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effetti economici del riarmo e del disarmo
from Milano 19(74)
La produzione bellica impegna risorse preziosissime in termini di lavoro qualificato, materie prime più o meno costose, ricerca scientifica - Inoltre viene da chiedersi se davvero l'industria bellica abbia sull'occupazione i magièi effetti che le vengono attribuiti
In base al più elementare buon senso, poche realtà sembrano meno sensate dal punto di vista economico della produzione di armamenti. L'industria bellica produce oggetti che nella migliore delle ipotesi sono destinati a rimanere inutilizzati (anzi, si afferma che vengono fabbricati perché rimangano inutilizzati: si vis pacem...); la produzione bellica impegna risorse preziosissime in termini di lavoro qualificato, materie prime più o meno costose, ricerca scientifica; né si può dire che la produzione bellica crei sicurezza, visto che spesso le armi sono esportate, vendute cioé a potenziali "nemici".
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Tuttavia l'industria bellica è tutt'altro che un settore in declino, e la spesa militare fornisce domanda anche per industrie diverse da quella prorpiamente bellica: si pensi alla domanda di equipaggiamenti, vestiario, viveri, edilizia stimolata da un insediamento militare, anche senza pensare a sofisticate produzioni missilistiche o navali.
In questo primo articolo cercheremo di passare in rassegna alcuni degli argomenti che vengono usualmente proposti a difesa della spesa militare e dell'industria bellica sotto il profilo della convenienza economica: come vedremo, se la produzione di armi è follia, in questa follia c'è una singolare (e perversa) logica che conviene analizzare a fondo per evitare di essere "ammaliati" dai pretesi benefici economici del riarmo.
La prima e forse più frequente considerazione a favore della spesa militare è costituita dagli effetti positivi di quest'ultima sull'occupazione. Una lira spesa per armamenti, si dice, finisce in parte nelle tasche dei lavoratori, in parte tra i profitti delle imprese; sia gli uni che le altre spenderanno a loro volta questa lira, per acquistane beni di consumo (i lavoratori) o beni di investimento (le imprese; a meno che non trasferiscano i profitti all'estero o non li investano in speculazioni finanziarie). Ciò significa che altri lavoratori saranno "attivati" per produrre i beni di consumo e d'investimento richiesti; anche questi lavoratori e le imprese in cui lavorano spenderanno questa lira in beni di consumo e di investimento; lo stesso fenomeno si ripeterà un numero imprecisato di volte: cosicché la spesa iniziale di una lira in armamenti "metterà al lavoro" coloro che producono gli armamenti, coloro che producono i beni consumati dai primi, e così via.
Tutto sembra molto bello, anche perché la spesa militare può essere ripetuta quanto si vuole: come si può dire che "ci sono abbastanza armi?" Se si fabbricano troppe autostrade, ci si accorgerà che una parte di esse non sono utilizzate; se si fabricano più automobili di quelle richieste, resteranno invendute; ma siccome le armi sono inutili per definizione (e si deve sperare che lo restino!) non ci sarà mai modo di verificare l'effettiva necessità di produrle.
In realtà, la logica del discorso si basa su due punti che ne svelano la difficoltà:
I. la "necessità" della spesa militare nasce dal fatto che nelle società industrializzate il lavoro non è una riorsa scarsa da non sprecare, ma una risorsa sovrabbondante che non si sa come impiegare; i milioni di disoccupati nella sola Coimunità Europea ne sono la prova. Così l'irrazionalità della spesa militare si spiega con un'altra irrazionalità, quella della, disoccupazione: siccome sei disoccupato (senza che ci sia una buona ragione per esserlo), devi accettare di fabbricare armi (senza che ci
Tassato anche l'obolo per il presunto pasto di mezzogiorno
Si tratta dell'indennità sostitutiva di mensa, ancora in uso quale elemento della retribuzione e remunerata alla sbalorditiva cifra variante fra le 100 é le 300 lire giornaliere sia una buona ragione per farlo).
La tregua dopo la tempesta di voci, tra le più disparate, che sono rimbalzate sulla scena politica e sociale del Paese sul grande terna della revisione delle aliquote IRPEF e — si spera — di una definzione organica delle relative detrazioni d'imposta (restiamo tutti in fiduciosa attesa di soluzioni positive e a breve scadenza) ci consente di affrontare il discorso su un altro problema d'ingiustizia fiscale, certamente di proporzioni assai più modeste, ma completamente ignorato o convenientemente trascurato dal nostro sistema tributario.
2. Se è vero che una lira spesa in armamenti produce gli effetti che abbiamo descritto prima, è vero che gli stessi effetti si possono raggiungere spendendo una lira in altro modo: per servizi sociali o per investimenti produttivi.
Inoltre, viene da chiedersi se davvero l'industria bellica abbia sull'occupazione i magici effetti che le vengono attribuiti: si tratta di un'industria ad alto contenuto tecnologico che dà origine probabilmente a posti di lavoro mediamente più qualificati rispetto ad altri settori.
C'è il rischio che intere fasce di disoccupati non ne vengano interessate; un esempio è quello del futuro stabilimento OTO
Melara in Calabria: pare che tutta la manodopera di questo stabilimento sarà fatta venire da altre regioni dove certe qualifiche sono più facilmente reperibili, senza nessun effetto apprezzabile sull'occupazione in Calabria.
Ma non è soltanto il miraggio dell'occupazione che viene proposto per rendere allettante la prospettiva della spesa militare e dell'industria bellica. Abbiamo già accennato al fatto che le armi hanno un vastissimo mercato d'esportazione: un paese competitivo nella produzione di armi è in grado di garantirsi un consistente avanzo nella bilancia dei pagamenti, cosa che è tutt'altto che disprezzabile anche oggi che il rischio di shocks petroliferi è molto più ridotto di qualche anno fa. Questa delle esportazioni di armi è un'affermazione così frequente che nessuno si chiede mai niente degli effetti della produzione bellica sulle importazioni: produrre armi (specialmente in Italia) comporta l'acquisto all'estero di materie prime in misura non indifferente, ma soprattutto l'acquisto di brevetti e licenze da case estere: sarebbe curioso scoprire che l'industria bellica -esporta ma importa altrettanto, senza nessun effetto positivo dal lato della bilancia dei pagamenti. Ma se pure fosse vero che la spesa militare conduce ad un avanzo nella bilancia dei paga menti, non ci sarebbe ugualmente da rallegrarsi. La situazione si può sintetizzare nel modo seguente: i paesi industrializzati, come è noto, esportano armamenti in misura maggiore di quanti ne acquistino, se presi nel complesso; chi compra, allora? Naturalmente i paesi meno industrializzati, i quali, avendo economie relativamente più deboli si indebitano per realizzare questi acquisti. Ovviamente si indebitano con i paesi più ricchi, che sono gli stessi che vendono loro le armi. Di solito, quando si presta del denaro, ci si assicura che venga impiegato in modo tale da poter essere restituito; gli acquisti di armi, però, non danno ai paesi meno industrializzati nessuna capacità di pagamento in più. In questo modo, alloraz, si è in un certo senso tutti più "poveri" di prima: i paesi meno industrializzati, che hanno accumulato riserve di armi assolutamente inservibili per lo sviluppo economico interno e sono pesantemente indebitati; i paesi industrializzati, che si ritrovano con una massa di crediti che difficilmente verranno pagati in futuro. Naturalmente non è solo la spesa militare a causare l'indebitamento dei paesi meno industrializzati: ma se il meccanismo che abbiamo tentato di descrivere funziona, tutti gli altri problemi economici ne sono aggravati, anche se qualche paese ha realizzato qualche guadagno nella vendita di armi.
Un terzo ed ultimo punto di vista sostiene che l'industria bellica, avendo un livello tecnologico assai elevato, stimola ricerche tecniche e scientifiche che avrebbero una "ricaduta" sul settore civile, con effetti positivi sia sul benessere che sulla competitività delle imprese. A parte l'elementare considerazione che invece di attendere la "ricaduta" sarebbe meglio investire direttamente nella ricerca scientifica a scopi civili, sémbra inoltre che tale "ricaduta" sia in alcuni casi piuttosto dubbia. Una studiosa pacifista inglese, Mary Kaldor, sostiene che le innovazioni tecnologiche nell'industria bellica hanno un obiettivo diverso dalle innovazioni tecnologiche nel settore civile: nell'industria bellica non si cerca l'aumento dell'efficienza o della produttività, ma l'efficacia militare (leggi: distruttiva) del prodotto. È possibile perciò che le innovazioni tecnologiche militari non abbiano sempre un'applicazione civile. Nel caso dell'Inghilterra il fatto sembra confermato: questo paese ha speso somme ingentissime nella ricerca aerospaziale, finalizzata principalmente a scopi militari; in compenso, l'industria inglese è una delle meno competitive del mondo industrializzato (grazie anche, però, alla "cura Thatcher" che le è stata inflitta), prova del fatto che la "ricaduta" non è avvenuta.
Dopo questa rassegna di alcuni argomenti "a favore" della spesa militare e dell'industria bellica, dedicheremo la prossima parte all'esame delle principali conseguenze del disarmo sul piano economico.
Sappiamo con perfetta cognizione di causa quale sia la rigidità d'imposizione sui salari e gli stipendi dei lavoratori dipendenti. t tale, infatti, che si arriva a tassare perfino il presunto pasto di mezzogiorno cui, per accordi contrattuali risalenti all'ultimo dopoguerra, avrebbe diritto il lavoratore nel corso della sua giornata lavorativa, in quanto oggettivamente impossibilitato a rientrare a casa per il normale ristoro. In realtà si tratta del prelievo fiscale sull'indennità sostitutiva di mensa, un elemento retribuitivo istituito appunto quale indennizzo per la presumibile spesa da sostenere per il vitto di mezza giornata e che fino a qualche anno fa consisteva, nella quasi generalità tra le 100 e le 300 lire giornaliere, misura comunque ancora in atto in aziende di tutto riguardo, cifra ormai provocatoriamente simbolica, una sorta di aperta sfida ad ogni logica del buon se so.
Diversificazioni a questo tipo di misero trattamento d'indennità sono state introdotte negli ultimi anni in vari settori del mondo lavorativo. Da una piccola indagine, purtroppo ristretta all'ambito familiare e alla cerchia di alcune amicizie (a questo proposito sarebbero gradite segnalazioni dai nostri lettori), abbiamo scoperto che esistono datori di lavoro più munitici, i quali concedono contributi che vanno dalle quattro alle ottomilacinquecento lire, sotto forma di buoni pasto da consumare in posti di ristorazione convenzionati, oppure la concessione gratuita di un pasto preconfezionato. In alcuni casi, questo trattamento è completamente esentasse, in altri è gravato d'imposta come reddito normalmente conseguito. Una piccola giungla presente anche qui, come in altri campi della vita sociale e istitutiva del Paese.
Peraltro continuano la loro funzione le tradizionali mense gratuite delle grandi fabbriche (già operanti in tempo di guerra) e quelle parzialmente gratuite o servite a prezzi modici degli agglomerati aziendali con molti dipendenti. Non è comunque il caso di entrare nel merito di tutte queste situazioni, dettate senza dubbio da particolari accordi contrattuali all'interno dell'azienda, relativi a probabili aggiustamenti in ordine ad altre componenti del salario, come del resto permangono, nonostante la rabbiosa campagna di denuncia portata avanti da più parti, le famose agevolazioni tariffarie ai dipendenti di aziende che gestiscono servizi, o le riduzioni, gli sconti, le gratuità di varia natura che usufruiscono dipendenti comunali, pubblica sicurezza, giornalisti, amministratori pubblici, politici, eccetera.
Accertata resistenza di queste condizioni più o meno di privilegio,. diventa assolutamente impossibile trovare giustifica1; zioni all'assurdità di un indennizzo cosiddetto sostitutivo di mensa compensato ancora nella misura delle centinaia di lire e tassato con regolarità inesorabile. Questa indennità che in origine avrebbe dovuto permettere la copertura del costo di un sia pur magico pranzo da consumare fuori dalle mura domestiche, dove l'azienda non era in grado di provvedere in proprio a fornire un pasto caldo ai dipendenti, o per carenza di strutture o per palesi difficoltà organizzative e d'ambiente (a titolo esemplificativo, in una grossa azienda a livello nazionale, inizialmente — correva ranno 1947 — tale indennizzo era di 70 lire giornaliere. A distanza di ben 38 anni, l'importo risulta rivalutato alla favolosa cifra di lire 276!), oggi, ancorché resa a semplice elemosina, resta, come gli assegni familiari sino a qualche anno fa, inspiegabilmente integrata al reddito imponibile tassabile, in aperta contraddizione con le sue finalità istitutive, che avrebbero dovuto escludere decurtazioni fiscali su un assegno fissato ed esauribile M misura giornaliera e già al limite della più risibile precarietà.
Se il fisco ritiene giusto taglieggiare una parte di questra miseria perché nessuna norma tributaria stabilisce che il con- tribuente possa dedurre dal suo reddito quote di spese per alimenti, allora basterà ricordare che, nella circostanza, sarebbe più che legittimo avanzare per il lavoratore il diritto a richiedere un supplemento di detrazione per spese per la produzione del reddito, cioé un teorico risarcimento di spese di viaggio per il ritorno a casa a consumare il proprio e meritato pasto e il successivo rientro sul posto di lavoro, considerando che l'attuale modestissima misura di questa detrazione sicuramente non lo prevede.
Disarmante conclusione, purtroppo. In breve il problema pare non dovrà più sussistere. la tendenza in atto di eliminare dalla busta paga compensi in forma di indennità, non esclude l'ipotesi che pure l'indennizzo per mancata mensa venga cancellato nominativamente e conglobato in altro istituto salariale. In alcune categorie il contratto di lavoro già prevede una soluzione del genere: diverse voci di varie indennità, compresa quella per mancata mensa, sono state riunite in un'unica componente retributiva, con denominazione sulla busta paga di "quinto elemento". Risultato: continueremo a versare la suddetta imposta... senza più accorcene. Umberto Berti