba, accenni intensi) compongono l’ossatura, alla cui emotività si aggiungono e accostano immagini, in dialogo con Evar (in una intensa qualità e quantità di ritratti), e poesie (di Branislav Jankic), qua-

si in forma di cronaca: in tre tempi consequenziali... Innocenza... Amore... Morte. All’interno di questi passaggi [riquadro qui sopra], il volto di Evar, bello nella propria gioventù che molto si aspetta, si alterna a quello di fiori, che nel cuore di Gian Paolo Barbieri evocano il ricordo e la memoria. Gli accostamenti sono tutt’altro che banali o semplicistici: con passo individuale e consapevole, sono soprattutto suggerimenti. E qui, una notazione è d’obbligo: Fiori della mia vita non è un libro da sfogliare distrattamente, girando in fretta le pagine (alla ricerca di cosa?); al contrario, è un libro da esaminare con calma e avendo tempo (prendendosi tempo). Va rispettato nella propria cadenza di messa in pagina, che non è casuale, ma consequenziale. Si osservino le immagini, si leggano le poesie, si familiarizzi con i messaggi... alla fine di tutto, il dialogo di Gian Paolo Barbieri (e Branislav Jankic) con Evar diventa la nostra sintonia con loro. E il cerchio si chiude. Magicamente. ❖

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un negozio di terroni* per terroni** In un paese ed epoca in cui la forma apparente ha sostituito il contenuto, perché non agire per sovvertire questa tragica condizione, per tornare alla parola che sia se stessa, e sia densa di significati propri? Perché non considerare che il rispetto è valore concreto, da frequentare e perseguire? Perché non agire nella convinzione che etica e morale siano ancora qualità e doti, insieme con garbo, eleganza e grazia? Una volta ancora, una volta di più, non certo per l’ultima volta: vogliamo parlarne?

* Terróne (sostantivo maschile / terróna, al femminile). Derivazione da “terra”; probabilmente, tratto da denominazioni di zone meridionali, quali “Terra di Lavoro” (in Campania), “Terra di Bari” e “Terra d’Otranto” (in Puglia). Appellativo dato, con intonazione spregiativa (talvolta anche scherzosa), dagli abitanti dell’Italia settentrionale a quelli dell’Italia meridionale [Enciclopedia Treccani ]. Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato in tono dispregiativo (talvolta in tono scherzoso, a seconda del contesto) per designare un abitante dell'Italia meridionale. Ha diverse varianti piuttosto diffuse e riconoscibili nelle lingue locali: terún, terù, teron, tarùn, tarù (lombardo); terún (ligure); terù, terún, tarún (piemontese); tarùn, taroch, terón (veneto, friulano); teròch, tarón (emiliano-romagnolo); terón, terró (marchigiano); teróne, taròne in altri idiomi dell'Italia settentrionale, mentre rimane terrone in toscano e romanesco [Wikipedia ].

** L'espressione politicamente corretto (traduzione letterale dell'inglese politically correct) designa una linea di opinione e un atteggiamento sociale di attenzione al rispetto generale, soprattutto nel rifuggire l'offesa verso determinate categorie di persone. Qualsiasi idea o condotta in deroga più o meno aperta a tale indirizzo appare, quindi, per contro, politicamente scorretta (politically incorrect ). L'opinione, comunque espressa, che voglia aspirare alla correttezza politica dovrà perciò apparire chiaramente libera, nella forma e nella sostanza, da ogni tipo di pregiudizio razziale, etnico, religioso, di genere, di età, di orientamento sessuale, o relativo a disabilità fisiche o psichiche della persona [Wikipedia ].


Cinema

di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

STEREOTIPI? È CERTO!

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Dal 1990 di origine, tutti gli episodi delle serie televisive statunitensi Law & Order, ideate da Dick Wolf, nelle proprie derivazioni moltiplicate (oltre la formula poliziesco-giudiziaria di partenza, segnaliamo soprattutto gli spin-off Law & Order: Special Victims Unit, indirizzato verso crimini a sfondo sessuale, dal 1999, Law & Order: UK, dal 2009, trasposto in Inghilterra, e Law & Order: Trial by Jury, dal 2005, che si concentra sull’azione della procura di stato contro gli indiziati... e altro c’è, ancora), si concludono con la medesima dicitura/indicazione. Riconoscendo che le sceneggiature possano essere anche ispirate a fatti reali, ognuno certifica l’originalità della trama e trattazione e personaggi. Che spesso e volentieri, la vicenda tragga spunto dalla vita, dal suo svol-

Secondo i critici, la parte migliore dell’episodio Fashionable Crimes (Crimini alla moda), della serie televisiva Law & Order: Special Victims Unit, riguarda il ritorno di Richard Belzer, nei panni dell’amato sergente John Munch, da tempo in pensione. Per il vero, si tratta più di un cameo che di una presenza significativa nell’episodio. Tanto che, compare in tre sole scene, ma conclude l’episodio, facendo da baby-sitter a Noah, il figlio adottato del tenente Olivia Benson, nell’interpretazione dalla convincente Mariska Hargitay (anche produttrice della serie). In questa occasione, sottolineata dalla locandina promozionale dell’episodio, John Munch insegna a Noah l’interrogativo “perché?”... come scuola di vita.

L’episodio Fashionable Crimes (Crimini alla moda), della serie televisiva Law & Order: Special Victims Unit, ventesimo della diciassettesima stagione, racconta di molestie sessuali perpetuate dal fotografo Alvin Gilbert (l’attore Fisher Stevens; in alto) ai danni delle proprie modelle: a destra, il tenente Olivia Benson (l’attrice Mariska Hargitay, anche produttrice della serie) consegna l’atto giudiziario d’accusa. Come rileviamo, per quanto la sceneggiatura sottolinei la casualità di eventuali richiami al reale, non siamo lontani dal vero quando osserviamo quanto la vicenda abbia legami di parentela con il fotografo Terry Richardson e i suoi riconosciuti e condannati abusi sessuali.

gimento quotidiano, non abbiamo dubbi. Infatti, sono molteplici le trasmigrazioni dal vero al fantastico, soprattutto all’indomani dell’Undici settembre, che ha avviato la problematica del terrorismo, che si nutre delle libertà d’azione concesse da una sorta di tormentata tutela dei diritti individuali, anche dell’indiziato, soprattutto dell’indiziato, che -ammettiamolo senza timori- caratterizza uno degli aspetti della vita negli Stati Uniti. Comunque, sia chiaro, queste sono considerazioni generali, che non colpiscono necessariamente il nostro punto di osservazione, sostanzialmente unico e privilegiato: verso la Fotografia, con allungo fino ai suoi dintorni sociali e di costume.

Quindi. Quindi, eccoci qui a registrare qualcosa che trae ispirazione e considerazione da un episodio sostanziosamente recente della serie Law & Order: Special Victims Unit, andato in onda questa estate in Italia, magari in ennesima replica -ma non importa nulla-, all’indomani della data originaria statunitense del 4 maggio 2016. Si tratta dell’episodio intitolato Fashionable Crimes (Crimini alla moda), ventesimo della diciassettesima stagione, che ne conteggia ventitré. Oltre la squadra speciale Special Victims Unit, della polizia di New York, preposta all’indagine su crimini a sfondo o base sessuale, protagonista della

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vicenda è il fotografo di moda Alvin Gilbert, basato a New York City, interpretato dall’attore Fisher Stevens, indagato per presunto stupro di una modella. L’esplorazione poliziesca della vicenda, innescata da una denuncia esplicita della modella in questione, Amanda Rollins (con il volto dell’attrice Kelli Giddish), ma questo dato conta nulla e serve ancora meno, approda presto all’individuazione di un comportamento molesto ripetuto e non casuale dello stesso fotografo. Da cui, e in conseguenza del quale (e della quale sceneggiatura) non possiamo ignorare che la vicenda abbia tratto profonda e sostanziosa ispirazione dalle persistenti accuse di abusi sessuali che, in più tempi e in tempi successivi, hanno travolto l’orrifico fotografo di moda Terry Richardson. Tra l’altro, e per inciso, ne abbiamo riferito anche noi, nel maggio 2010, all’interno della rubrica (di allora) Ici Bla Bla, tenuta da Lello Piazza. Testuale il resoconto: «Terry Richardson, autore delle fotografie del calendario Pirelli 2010, è stato accusato di molestie sessuali da alcune delle sue modelle, molestie subite mentre lavoravano sul set fotografico. Per esempio, la modella danese Rie Rasmussen avrebbe dichiarato che il fotografo ha abusato del suo potere, chiedendo alle ragazze rapporti sessuali. Alcune delle quali, per paura di perdere il lavoro, avrebbero soddisfatto le sue richieste». E questa, per l’appunto, è la base ideologica e consistente della sceneggiatura di Law & Order: Special Victims Unit (XVII-20) / Fashionable Crimes (Crimini alla moda), nel quale il fotografo protagonista (al negativo) approfitta della propria posizione professionale e di potere per sottomettere a sé le modelle, o presunte tali, o in sogno di diventare.

STEREOTIPI! Ma non basta, ma non ci basta. Infatti, dopo aver annotato quanto e come la sceneggiatura abbia attinto alla vita reale, a un suo torbido aspet-

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to, non possiamo ignorare, né sottovalutare, come e quanto l’idea e ipotesi di fotografo (di moda) sconcio e moralmente indecente appartengano all’immaginario collettivo, con relativa interpretazione/raffigurazione fotografica compiacente. Ne abbiamo riferito in occasioni precedenti, soprattutto attribuendo ruolo spartiacque al film Blow-Up, di Michelangelo Antonioni (del quale ricorre il cinquantenario 1967-2017): con un dopo estremamente inequivocabile. In particolare, addebitiamo a una semplificazione del film l’aver stabilito i connotati cinematografici del fotografo porno, o comunque sia vizioso, che estende fino alle conseguenze estreme il modo di vivere interpretato sullo schermo da David Hemmings (Thomas), senza però la sua intelligenza e senza i suoi dubbi. Il casellario, altrettanto già analizzato, è esplicito, e si concretizza in titoli evidenti... nella propria ovvietà: Una storia d’amore, di Michele Lupo (Italia, 1969); Una lucertola con la pelle di donna, di Lucio Fulci (Italia, Francia e Spagna, 1971); Le foto proibite di una signora per bene, di Luciano Ercoli (Italia e Spagna, 1971); Vergogna schifosi, di Mauro Severino (Italia, 1969); Fotografando Patrizia, di Salvatore Samperi (Italia, 1984); Le foto di Gioia, di Lamberto Bava (Italia, 1987); Sotto il vestito niente, di Carlo Vanzina (Italia, 1985), Sotto il vestito niente II, di Dario Piana (Italia, 1988). Nonostante il tema esplicito, è diverso il caso di L’importante è amare, primo film girato fuori dalla Polonia dal regista Andrzej Zulawski, nel 1975. Per quanto la sceneggiatura si basi su una situazione torbida -il dietro le quinte di un film pornografico-, la presenza del fotografo Servais Mont (interpretato dall’attore italiano Fabio Testi: con Nikon F nera, sulla locandina ufficiale) è lieve e garbata. Tanto quanto lo è il suo interesse per Nadine Chevalier (l’attrice Romy Schneider, premio per la miglior attrice ai César del 1976, in quella che lei stessa ha

Stereotipo del fotocronista senza igiene, Dennis “Animal” Price ha animato la serie televisiva Lou Grant (1977-1982). Il personaggio è stato interpretato dall’attore Daryl Anderson: a sinistra, un posato; al centro, con il fotografo Boris Yaro, dello staff del Los Angeles Times (fotografia di Rick Meyer); a destra, lo stesso Daryl Anderson, in veste di fotografo autentico, alla protesta del pubblico per la cancellazione della serie (10 maggio 1982).

Altro stereotipo, con note di colore aggiuntive, le solite che caratterizzano le interpretazioni cinematografiche di Adriano Celentano, qui nei panni del fotocronista Antonmatteo Colombo, nel film Ecco noi per esempio..., di Sergio Corbucci, del 1977. Nessun commento!

identificato come la migliore interpretazione della sua lunga carriera). In coincidenza di intenti preconcetti, visione odierna della trasversalità della presenza della fotografia al cinema, c’è un altro stereotipo che, a propria volta, è stato glorificato dal cinema (e dalla televisione): quello del fotogiornalista straccione, mal vestito, magari puzzolente e, comunque sia, con limitato tasso di moralità. Due citazioni sopra tutte. Dalla televisione, riprendiamo la figura di Dennis “Animal” Price (e il soprannome è già programma, è già intenzione esplicita), interpretato da Daryl Anderson, il fotocronista della serie Lou Grant, andata in onda negli Stati Uniti per cinque stagioni, dal 1977 di origine al 1982 di conclusione, con proposizione in Italia negli stessi anni (centoquattordici episodi in tutto). È il fotocronista senza igiene della redazione del fittizio Tribune, di Los Angeles, guidato dal caporedattore Lou Grant (interpretato da Edward Asner), che dà colore e folclore a una redazione composta da inappuntabili ed eleganti giornalisti di penna. Gli stessi stereotipi, con qualche nota di colore in più, definiscono il personaggio di Antonmatteo Colombo, detto Click (appunto!), fotocronista nel film italiano Ecco noi per esempio..., di Sergio Corbucci, del 1977. Gradimento di pubblico a parte (? dal palato tutt’altro che raffinato), siccome viviamo in un paese nel quale le qualifiche sono distribuite senza parsimonia, né controllo, né misura, né regola, né -tantomenoequilibrio, dobbiamo certificare che il personaggio è interpretato da Adriano Celentano, in molte occasioni identificato anche come “attore” (per le canzoni, altro discorso). Comunque, per quanto il film sia a dir poco agghiacciante e raccapricciante, ci interessa soltanto registrare la sua sintonia concettuale con la raffigurazione di maniera del fotocronista morto di fame. Insomma... stereotipi! ❖



Scomparsa

di Andy Grundberg (in The New York Times on line, 28 luglio 2017), traduzione di Lello Piazza

A CENTO ANNI!

Titolo esplicito: John G. Morris, Renowned Photo Editor in the Thick of History, Dies at 100 (che traduciamo in John G. Morris, celebre picture editor nella profondità della Storia, è mancato a cento anni), da https://www.nytimes.com/2017/07/28/business/john-g-morrisrenowned-photo-editor-dies-at-100.html. Con il contributo di Daniel E. Slotnik, testo meritevole e valido ricordo -che qui proponiamo nella

traduzione di Lello Piazza- di Andy Grundberg, autorevole critico, curatore e docente, autore, tra tanto, dell’ottimo Crisis of Real, in edizione Aperture, fantastica analisi della fotografia contemporanea. Una versione di questo articolo appare in stampa il ventinove luglio, a pagina A22 della New York Edition del New York Times, con il titolo John Morris, Photo Editor in the Thick of History, Dies at 100.

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VINCENZO COTTINELLI

J

John G. Morris, il celebre picture editor che ha lasciato un’impronta indelebile sul fotogiornalismo, dalla Seconda guerra mondiale alla guerra del Vietnam, è morto venerdì ventotto [luglio] in un ospedale non lontano dalla sua casa a Parigi. Aveva superato i cento anni. L’amico e collega Robert Pledge, fondatore della agenzia Contact Press Images, ha confermato la notizia. Come picture editor, John Morris ha avuto una carriera lunga e leggendaria. La sua esperienza più famosa riguarda Londra, quando gli capita di editare le storiche immagini del D-Day, lo sbarco in Normandia del 6 giugno 1944, scattate da Robert Capa. Riesce a stampare le fotografie e a spedirle a New York in tempo per la pubblicazione sul numero in uscita di Life, il settimanale che fa dell’immagine la propria caratteristica più importante e che a quel tempo ha il venduto più alto di ogni altra rivista negli Stati Uniti. Dal carattere forte e mutevole, John Morris non si ferma mai troppo a lungo in una redazione, diventando via via picture editor delle più importanti testate del fotogiornalismo americano del dopoguerra. Oltre a Life, lavora, infatti, per The New York Times, The Washington Post e National Geographic. Senza dimenticare il suo impegno, quasi decennale, presso l’agenzia fotogiornalistica più famosa del mondo, la Magnum Photos. Nonostante fosse un convinto pacifista quacchero -al suo pacifismo deroga una sola volta, partecipando, in qualche modo, alla Seconda guerra mondiale-, la fama di John Morris è spesso stata associata a immagini di guerra, che riuscì magistralmente a far conoscere al mondo. Alla Magnum Photos coinvolge il grande fotografo di guerra W. Eugene Smith, nonostante non fosse particolarmente amato nelle redazioni.

Mentre lavora per il New York Times, durante la guerra del Vietnam, si batte per far pubblicare in prima pagina del numero del 2 febbraio 1968, la fotografia di Eddie Adams che mostra il capo della polizia di Saigon mentre spara alla testa di un cittadino sospettato di essere un vietcong. Questa immagine diventa una delle più famose fotografie di guerra della Storia. La carriera di John Morris è legata anche a un’altra fotografia, del 1972, quella di una bambina vietnamita nuda che fugge dal suo villaggio bombardato col napalm (l’autore fu indicato come Nick Út, il cui nome per intero, Huỳnh Công Út, fu rivelato solo più tardi). John Morris

John Godfrey Morris, photo editor eccelso, che è stato capace anche di riflettere sul proprio mestiere e sul fotogiornalismo nel proprio insieme e complesso, è mancato lo scorso ventotto luglio. Aveva compiuto cento anni, il sette dicembre.

convince il direttore a pubblicare quella fotografia in prima pagina, nonostante la politica statunitense prude nei confronti della nudità. Sia la fotografia di Nick Út, sia quella di Eddie Adams hanno vinto il Premio Pulitzer [e sono state World Press Photo of the Year, nei rispettivi 1972 e 1968]. A John Morris capitò anche di essere testimone oculare in prima persona di un evento storico. Il fatto accadde quando fu assassinato Robert F. Kennedy, all’Ambassador Hotel, di Los Angeles, la mattina del 5 giugno 1968: «Penso sia l’evento più terribile a cui ho assistito», ha rilevato in un’intervista. L’accadimento lo trasforma -per un giorno- in giornalista di penna (non ha quasi mai portato con sé una macchina fotografica): l’articolo con la sua firma compare sulla prima pagina del New York Times, il giorno seguente. «Per cinque minuti, la folla nella Embassy Room cadde in uno stato di panico -testimoniò- e le esclamazioni di gioia si trasformarono in urla isteriche, appena gli astanti presero coscienza del rumore dello sparo». John Godfrey Morris nacque a Maple Shade (New Jersey), il 7 dicembre 1916, e crebbe a Chicago. Si è appassionato di giornalismo mentre frequentava l’Università di Chicago, negli anni Trenta, andando a lavorare per il giornale del campus e fondando Pulse, una rivista per gli studenti che imitava Life. Dopo la laurea, si trasferisce a New York, dove, nel 1938, trova lavoro proprio a Life. Divenuto corrispondente da Hollywood, con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, fu promosso picture editor a Londra, come responsabile per Life della copertura fotografica della guerra in Europa. Il suo coinvolgimento sulla sorte degli scatti del D-Day, di Robert Capa, ha generato uno degli aneddoti più fa-


Scomparsa DA VINCENZO COTTINELLI

Caro Maurizio [Rebuzzini], ti mando undici immagini relative a John Godfrey Morris: fanne l’uso che credi, ma consentimi di raccontarti la loro vicenda. Ecco la curiosa storia. Ero ad Arles, nel 2002, e -fotografando a braccio i visitatori delle mostrenoto questa coppia di anziani, che si tengono affettuosamente per mano, sullo sfondo di una parete ricca e movimentata (è uno dei padiglioni delle Ex ferrovie, dedicato a mostre aperte, o off ). Mi colpisce soprattutto la bella luce, che dà l’idea di una festa del guardare. Ho tra le mani una Leica M7, con Tri-Elmar-M 16-18-21mm f/4 Asph, settato su 18mm, pellicola Tri-X. Scatto, ma non so chi siano i due; al momento, sono figure anonime. Anni dopo, tramite un’amica (Elena Ceratti) scopro che lui è John G. Morris con la moglie. Nel 2010, vado a Parigi per Paris Photo, preparo le stampe con dedica e dati, organizzo un appuntamento con John Morris alla sede storica di Magnum Photos, in rue Hégésippe Moreau. Mi si fa incontro un bel signore, con una bellissima signora, che mi viene presentata come Pat Trocmé, sua moglie. Attimo di panico: gli porto le fotografie di lui con un’altra moglie? Dichiaro il mio imbarazzo, e Pat risponde sorridente che non c’è problema: lei era molto amica della precedente moglie, nel frattempo morta per malattia. Così, la visione delle mie stampe si svolge nella massima serenità, anche con divertimento, come credo dimostrino alcuni ritratti che, nel frattempo, riprendo sempre con Leica M7, che mostrano due personaggi di straordinaria prestanza, oltre che gentilezza (lui novantaquattro anni, lei novantatré!). Scatto anche un ritratto posato di lui, e continuo quando loro incontrano l’amico Bruno Barbey (a lui, questa fotografia l’ho donata qualche mese fa, quando venne a Brescia per una mostra Magnum Photos), e poi quando John Morris mi dedica un suo libro [qui sotto]. Naturalmente, mando loro le nuove fotografie, che ottengono un cordiale gradimento, e vengo incluso nella “Morris List”, che racconta di lui come narratore del fotogiornalismo del Ventesimo secolo, come attivista del Partito Democratico in giro per gli Stati Uniti a parlare contro Donald Trump, più che a favore di Hillary Clinton, come animatore del Circolo degli Americani residenti a Parigi. L’idea di fondo: come testimonianza di verità e denuncia delle atrocità del mondo, il fotogiornalismo è uno strumento fondamentale di democrazia e giustizia. Lo incontro di nuovo ai Paris Photo degli anni dal 2011 al 2016. Nell’ultimo incontro (15 novembre 2016), lui e Pat invitano me e Maria, mia moglie, alla festa per il suo centennale, nella casa di Parigi, il dieci dicembre. L’appartamento in rue de Tournelle è pieno di amici, anche non fotografi, numerosi parenti dagli Stati Uniti, nessun italiano, tranne me e Maria; tra i fotografi, la bella e simpatica Jane Evelyn Atwood, che ha molti legami con l’Italia (Grazia Neri, i fotografi di Bolzano...). Piccolo particolare: manca John, che, ricoverato da un paio di giorni per un problema intestinale, partecipa in videoconferenza, brillantissimo, con a fianco la sua cara Pat. Poi, sarà operato, si riprenderà, sarà per mesi in riabilitazione, ma non ce la farà. Grande perdita, ma anche grande permanente presenza di cultura fotografica, storia, memoria, democrazia. Per fortuna, è riuscito a ultimare il suo libro autobiografico definitivo. Speriamo di averlo presto anche da noi. Vincenzo Cottinelli

VINCENZO COTTINELLI

mosi della storia del fotogiornalismo. Dalla Normandia, Robert Capa inviò all’ufficio di Londra quattro rulli, ma per la fretta di lavorarli, un tecnico di camera oscura aumentò eccessivamente la temperatura durante la fase di asciugamento, rovinando tutti i film, con l’esclusione di undici fotogrammi. O, perlomeno, questa sarebbe stata la versione del tecnico, e lui ci ha creduto per più o meno settanta anni. Tanto che, nel 2002, ricordando l’episodio, ha dichiarato alla National Public Radio: «Mi ero detto: non posso crederci. E andai a riguardare i rulli col tecnico. I primi tre erano fusi. Non si vedeva niente. Ma sul quarto rullo c’erano undici immagini accettabili. Quelle immagini ci hanno salvato e sono diventate iconiche del D-Day». Ma, più recentemente, John Morris ha dubitato dei propri ricordi, anche in seguito a nuove versioni della vicenda. Ripensandoci, l’errore in camera oscura non sembra il motivo per cui le fotografie di Robert Capa fossero così poche. E, lo scorso dicembre, ha confidato a James Estrin, del New York Times, che -probabilmente- Robert Capa fosse così scosso durante lo sbarco a Omaha Beach, che riuscì a scattare solo undici fotogrammi [«To these days it remains unclear what happened to Robert Capa’s missing photographs», a oggi non è mai stato chiarito cosa è veramente accaduto agli scatti mancanti di Robert Capa: questa specie di epitaffio chiude l’ultima intervista rilasciata da John Morris come contributo alla iniziativa di Time riservata a 100 Photographs, The Most Influential Images of All Time (http://100photos.time.com/)]. Qualche settimana dopo lo sbarco, John Morris stesso è andato in Normandia, per osservare il fronte con i suoi occhi e capire meglio le fotografie che aveva editato a Londra. Ottenuto il permesso per recarsi in Normandia, nel luglio 1944, trascorse un mese nella zona dei combattimenti, per Life e la Associated Press, in compagnia di vari fotografi, tra i quali Robert Capa. Entrambi rischiarono anche di essere colpiti, quando finirono sotto il fuoco di un drappello tedesco. John Morris lascia l’ufficio di Londra di Life alla fine della guerra e, dopo un breve periodo come responsabile dell’ufficio di Parigi, torna a New York, per diventare il picture editor di Ladies’

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VINCENZO COTTINELLI

Scomparsa

Home Journal [rivista femminile fondata nel 1883]. È una scelta singolare, considerato il tipo di fotogiornalismo nel quale è cresciuto. Ma, nel 1948, convince la redazione a pubblicare le fotografie di un reportage giornalistico dalla Russia realizzato da Robert Capa, in viaggio con lo scrittore John Steinbeck, e, in seguito, introduce nella rivista una rubrica, sempre di taglio giornalistico, People Are People the World Over (Le persone sono le stesse in tutto il mondo [probabilmente (?), da una citazione attribuita a George Aiken, politico repubblicano (18921984), anche governatore del Vermont (1937-1941) e senatore degli Stati Uniti per trentaquattro anni, dal 1941 al 1975: «People are people the world over. Some are good, some bad, some greedy and some generous. Nations are like people and act the same way» (Le persone sono le stesse in tutto il mondo. Alcune sono buone, alcune cattive, alcune avide e alcune generose. Le nazioni sono come le persone e agiscono nello stesso modo). A George Aiken si attribuisce anche un altro aforisma analogo: «Se dovessimo svegliarci una mattina e scoprire che tutti sono della stessa razza, credo e colore, troveremmo qualche altra causa di pregiudizio entro mezzogiorno». Magari a certificazione che la divisione con la quale,

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dall’Italia soprattutto, separiamo democratici da repubblicani statunitensi ha poco senso di esistere, rispetto forme etiche di esistenza e svolgimento dei propri incarichi pubblici]. Questa rubrica ispira, in parte, Edward Steichen nella produzione di The Family of Man, una mostra di cinquecentotré immagini realizzate con il contributo di duecentosettantatré fotografi, da sessantotto paesi, avviata al Museum of Modern Art, di New York, nel 1955 [esposta per la prima volta, dal ventiquattro gennaio all’otto maggio, è stata sistematicamente replicata nei decenni, in calendario itinerante (in Italia, a Torino, nel 1959); in esposizione permanente, dal 1994, è al Château de Clervaux, in Lussemburgo (da cui, l’emissione filatelica di un foglio Souvenir dello stesso Granducato di Lussemburgo, del 24 settembre 2013, celebrativo dell’allestimento, successivo al ricordo filatelico di Edward Steichen, del precedente 16 marzo 2004, lussemburghese nel mondo, nato Bivage, il 27 marzo 1879); dal 2003, è iscritta nel Registro Unesco come Memoria del Mondo; il volume-catalogo, pubblicato per l’occasione, è sistematicamente riedito, ed è ancora disponibile e facilmente reperibile]. La sua amicizia con Robert Capa porta John Morris a lasciare il Ladies’ Home Journal, per diventare il primo

Rencontres de la Photographie 2002, ad Arles, in Francia. Ricorda Vincenzo Cottinelli: «Stavo fotografando a braccio i visitatori delle mostre; noto una coppia di anziani, che si tengono affettuosamente per mano, sullo sfondo di una parete ricca e movimentata. Mi colpisce soprattutto la bella luce che dà l’idea di una festa del guardare. Ho tra le mani una Leica M7, con Tri-Elmar-M 16-18-21mm f/4 Asph, settato su 18mm, pellicola Tri-X. Scatto, ma non so chi siano i due; al momento, sono figure anonime. Anni dopo, tramite un’amica (Elena Ceratti) scopro che lui è John G. Morris con la moglie».

direttore esecutivo di Magnum Photos, l’agenzia fondata nel 1947 da Robert Capa, David “Chim” Seymour, Henri Cartier-Bresson, George Rodger e William Vandivert [tutti fotografi, insieme con Rita Vandivert e Maria Eisner]. Assunto nel 1953 come direttore degli uffici di New York e Parigi, John Morris si occupa sia della vendita delle fotografie ai giornali, sia di gestire una équipe di fotografi lunatici, sparsi un po’ dovunque, negli angoli più lontani del pianeta. Entro la fine del suo primo anno, già comincia a elaborare piani con Robert Capa su come ingrandire l’Agenzia e gestire meglio la direzione, ma tutto rimane invariato, e John Morris svolge contemporaneamente il ruolo di direttore e venditore per nove anni. Nel 1964, entra al Washington Post, con il titolo di Assistant Managing Editor. Tra i suoi compiti, la scelta della fotografia a colori della prima pagina. Il Post è stato uno dei primi grandi giornali a pubblicare fotografie a colori. Lascia il Washington Post dopo meno di un anno, per disaccordi con un vice direttore. Torna a New York, ed entra nello staff del New York Times, dove è picture editor dal 1967 al 1973, gli anni più intensi della guerra in Vietnam. Lasciato il posto di picture editor, viene nominato capo del NYT Pictures, un servizio del quotidiano creato per vendere le immagini prodotte dai fotografi dello staff. Lascia questo lavoro nel 1975. Torna a Parigi, nel 1983, subito dopo aver sposato Tana Hoban, una fotografa specializzata in libri per bambini. A Parigi, trascorre i successivi sei anni come editor di National Geographic. Ma torna spesso negli Stati Uniti, per prendere parte a giurie di concorsi di fotogiornalismo e tenere conferenze nelle scuole di giornalismo. John Morris era già stato vedovo due volte, prima di sposarsi con Tana Hoban, ed è rimasto vedovo una terza volta alla sua morte, nel 2006. La sua prima moglie, Mary Adele Crosby, con la quale ebbe quattro figli, morì nel 1964. Marjorie Smith, la sua seconda moglie, insegnante e madre di due figli, morì nel 1981 [attenzione: leggere la nota pubblicata il trentuno luglio dal New York Times, che trovate in fondo al testo]. Tra le onorificenze ricevute c’è la Légion d’honneur, consegnatagli nel 2009, e l’Infinity Award alla carriera,


Scomparsa GET THE PICTURE

Da non perdere! Un partecipe racconto dall’interno delle vicende del fotogiornalismo (statunitense) degli ultimi cinquant’anni: quello che, complice la Seconda guerra mondiale e seguiti, ha scritto la Storia contemporanea. In prima persona parla John G. Morris, uno dei protagonisti: corrispondente da Hollywood per Life, editor fotografico di Life da Londra durante la guerra, editor fotografico di Ladies’ Home Journal (un periodico che ha contribuito a tracciare il moderno stilema di illustrazione fotografica), primo direttore dell’agenzia Magnum Photos, editor fotografico al Washington Post e al New York Times, redattore e corrispondente di National Geographic. Pubblicato da Le Vespe, con il titolo Sguardi sul ’900, il lungo racconto narra la consapevole presenza dell’autore in Cinquant’anni di fotogiornalismo, come recita il sottotitolo. Dallo sbarco in Normandia (primo dei trentaquattro capitoli in cui il libro è diviso: Martedì fu un buon D-Day per Life) a conflitti sostanzialmente contemporanei (trentaquattresimo capitolo: La Guerra del Golfo) c’è tutto e ci sono tutti: fotografi, fotografie, appassionati e appassionanti dietro-le-quinte, affascinanti rivelazioni di prima mano (finalmente!) e osservazioni di eccezionale spessore. Per quanto il testo sia prezioso e qualificato, l’edizione libraria italiana ci è parsa sottotono rispetto l’originaria di Random House. Alla resa dei conti, banalizzando i richiami del volume, per richiamare un pubblico potenzialmente più vasto, si è corso il rischio di distogliere l’attenzione dalla sostanziosa concretezza della corrispondenza di John G. Morris. Anzitutto, rispetto la combinazione originaria Get the Picture: A Personal History of Photojournalism (Procurati la foto: una storia personale del fotogiornalismo; premiato nel 1998, anno di edizione, dalla United Nations Society of Writers and Artists), l’italiana Sguardi sul ’900. Cinquant’anni di fotogiornalismo scarta a lato il significato implicito del racconto. Dopo di che, soprattutto il nudo di copertina (anche se si tratta di Lee Miller, prima modella e poi corrispondente di guerra per Vogue, fotografata da Man Ray) non c’entra nulla con il libro nel proprio insieme. Infine, è completamente fuori luogo, e forzato, il richiamo in quarta di copertina «Nell’anno in cui ha chiuso Life, Le Vespe propongono la storia del fotogiornalismo raccontata da uno dei suoi protagonisti». Infatti, la più recente periodicità mensile di Life, interrotta lo scorso maggio [2000], alla quale ci si riferisce, ha avuto ben poco da spartire con il settimanale originario. Con una propria diversa dignità, e con un autonomo motivo di esistere, Life degli anni Ottanta e Novanta ha affrontato e approfondito tematiche sociali e politiche di spessore, assolutamente lontane dal pressante

fotogiornalismo assolto dal settimanale che durò dal 1936 al 1972, e che raggiunse il proprio culmine editoriale durante la guerra e negli anni seguenti, per tutti i Cinquanta e Sessanta. Nonostante le imperfezioni riscontrate, per quanti si occupano di fotografia, Sguardi sul ’900 è un libro più che prezioso, indispensabile addirittura. Lo ribadiamo: si tratta di un racconto dall’interno e non di una storia narrata per sentito dire, nel quale traspare soprattutto la dimensione “quotidiana” della fotografia di reportage; le memorie personali scorrono via senza la sovrastruttura storica del mito. E la qualità di scrittore di John G. Morris fa il resto: crea suspance, appassiona, lascia incantati, ammalia. Scrive l’autore «Sono un giornalista, non un reporter e non un fotografo. Sono un editor fotografico. Ho lavorato con fotografi, di cui alcuni famosi e altri sconosciuti, per oltre cinquant’anni. Ho assegnato loro degli incarichi, a volte solo con pochi suggerimenti occasionali, altre con istruzioni dettagliate, ma la sfida è ogni volta la stessa: procurati la foto. Ho accompagnato fotografi in innumerevoli missioni: ho portato la loro attrezzatura e tenuto le luci, li ho fatti puntare nella direzione giusta, se avevano bisogno di indicazioni. Ho sostenuto i loro alibi quando le cose andavano storte e ho festeggiato con loro quando andavano bene. Ho comprato e venduto le loro foto per un ammontare di milioni di dollari. Ho assunto decine di fotografi e, con gran dispiacere, ho dovuto licenziarne alcuni. Ho testimoniato per loro in tribunale, li ho accuditi quando erano feriti o ammalati, li ho salvati da uno sfratto, nutriti, sepolti. Ne ho accompagnati alcuni all’ufficio delle licenze matrimoniali, come loro testimone. Adesso sono sposato a una di loro. [...] «L’editor fotografico è il voyeur dei voyeur, la persona che vede quello che hanno visto i fotografi, ma nel regno asettico dei provini, delle prove di stampa, delle scatole grigie delle diapo e ora dei pixel su un monitor. L’editor fotografico trova la foto emblematica, l’immagine, che sarà vista da altri, forse da tutto il mondo. [...] «Questo libro parla di professionisti dell’immagine, ma riguarda anche tutti noi che le immagini le consumiamo. È un libro che racconta una vita trascorsa in mezzo alle fotografie, con gli uomini e le donne che le hanno scattate. Inevitabilmente, è anche la mia visione del tutto personale dei nostri tempi». Da leggere tutto d’un fiato, e da rileggere poi con più calma, da «Qualcosa mi svegliò presto la mattina di martedì 6 giugno 1944» a «Queste parole e immagini innominabili, insieme, possono ristabilire la verità dei nostri tempi». Maurizio Rebuzzini (in FOTOgraphia, del dicembre 2000) Il testo qui replicato, da un (ormai) antico numero di FOTOgraphia, si riferisce all’edizione originaria di Sguardi sul ’900. Cinquant’anni di fotogiornalismo, di John G. Morris (Le Vespe, 2000; con seconda edizione, con diversa illustrazione in copertina: W. Eugene Smith invece di Man Ray / Lee Miller). A seguire, nel 2011, il testo è stato rieditato da Contrasto: Get the picture, Una storia personale del fotogiornalismo (376 pagine 15x21cm; 21,90 euro / e-book; 10,99 euro).

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VINCENZO COTTINELLI

Scomparsa

assegnatogli a New York, nel 2010, dall’International Center of Photography, di New York. [Usanza americana è quella di segnalare, nei necrologi, chi rimane a piangere un caro che trapassa] Gli sopravvivono la sua ultima compagna, Patricia Trocmé, quattro figli di due matrimoni -John II, Chris, Kirk e Oliver- e quattro nipoti. Delle due figlie avute con Mary Adele Crosby, una è morta venendo alla luce, l’altra è mancata recentemente. La mossa forse più sfortunata della lunga carriera di John Morris è stata quella di portare W. Eugene Smith alla Magnum Photos, nel 1955, come associato, dopo che il fotografo aveva lasciato Life, per una disputa con i suoi redattori [il litigio con Life è dipeso, soprattutto, dal modo con cui la rivista ha pubblicato le sue fotografie del medico e filantropo Albert Schweitzer, documentato nel suo ospedale di Lambaréné, in Gabon]. W. Eugene Smith rimase alla Magnum Photos tre anni e mezzo. Una volta alla Magnum Photos, John Morris crea le basi affinché W. Eugene Smith svolga un breve incarico a Pittsburgh, per realizzare un libro sulla città [per commemorarne il duecentesimo compleanno], progettato da Stefan Lorant, altro celebre picture editor [di origine ungherese, come Robert

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Capa, regista e fondatore di giornali, tra i quali ricordiamo Lilliput e Picture Post]. W. Eugene Smith si trasferisce a Pittsburgh e vi rimane per un intero anno. Riprende più di undicimila immagini [uno dei monumenti più importanti della Storia della Fotografia]. Life è interessata a pubblicarne una selezione, ma l’autore insiste sul fatto che le fotografie migliori del lavoro debbano essere pubblicate in un inserto di sessanta pagine, all’interno della rivista. Life rifiuta, e le immagini appaiono su Photography Annual, una pubblicazione fotografica annuale, che gli dedica trentotto pagine. W. Eugene Smith si dimette da Magnum Photos, perché non riesce a produrre un fatturato adeguato, probabilmente a causa della sua ossessione per il progetto Pittsburgh, e perché non riesce a restituire un anticipo di settemila dollari avuto dall’Agenzia. Nonostante questa vicenda, John Morris rimane amico intimo di W. Eugene Smith. Quando il grande fotografo muore, nel 1978, John Morris viene nominato suo esecutore testamentario. Nel 1998, John Morris pubblica la sua autobiografia, Get the Picture: A Personal History of Photojournalism [prima edizione italiana, nel 2000, pubblicata da Le Vespe con il titolo (orrendo!) Sguardi sul ’900. Cinquant’anni di fotogiornalismo, che FOTOgraphia

Ancora testimonianza di Vincenzo Cottinelli: «Nel 2010, preparo una serie di stampe con dedica e dati, e organizzo un appuntamento con John Morris alla sede storica di Magnum Photos, in rue Hégésippe Moreau, a Parigi. Mi si fa incontro un bel signore, con una bellissima signora, che mi viene presentata come Pat Trocmé, sua moglie. Attimo di panico: gli porto le fotografie di lui con un’altra moglie? Dichiaro il mio imbarazzo, e Pat risponde che non c’è problema: lei era molto amica della precedente moglie, nel frattempo morta per malattia. Così, la visione delle mie stampe si svolge nella massima serenità, anche con divertimento».

ha presentato e commentato nel dicembre di quell’anno, da cui un attuale estratto, a pagina 17; di questa edizione John Morris ebbe a commentare con me: «Non avrei mai pensato che nella mia vita mi sarebbe capitato di pubblicare un libro con una donna nuda in copertina» (per quanto, ritratto di Lee Miller, firmato da Man Ray; in seconda edizione, sostituito da Mad Eyes, di W. Eugene Smith). Nel 2011, Contrasto pubblica una nuova edizione col titolo Get the picture. Una storia personale del fotogiornalismo]. Nonostante tutta la sua appassionata partecipazione al fotogiornalismo, John Morris non è mai stato interessato a scattare fotografie. In un’intervista, nel 2006, ha affermato che «Non scatto fotografie, a meno che non debba obbligatoriamente sostituire un fotografo che, per qualunque motivo, non è riuscito ad arrivare sul luogo in tempo». Ma se gli capita di scattarne, il risultato potrebbe anche essere memorabile. Infatti, quando arriva in Francia, nell’estate 1944, subito dopo lo sbarco in Normandia, usa una Rolleiflex per fotografare appena dietro il fronte dei combattimenti. Le immagini vengono pubblicate per la prima volta in Francia solo nel 2014, in un libro intitolato Quelque part en France - L’été 1944 (Marabout editore) ed esposte presso l’International Center of Photography, di New York, nell’estate 2014: Somewhere in France: John G. Morris and the Summer of 1944. Nell’intervista già citata, del 2006, John Morris approfondisce quali sono, a suo parere, le qualità essenziali di un fotogiornalista: «Il tempo è tutto nella fotografia, non solo i tempi dell’otturatore; occorre sapere quando lavorare e quando non lavorare, quando scattare e quando trattenersi. I grandi fotografi devono avere tre doti: il cuore, se andranno a fotografare la gente; l’occhio, ovviamente, per essere in grado di comporre; e un cervello, per pensare a quello che stanno inquadrando. Troppi fotografi ne hanno solo due, ma non la terza». ❖ Nota del trentuno luglio: una versione precedente di questo necrologio ha erroneamente indicato che la madre delle due figlie defunte di John Morris fu la seconda moglie Marjorie Smith. In realtà, la madre delle due figlie fu la sua prima moglie, Mary Adele Crosby, che morì dando alla luce la seconda.



Anche questo di Lello Piazza

MACACO... FOTOGRAFO

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DAVID SLATER (4)

V

Vi propongo una storia che riguarda un improbabile selfie, scattato da una scimmia. Ci sono diversi “perché” che motivano questa proposta, li elenco per cinque punti, e poi procederò nei rispettivi approfondimenti, in analisi. Comunque, e in anticipo su tutto, è evidente che l’argomento merita tanta e tanta attenzione, sia dal punto di vista “evolutivo” della socialità fotografica (in questo caso, “evolutivo” ci sta bene, nel proprio doppio senso), sia da quello più ampio e generale, nel consueto spirito di quella curiosità che non deve mai mancare alla nostra frequentazione della materia. Con ordine, i cinque punti annunciati. Uno. Perché, nonostante la mia passione per la fotografia del mondo naturale, nonostante tutto lo scibile umano non sia più sparso per il mondo, ma sia lì, bello comodo, proprio dietro il monitor del mio computer, a volte mi sfuggono notizie veramente curiose, come quella di cui parlerò. La notizia risale al 2012, per fotografie scattate nel 2011, ma è tornata di cronaca recentemente, per una diatriba di copyright. Due. Perché sospetto che, come spesso si dice, i fotografi qualche volta le sparino grosse. Tre. Perché, a quanto ne so, nel 1978, fu realizzato l’unico autoritratto vero di una scimmia. L’autoritratto divenne tanto famoso, da guadagnarsi la copertina di National Geographic Magazine (ottobre 1978 [a pagina 22]). In quel caso, non era celebre solo l’autoritratto, ma lo era anche la scimmia che lo aveva realizzato: un gorilla di pianura (Gorilla gorilla gorilla), femmina di sette anni di nome Koko, conosciuta e famosa per essere capace di ben altre prestazioni, oltre a quella di autofotografarsi. Quattro. Perché voglio ringraziare quel baluardo della cultura fotografica mondiale rappresentato da FOTO graphia, che, a volte, dedica la propria copertina al ritratto di un animale. Una specie di “Let Us Now Praise Famous Magazines” (Sia lode ora a riviste di fama... in parafrasi dal celeberrimo testo di James Agee, negli

Nel 2011, durante un viaggio in Indonesia, per un servizio sui macachi cinopitechi ( Macaca nigra), il fotografo David Slater, qui con un macaco e con una delle fotografie in questione, lasciò la propria macchina fotografica su un treppiedi, abbandonando il comando a distanza dallo scatto. Una femmina ha schiacciato più volte il dispositivo, realizzando dei selfie (due qui riproposti). Recentemente, è sorta una diatriba sul copyright, a proposito del quale qui approfondiamo.

Stati Uniti, nel 1941, in Italia, dal 1994, che il mondo fotografico considera soprattutto -soltanto?- per l’apparato fotografico di Walker Evans). Cinque. Perché non mi era mai capitato di sentire una discussione così divertente sul copyright. Procedo con ordine. Il primo punto ha origine dalla fatica che sempre di più costa sopportare questo mondo, dove bisogna (bisognerebbe) andare su Facebook, Instagram, Twitter, eccetera, mille volte al giorno, a caccia di milioni di like. Ma sappiamo che il mondo gira, non possiamo scendere, e mi conviene passare al secondo punto. Per correttezza, però, dichiaro che, più avanti, mi approprierò di parte di un testo che

potete leggere in versione completa a https://it.wikipedia.org/wiki/Autoscatto _del_macaco (qui sarebbe da celebrare anche Wikipedia, che propone un sacco di argomenti, non solo del tipo di quelli che si trovavano nelle enciclopedie classiche). Dunque, da Wikipedia: «Nel 2011, durante un viaggio in Indonesia, per un servizio sui macachi cinopitechi (Macaca nigra), David Slater lasciò la propria macchina fotografica su un treppiedi, abbandonando il comando a distanza dello scatto inserito, a disposizione dei macachi. Una femmina schiacciò più volte il dispositivo, scattando diverse fotografie: molte risultarono non utilizzabili, ma alcune presentavano chiare inquadrature del macaco,


Anche questo IL PIANETA DELLE SCIMMIE

dal desiderio di vendicare la sua famiglia. E via, avanti con la storia. Nelle intenzioni di questa trilogia (che, magari, continuerà ancora in avanti) c’è l’esplicita cadenza di come, quando e perché, sulla Terra, le scimmie si siano sostituite agli umani nel dominio del pianeta. Il balzo avanti nell’evoluzione è tema portante del primo film della serie, L’alba del pianeta delle scimmie, nel quale si ha la nascita di Cesare, scimpanzé figlio della cavia Occhi Luminosi, sulla quale sperimenta Will Rodman, scienziato che sta studiano un medicinale genico per curare la degenerazione da Alzheimer. Per quanto la ricerca venga soppressa, Will Rodman è talmente convinto degli studi condotti da curare il proprio padre, per l’appunto affetto da Alzheimer, e da salvare Cesare, che inizia a vivere a casa sua, dove rivela capacità di apprendimento estremamente alte... e, poi, la storia si complica, fino alla fuga di Cesare, a capo di un esercito di primati, liberati da gabbie di contenzione. In precedenza, la storia del cinema ha conteggiato altre sceneggiature in sequenza, che -comprese queste ultime tre- porta a nove i titoli dell’epopea delle scimmie... a capo del pianeta. Con ordine. I primi cinque film (1968-1973), prodotti da Arthur P. Jacobs, sono effettivamente basati sul romanzo originario di Pierre Boulle, appena richiamato. I film cadenzano i tempi della scomparsa dell’umanità e dell’ascesa di scimmie intelligenti ed evolute; sono narrati dal punto di vista dell’astronauta George Taylor (interpretato da Charlton Heston, in cameo nel successivo remake Planet of the Apes - Il pianeta delle scimmie, di Tim Burton, del 2001) e delle scimmie Zira (Kim Hunter), Cornelius (Roddy McDowall) e Cesare, loro figlio. Da notare che il primo film originario, Il pianeta delle scimmie, del 1968, fu co-sceneggiato da Rod Serling, l’autorevole creatore delle serie televisiva Ai confini della realtà, uno dei cult senza tempo [FOTOgraphia, ottobre 2006 e dicembre 2006, in relazione all’episodio Un’insolita macchina fotografica, del 1960]. Comunque, ecco i cinque titoli in sequenza della serie originaria: Il pianeta delle scimmie, di Franklin J. Schaffner, del 1968 [in FOTOgraphia, dell’ottobre 2009, in relazione a una trasversalità fotografica, qui riproposta]; L’altra faccia del pianeta delle scimmie, di Ted Post, del 1970; Fuga dal pianeta delle scimmie, di Don Taylor, del 1971; 1999 - Conquista della Terra, di J. Lee Thompson, del 1972; Anno 2670 - Ultimo atto, ancora di Lee Thompson, del 1973. Nel 2001, si registra Planet of the Apes - Il pianeta delle scimmie, remake del film originario del 1968. Diretta da Tim Burton, la sceneggiatura si distacca dal libro di Pierre Boulle e fa ampio utilizzo di effetti speciali innovativi e make-up per le scimmie. Quindi, dal 2011, gli ulteriori tre titoli in serie reboot (riavvio), dalla quale siamo partiti, in attualità temporale.

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2)

Se avessimo voglia di approfondire, con dati certi, potremmo avere conferma che la saga del Pianeta delle scimmie è una delle più prolifiche della storia del cinema, con ulteriori allunghi su serie televisive, fumetti e videogiochi. Tutto sommato, non ci interessa proprio farlo, e rimaniamo nella nostra beata convinzione, senza l’ausilio di alcun conforto ufficiale, totalmente superfluo in questo ambito attuale, a contorno e integrazione e complemento dell’argomento principale, affrontato e svolto, da par suo, dall’intrepido Lello Piazza. Nelle sale cinematografiche italiane da luglio, l’ennesimo capitolo The War - Il pianeta delle scimmie (War for the Planet of the Apes), di Matt Reaves, è il terzo titolo delle avventure avviate, nel 2011, con l’originario L’alba del pianeta delle scimmie (Rise of the Planet of the Apes, diretto da Rupert Wyatt), e proseguite con il secondo Apes Revolution - Il pianeta delle scimmie (Dawn of the Planet of the Apes), del 2014, ancora diretto da Matt Reaves. Questi sequel riprendono e ripropongono un tema cinematografico antico, che riassumeremo più avanti (comunque, e in anticipo su tanto, ricordiamo che tutte le sceneggiature qui assimilabili sono sempre ispirate al romanzo Il pianeta delle scimmie, di Pierre Boulle, del 1963), creando una sorta di svolgimento temporale plausibile... in relazione e dipendenza dalla cadenza del racconto cinematografico. L’attuale The War - Il pianeta delle scimmie si svolge due anni dopo gli eventi sceneggiati nell’immediatamente precedente Apes Revolution - Il pianeta delle scimmie: la guerra tra le scimmie, guidate dallo scimpanzé Cesare (caratterizzato dall’attore Andy Serkis), protagonista della vicenda, ovvero alla base dell’evoluzione sostanziosa e sostanziale dei primati, e gli umani sopravvissuti a un nefasto virus che ha sterminato/decimato la razza umana. A seguito di una feroce battaglia nella foresta, Cesare libera i soldati umani catturati e li rimanda dal loro leader, il Colonnello, con il messaggio che se gli umani lasceranno in pace le scimmie, non ci saranno più scontri. Quindi, Cesare e i suoi riprendono la propria esistenza nella nuova colonia allestita in una grotta nascosta dietro una cascata, A questo punto, Occhi Blu, il figlio di Cesare, rientra da una escursione territoriale, riferendo di aver individuato un luogo, oltre il deserto, in cui le scimmie potranno costruire una nuova casa al sicuro dagli umani. Winter, gorilla albino al fedele servizio di Cesare, insiste nel voler partire quella notte stessa, ma Cesare tentenna e rimanda. Di notte, la colonia viene attaccata da un gruppo di soldati, capeggiato dal Colonnello (interpretato da Woody Harrelson), che uccide la moglie di Cesare e il figlio Occhi Blu. Il mattino dopo, terminato l’attacco, Cesare invia il proprio branco verso la nuova terra da colonizzare, e affida il suo unico figlio sopravvissuto, Cornelius, a Lake, la compagna di Occhi Blu; dopodiché, parte alla ricerca del Colonnello, infiammato

Da Il pianeta delle scimmie, di Franklin J. Schaffner, del 1968, film originario della saga che si è allungata su cinque titoli, più altri quattro in aggiunta recente: fotoricordo dei gorilla, dopo una battuta di caccia, con le prede ai propri piedi. Si riconosce perfettamente il volet in plastica dello châssis Fidelity: leggerezza scenografica.

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ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2)

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che lo stesso David Slater distribuì, definendole “autoscatto del macaco”». Non c’ero, non ho visto, ma ritengo estremamente improbabile che siano davvero autoscatti. Il Macaca nigra è sicuramente una scimmia alquanto intelligente. Ma le scimmie (e gli umani) non nascono imparate. Mettiamo pure che un comando a distanza sia finito nelle mani di una femmina di macaco. Mettiamo pure che le femmine (come capita con gli umani) siano più ingegnose dei maschi. Ma ho osservato il comportamento di varie specie di scimmie (amadriadi, scimpanzé), negli zoo. Quando capita loro nelle mani un oggetto che non hanno mai visto prima, la loro curiosità le spinge a cercare di capire cosa è. Lo guardano intensa-

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Il gorilla Koko, con il quale ha operato Francine Patterson, della Stanford University, in autoritratto allo specchio: copertina di National Geographic Magazine, dell’ottobre 1978.

Macaco fotografato da Stefano Unterthiner, primo posto nella categoria Animal Portraits, al Wildlife Photographer of the Year 2008.

mente, lo manipolano (in questo caso facendo magari scattare la macchina fotografica). Ma che siano in grado di usare il telecomando, senza guardarlo, ma fissando in macchina, dentro l’obiettivo, e molto da vicino, beh, mi sembra -ripeto- molto improbabile. Passando al terzo punto, non mi stupisce invece l’autoscatto pubblicato sulla copertina di National Geographic Magazine, dell’ottobre 1978. Dopo sei anni di lavoro con Koko, Francine Patterson, all’epoca dottoranda alla Stanford University, aveva dimostrato che il gorilla era in grado di comunicare con trecentosettantacinque segni diversi, con i quali poteva indicare, per esempio, aeroplano, ombelico, lecca lecca, stetoscopio, mac-

china fotografica, eccetera, e di manifestare felicità o tristezza. Utilizzava regolarmente una Polaroid, ma -con un po’ più di impegnosapeva anche scattare con reflex più complicate, come la Olympus OM-2, con la quale ha realizzato il ritratto della copertina, inquadrando la sua figura riflessa da uno specchio. Non bastasse, osservando una stampa, Koko si è riconosciuta e, con i suoi gesti, ha comunicato a Francine Patterson: «macchina fotografica», «amore». Quindi, stiamo parlando di una scimmia particolarmente dotata, che ha “studiato”, e non di un esemplare che vive in foresta e che non ha mai visto, né avvicinato, un comando a distanza nella propria vita.


Evoluzione della specie... forse. Come rilevato da Lello Piazza, nel corpo centrale dell’odierno intervento redazionale, sulla copertina di National Geographic Magazine, dell’ottobre 1978, è illustrato un gorilla che impugna una reflex Olympus OM-2 [pagina accanto]. L’immagine è rovescia, perché il gorilla si è fotografato allo specchio. Questa fotografia fa parte di un lungo servizio che l’autorevole periodico -ai tempi forse più autorevole di oggi, quantomeno dal punto di vista del seguito di pubblico, che allora superava abbondantemente i dodici milioni di copie mensili (solo in abbonamento)ha riservato alle facoltà intellettive dei gorilla, per le quali certificano una serie di esperimenti condotti negli Stati Uniti. La fotografia, eccoci, tra questi. Allo stesso momento, per completare l’argomento, segnaliamo la visualizzazione dell’ Evoluzione della specie, dello Zoo di Zurigo, in Svizzera: dalla Scimmia all’Uomo, che si presenta con la macchina fotografica al collo. Simbolo di evoluzione? Oppure è questo il leggendario “fotoamatore evoluto”, del quale sentiamo spesso parlare, e non condividiamo affatto la definizione (alla quale preferiamo “fotografo non professionista”: ne abbiamo dibattuto in tante occasioni). Chi e quale è, il “fotoamatore evoluto”? Quello che, rispetto al “non evoluto” e ad altri primati, ha il pollice opponibile?

STEVE WINTER

MAURIZIO REBUZZINI

Anche questo

Passando al quarto punto, cioè a FOTOgraphia del febbraio 2009, l’immagine di copertina fu scattata da Stefano Unterthiner, uno dei più brillanti fotografi naturalisti a livello mondiale. La fotografia gli valse il primo posto nella categoria Animal Portraits del Wildlife Photographer of the Year 2008. Perché la cito? Perché mostra chiaramente come sia facile avvicinarsi ai macachi e riprendere immagini veramente molto simili ai selfie, dichiarati da David Slater. Approdando, finalmente, al quinto punto, ecco quanto riporta Wikipedia: «Le prime discussioni sul diritto d’autore rivendicato dal fotografo David Slater iniziarono sul blog economico-giuridico Techdirt.com, che sosteneva che la fotografia fosse di pubblico dominio, per-

ché la scimmia, non possedendo alcuna personalità giuridica, non era in grado di detenere il diritto d’autore conseguente; dall’altro lato, si evidenziava che neppure il fotografo David Slater possiede il copyright della fotografia, perché -appunto- non era stato coinvolto nell’evento creativo (scatto della fotografia), da lui non voluto». Non è grottesco? E, allora... i fotografi che ottengono straordinarie immagini di animali appartenenti a specie molto elusive con le trappole fotografiche? Trappole che rappresentano l’unica tecnica per riuscire a fotografare queste specie, come il rarissimo leopardo dell’Amur (Panthera pardus orientalis). Cosa facciamo? Togliamo il titolo di Wildlife Photographer of the

Leopardo dell’Amur ( Panthera pardus orientalis) fotografato da Steve Winter, primo premio assoluto al Wildlife Photographer of the Year 2008 [ FOTOgraphia, febbraio 2009; e poi, nel giugno 2014, in allineamento a una sequenza scenografica del film I sogni segreti di Walter Mitty], dopo oltre un anno di appostamento.

Year 2008 a Steve Winter [FOTOgraphia, febbraio 2009; e poi, nel giugno 2014, in allineamento a una sequenza scenografica del film I sogni segreti di Walter Mitty ], e lo consegniamo al leopardo che “si è fotografato” con la trappola? Anzi, non lo assegniamo neppure a lui, perché non è umano? Commentando la sua (autentica) impresa, Steve Winter affermò: «Il mio progetto ha coinvolto quattordici macchine fotografiche comandate da fotocellule, che sono state disposte, in momenti diversi, in quarantacinque posizioni individuate su quello che sapevo essere un percorso abituale del leopardo. Si è trattato di fortuna. Nei primi cinque mesi di lavoro, per esempio, dagli scatti di tutte le quattordici macchine fotografiche, ho ottenuto solo la fotografia di mezzo leopardo rimasto sul fotogramma. Dopo tredici mesi, però, sono stato fortunato, e ho ottenuto l’inquadratura con la quale ho vinto il concorso». Concludo, citando ancora Wikipedia: «Il 22 dicembre 2014, l’Ufficio per il diritto d’autore degli Stati Uniti ha chiarito la propria prassi, affermando esplicitamente che le opere create da non-umani non sono soggette al diritto d’autore, includendo nell’elenco degli esempi una “fotografia scattata da una scimmia” e un “affresco dipinto da un elefante”». Che si tratti di una ciliegina sulla torta della assurdità? Infine, che si tratti di selfie o no, secondo me, il copyright delle immagini va a David Slater, autore del progetto, come a Maurizio Cattelan vanno i diritti delle opere che inventa, anche se sono i suoi fedeli artigiani a realizzarle. ❖

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Il marchio fotografico Nikon, a tutti gli effetti uno dei più celebri e celebrati della tecnica fotografica, è attribuito dalla produzione ottica nata Nippon Kōgaku Kōgyō Kabushikigaisha (Ko = luce; gaku = studio), il 25 luglio 1917, ovvero cento anni fa, dalla fusione di tre precedenti industrie ottiche giapponesi: Tokyo Keiki Seisaku Sho (1896), Iwaki Glass Seisaku Sho (1883) e Fuji Lens Seizo Sho (1909; confluita nel dicembre dello stesso 1917). L’indirizzo originario della Nippon Kōgaku K. K. fu rivolto alla progettazione e produzione di strumenti ottici di precisione per la Marina Imperiale Giapponese. La fotografia, così come la intendiamo sempre, arrivò all’indomani della Seconda guerra mondiale, dal 1948

EPOPEA REFLEX S di Antonio Bordoni

trano e curioso quel 1917 (cento anni fa) di Prima guerra mondiale, ai tempi conteggiata soltanto Grande guerra (quando non era stato ancora necessario contarle). In autunno, la rivoluzione contro lo Zar, porterà alla nascita dell’Unione Sovietica. Nel frattempo, il Giappone in armi -alleato della Triplice Intesa (Gran Bretagna, Francia e Russia), che svolse un ruolo importante nelle rotte del Pacifico meridionale e dell’Oceano Indiano, contro la Kaiserliche Marine, la marina militare creata alla formazione dell’Impero tedesco- ha bisogno di un’industria ottica alternativa ai marchi soltanto europei, soprattutto tedeschi, che ai tempi dominavano il mercato in regime di sostanziale monopolio. Sottolineiamo che, ironia della storia, prima di altre successive alleanze militari, che sarebbero maturate nei decenni successivi, culminando nell’Asse con il Reich di Adolf Hitler e l’Italia di Benito Mussolini, sui campi di battaglia della Seconda guerra mondiale, l’Impero giapponese era allora alleato con Inghilterra, Francia, Stati Uniti (entrati in guerra il 6 aprile 1917), Russia zarista (uscita dal conflitto nel 1917) e Italia (intervenuta il 24 maggio 1915), contro gli imperi centrali (Germania, Austria-Ungheria, Turchia e Bulgaria). Comunque, appunto per motivi strategici e di sicurezza nazionale, era necessaria una industria ottica indipendente dall’estero, soprattutto dalla Germania.

Così, all’indomani della propria costituzione, nel 1918, la Nippon Kōgaku avviò una fonderia per la produzione e lavorazione in proprio di vetri ottici, precedentemente importati dalla tedesca Schott, dipendenza della Carl Zeiss di Jena. Nello scorrere del tempo, giusto questa specializzazione, alle origini della tecnologia Nikon, alla cui base ci sta anche la consulenza di otto tecnici tedeschi, che nel 1921 indirizzarono la ricerca, si rivelerà elemento fondamentale nella sua storia aziendale. (Considerazione d’obbligo: non stiamo per stilare la Storia Nikon, in occasione dell’attuale centenario 1917-2017, peraltro sottolineato da un annuncio specifico, che dallo scorso luglio è pubblicato in quarta di copertina di FOTOgraphia. Eventualmente, questo compito spetta ad altri, più competenti di quanto possiamo esserlo noi e -comunque- accreditati a farlo. Per quanto ci riguarda, noi stiamo per attingere soltanto al ricordo personale, all’emozione individuale, maturata in decenni di frequentazione -spesso tormentata, raramente gratificante- del mondo fotografico, senza alcuna soluzione di continuità, dalla tecnica/tecnologia al linguaggio, alla storia, alla socialità, al costume... al piacere di una competenza e alla voglia della sua relativa condivisione. Con capacità di farlo, questo va detto!). Nel 1932, venne registrata la definizione “Nikkor”, derivante dalla grande valle giapponese ricca di templi e religiosità (Nikko), combinata con il finale “r” della consuetudine tedesca della enunciazione degli obiettivi: Carl Zeiss (Tessar, Planar, Sonnar,

In stretto ordine temporale, la Nikon D850 è novità tecnico-commerciale dei nostri giorni: sensore pieno formato FX, risoluzione di 45,4 Megapixel effettivi, scatto continuo fino a nove fotogrammi al secondo, registrazione video in 4K e tanto altro ancora, da presentare e approfondire in tempi e spazi adeguati.


“Made in Occupied Japan” su Nikon I (1948). (centro pagina) Annuncio pubblicitario Nikon I, 24x32mm; pubblicità statunitense della Nikon S2 (1954); monografia This is War!, di David Douglas Duncan, del 1951. Nikon I (1948). Nikon S (1951). Nikon S2 (1954).

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Biotar), Voigtländer (Apo-Lanthar, Heliar, Skopar, Collinear, Telomar), Goerz (Dagor, Dogmar, Pantar, Artar, Geodar, Geotar, Telegor), Ernemann (Ernostar), Leitz/Leica (Elmar, Summar, Thambar, Hektor, Summitar). Gli stessi anni Trenta impegnarono la ricerca e sviluppo Nippon Kōgaku nella progettazione ottica per fotografia, fino allora estranea agli intendimenti originari: per combinazioni generiche con apparecchi di diversa provenienza, come il Nikkor 10,5cm f/4,5 su otturatore centrale Compur, del 1932, destinato ad apparecchi a soffietto, soprattutto per il formato di ripresa 6x9cm (ai tempi, alternativamente da pellicola a rullo 120 e 620). Quindi, nell’agosto 1937, fu creata la prima serie di tre obiettivi standard finalizzati alla fotografia 24x36mm, rispettivamente 50mm (per la verità 5cm) f/4,5, f/3,5 e f/2, che accompagnarono (da

credere?!) l’originaria Hansa Canon a telemetro, sostanzialmente derivata dalla Leica II, la prima con marchio “Canon” (successiva a precedenti configurazioni Kwanon). Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, tutta la produzione ottica venne indirizzata verso apparecchiature di interesse militare; va ricordato che le due corazzate nipponiche Musashi e Yamato (le più grandi mai costruite al mondo), furono dotate di sistemi ottici Nippon Kōgaku. Nello stesso tempo, l’alleanza con la Germania consentì di intensificare i rapporti aziendali con la tedesca Carl Zeiss, allora con sede a Jena, la più consolidata produzione europea (e mondiale) di lenti e obiettivi. Con lettura storica a posteriori, a questo rapporto privilegiato si deve l’ispirazione/derivazione Contax dei primi apparecchi Nikon a telemetro, che sarebbero stati pro-


zialmente più remunerativa degli strumenti ottici prodotti e commercializzati in precedenza.

ANTONIO BORDONI

gettati e prodotti alla fine della guerra, quando altri marchi giapponesi (e orientali e statunitensi ed europei) si ispirarono, invece, alla Leica, tanto da poterne conteggiare oltre trecento copie, create in tutto il mondo nei dieci-quindici anni successivi al 1945. Curiosamente, la storia Nikon (cominciamo a identificarla così) ricalca, però, una precedente vicenda Leitz/Leica. Così come la produzione ottica di Wetzlar approdò alla fotografia all’indomani della Prima guerra mondiale, per certi versi a seguito della crisi economica che sconvolse la Germania sconfitta, dando appunto fiato e fiducia all’indirizzo fotografico (con l’originaria Leica I, del 1925, su base UR, del precedente 1913, o 1914), anche il progetto della Nikon a telemetro risponde a una ricerca di nuovi mercati, da affrontare in un momento difficile dell’economia nazionale. Proprio la fotografia risultò allora poten-

TELEMETRO ORIGINARIO Nel 1946, fu avviata una produzione sperimentale di venti apparecchi a telemetro, identificati con un riferimento combinato dalle iniziali Nippon Kōgaku, al quale fu aggiunta una “n” finale, che ne migliorava la pronuncia in tutto il mondo: appunto, “Nikon”. La configurazione definitiva Nikon I è del 1948 [pagina accanto]: apparecchio a telemetro di ispirazione Contax, dalla cui costruzione ereditò anche il dorso estraibile, non incernierato, che verrà conservato fino alla reflex Nikon F, del successivo 1959. Curiosamente, il formato di esposizione della Nikon I non è 24x36mm, ma 24x32mm [qui sotto, in centro pagina], identificato come “Japan Size”

Per decenni, la chiusura a molla dei tappi anteriori dell’obiettivo, comandata da due clip, è stata brevetto Nikon. Nel corso del tempo, è cambiata sia la loro configurazione, sia la loro grafica, a partire dalle stesse clip e dai diametri inferiori allo standard 52mm, adottato dalla reflex Nikon F, del 1959.

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA

QUEL LIBRO ROSSO!

Curiosamente coevo al Libretto rosso per eccellenza e antonomasia, ovvero all’ufficiale Citazioni dalle opere del presidente Mao Tse-tung (secondo la traduzione/grafia del tempo, oggi sostituita dalla più corretta Mao Zedong), Il libro Nikon è altrettanto noto e conosciuto come Il libro rosso. Là, si trattava di un’antologia di testi estrapolati dagli scritti e dai discorsi di Mao Zedong, in origine con prefazione di Lin Piao (oggi, Lin Biao) -poi cancellata, all’indomani della caduta del delfino del presidente-, che divenne simbolo della (famigerata) Grande rivoluzione culturale proletaria (1956-1969). Qui, più prosaicamente, di una guida sul sistema fotografico Nikon, compilata alla fine degli anni Sessanta, in tempi di Nikon F. Là, si stima una diffusione di circa novecento milioni di copie, nella sola Repubblica Popolare Cinese, più traduzioni in tutte, proprio tutte, le lingue. Qui, si fa bandiera e vanto di una edizione italiana «da tempo attesa». Altro parallelo, poi basta: là, si creò la base ideologica di una trasformazione politica nazionale, che avrebbe influito sui movimenti giovanili di fine anni Sessanta, in tutto il mondo; qui, ci si accontentò di prendere atto della sostanziosa diffusione di reflex Nikon F di importazione non ufficiale (parallela, piuttosto che “di contrabbando” esplicito: condizioni dei tempi), con relativa fornitura di una sorta di libretto di istruzioni certificato. Ufficialmente, la pubblicazione del Libro Nikon è attribuita a ComproCasa, emanazioni dell’allora distributore Cofas, di Roma. Altrettanto ufficialmente, la sua compilazione è firmata Giorgio Bianchi. Oggi, però, sappiamo che l’autentica mente pensante e agente, dietro-le-quinte, fu Giulio Forti, in anticipo sulla sua successiva direzione del mensile Fotografare, allora incontrastato leader di mercato, con oltre centomila copie di venduto (oggi, la testata fotografica che può ancora vantarsi leader sta abbondantemente sotto le diecimila!), e, ancora, sulla sua creazione e direzione di Reflex, quindi Fotografia Reflex, in edicola fino allo scorso settembre 2016. Quindi, in questo senso, non ci interessa appurare alcuna dietrologia della successiva edizione di un ulteriore Libro Nikon, del 1973, in tempi Nikon F2, con copertina blu. Infatti, il Libro Nikon per eccellenza è giusto quello originario, rosso. Il secondo titolo ha cercato di rinvigorirne lo spirito, in aggiornamento tecnico-commerciale, senza peraltro raggiungere il valore del primo, sia nei testi, sia nella trattazione, sia nelle illustrazioni a corredo. E, oggi, se serve farlo, possiamo registrare e riscontrare questa sostanziosa dicotomia anche sul mercato bibliografico antiquario: con quotazioni estremamente differenziate e variabili tra le due pubblicazioni.

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Nikon SP (1957). Nikon S3 (1958). Nikon S3M (1960).

(centro pagina) Una delle prime citazioni Nikon al cinema si individua nel posato dell’attore Anthony Franciosa (Anthony Papaleo), con Nikon SP, promozionale della sua interpretazione nel film La ragazza yè yè ( The Swinger), di George Sidney, del 1966.

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(o “Nippon Size”, in altre rievocazioni storiche), proporzionale ai tagli di carta sensibile e più vicino allo standard statunitense 4:5 (dal 4x5 pollici all’8x10 pollici / 10,2x12,7cm e 20,4x25,4cm) di quanto non lo sia il rettangolo 24x36mm (ovvero, 2:3). Sul fondello, questa Nikon I porta l’indicazione “Made in Occupied Japan”, che certifica la sua costruzione nel Giappone occupato (dagli Stati Uniti) [a pagina 26]. Non sarà ancora 24x36mm anche per le successive Nikon M (derivazione diretta dell’originaria Nikon I) e Nikon S (che dà una scossa all’insieme delle caratteristiche tecniche e di uso [a pagina 26]), rispettivamente datate 1949 (altrove, 1950) e 1951. Dalla Nikon S2, del 1954 [a pagina 26], che segue la precedente “S”, tratteggiando i termini di una autentica genìa di quattro modelli in linea diretta, fino alla S3, tutto rientra nella norma del formato fotogra-

fico standardizzato 24x36mm [in questa pagina]. Comunque, in questi primi anni Cinquanta, prende avvio la fama Nikon, le cui configurazioni originarie a telemetro sono usate dai fotoreporter statunitensi impegnati nella guerra di Corea (19501953), che apprezzarono la qualità dei suoi obiettivi e la versatilità del corpo macchina: a pagina 27, una testimonianza di David Douglas Duncan. Con mirini dotati di cornici luminose per combinazioni ottiche diverse -a ciascun apparecchio la propria-, è telemetro per l’intero decennio: Nikon SP (1957 [in questa pagina; e nell’annuncio Nikon 100th anniversary / FOTOgraphia appena menzionato]), Nikon S3 (1958 [sempre, in questa pagina]), Nikon S4 (1959) e Nikon S3M (1960; per il mezzo formato 18x24mm su pellicola 35mm [ancora, in questa pagina]). E sarà ritorno al telemetro con le celebrative


Nikon S3 Y2k del Millennio (2000; FOTOgraphia, maggio 2001) e Nikon SP Limited Edition, del 2005.

QUINDI, REFLEX Nel 1959, nasce la reflex che imprime il proprio valore e prestigio nella Storia: Nikon F a sistema [in questa pagina; e nell’annuncio Nikon 100th anniversary / FOTOgraphia già menzionato], che nel 1962 acquisisce la prima versione del mirino esposimetrico Photomic (perfezionato nel corso degli anni, per tutto il decennio [sempre in questa pagina]). A ritmo di decadi, le Nikon reflex a sistema diventano F2 (1971 [a pagina 30]), F3 (1980; FOTO graphia, marzo 1998), F4 e F4s (1988), F5 (1996; FOTOgraphia, settembre 1996) e definitiva F6 (2004; FOTOgraphia, novembre 2004). Oltre le sistematiche interpretazioni dei mirini esposimetrici

Photomic, nella successione, annotiamo anche altre configurazioni particolari e/o speciali: tra le quali, ricordiamo Nikon F Photomic FTn Nasa (1967), F2 Titan (1976), F2 25th Year Anniversary, F2 Gold, F2 Data e F2 Speed Motor Drive Camera (1976); ancora, Nikon F3HP (1982 [a pagina 30]), F3AF (1983), F3 Limited (1983), F4 Press (1988), F5 del cinquantenario (1998). Dopo qualche Nikkorex a obiettivo fisso, anche zoom, è definitivamente Nikkormat a obiettivi intercambiabili con la prima versione FT, del 1965 [a pagina 31]: reflex Nikon non a sistema, in appoggio alla reflex di vertice (Nikomat in altri mercati, tra i quali quelli statunitense e giapponese). Evoluzione dopo evoluzione, in anni nei quali il mercato era sostanzialmente stabile per tempi allungati -FS del 1965, FTn del 1967, FT2 del 1975

Nikon F (1959). Nikon F Photomic FTn (1968).

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e FT3 del 1977-, la Nikkormat diventa automatica a priorità dei diaframmi dalla EL, del 1972 (ELW, nel 1976); e, poi, ogni reflex sarà definitivamente “Nikon” dalla EM del 1979 (altrove 1980; due anni dopo la prima FM, già “Nikon” nel 1977), la cui linea evolutiva diretta registra le Nikon FG e FG-20, rispettivamente datate 1982 e 1984.

ANCORA REFLEX

Nikon F2 Photomic (1971). Nikon F3HP (1982).

Con interpretazioni al passo con i rispettivi propri tempi, soprattutto applicate agli automatismi di esposizione antecedenti l’autofocus, la Nikkormat ELW diventa Nikon EL2 nel 1977, in una linea evolutiva dalla quale deriva anche la serie FE, che nasce nel successivo 1978; poi, FE2 nel 1983 e FE10 nel 1997, con inserimento Nikon FA nel 1983 (FA Gold celebrativa, nel 1984).

Ancora nel 1977, sull’onda lunga della definitiva Nikkormat FT3, nasce la serie FM, appena citata; in linea diretta: FM2, nel 1982, FM2 New, nel 1984 (con derivazioni FM2/T New, nel 1993, e FM10, nel 1995), e definitiva FM3a, nel 2001. Nel 1992, è reflex Nikonos RS [pagina accanto] anche la subacquea erede della genìa avviata con la prima Nikonos I a mirino, del 1963 (Calypso/Nikkor), alla quale sono seguite le configurazioni Nikonos II (1968), Nikonos III (1975), Nikonos IV-A (1980) e Nikonos V (1984). La Nikon F-301, del 1985, è la prima a incorporare il motore di avanzamento della pellicola dopo lo scatto (2,5 fotogrammi al secondo), e la F-501, del successivo 1986, avvia l’epopea autofocus, che comunque conserva l’originario innesto a baionetta degli obiettivi intercambiabili (ancora oggi proprio e caratteristico

1917

1932

Anni Settanta Se si volesse, e potesse svolgere, ci starebbe anche un richiamo a proposito della grafia delle sigle alfabetiche che identificano i modelli Nikon, a partire dalle “F” e “D” della genìa reflex originaria e del sistema reflex digitale di stretta attualità. In attesa, e con l’attuale occasione della rievocazione dei cento anni Nikon (1917-2017), soffermiamoci sui logotipi che, nel corso del tempo, hanno identificato la produzione (tra i quali, per motivi personali, riconosciamo perfettamente

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delle più recenti dotazioni reflex ad acquisizione digitale di immagini). A seguire, Nikon F-401 (1987), Nikon F-801 (1988), Nikon F-601 e F-601M (1990; la “M” non è autofocus); e poi, ancora, Nikon F90 (1992), F50 (1994), F60 (1998), F100 (1998), F80 (2000) e F55 (2002). Per lo sfortunato standard APS [FOTOgraphia, aprile 1996], registriamo le Pronea 600i e Pronea-S (1996 e 1998).

ACQUISIZIONE DIGITALE Compatte a parte, che percorrono un tragitto autonomo e prolifico, sia nelle dotazioni argentiche (è semplicemente eccezionale la Nikon 35Ti, del 1993: compatta di raffinato lusso), sia in configurazione digitale, la cronaca più recente scandisce i termini della fotografia ad acquisizione digitale di immagini: dopo combinazioni diverse (a partire dal-

la Kodak DCS 200, del 1992, e dalle reflex Fujifilm FinePix, avviate con la S1 Pro, del 2000), registriamo le Nikon E2/E2s, del 1995, presto seguite da altre reflex in rapida successione tecnologica (E2N/E2NS, del 1996; E3/E3S, del 1998 [a pagina 32]) e dalle compatte Coolpix. Nomi, sigle e caratteristiche tecniche dei nostri giorni, che nell’interpretazione più concreta hanno preso avvio dalla Nikon D1 del 1999 [a pagina 32]; poi, Nikon D1x (2001), Nikon D1H (2001), Nikon D100 (2002; la prima prosumer), Nikon D2H (2003), Nikon D70 (2004), Nikon D2x (2005), Nikon D2Hs (2005), Nikon D70s (2005), Nikon D50 (2005), Nikon D200 (2005), Nikon D2xs (2006), Nikon D80 (2006). Fino alle più recenti configurazioni, che si susseguono a ritmo e sigle sempre più serrate e ravvicinate. Cosa manca ancora, da questa stringata sintesi,

Nikomat FT [Nikkormat FT] (1965). Nikonos RS (1992).

1930

1948

Anni Ottanta quello avviato nel 1950, ancora in uso nel 1965, di produzione della nostra prima Nikon F, acquistata in anni successivi [a pagina 32], al quale siamo legati da profondo affetto). A seguire, ce ne sono di più recenti, fino all’attuale quadrato con fondo giallo variegato e scritta nera, fino alla recente dicitura “Nikon is Different”, fino all’affermazione “At the heart of image” e fino all’attuale lunga e scandita serie “I Am”, che appartengono/appartiene al nostro quotidiano. Circa.

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ANTONIO BORDONI (4)

Nikon E3 (1998). Nikon D1 (1999).

(centro pagina) Livrea superiore Nikon, in passaggio dal telemetro alla reflex, con conservazione sostanziale di design e organizzazione: Nikon SP (1957), Nikon S3 (1958), Nikon F delle origini (qui, 1965 [dal numero di matricola]) e Nikon F della fine degli anni Sessanta.

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limitata agli aspetti macroscopici della storia tecnica Nikon? Prima di tutto, gli obiettivi del sistema F (e per apparecchi medio formato Zenza Bronica), tra i quali si registrano molte interpretazioni ottiche ardite (compresa una Nikon Fisheye Camera, con 16,3mm f/8 per proiezione tonda di 50mm di diametro su pellicola a rullo 120, del 1960, dalla quale è poi partita la gamma di obiettivi Fisheye per le reflex); immediatamente a seguire, la collaborazione con la Nasa; poi, le cineprese, i binocoli, gli obiettivi da ingrandimento (i mitici EL-Nikkor), per fotografia grande formato e per arti grafiche e le dotazioni digitali complementari (dagli scanner ai software); ancora, i prototipi. E anche le dotazioni speciali e specialistiche realizzate per Nikon da altri produttori (tra le quali gli ingombranti dorsi Speed-Magny, per pellicola polaroid). In prossima occasione, ci soffermeremo sulla

straordinaria linea di obiettivi per grande formato, che hanno vivacizzano una stagione alla quale siamo particolarmente legati (tanta la nostalgia e altrettanti i rimpianti), che, da tempo, stiamo promuovendo nella personalità di Ritorno al grande formato. Per il resto, non mancano opportunità di approfondimento storico e tecnologico; sopra tutti, per saperne di più, segnaliamo due titoli pubblicati da Editrice Reflex di Roma: Nikon Story, di Pierpaolo Cancarini Ghisetti [FOTOgraphia, maggio 2001], e Nikon Pocket Book, di Peter Braczko. Un per l’altro e i due insieme, autentici luminari della materia. E poi, nel centenario 1917-2017, rimandiamo anche e ancora al consistente Nikon. 100 Anniversary, a cura di Uli Koch, dalla sua considerevole collezione privata, presentato lo scorso luglio. Nikon Cento Anni. ❖



FIORI PER EVAR «Ho sognato di essere in una stanza piena di fiori e persone. / Da lontano ti vedo, cammini verso di me in giacca di pelle nera e jeans strapiversamente da molti, Gian Paolo pati, / Nella mano tieni un casco da moto. / Mi Barbieri non prova alcun imbarazzo sorridi e dici: / “Non credere a coloro che ti didi fronte alle emozioni: sa comranno che sono morto! / lo sono qui solo per te. prenderle e interpretarle. Entra in Nessun altro può vedermi.”» (Innocenza - Sosintonia con gli altri, con il prossigno, di Branislav Jankic; in Fiori della mia vita). mo, qualsiasi questo sia (vicino e Spesso, pare che Gian Paolo Barbieri non intimo, piuttosto che lontano e anonimo), e tutta guardi niente, ma la sua fotografia rivela che la sua fotografia è attraversata da tanto senvede tutto. Ancora, la sua fotografia si stupisce timento: sia quella professionale, soprattutto di un certo bisogno (altrui) di accelerare lo scorsvolta per la moda (e dintorni), sia quella indirere del tempo. Invece, e più concretamente, il viduale, che si è soliti definire “di ricerca”, che suo è un tempo cadenzato e riflessivo che dà nel suo caso si manifesta con soggetti etnici senso e motivo al lessico implicito nel linguage sogni onirici che nascono dal profondo. gio: per quanto un eccesso di cose scorra tropNel proprio insieme, le sue fotografie sono po in fretta, nell’istante di un tempo breve, la sempre definite da qualcosa di spavaldo e «Penso sua fotografia suggerisce spiegazioni lunghe, sfrontato, come se l’unico giudizio che gli interessa sia quello delle persone che ama e am- che sia ancora possibile, commozioni intense e emozioni profonde. Ne in questa estate deriva una libertà condivisa di parlarsi con comira e rispetta. La sua fotografia è parte intemodo, di vedersi in faccia, negli occhi. grante della sua vita, che attraversa, giorno per Duemiladiciassette, Quanto di sottile c’è nella fotografia di Gian giorno, affrancato da un senso di sublimazione scrivere questa che ammanta tutto quanto lo circonda. Sa sem- bella storia... di Evar» Paolo Barbieri, realizzata con cadenza sempre pre dove andare e, ancora, cosa fare. Franti elegante e rispettosa di tutto, non soltanto di Nel corso della sua esistenza, c’è stato un momento che non molto, esprime una immensa indulgenza, che diventa perfino ha mai dimenticato, mai voluto dimenticare, mai potuto di- tenerezza rivolta a tutti. La sua fotografia sa bene quanto l’Uomo menticare: non lo ha mai scordato, per la solenne gravità che sia equivoco e la vita sospetta. Quindi, la sua stessa fotografia non giudica (perché lui non giudica): ciò che può sembrare un stabilisce la linea sottile che separa la vita dalla morte. Con Evar, aveva elaborato sogni di eternità condivisa. Poi, un’altra abisso, forse è soltanto una sfumatura. (continua a pagina 41) sentenza, definitiva, incontrollata, ha interrotto il cammino comune:

di Maurizio Rebuzzini

D

Progetto della Fondazione Gian Paolo Barbieri, creata recentemente a tutela di un patrimonio fotografico di straordinario valore espressivo e creativo, la monografia Fiori della mia vita esula dal percorso lineare e scandito della bibliografia del celebrato autore. Non è una raccolta che svolge un tema prefissato, ma un incontro che ne registra uno accaduto. Fortemente fotografico, non è sulle sole immagini che edifica la propria personalità e energia, ma sul dialogo delle stesse immagini con le parole, con la poesia esplicita e dichiarata (di Branislav Jankic). Le fotografie di Gian Paolo Barbieri sono qui a ritmo alternato e cadenzato: i fiori della sua vita, per l’appunto, dialogano con Evar, la cui splendida esistenza è stata spezzata da un incidente in moto, nel 1991, a ventuno anni. Troppo presto 34



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(continua da pagina 34) sto, ma nessuno ha risposto» (Morte - Sogno, di Branislav JanSpesso, Gian Paolo Barbieri vorrebbe essere più vecchio di una kic; in Fiori della mia vita). Non ha mai scordato quanto sia mezz’ora, per affrontare le decisioni fondamentali con maggiore sottile la linea che separa la vita dalla morte. Idealizzando la saggezza, per ostentare una spudoratezza can- Fiori della mia vita, di Gian Paolo Barbieri; scomparsa del fedele compagno di sogni, dida e onesta. speranze e progetti, nella sua immaginazione poesie di Branislav Jankic; introduzione A volte, bastano un fatto insignificante, un di Annalena Amthor; Silvana Editoriale, 2017; lo vede spuntare oltre le dune e correre verso odore quasi impercettibile a farci rivivere, per 108 pagine 27,5x35cm; 90,00 euro. di lui... invece di accettare che se ne è andato ne siamo consapevoli. Questo testo una frazione di secondo, un istante della nostra di❯ Sì,presentazione e che non sarebbe tornato mai più: «Il mio teè criptico... volontariamente vita. È una sensazione così forte, che ne siamo e adeguatamente oscuro e misterioso. soro è andato a dormire, non si desterà mai, coinvolti totalmente... e vorremmo aggrapparci È un testo in emozione, di emozioni, e io mi sono coricato sveglio accanto a lui. / a quel ricordo tanto vivo, ma, un attimo dopo, per emozioni. Da pagina otto, su questo Con il cuore arso e l’anima dolente. / Non lanon ci resta più niente, non siamo neppure in stesso numero, una presentazione usuale scerò neanche che una sola lacrima scenda grado di dire a cosa stessimo pensando. Dopo (ma non consueta) dell’edizione libraria. sulle mie guance. / Le tratterrò tutte e le conaver tentato invano di trovare una risposta ai serverò dentro di me. / E ti prometto, amore nostri interrogativi, finiamo col chiederci se mio, che questa ferita al cuore che mi hai lanon fosse la reminiscenza di un sogno o, chissciato non guarirà mai, il tuo nome sarà semsà, di una qualche vita interiore. pre nella mia gola e quando il tempo prova a Di fronte e al cospetto della prematura toccarla e curarla griderò a tutta voce: / EVAR scomparsa di Evar, Gian Paolo Barbieri non ha EVAR EVAR» (Morte - Ferite, di Branislav Janingannato il tempo e i sogni... ha onorato la kic; in Fiori della mia vita). memoria. Ogni cosa glielo fa tornare in mente. Le persone vivono, poi muoiono, se fanno Si è accordato con i ricordi, custodendoli. entrambe le cose in modo dignitoso, non riNon c’è nulla che si è dimenticato di dirgli, mane un granché da rimpiangere. e anche Evar. Del resto, a ben guardare, è proprio vero Gian Paolo Barbieri ricorda il momento: «Ho che ognuno di noi fa quello che è. gridato il tuo nome. / Dove è Evar? / Ho chieFiori della mia vita. ❖

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DMITRIJ MOOR (DMITRIJ STACHIEVI ORLOV): TI

SEI GIÀ ARRUOLATO COME VOLONTARIO?;

1920


La fotografia come nessun altro l’ha mai raccontata.

.

ottobre 2017

1917-2017: RIVOLUZIONE D’OTTOBRE. SOGNI, ILLUSIONI E SPERANZE. NUOVA GRAFICA. Rivoluzione tradita!


TRADIZIONI DI MONTAGNA

«

Friuli. Alla luce delle fiaccole, i Krampus (demoni) scendono dai boschi di Rutte Piccolo, frazione di Tarvisio, in provincia di Udine. I demoni delle Alpi sono diffusi dall’Alto Adige al Friuli, dalla Slovenia fino alla Carinzia e Stiria.

Alpimagia. Riti, leggende e misteri dei popoli alpini, fotografie di Stefano Torrione; a cura di Daria Jorioz; testi di Paolo Cognetti (Premio Strega 2017, con Le otto montagne, edito da Einaudi); a cura del Museo Archeologico Regionale di Aosta; Valdostana, 2016; 92 illustrazioni; 136 pagine 24x28cm; 20,00 euro.

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di Lello Piazza

[...] Se tu vuoi un amico addomesticami!» disse la volpe. «Che bisogna fare?» domandò il piccolo principe. «Bisogna essere molto pazienti», rispose la volpe. «In principio tu ti siederai un po’ lontano da me, così, nell’erba. Io ti guarderò con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino...». Il piccolo principe ritornò l’indomani. «Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora», disse la volpe. «Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò a essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. [...] Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore... Ci vogliono i riti». «Che cos’è un rito?» disse il piccolo principe. «Anche questa è una cosa da tempo dimenticata», disse la volpe. «È quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore [...]». (Antoine de Saint-Exupéry, da Il Piccolo Principe). Ricordavo questo brano di Il Piccolo Principe, un libro per adulti, in realtà, dove una volpe saggia ricorda a un ragazzino, che arriva da un altro pianeta, cosa sono i riti: qualcosa di dimenticato, «che fa un giorno diverso dagli altri giorni». Per storia personale, Stefano Torrione ha ben chiaro il concetto di rito. È un uomo di montagna, ambiente nel quale, per ragioni geomorfologiche (clima, difficoltà di viverci, isolamento, vicinanza con la natura), sono sopravvissute modalità e ritmi di vita antichissimi. La sua valle natia, la Valle d’Aosta, si è formata ai piedi delle più alte cime d’Europa, arrestandosi davanti al massiccio del Monte Bianco. Stefano Torrione non è solo un montagnard, (Halte là! Halte là! Halte là! Les montagnards sont là! canta un famoso inno regionale). È un brillante fotografo, che appartiene a quella generazione di giovanotti di “belle speranze”, che, all’inizio degli anni Ottanta, sogna di poter vivere con il reportage fotografico. L’esempio ispiratore è rappresentato non dalla pur mitica Magnum Photos, ma dalle fotografie del mensile americano National Geographic, che si può avere solo per abbonamento. Il fatturato viene invece cercato nelle redazioni del glorioso settimanale Epoca e di neonate riviste, come


Per Stefano Torrione, di Aosta, cinquantacinque anni, il viaggio non è una planata a volo d’uccello su lande sconosciute. Ogni suo progetto -per tanti aspetti sempre etnico (diciamola così)- richiede una immersione in profondità nello spirito e nella cultura della gente che avvicina. La sua più recente raccolta, Alpimagia, unisce tutte le popolazioni alpine, per confrontare, per trovare radici comuni. Scartando a lato il folclore, affronta e condivide la tradizione, frequentando riti che affondano le proprie radici indietro nel tempo, indietro nei secoli, ripetendo gesti e celebrazioni che rispondono alla natura dell’Uomo. Addirittura

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Piemonte. Un grande falò viene acceso a Coumboscuro, in Valle Grana, in provincia di Cuneo, per celebrare in un lungo ballo intorno al fuoco: uno dei momenti più significativi del Traversado del Roumiage de Setembre, ovvero la traversata delle Alpi, che riunisce la gente provenzale.

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Weekend, dedicata al viaggio, trasferitasi da Torino a Milano proprio all’inizio di quegli anni, e Airone, in edicola dal maggio 1981, un mensile che ha il proprio motto araldico in “vivere la natura, conoscere il mondo”. I maestri di questi giovani non sono i mostri, già allora sacri, della fotografia italiana, non è il bianconero di Ugo Mulas, Gianni Berengo Gardin, Federico Patellani e Mario Giacomelli. Tra gli italiani, i maestri sono -piuttosto- Walter Bonatti, il giovane Daniele Pellegrini, Mario De Biasi, Giorgio Lotti; mentre, all’estero, gli esempi sono David Alan Harvey, Frans Lanting, Bill Allard, Cary Wolinsky, Eliot Porter, Bill Curtsinger, Steve McCurry, Jim Brandenburg, tutti nomi sconosciuti alla intellighenzia fotografica milanese, salvo, forse, Steve McCurry, sco-

perto però dalla intellighenzia solo in tempi recenti. A differenza di altri giovani fotografi, Stefano Torrione ha una visione appassionata del mondo. Per lui, il viaggio non è una planata a volo d’uccello su lande sconosciute. Ogni reportage richiede una immersione in profondità nello spirito e nella cultura della gente del luogo. Come esempio del suo modo di lavorare, per tutti, citiamo la serie dedicata ai cantastorie e ai musicisti Gnawa, grazie ai quali, nel 2001, la piazza Jemaa el-Fna, a Marrakech, in Marocco, entra nell’elenco del patrimonio orale e immateriale dell’Unesco, e per questo è protetta. A Stefano Torrione e alla sua più recente raccolta, Alpimagia, dedichiamo questa presentazione. Lo abbiamo intervistato, ed ecco cosa ci ha detto.


Cosa rappresenta per te Alpimagia? «Sono innamorato della montagna. Come dimostra anche un altro mio recente progetto dedicato proprio (e ancora) alla montagna, La Guerra Bianca, al quale ho lavorato, e sto ancora lavorando, andando alla ricerca di testimonianze visive di quanto è rimasto sulle cime della guerra combattuta nella neve, durante il conflitto mondiale del Quindici-Diciotto [da Grande guerra a Prima guerra mondiale]. Come da Alpimagia (con I demoni delle Alpi, nel febbraio 2013), anche da questo lavoro è nata una copertina di National Geographic Italia: La guerra bianca. Vivere e morire sul fronte alpino della Prima guerra mondiale, nel marzo 2014). «Tornando a Alpimagia, avevo visto fotografie dedicate ai riti della montagna, ma erano lavori locali,

che parlavano di qualcosa che si faceva lì e non altrove, mancando di osservare l’arco alpino come un unicum. Nelle mie fotografie, mi interessa unire tutte le popolazioni alpine, per confrontare, per trovare radici comuni. Nella maggior parte delle altre fotografie, poi, almeno a mio parere, c’è più attenzione al folclore che non alla tradizione». Tornerò più avanti a chiederti qual è la differenza tra tradizione e folclore. Ora, vorrei saperne di più su come è nato Alpimagia. «Tutto è cominciato da una piccola tessera dell’intero mosaico: un servizio realizzato per Geo Italia, dedicato a una festa per il solstizio d’estate (pubblicato sul numero di dicembre 2006: Mille anni fa sono nato da un’anguana). Poi, sono andato avanti con il resto,

Alto Adige. Tradizionalmente, ai 3162 metri del Monpiccio, la montagna che sovrasta Malles, in provincia di Bolzano, vengono accesi i fuochi del Sacro Cuore, visibili da gran parte della Val Venosta. (in alto) Veneto. La notte del cinque gennaio, grandi falò illuminano le cime delle Dolomiti. Il fuoco sulla cima del Monte Palmina, nella Valle del Biòis, in provincia di Belluno, è detto pavarui.

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Lombardia. Uno strano essere, con pelle di mucca e occhi lucenti, il Badalisc, viene catturato nella notte tra il cinque e il sei gennaio, e trascinato sulla piazza di Andrista, frazione di Cevo, in Val Camonica, in provincia di Brescia, dove, al cospetto della popolazione, tiene un discorso satirico, rivelando le malefatte della comunità.

Piemonte. Il lupo di Chianale, nell’alta Valle Varaita, in provincia di Cuneo, è una figura di uomo selvatico unica in tutto l’arco alpino. Rappresenta la lotta ancestrale contro il mondo selvatico e, allo stesso tempo, il bisogno di fertilità, che si manifesta con tentativi simulati di aggressione a giovani donne del paese.

una mole enorme, una montagna di lavoro. L’ho fatto per motivi strettamente personali... per non morire, almeno spiritualmente. «C’è la crisi editoriale, nessuna testata dà più incarichi, e io ho bisogno di continuare a fotografare. In più di cinque anni, ho percorso circa centomila chilometri. Tieni conto che, se vuoi mostrare come celebrano l’Epifania in cinque luoghi diversi, hai bisogno di cinque anni. Stessa cosa vale per altri riti celebrati in occasioni di festività che avvengono una volta all’anno, a una data stabilita. Dunque, il mio lavoro, per essere ben documentato e ricco, non ha potuto che svolgersi in un arco di tempo dilatato, molto lungo. «Comunque, anche senza crisi, nessun giornale mi avrebbe pagato per realizzare un racconto che richiede

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tutto quel tempo. Quindi, non ci sarebbe stata, né ora, né mai, nessuna altra opzione se non autofinanziarmi. «Con la pubblicazione del servizio, e soprattutto con la mostra di Aosta (Alpimagia. Riti, leggende e misteri dei popoli alpini, al Museo Archeologico Regionale di Aosta, dallo scorso ventotto ottobre al successivo febbraio 2017), ora va un pochino meglio. Ma per me, è ora essenziale che la mostra venga richiesta per essere esposta in altre località, italiane e internazionali». Tradizione e folclore? «Il folclore è la tradizione che si è adeguata alle esigenze del turismo. Faccio l’esempio della Messa per l’Epifania, a San Vigilio di Marebbe, in Alto Adige. Per tradizione, la messa è trilingue -ladino (la loro lingua), tedesco e italiano-, e passano indifferentemente da una all’altra


Piemonte. La marcia delle Barbuire, maschere di Lajetto, in provincia di Torino, finisce in un campo dove El Pajass, dopo vari tentativi fatti da parte di altri personaggi, taglierà la testa a un gallo appeso a un albero. Questo gesto decreta la morte del Carnevale e la fine dell’inverno.

Lombardia. Emozionato, un bambino di Semogo, del comune di Valdidentro, nella Valdidentro, in provincia di Sondrio, apre la porta di casa ai Re Magi, che, per preannunciarsi, hanno appena terminato di intonare la Lode a Gesù Bambino sulla sua soglia, durante il tradizionale Giro della Stella, nel periodo natalizio.

durante la celebrazione. Il parroco mi ha spiegato che il turista, se fosse italiano, vorrebbe tutto in italiano, se fosse tedesco lo vorrebbe tedesco. Ma il popolo che vive lì è trilingue, per questo la messa le mescola e continua a mescolarle. Ecco un esempio di tradizione che non si piega al turismo e non diventa folclore. «Spesso, la tradizione è rimasta solo dove non è arrivato lo sci. Con una eccezione: La cacciata dell’Inverno, all’Aprica, in provincia di Sondrio. «Conosciamo sempre poco e quel poco sta alla superficie del tutto. Una volta, in un paese di montagna, ho sentito “Il fumo va da una parte e questo dice come andrà il resto dell’anno”. Che sarà mai questa affermazione, mi chiedo? Da dove verrà? Altre volte, mi è capitato di domandarmi: perché mai portare un albero

sulla cima di una montagna? Per poi dargli fuoco? Altre ancora: perché si mettono una maschera mostruosa? «Il novanta percento delle persone che stanno celebrando un rito, alle quali ho posto domande come queste, risponde che non lo sa, ma che si è sempre fatto così. Perciò, un’altra caratteristica che rende la tradizione diversa dal folclore è che nella tradizione tutto è vero, è come è sempre stato, niente è costruito o aggiunto in tempi recenti». Vuoi dire che il valore del rito non è nella ostinata ripetizione di un gesto antico, ma nel fatto che ripetendo questo gesto, ribadisco antico, si mostra come era l’Uomo antico? Che il rito ci offre una occasione per gettare una sbirciatina nella culla dell’Umanità?

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Alto Adige. “Coccodrilli-giraffe” si aggirano per le vie di Termeno, in provincia di Bolzano, nei giorni della sfilata dell’ Egetmann, l’“uomo con l’erpice”. Questi fantocci, chiamati anche Schnappviecher (“morsicatori”), vengono eliminati dalla scena, uno alla volta, dal macellaio-domatore.

Alto Adige. A San Vigilio di Marebbe, nella Valle di Mareo, laterale della Val Badia, in provincia di Bolzano, les poscignares, le befane, hanno il compito di passare di casa in casa, e spazzare davanti all’ingresso, portando via -simbolicamentel’anno vecchio, per far posto a quello nuovo.

«Esattamente. Quello che mi affascina del rito, quello autentico, non è la presenza del diverso, ma la possibilità di rievocare antropologicamente la vita degli antenati». Mi dicevi che per questo lavoro hai scattato più di trentamila fotografie. Come ti sei regolato per la scelta delle immagini della mostra in questo mare magnum? «Mi sono dato un criterio. Ho selezionato solo gli scatti di momenti che trasmettono magia. «La magia è qualcosa che, da un lato, riesce a portarmi in un altro mondo, un rito propiziatorio, una preghiera recitata attraverso gesti esagerati, urlati, o fuochi accesi per divinità pagane o santi cristiani. Dall’altro, ciò che mi fa venire i brividi, una carnevalata improvvisa, l’apparizione di esseri mostruosi che escono dal bosco».

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Ti sei sempre definito un fotografo di viaggio. Questa è fotografia di viaggio? «In un certo senso, sì. Il viaggio rappresenta una miniera di opportunità per visitare gli angoli più remoti del pianeta, cogliendo, attraverso una fotografia, quel che c’è dietro/dentro. Ma il concetto di remoto non ha a che fare (solo) con la distanza nello spazio. Il remoto è anche culturale, e il Tibet può essere anche dietro l’angolo di casa». Lavori ancora a questa storia? «Ogni storia è una specie di fabbrica del duomo, espressione che usiamo noi (a Milano) per conteggiare qualcosa che non è mai finito. «Perciò, certo, faccio ancora qualcosa. «Ogni tanto». ❖



PERFEZIONE DELLA FORMA


In concretezza monografica e di allestimento scenico, l’attuale cadenza Pattern Geometrico, di Roger Corona, si offre e propone come eccellente certificazione di un percorso fotografico che definisce il tocco espressivo e la capacità visuale dell’autore, che ha elevato la rappresentazione del corpo umano a propria cifra stilistica. Cadenza che raramente svolge il corpo nella propria completezza, per frequentare, invece, una capillare serie di finezze compositive che scandiscono il passo formale della parte-per-il-tutto. L’arte è scoperta armoniosa di profondità d’animo. Rispecchia le opinioni dell’autore (artista) nell’ambito culturale ed etico. Risponde a concetti racchiusi nel cuore e nella mente, pronti per essere proposti e condivisi


S

oprattutto oggi, in tempi confusi e approssimativi, nei quali tutto corre in fretta, per scorrere via altrettanto rapidamente, è opportuna una risolutezza di opinioni e considerazioni... per quanto ci riguarda, a proposito di Fotografia. Così che si tratta di riconoscerne sfumature e minuzie di personalità propria, entro le quali identificare proposte e azioni, creatività e progetti, intenzioni e soluzioni. Ovvero, detta meglio (forse), si deve essere consapevoli che non esiste, né mai è esistito, un contenitore comune che tutto accumula assieme, ma si sono sempre manifestate differenze mirabili, che -per sottrazione o somma, fate voi- individuano territori e individualità d’eccellenza entro la (grande) casa comune: vuoi, verso la professione in forma di mestiere; vuoi, verso la registrazione giornalistica, in chiave storica; vuoi, ed eccoci qui!, verso l’espressione creativa individuale, che edifica e innalza la Fotografia con proprio lessico particolare, caratteristico e unico. Nello specifico di Roger Corona, che oggi e qui valutiamo per la sua concentrata concatenazione Pattern Geometrico, con relativa edizione bibliografica e allestimento in esposizione (dal Mia Photo Fair 2017, di Milano, lo scorso marzo, alla sostanziosa presenza alla collettiva Unexpected Worlds, a cura di Stefania Carrozzini, alla galleria Onishi Project, di New York, la scorsa estate, alla più recente personale alla Galleria Biffi Arte, di Piacenza, fino al prossimo quindici ottobre), siamo proprio in quest’ultima distinzione,

per la quale si declina il valore di arte: creatività e rivelazione estetica capace di trasmettere emozioni e confessioni soggettive. Lo sappiamo bene, in assoluto, e tantomeno in fotografia, non esiste un unico linguaggio artistico e neppure un unico codice inequivocabile di interpretazione. Come anche rivela Roger Corona, con Pattern Geometrico, l’arte è scoperta armoniosa di profondità d’animo. Rispecchia le opinioni dell’autore (artista) nell’ambito sociale, morale, culturale ed etico. Risponde a concetti fondamentali racchiusi nel cuore e nella mente, pronti per essere proposti e condivisi. Da qui, considerazioni, riflessioni, valutazioni e presentazione specifica in solida consistenza. Con lodevole lungimiranza, presentando una monografia sapientemente intitolata Dettagli, nel 1996, l’apprezzata critica Giuliana Scimé sottolineò subito come, per Roger Corona, «Il corpo umano è la somma della forma, cioè ogni e qualsiasi forma riconducibile a un pattern geometrico è racchiusa nel corpo». Da cui, e con cui, oggi, a distanza di vent’anni, per un altro ordinamento consequenziale del lavoro dell’attento fotografo, è giocoforza riprendere quell’attribuzione originaria, che -con lo scorrere del tempo- non ha perso alcuna delle proprie intuizioni di merito. Quindi, l’attuale Pattern Geometrico si offre e propone come certificazione autoriale di un percorso fotografico che definisce il tocco espressivo e la capacità visuale di Roger Corona, che ha elevato la rappresentazione del corpo umano a propria cifra stilistica. (continua a pagina 59)

SHINING (1992)

SOLITAIRE 2 (1994)

DOPPIA PAGINA PRECEDENTE: KRISTINE 1 (DALLA SERIE KRISTINE ; 1991)

di Maurizio Rebuzzini

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ÉCOUTE-MOI! (1994)

MAX 4 (DALLA SERIE MAX ; 1994)

JOSÉ 3 (DALLA SERIE JOSÉ ; 1994)


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DUNE 1 (1993)

STELLA (2007)


BRUNA 5 (DALLA SERIE BRUNA; 2006)

(continua da pagina 54) Ancora: il legame con l’originaria identificazione Dettagli è ribadito, oltre che confermato, in una cadenza che raramente svolge il corpo nella propria completezza, forse addirittura mai, per frequentare, invece, una capillare serie di finezze compositive che scandiscono il passo formale della parte-per-il-tutto. Francese di nascita, ma fiorentino per maturazione individuale, Roger Corona ha coltivato una propria ideale perfezione della forma, che appartiene a un patrimonio culturale radicato nei secoli e nella tradizione che ha preso avvio con il Rinascimento (eccola qui, se vogliamo vederla anche così, l’eredità della formazione personale a Firenze). Di fatto, la sua fotografia è composta con minuziosa ricerca di equilibrio e correttezza e nitidezza insita proprio nella Forma, appunto, che tende alla Perfezione attraverso il rigore geometrico di volumi definiti dalla linea e scolpiti dalla luce. Un soggetto piuttosto che un altro, non fa differenza. Roger Corona compone in chiave scultorea, andando, di volta in volta, a sottolineare i bianchi, i neri e i grigi all’interno di inquadrature a lungo meditate, a lungo pensate (e lo stesso vale per le escursioni nel colore, mai sfacciato, mai ridondante, ma sempre e comunque ricondotto a una lievità cromatica e tonale... bianconero). È illuminante rilevare e considerare come e quanto Roger Corona apprezzi l’arte contemporanea, per quanto la sua vera ispirazione siano i capolavori dei grandi maestri, soprattutto la scultura. Attraverso la sua fotografia, cattura la particolare forma di perfe-

zione che percepisce nel lavoro dei maestri rinascimentali. Addirittura, se fosse nato cento o duecento anni fa, avrebbe potuto fare lo scultore, ma la fotografia è un modo più veloce per vedere le cose, per fare scultura. Roger Corona percepisce e rappresenta i propri soggetti come fossero sculture: dipende da come le sue forme vengono costruite all’interno dello spazio, in un approccio che molto deve a una formazione classica. In successione di visualizzazioni, i soggetti dell’attuale Pattern Geometrico sono cadenzati in sezioni consequenziali, collocate le une dopo le altre, le une prima di altre. Tutte insieme, e in comunione di intenti, le sezioni affrontano e risolvono diversi aspetti dell’unico grande tema della forma intesa come valore a sé, scissa sia dal contenuto oggettivo, il soggetto rappresentato, sia dal contenuto soggettivo, il carico di esperienza personale, che si veicola attraverso l’immagine: cura nello studio della luce e delle ombre, ovverosia della forma, che conferisce una lucida collocazione nello spazio fotografico di Roger Corona. Già... perfezione della forma. ❖ Roger Corona: Pattern Geometrico. Galleria Biffi Arte | Eventi per il XXI secolo, Palazzo Marazzani Visconti, piazza San Antonino (angolo via Chiapponi), 29121 Piacenza (0523-324902; www.biffiarte.it, galleria@biffiarte.it). Dal 16 settembre al 15 ottobre; martedì-sabato 10,30-12,30 - 16,00-19,30; domenica 15,00-19,00. ❯ Pattern Geometrico, di Roger Corona; a cura di Maurizio Rebuzzini; testimonianza di Giovanni Gastel; produzione di Lidia Zaccaro; www.rogercorona.com, contact@rogercorona.com; 124 pagine 21,5x27,8cm, cartonato; 49,00 euro.

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In ricordo di Sandro Rizzi

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ANTONIO LEONI

Una vita tra giornalismo e fotografia: quella di Antonio Leoni, mancato lo scorso tre luglio, a Cremona, a ottantuno anni. Lo conobbi negli anni Cinquanta, in Galleria, ritrovo serale dove si incontravano gli aspiranti giornalisti di Mappamondo, periodico studentesco: l’anima era proprio lui, Antonio. Io collaboravo dal Liceo Classico Daniele Manin. Diventammo amici, lui, con qualche anno in più, frequentava l’Istituto Tecnico, ragioneria. Era un “caporedattore” severo, esigente (severo, ma giusto... come diceva, ai tempi nostri, la maestra). Dopo un fugace esordio in banca, si accorse che non era la sua strada. Passò, quindi, alla redazione sportiva del quotidiano La Provincia, con l’incarico di seguire la Cremonese (che decenni dopo sarebbe approdata alla Serie A). Nello stesso periodo, si iscrisse a un corso di fotografia. Scattò la scintilla, che divenne ben presto amore. Amore durato tutta la vita.

Dalla serie Gente di Buddha, interpretazione e visione delle vittime del famigerato regime cambogiano del feroce dittatore Pol Pot.

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In ricordo

Stampava in casa, aveva allestito il laboratorio nella lavanderia. Sempre giornalista, però. Fondatore e direttore di Mondo Padano. Ma, si sa come vanno le cose nelle piccole città... Antonio Leoni non si scoraggiò. Nel 2001, creò Il Vascello, primo quotidiano online di Cremona. Rifiutò qualunque pubblicità, pur di sentirsi libero e regalare la libertà ai propri lettori. Dal fotogiornalismo alla fotografia artistica di successo: dicono le cronache che cominciò casualmente, forse. Il Comune di Cremona chiese a un gruppo di architetti di proporre soluzioni per la riutilizzazione dei padiglioni del Vecchio ospedale. Antonio non era

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un architetto, ma seppe immaginarlo. Le sue fotografie con i progetti architettonici furono esposte in Galleria, con un sorprendente apprezzamento. Sorprendente? Seguirono migliaia di fotografie artistiche. Qualche esempio: Gli impietriti (che ebbe successo anche negli Stati Uniti); le riproduzioni suggestive delle varie “teste” del Duomo di Cremona; la Cascina cremonese; Le Rose di Bagdad; Metamorfosi e Metafore; Gente di Buddha. Dai lunghi viaggi in giro per il mondo, commissionati da un’agenzia, ricavava il materiale per i libri. Per onor di cronaca vanno, però,

Dalla serie Le Rose di Bagdad.

ricordati gli antecedenti Itinerari in provincia di Cremona (1975) e Il mondo degli ultimi (1976). Era un maestro di giornalismo, tanti colleghi gli devono riconoscenza (io, tra questi: se sono diventato giornalista, un po’ lo devo anche a lui). Tanto generoso per avviarci alla professione, tanto segreto della camera oscura. Delle sue fotografie era geloso, come un bambino dei propri giocattoli. Era un solista, un grande solista. Un grande fotogionalista. E, giusto per dire che nemo propheta in patria, Antonio ha lasciato la sua eredità fotografica a Parma. ❖



Sguardi su

di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 8 volte settembre 2017)

P

JAMES NACHTWEY

Prologo in forma di eresia. Il mondo è già stato tutto fotografato, si tratta ora di trasformarlo. Come si dice delle mine, occorre far brillare la fotografia e tutte le teorie sull’utilità e il danno della Storia per la Vita che contiene (Friedrich Nietzsche): una sorta di sovversione culturale della falsa coscienza del tempo, che dalle ceneri della fotografia rinasce come fotografia dell’autentico... non si porge l’altra guancia contro l’oppressione e la colonizzazione dei popoli impoveriti... si dovrebbe rispondere alla sofferenza con una rivoluzione. In mancanza di questa, basta un sorriso derisorio o espropriare lo spettacolo della sua rappresentazione (con qualsiasi mezzo). L’unica impresa veramente avvincente è la liberazione della vita quotidiana: dare Voce, Volto, Dignità a chi non ne ha mai avuta, e aprire quel passaggio a nordovest della vera vita (sono evidenti i riferimenti a tutto il cinema sovversivo di Guy Debord [Pino Bertelli: Guy Debord. Anche il cinema è da distruggere. Sul cinema sovversivo di un filosofo dell’eresia e commentari sulla macchina/cinema; Mimesis, 2016] e al film western Passaggio a Nord-Ovest / Northwest Passage, di King Vidor, del 1940; si tratta di una rotta o una deriva culturale, politica, poetica che collega una civiltà a un’altra, e qualche volta di scoprire che sotto il selciato della strada c’è la sabbia dell’utopia). Anche la fotografia è da distruggere! Quando l’immaginario dal vero della fotografia è tradito o sconosciuto, le immagini si vuotano di senso. Nel deserto creativo della fotografia mercantale o insegnata, la magnificità della fotografia del nulla è rivelata nell’oscenità di premi, workshop, portfolio, agenzie fotografiche, festival internazionali della fotografia, con l’esibizione della starlette (stelletta)... ma questo vale anche per le star (mito)

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di Magnum Photos e chi altri, dove si parla di tutti i supplizi dei poveri più poveri della Terra. E in languidi intenerimenti d’occasione, tutti, o quasi, si compiangano e compiacciano che una tale macchina fotografica o una talaltra possa davvero servire a scopi umanitari, e non a cercare un posto nella società spettacolare, danzando sulle teste degli Ultimi, degli Sfruttati, degli Oppressi. In questa filosofia della compiacenza, i valori e le responsabilità si confondono, i delitti si

equivalgono e l’innocenza finisce per perdere i propri diritti nella mostra (o proiezione) di un cretino/a che, come la politica e la religione, non crede a quel che dice, ma lo dice perché gli altri possano crederci... e magari camminare leggeri e sorridenti tra bambini che muoiono di fame e sete, allungando loro una caramella: dopo una fotografia, s’intende! Porca puttana! Cane di un diaccio! Bastardi al quadrato! Figli di troia! Tutti alle fogne da dove siete venuti! Foss’anche eredi di

«Sì. Penso che, in un certo senso, una fotografia che mostri il vero volto della guerra sia una fotografia contro la guerra. Altrimenti, credo che sia molto difficile muoversi contro i conflitti, avendo visto, nella mia esperienza, come riducono la gente e la società. Quindi, penso che le fotografie che mostrano il vero volto della guerra, in un certo senso, stanno mediando contro l’uso dei conflitti come mezzo per fare politica. Io penso che ci siano cose per cui vale la pena lottare e che i popoli debbano difendersi. Ma penso anche che dovremmo essere consapevoli di dove porta la guerra, delle conseguenze in termini umani. E non le dobbiamo mai dimenticare» James Nachtwey

qualche castello mai dato alle fiamme! Non c’è nobiltà intorno all’inganno e all’arrivismo: solo disgusto, disprezzo e il più spregevole sputo in faccia. Un’annotazione a margine. Il fotografo non c’entra con la fotografia. Non si sono mai visti che pochi fotografi in giro per la Terra, e molti che realizzano fotografie accattivanti, stupide, ma accattivanti, che inculano ondate di imbecilli genuflessi al primo mercante, giornale, rivista e manager (sostantivo maschile e femminile) -tutta brava gente col senso dello Stato, della Fede e della Merce-, e credono che la fotografia possa essere insegnata, copiata e soltanto composta come storici, critici e galleristi richiedono. Non è così, almeno per noi, disadattati in ogni ordine di discorso. Che la fotografia abbia una qualche ragione di sopravvivere alla propria demenza accettata (quella dei discorsi sulla più recente macchina fotografica, i pixel, l’apertura dell’obiettivo, la cromatura... senza parlare mai di Fotografia, solo di mitologie, quasi sempre ben orchestrate dall’industria del settore)... l’abbiamo scritto spesso e lo ripetiamo ancora: dietro un fotografo, si cela spesso un cretino o un poeta, e quando cade la sua maschera o c’è un po’ più male nel mondo o c’è un impeto di rivolta sociale.

SULLA BASSA CRIMINALITÀ DELLA FOTOGRAFIA UMANITARIA Considerate le immagini premiate nei “raduni” internazionali -sempre sostenuti da marchi di macchine fotografiche-, la fotografia che tanto contribuisce a uccidere potrebbe almeno servire a uccidere decentemente: non celebrare il mattatoio solenne della storia dell’infamia (che è la storia del neoliberismo liquido, quanto dell’autoritarismo comunista). A colori, in bianconero, mossa, sfocata, concettuale, iperrealista, semplice-


Sguardi su mente stupida, la fotografia umanitaria corrente non è che una sommatoria di vigliaccate a giustificazione (anche involontaria) degli attuali carnefici. A furia di benedire, la bonarietà della fotografia umanitaria benedice anche il campo di concentramento, i migranti buttati ai pesci del Mediterraneo e i morti ammazzati dalle bombe delle nazioni civilizzate. I terroristi, intanto, hanno imparato la lezione dello spettacolo, compiono qualche strage, in cerca del paradiso e quaranta vergini, e si prendono il telegiornale nelle ore di punta, tra la pubblicità di un’automobile, una crema per non invecchiare e un divano da comprare in comode rate [su questo stesso numero, a pagina 4]. Il crimine costituito afferma la meraviglia dei cretini che sono diventati intelligenti; e là dove il vero è diventato un momento del falso (Georg Wilhelm Friedrich Hegel e Guy Debord), la fotografia ruba i desideri e li congela in rappresentazioni vuote al servizio della merce. Se, un tempo, i comunardi sparavano in allegrezza sui pubblici orologi e, qualche tempo dopo, Sacco e Vanzetti sono stati bruciati sulla sedia elettrica innocenti -giustiziati soltanto per rivendicare le loro idee di anarchia [FOTOgraphia, luglio 2017, nel novantesimo]-, naturalmente fotografati come mostri per la stampa internazionale... le nostre urla in favore della fotografia (e di Sacco e Vanzetti!) sono un canto libertario alla Fotografia: riconoscere a questo linguaggio straordinario l’autorità che le è propria e la critica radicale della società spettacolare che ne consegue. Lo specchio/memoria della fotografia come forma e contenuto che s’intrecciano e accostano alla verità del quotidiano e alla creatività dell’immaginario, della quale parla ostinatamente Maurizio Rebuzzini, evoca un accordo superiore della forma e del contenuto, e -poiché i linguaggi lavorano per conto del potere e designano sempre altro dal vissuto autentico- la bellezza possibile della realtà (non solo in fotografia) non può che essere la demolizione di un

muro, quello che raffigura il regno assoluto della mercificazione. La fotografia mercatale, ribadiamolo, è affermazione dell’apparenza e affermazione della vita sociale come semplice apparenza! La fotografia che raggiunge la verità dello spettacolo, lo denuda e nega: spiazza, dirotta, rovescia, devia (detour) l’imbruttimento del tutto nella strada senza ritorno della sovversione dell’immaginario, e si consuma nel fuoco mai soffocato dell’utopia [È pertinente il rimando al B-movie Detour (altrove, Detour - Autostrada per l’inferno o Detour - Deviazione per l’inferno), di Edgar G. Ulmer, del 1945: l’accidente / il caso, dicono i surrealisti / la deviazione -détournée- della negazione spettacolare, affermano i situazionisti provoca una scia di morte, e, (quasi) del tutto innocente, il pianista squattrinato Al Roberts viene arrestato come criminale, e pagherà con la prigione anche ciò che non mai commesso]. Uno dei pochi fotografi che hanno raccontato la guerra e i conflitti sociali del proprio tempo con un autentico senso della verità degli Offesi, degli Ultimi, degli Oppressi è James Nachtwey. Non si tratta solo di fotogiornalismo e reportage di guerra: James Nachtwey è questo e molto altro ancora. Ha documentato la fame, la povertà, le malattie, le guerre, senza guardare all’inquadratura eclatante (sanguinolenta) che tanto piace a editori e direttori delle testate giornalistiche e televisive; la sua fotografia è sempre, e comunque, dalla parte della Vittima. E sono le vittime della Storia che fanno riflettere su una società malvagia, che ha eretto se stessa a fine ultimo, senza rispettare nulla all’infuori della propria conservazione e della propria esaltazione del potere. Qualche notizia su James Nachtwey. Nasce a Syracuse (New York), nel 1948; cresce nel Massachusetts. Studia Storia dell’Arte e Scienze Politiche al Dartmouth College (1966-1970). Vede le immagini della guerra in Vietnam (specie di Don McCullin) e del movimento per i diritti civili, e comincia

a lavorare come fotoreporter per un quotidiano locale (1976); poi, si trasferisce New York (1980), e si arrangia come fotografo freelance. Nel 1981, è in Irlanda; si occupa dello sciopero della fame di alcuni militanti dell’Ira (Irish Republican Army): è l’inizio di un cavaliere errante della fotografia, che dedica la propria esistenza a documentare la pena degli Indifesi. Il suo sguardo attraversa paesi tormentati, come El Salvador, Nicaragua, Guatemala, Libano, Cisgiordania (West Bank) e Gaza, Israele, Indonesia, Thailandia, India, Sri Lanka, Afghanistan, Filippine, Corea del Sud, Somalia, Sudan, Rwanda, Sudafrica, Unione Sovietica, Bosnia, Cecenia, Kosovo, Romania, Brasile, Stati Uniti. Le sue immagini -semplici, forti, commoventi- esprimono un’estetica del dolore e, in qualche modo, figurano una società abituata a legittimare tutto, anche le stragi dell’innocenza perpetuate contro Donne e Bambini, colpevoli soltanto di essere Poveri in una Terra ricca di petrolio, diamanti, oro, acqua. Le fotografie di James Nachtwey non assolvono preti, banchieri, generali, politici... diventati funzionari del genocidio, ma si schierano (senza gridarlo) contro i delitti di Stato. James Nachtwey lavora per Time Magazine (1984), per l’agenzia Black Star (1980-1985) ed è stato membro di Magnum Photos (dal 1986 al 2001), ma, forse, questo non è proprio un merito, visto come danzano nei mercati del consenso molti autori della leggendaria Agenzia. «Non esistono giusti, ma soltanto animi più o meno sprovvisti di giustizia» (Albert Camus), che contrabbandano nello smarrimento della ghigliottina. Il sudicio è lo stesso, il sangue anche... e il pubblico è il destinatario del raggiro spacciato come verità: chi semina lo spettacolare, non può stupirsi di raccogliere delitti. Nel 2001, James Nachtwey è uno dei membri fondatori dell’Agenzia VII [FOTOgraphia, settembre 2002, febbraio 2004 e marzo 2004], che poi abbandona nel 2011. Nella civiltà della frivolezza, non è sempre molto facile distin-

guere un assassinio gentile da una vittima predestinata: ci sono gli specialisti dei popoli annientati che lo dicono! Ma non tutti stanno al giogo! La schiuma del mondano puzza di merda, e solo i grandi fotografi (sconosciuti e anonimi, anche, che disertano le competizioni, e pensano che il Pulitzer o World Press Photo siano una marca di sigarette alla menta o biciclette a motore) sanno che dietro il consenso e il successo di qualsiasi cosa, c’è sempre un criminale mai giudicato dalla Storia. Le mostre di James Nachtwey sono state allestite e esposte in “chiese” prestigiose della fotografia (International Center of Photography, a New York; Bibliothèque nationale de France, a Parigi; Palazzo delle Esposizioni, a Roma; Museum of Photographic Arts, a San Diego, in California; Fundação Caixa Geral de Depósitos - Culturgest, a Lisbona; Círculo de Bellas Artes, a Madrid; Fahey/Klein Gallery, a Los Angeles; Massachusetts College of Art and Design, a Boston; Canon Gallery e De Nieuwe Kerk, ad Amsterdam; Carolinum, a Praga; Hasselblad Center, a Göteborg, in Svezia) e i premi ricevuti sono tanti e importanti: Common Wealth Award of Distinguished Service, Martin Luther King Award, Dr. Jean Mayer Global Citizenship Award, Henry Luce Award, Robert Capa Gold Medal (cinque volte), World Press Photo of the Year 1992 e 1994 (oltre numerosi altri riconoscimenti in categoria), Magazine Photographer of the Year (sette volte), International Center of Photography Infinity Award (tre volte), Leica Award (due volte), Bayeux-Calados Award for War Correspondents (due volte), Alfred Eisenstaedt Award for Magazine Photography, Canon Photo Essayist Award, W. Eugene Smith Memorial Grant in Humanistic Photography. Di là dal cimitero delle definizioni, la cartografia fotografica di James Nachtwey mostra che non c’è gloria nell’orrore delle guerre, e i bastardi che le provocano sono i boia della pubblica sensibilità. Nel 2001, è stato realizzato un notevole documentario sulla storia

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Sguardi su di James Nachtwey, War Photographer, diretto da Christian Frei, che ha ricevuto numerosi riconoscimenti, compresa la nomination agli Oscar 2002, nella categoria dei documentari. [Curiosamente, per una di quelle coincidenze che apprezziamo, James Nachtwey compare sulla copertina del libro Get the picture, di John G. Morris, visualizzata a pagina 17, su questo stesso numero: fotografia di David Turnley, Sudafrica, 1994]. Va detto. Una volta per tutte. Tutti i premi, tutti i riconoscimenti, tutte le medaglie, fino ai ceppi nelle piazze, sono sommari di decomposizione: una sfilata di falsi assoluti, una successione di templi innalzati a pretesti, un avvilimento dello spirito dinanzi allo spettacolo del falso. I premi si creano nel delirio (raccomandato) e si disfano nella Storia (a venire), che li sopprime! Ricordiamolo! Quando sono scomparsi, due maestri del cinema e della fotografia (invisi a molti), Roberto Rossellini e W. Eugene Smith, hanno lasciato in eredità ai propri cari trecentomila lire (centocinquanta euro), Roberto Rossellini, e diciotto dollari, W. Eugene Smith. E all’eternità, le loro opere costruite per cambiare alle radici il mondo. Per adesso, l’edificio delle lusinghe continua a partorire mostri e piccoli dementi, che non riescono a distinguere un bambino con la testa sfracellata, in Palestina, da una coppa di martini con le olive. Figli di puttana! La differenza tra stupidità e intelligenza sta nel modo di maneggiare il coltello, o la macchina fotografica, o l’aggettivo: il loro uso uniforme costituisce la banalità, la conoscenza del mezzo e la velenosa irrisione di applicarlo (senza appello) contro chi procura una certa quantità di sofferenze. È il viatico dell’immaginario liberato; non si accetta nessuna avventura, se non in piena coscienza della propria eresia: costi quel che costi, o si è contro l’origine del male o si è complici della fascinazione del patibolo. Lo spettacolo è sempre pubblico; la vittima, anche. Non importa se è innocente! Ciò che importa è alimentare le tenta-

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zioni e vertigini che le necessità dell’umanità liquida comportano. La bellezza è l’ultima parola di una civiltà che si spegne.

SULLA FOTOGRAFIA DEL DOLORE E LE LACRIME DEI VINTI

Il dolore degli altri è sempre stato ben configurato e premiato all’interno della società moderna (Susan Sontag diceva). L’oscenità che si cela sotto il manto delle immagini miracolate da storici, critici, galleristi, fotografi sembra bene accolta dall’intenerimento delle masse; le lacrime dei Vinti sono state sempre ben documentate, e gli archivi sono pieni di agonie incasellate nell’arte di essere uccisi in nome di un dio, uno stato e nelle pianificazioni mercantili dell’ordine finanziario. Pochi fotografi si distinguono dai criminali che governano i mattatoi delle guerre; una sparuta minoranza si sbarazza dell’inutilità della fotografia blasonata dai saltimbanchi dell’impostura e continua a praticare -fuori dalla predicazione- l’indecenza del vero! Uno di questi è James Nachtwey. La sua catenaria figurativa è una poetica del dolore. Il fotografo entra negli abissi di un’apocalisse continua e afferma la sacralità della Vita contro la Storia del Privilegio, che la offende. La filosofia visuale di James Nachtwey contiene la disfatta clamorosa delle definizioni e giustificazioni di ogni guerra, di ogni terrore, di ogni menzogna edulcorata con i trattati (mai rispettati) dei governi. Si uccide perché una minoranza di arricchiti diventi sempre più ricca, e la maggioranza degli impoveriti più povera. Anche un idiota di sinistra, tutto questo lo sa! Ogni padrone sa di non avere nessun talento, tranne quello di produrre il male! Ogni tanto, i moti della Storia gli fanno la pelle, ma è un gesto supplementare della servitù, anche irrilevante! Si cambia di padrone e ideologia, come si cambia una camicia, così secondo la moda! Si prende sempre l’immagine di ciò che vogliamo idolatrare distruggere, anche! Un’umanità agonizzante non va sostenuta, ma cambiata alle fondamenta! Con la fotografia, non si fanno le rivoluzioni: le rivoluzioni si

fanno con le rivoluzioni! Ma, con la fotografia, si può diventare Donne e Uomini migliori, e far parte del rovesciamento di prospettiva di una società ipocrita e ingiusta. Le fotografie di James Nachtwey, anche le più strazianti, mantengono la distanza etica necessaria e il rispetto del dolore, che non toglie mai la dignità alla persona colpita dalla guerra e dall’evento nel quale si trova coinvolta: il volto di un uomo sfigurato dalle lacerazioni della tortura; le ossa della schiena di un uomo morente per fame; i bambini uccisi, su un camion, che li scarica in una fossa comune (una mano taglia l’immagine e fa cenno all’autista dove posizionare meglio il mezzo); la donna araba, di nero velata, che piange sulla tomba di un familiare; la donna araba, di bianco velata, che attraversa le rovine di una città; l’uomo ridotto a uno scheletro, per fame e sete, quasi morente, che riceve un foglietto da qualcuno ben vestito (si vede una mano, la giacca, la camicia e l’orologio). E... ancora, guerre, e ancora vittime, e ancora proclami politici, e ancora religioni, e ancora terrorismi, e ancora borse internazionali e dividendi, che si alzano insieme al numero di olocausti. La grande fotografia, come quella di James Nachtwey, è sempre quella che contiene l’attentato alle apparenze, il disdegno del pregiudizio e, più ancora, la critica radicale di una società spietata con i più deboli, e tollerante e servizievole con i potenti. Una sola fotografia di James Nachtwey basta a mostrare il naufragio della Giustizia di un’Umanità agonizzante: si tratta del lavaggio di un ragazzino vietnamita, di quattordici anni. È tagliato a metà dalle bombe della civiltà dell’abbondanza (un eufemismo al quale credono solo gli stolti e i fanatici del libero mercato); il ragazzo piange, allarga un braccio, forse le ferite sono troppo recenti, la mamma lo abbraccia delicatamente e lo tiene ritto dentro una bacinella d’alluminio, tra un secchio d’acqua su uno sgabello e un’altra bacinella più piccola, lì vicino; dietro la casa, una baracca e nient’altro.

James Nachtwey, si vede, non interpreta quel dolore infinito... lo vive: mostra la propria sofferenza nella sofferenza dell’altro, senza il tremore falso dello scoop giornalistico. Ma che cazzo di punctum, che cazzo di sezione aurea, che cazzo di “attimo fuggente”... la fotografia, come ogni forma d’arte autentica, non ha dogmi, né li vuole. O è il naufragio impersonale di convinzioni indegne, o è l’infinito della malinconia che rigetta la volgarità e l’indifferenza della cattività mondo e si fa Storia. L’inquadratura spoglia di James Nachtwey non è solo la visione del “tronco” di un ragazzo, nemmeno utile alle riviste specializzate e ai giornali di grande tiratura, e neanche così smerciabile nei telegiornali: c’è dolore, ma non c’è spettacolo del dolore. Nella fotografia, James Nachtwey colloca duemila anni di sermoni, codici, leggi appesi a bandiere innalzate su cumuli di macerie, monumenti a eroi di rara stupidità, a martiri che figurano la farsa della guerra nei calendari dei carabinieri: le verità istituzionali si nutrono di esagerazioni, che, appena disvelate, si rivelano mostruose, ridicole e stupide quanto i loro probi legislatori. Nel senso che tutto si può dire, perché niente è sacro, la fotografia sacrale di James Nachtwey assume su di sé il segreto e il mistero dell’arte, e la solitudine del genio che rigetta ogni impostura. Avverte la criminalità nelle parole dei politici, nella demiurgia delle religioni, nella millanteria dei potentati. Sa bene che, al fondo di ogni massacro, c’è un ricco e un dio! Prima e dopo aver versato sangue innocente, promettono tutto, anche ere di felicità... tuttavia continuano a essere i maggiori responsabili della paura universale e del saccheggio della Terra. Si deve colpire a fondo la speranza della grazia divina e terrena, e solo allora si può trovare la speranza vera. Ritrovare l’Uomo attraverso ciò che lo nega significa riconoscere la Verità fuori da tutte le categorie della ragione imposta, e, attraverso la fine dell’ingiustizie conquistare, la bellezza e la dignità dell’uomo planetario. Buona visione. ❖



MAURIZIO REBUZZINI

25 luglio 1917•2017

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