TEMPO PRESENTE N. 478-480 - OTTOBRE-DICEMBRE 2020 INTEGRALE

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N. 478-480 ottobre-dicembre 2020 - Anno 41° Nuova Serie

euro 7,50

TEMPO PRESENTE

DONNE CONTRO

Alberto Aghemo - Angelo S. Angeloni - Patrizia Arizza Elena Campana - Antonio Casu - Ester Capuzzo Rosaria Catanoso - Liliana Gadaleta Minervini - Maria P. Gargiulo Mirko Grasso - Giovanna Motta - Rossella Pace Gerardo Padulo - Anna Salfi


Direttore Responsabile Angelo G. Sabatini † Vice Direttore Alberto Aghemo Comitato Editoriale Angelo Airaghi - Italo Arcuri - Giuseppe Cantarano - Ester Capuzzo Antonio Cassuti - Antonio Casu - Elio D’Auria - Teresa Emanuele Alessandro Ferrara - Mirko Grasso - Rossella Pace - Giorgio Pacifici Gaetano Pecora - Vittorio Pavoncello - Marco Sabatini Attilio Scarpellini - Sergio Venditti Comitato dei Garanti Presidente: Emmanuele Francesco Maria Emanuele Hans Albert - Alain Besançon - Natalino Irti - Bryan Magee Hanno fatto parte del Comitato: Enzo Bettiza - Karl Dietrich Bracher - Pedrag Matvejevic Luciano Pellicani - Giovanni Sartori Redazione Giuseppe Amari - Angelo Angeloni - Patrizia Arizza Editing e impaginazione Patrizia Arizza Su un progetto grafico di Salvatore Nasti Direzione, redazione e amministrazione Tempo Presente srl Via A. Caroncini, 19 - 00197 Roma tel. 06/8078113 - fax 06/94379578 www.tempopresenterivista.eu – tempopresente@gmail.com Proprietà: Tempo Presente Srl Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 17891 del 27/11/1979 Partita IVA 01257801009 ISSN 1971-4939 Stampa: Pittini Digital Print Viale Ippocrate, 65 - 00161 Roma (RM) Prezzo dei fascicoli: Italia € 7,50 - Estero € 11,00 Arretrati dell’anno precedente: il doppio Abbonamento annuo: Italia € 25,00 - Estero € 50,00 Abbonamento sostenitore € 100,00 L’abbonamento non disdetto entro il 30 novembre si intende tacitamente rinnovato. Chiuso in redazione il 12 dicembre 2020



L’ultima firma Questo numero di «Tempo Presente», cui tanto tenevamo e del quale a lungo abbiamo parlato in redazione, è l’ultimo firmato da Angelo G. Sabatini. Il Direttore è morto. Ci ha lasciati – serenamente, nel sonno – la mattina dell’8 dicembre. Poco prima avevamo chiuso questo fascicolo in redazione e avevamo siglato insieme, come di consueto, l’editoriale. Le pagine che seguono, titolate al solito In questo numero… sono l’ultima cosa che Angelo ha firmato in vita. La copertina è listata a lutto, come sempre più raramente si usa in un tempo che elude la morte e non ama praticare la memoria come esercizio di virtù e di affetto. È listata come tributo a una persona straordinaria e alla sua straordinaria avventura, più che quarantennale, di direttore. Due righe nere perché per ricordarlo non ci sono, in questo momento, le parole giuste. Quelle parole che tuttavia noi, per dovere civile e per mestiere di giornalista, dobbiamo comunque trovare. Angelo non era soltanto il Direttore. Di «Tempo Presente» è stato l’anima, l’artefice, il mentore. Era stato lui, nell’ormai lontano 1980, che aveva inaugurato la Nuova Serie riportando in vita la gloriosa testata fondata nel 1956 da Ignazio Silone e da Nicola Chiaromonte che nel ’68 aveva cessato le pubblicazioni, non senza avere lasciato un’orma indelebile nella cultura di quegli anni travagliati. All’editoriale del n. 1 del febbraio del 1980 il Direttore della Nuova Serie affidava il suo progetto culturale, che era anche il suo programma di intellettuale, uomo di cultura e testimone del proprio tempo: […] si propone la vecchia questione del rapporto tra politica e cultura, risolto sempre dalla cultura di ispirazione laica, liberaldemocratica e socialista riformista in termini di autonomia della cultura […] Ci si rende conto sempre di più che il maggior contributo contro l’utopia messianica delle ideologie totalizzanti e totalitarie può venire da una cultura che, difendendo lo spirito critico dai condizionamenti generati dalla persuasione occulta dei mezzi di informazione, lavora a rafforzare i valori della ragione, unica base di una società vissuta nel consenso […] Tempo Presente esprime questa volontà di revisione di concetti e di forme di pensiero senza tradire, ma rafforzando lo spirito delle cultura occidentale la quale ancora una volta può indicare i valori di una società del futuro […]. Per questa via alla cultura resta affidato il compito di illuminare la politica…


«Tempo Presente», grazie a lui, tornò subito a essere una grande e autorevole rivista, che immediatamente raccolse e propose ai suoi lettori le migliori firme del pensiero libero e tale è rimasta per oltre quarant’anni sotto la sua instancabile direzione: un arco temporale enorme e affatto eccezionale nel panorama effimero delle riviste di cultura italiane, soprattutto se indipendenti.

La copertina del n. 1 della Nuova Serie di «Tempo Presente» del febbraio 1980

Il primo fascicolo da lui firmato si apriva con un prezioso contributo di Ralf Dahrendorf al quale seguivano, tra gli altri, articoli di Aldo Garosci, Luciano Pellicani, Gaetano Calabrò, Carlo Sini, Marcello Pera. Nel comitato direttivo figuravano anche i nomi di Alain Besançon, Enzo Bettiza, François Bondy, Carl Dietrich Bracher, Gustavo Herling, Franco Lombardi, Bryan Magee, Nicola Matteucci, Ruggero Puletti, Rosario Romeo, Alberto Ronchey, Giovanni Sartori, Domenico Settembrini. Quest’ultimo divenne di lì a poco condirettore, in un’intensa e condivisa intesa interrotta dalla sua prematura scomparsa. Istituito il comitato dei garanti della rivista, a questi nomi di assoluto prestigio intellettuale si affiancò presto quello di Emmanuele Francesco Maria Emanuele, che da anni lo presiede. Un parterre de rois che testimonia dell’assoluta eccellenza del progetto editoriale del «Tempo Presente» voluto e diretto da Angelo G. Sabatini. Per molti Angelo era il Direttore; per tutti era il Professore. Da ultimo professore straordinario di Filosofia Politica presso Unitelma Sapienza, Università degli Studi di Roma: le precarie condizioni di salute lo avevano di recente costretto a lasciare l’insegnamento, ma sino a pochi mesi or sono molti lo ricordano come sempre particolarmente attivo e presente nella vita dell’Ateneo e nel vivace, proficuo rapporto con i colleghi e con gli studenti. Dal 2004 era presidente della Fondazione Giacomo Matteotti della quale era stato in precedenza segretario generale.


Nato a Casalanguida, in provincia di Cheti, nell’agosto del 1928, si era formato a Roma, alla Sapienza, alla scuola di Franco Lombardi, che dal 1969 aveva affiancato nell’insegnamento di Filosofia Morale alla Facoltà di Lettere e Filosofia. La sua vita accademica è stata particolarmente ricca di qualificate esperienze. Si è fatto cenno all’insegnamento di Filosofia Politica nel corso di laurea in Scienze dell’Amministrazione e nel corso di laurea magistrale in Giurisprudenza presso Unitelma Sapienza Università degli Studi di Roma. Aveva insegnato la stessa materia nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Tor Vergata di Roma, fino al 31 ottobre 2000. Precedentemente aveva insegnato – oltre a Filosofia Morale presso la Facoltà di Lettere e filosofia nell’Università La Sapienza – Filosofia della Storia presso l’Università Roma 2 Tor Vergata. È stato anche docente di Etica Sociale alla LUISS - Guido Carli, dal 1978 al 1981. Ha fondato con altri il “Master in giornalismo e comunicazione pubblica”, di cui è stato direttore, attivo nella “Scuola di specializzazione in analisi e gestione della Comunicazione” dell’Università Tor Vergata di Roma, di cui è stato prima direttore e poi presidente. Numerosi anche i ruoli istituzionali ricoperti nella pubblica amministrazione e in enti pubblici e privati. Dal 1998 al 2002 è stato presidente dell’IRRSAE Abruzzo - Istituto Regionale Ricerca Sperimentazione e Aggiornamento Educativi. È stato per molti anni membro della Commissione Nazionale Italiana dell’UNESCO e Presidente del Comitato Educazione. È stato Amministratore delegato dell’A.G.I. – Agenzia Giornalistica Italia, e vicepresidente del quotidiano “Il Giorno” fino al 2.1.1993. Il 19 gennaio 2002 ha ricevuto il Premio Internazionale Silone 2001, dalla Fondazione Ignazio Silone. Ha fondato e diretto «Il Cannocchiale», rivista di studi filosofici. È stato collaboratore di quotidiani e riviste nazionali e della RAI-Radiotelevisione italiana, presso la quale ha condotto per otto anni la trasmissione radiofonica “La telefonata” e per due anni la trasmissione “Italia allo specchio” (GR3). Ricordiamo di seguito alcune delle più recenti iniziative alle quali ha dato vita con apprezzato entusiasmo, unendo all’alto valore scientifico del suo contributo un riconosciuto talento di organizzatore di eventi culturali. In occasione delle celebrazioni dei 150 anni dell’Italia Unita ha tenuto relazioni su: Rosario Romeo interprete del Risorgimento; Il brigantaggio e l’Unità d’Italia; Le donne del Risorgimento; Il contributo di Verdi alla formazione del mito del Risorgimento. Ha organizzato, sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica e con il Patrocinio della Presidenza della Camera dei deputati e della Commissione Italiana per l’Unesco, convegni su “La formazione dello Stato unitario” e su “Pensiero politico e letteratura del Risorgimento”, pubblicando i relativi Atti. Negli anni successivi, ha svolto un’intensa attività convegnistica in occasione delle celebrazioni per il 90° anniversario della morte di Giacomo Matteotti, sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica e con il Patrocinio della Presidenza della Camera dei deputati e della Presidenza del Consiglio dei ministri. Negli ultimi anni ha organizzato numerosi incontri, convegni e seminari sui temi dell’etica della professione medica, della disabilità, del sistema mediatico e del consenso, dell’Unione europea, della storia del pensiero riformista, della crisi delle istituzioni rappresentative. È stato membro della Commissione esaminatrice del Concorso


nazionale «Matteotti per le scuole», bandito annualmente a partire dal 2015 in collaborazione con il MI-Direzione generale per lo Studente, e del «Premio Matteotti», istituito dal 2004 presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Numerosissime le sue pubblicazioni. Tra queste: L’etica della forma. Intellettualismo e astrazione nell’arte contemporanea, Bologna, Cappelli, 1966; Profezia e futuro, Roma, Carucci, 1968; Ragione e tecnica. Note sul pensiero strumentale, Roma, Carucci, 1970; Nietzsche critico della cultura storica, introduzione a F. Nietzsche, Sulla storia, Roma, Newton Compton, 1974; con AA. VV., Perché la droga, Roma, Bulzoni,1979; con AA.VV., Nietzsche e la politica, Napoli, ESI, 1982; Medicina e morale. Introduzione a una medicina antropologica, Firenze, U.S.E.S., 1983; Nietzsche. L’Umana storia di un superuomo (una biografia), Roma, Newton Compton,1995; con Alberto Aghemo e Francesco Ianneo, Comunicazione e politica. Dinamiche e anomalie della videopolitica, Napoli E.S.I. 2002; Introduzione a W. Goethe, I dolori del giovane Werter, Roma Newton Compton; Introduzione a Voltaire, Dizionario filosofico, Roma, Newton Compton; Introduzione a S. Kierkegaard, Diario del seduttore, Roma, Newton Compton. Di recente, con Antonio Casu e Ester Capuzzo ha dato vita per la Fondazione Giacomo Matteotti a una collana di «Studi di storia e politica» (Editore Rubbettino) pubblicando numerosi interventi in: AA.VV., La formazione dello Stato unitario (2012); AA.VV., Pensiero politico e letteratura del Risorgimento (2013); AA.VV., Verdi e il Risorgimento (2014); Carta M. (a cura di), Quale futuro per l’Europa tra crisi, rilancio e utopia (2015); L’Italia e gli italiani nella Grande Guerra. Politica economia arte e cultura 1915-1918 (2016); AA.VV., La Costituzione italiana alla prova della politica e della storia 1948-2018 (2019). Dal 2017 ha diretto, con Alberto Aghemo e Rossella Pace, la collana edita dalla Fondazione Giacomo Matteotti «Testimonianze e ricerche», ove ha pubblicato diversi saggi nei volumi: Aghemo A. (a cura di), Democrazia, istituzioni e consenso. Segni e significati di una crisi (2017); Aghemo A. (a cura di), Il Mezzogiorno tra responsabilità e tradimento. Il Meridione dall’intervento straordinario all’età della crisi (2018); Aghemo A. e Pace R. (a cura di), Mediterraneo: tradizione, patrimonio, prospettive. Una proposta per l’innovazione e lo sviluppo (2019). Diverse pubblicazioni sono state realizzate – grazie ai contributi di numerosi colleghi, allievi e amici – in occasione dei suoi ottanta e novant’anni, rispettivamente nel 2008 e nel 2018: i tre volumi collettanei costituiscono l’ulteriore testimonianza di gratitudine e di affetto di quanti hanno avuto il privilegio di conoscerlo e di arricchirsi nel confronto con la sua vasta conoscenza del pensiero filosofico antico e moderno, con l’inesauribile curiosità dello studioso, con la sua appassionata fede civile, con la sua generosa personalità. Angelo, il Direttore, continuerà a vivere negli animi e nelle intelligenze dei lettori e degli amici di «Tempo Presente», e non solo. A lui dedichiamo il prossimo fascicolo della rivista: un numero speciale in memoriam. È il nostro impegno, è il nostro tributo di gratitudine.


TEMPO PRESENTE Rivista mensile di cultura N. 478-480 ottobre-dicembre 2020 Anno 41° Nuova Serie L’ultima firma

p. 2

In questo numero...

p. 9

Giovanna Motta Donne in un mondo di uomini. Alla ricerca di uno spazio spirituale, culturale, politico

p. 13

Patrizia Arizza Antigone, nata contro

p. 25

Angelo S. Angeloni Medea: furia e com-passione

p. 31

Antonio Casu Una regina tra i re. Eleonora d’Arborea, legislatrice

p. 37

Ester Capuzzo Lady Morgan e l’Italia del Risorgimento

p. 47

Elena Campana Un’americana a Roma: Sarah Margaret Fuller

p. 55

Anna Salfi Argentina Bonetti Altobelli: una vita movimentata, una donna eccezionale

p. 63

Alberto Aghemo Velia Titta Matteotti: uniti in quansiasi lotta

p. 73

Rossella Pace Maria Giulia Cardini: quando “Ciclone” divenne Antonio

p. 85

Rosaria Catanoso Dialogando con Hannah Arendt: un giudizio sul presente

p. 91

Mirko Grasso Il mio incontro con Salvemini: intervista a Liliana Gadaleta Minervini p. 99


Maria Paola Gargiulo Il Fattore S: il linguaggio e la politica

p. 106

Gerardo Padulo L’avventuroso fondatore di una religione nuova

p. 115

Angelo S. Angeloni Della lettura, della scrittura e del tradimento

p. 119

Alberto Aghemo Plurilinguismo e migrazioni

p. 121



In questo numero… Per tutte le violenze consumate su di lei, per tutte le umiliazioni che ha subito, per il suo corpo che avete sfruttato, per la sua intelligenza che avete calpestato, per l’ignoranza in cui l’avete lasciata, per la libertà che le avete negato, per la bocca che le avete tappato, per le sue ali che avete tarpato, per tutto questo: in piedi, signori, davanti a una Donna! William Shakespeare

Il tema biblico di Giuditta e Oloferne – che ancora oggi e non a caso ci appare di esemplare efficacia e di tragica attualità – è stato ripreso più volte da Artemisia Gentileschi, sia nella versione più drammatica dell’atto della decapitazione conservata agli Uffizi (1620), che riproduciamo in copertina, sia – come nella tela qui riprodotta – quando Giuditta e la sua ancella Abra si accingono a fuggire dalla tenda del generale ucciso e dal campo nemico. Impossibile non cogliere in queste ricorrenze artistiche il drammatico nesso autobiografico, il ritorno di un’ossessione, il rito di una rinnovata liberazione, l’anelito compulsivo di giustizia. Cruento riscatto sull’uomo, contro l’uomo. Scrivendo e ragionando di Donne contro, la cover di questo «Tempo Presente» non poteva che essere dedicata a Giuditta e la mano che la tramanda a noi non poteva non essere quella di Artemisia…

Artemisia Gentileschi, Giuditta e la fantesca Abra (1613 circa; Firenze, Palazzo Pitti)


Giuditta, ovviamente, patentemente, con la lucida e determinata violenza del suo gesto non è solo la liberatrice di Betulia e del suo popolo dall’assedio assiro. Giuditta è Artemisia. Ma è anche Antigone, è Medea. Passano i secoli, i millenni e Giuditta veste i panni combattenti di Maria Giulia Cardini, comandante partigiano (…forte il cuore e il braccio è nel colpir…) con il nome di battaglia di Antonio; né è un caso che il bel ritratto che della ribelle «Ciclone» ci restituisce Rossella Pace si apra proprio con l’evocazione di Giuditta e Abra che, saldamente sodali nell’azione e in perfetta intesa, avvolte dalla policrome e drappeggiate vesti si stagliano risolute e potenti dal tenebrismo caravaggesco magistralmente ricreato dalla grande pittrice romana. Giuditta, Antigone, Medea, Maria Giulia, storie diverse e un unico denominatore: donne in un mondo di uomini. La loro condizione nella storia, e nell’età moderna in particolare, la loro ricerca di uno spazio culturale, spirituale e politico è efficacemente tratteggiata da Giovanna Motta nell’ampio, brillante e documentato saggio che apre questo numero e che ci introduce in una teoria di ritratti che si apre sull’Antigone, nata contro già nel nome, di Patrizia Arizza e prosegue con Medea (Angelo S. Angeloni), simbolo tragico di un conflitto insanabile, radicale, totale, autolesionista. Rispetto a queste storie di sradicamento sociale tramandate della classicità, quella di Eleonora d’Arborea è diversa ma non meno grande. “Regina fra i re” Eleonora ci viene presentata, nell’efficace e documentato studio di Antonio Casu, nel suo rivoluzionario ruolo di legislatrice, il cui destino è indissolubilmente legato alla Carta de Logu. Così come quello di Lady Morgan, restituitoci con elegante analisi storica da Ester Capuzzo, si intreccia alla appassionata testimonianza di Italy, un reportage letterario, un diario di viaggio, un manifesto ideale e patriottico destinato a segnare la nostra cultura risorgimentale. Diversa, eppure straordinariamente affine, è poi la storia che ci racconta Elena Campana nel suo ritratto di «un’americana a Roma»: Margaret Fuller, singolare ed eccentrica figura di intellettuale, polemista, giornalista, patriota mazziniana, coraggiosa anticonformista destinata a una fine prematura quanto tragica. Dal primo Novecento si propongono due ritratti diversi e diversamente affascinanti: quello di Argentina Altobelli e di Velia Titta. La vita di Argentina Bonetti Altobelli, come emerge con efficacia dal bel saggio di Anna Salfi, è straordinaria testimonianza di attivismo politico e sindacale di un’appassionata socialista antesignana di molte battaglie per l’emancipazione femminile, compresa quella per il divorzio. Non meno avvincente la vicenda letteraria, culturale e umana di una sensibile intellettuale, Velia Titta Matteotti – ce la racconta Alberto Aghemo – il cui spessore è stato troppo spesso mortificato dalla riduttiva immagine di “vedova del martire”. Completa questo trittico italiano novecentesco Rossella Pace che – lo abbiamo già accennato – ci restituisce una storia avvincente e troppo a lungo


relegata ai margini della vulgata resistenziale: quella della comandante partigiana liberale Maria Giulia Cardini. Donna contro è stata senz’altro anche Hannah Arendt: la sua intelligenza provocatoria e controversa, il suo essere fuori dagli schemi, la sua affascinante carica eversiva ne fanno un punto di riferimento imprescindibile del pensiero filosofico-politico, e non solo, del Novecento. E non è un caso, ce lo ricorda Rosaria Catanoso, che la sua fortuna sia quanto mai viva e attuale. Uno spazio a sé si ritaglia, in questa galleria di personalità femminili esemplari, Liliana Gadaleta Minervini, intervistata da Mirko Grasso: una bella figura di intellettuale che racconta il suo straordinario rapporto con Gaetano Salvemini e arricchisce con la sua originale testimonianza il percorso salveminiano che abbiamo inaugurato nello scorso fascicolo e che ci accompagnerà a lungo. Questa galleria di ritratti – che non pretende di essere né esaustiva né tantomeno sistematica, ma ha la sola ambizione di dipanare il filo di una coerente passione – si chiude sul profilo di una persona a noi molto cara: Liliana Segre. Si può essere contro mille cose: le opere, i giorni, la cieca brutalità della Storia. Liliana Segre ha scelto di essere contro l’oblìo. Di più: contro l’indifferenza. Ce la ricorda, con le parole giuste, vibranti e partecipi della «persona coinvolta», Maria Paola Gargiulo. Una rivista è luogo di lettura non meno che di scrittura. «Tempo Presente» lo sa bene e nella sua sezione finale, dedicata alle recensioni, vi racconta tre bei saggi: di Emilio Gentile, di Franco Ferrarotti e di un gruppo di ricercatori esperti in plurilinguismo e migrazioni del CNR. Li hanno letti per voi Gerardo Padulo, Angelo S. Angeloni e Alberto Aghemo. E sul prossimo numero: Intellettuali e potere! AGS e AA


La Fondazione Giacomo Matteotti e la Fondazione di Studi storici Filippo Turati per i tipi di Pisa University Press presentano

13° e ultimo volume delle Opere di Giacomo Matteotti, realizzato sulla base di documenti inediti recentemente rinvenuti presso l’Archivio storico della Biblioteca della Camera dei deputati A cura e con un’Introduzione di Stefano Caretti Premessa di Maurizio Degl’Innocenti, con saggi di Angelo G. Sabatini e Alberto Aghemo e una Prostfazione di Paolo Evangelisti 371 pagine, € 28,00 - gennaio 2020 ISBN 978-88-3399-267-7


Donne in un mondo di uomini Giovanna Motta

In un mio lavoro di alcuni anni fa ho riunito il risultato di ricerche precedenti in cui confluivano studi condotti nei principali archivi italiani e stranieri, tutti incentrati sulla storia delle donne o, come si dirà meglio in seguito, “di genere”. Nel corso del tempo ho raccolto materiali desunti dai – pochi – documenti in cui figuravano le donne, escluse per secoli dalla vita sociale, economica, politica. Per lungo tempo le donne non hanno incarichi pubblici, non svolgono professioni, e dunque lasciano poche tracce, malgrado partecipino in vario modo a ogni attività a fianco degli uomini, nelle pieghe delle diverse realtà territoriali. L’unico spazio loro riconosciuto è quello della famiglia, sostituibile solo con la vita monastica alla quale le giovani vengono destinate anche in assenza di una reale vocazione, mortificate nelle loro aspirazioni, spesso preda di meccanismi di potere intesi a mantenere all’interno dei conventi le dinamiche di potere del mondo esterno (Duby-Perrot). Ma nelle società di Antico Regime, la funzione della donna assume particolare significato soprattutto nell’ambito delle strategie matrimoniali dove il gioco delle alleanze familiari rappresenta l’elemento essenziale per la costituzione e conservazione di gruppi di parentela per la supremazia sul territorio. L’istituto del matrimonio è il solo dal quale possano

derivare figli legittimi, dunque le donne diventano oggetto di scambio tra gruppi dominanti – che tessono una rete capace di creare rapporti convenienti tra famiglie – assicurando così la continuità della stirpe garantendo la discendenza e consentendo il mantenimento dell’assetto della proprietà attraverso la successione dei figli maschi che ha il compito di generare, diventando un vero anello di congiunzione all’interno del rapporto produzione-riproduzione (Levi-Strauss). Nelle classi elevate, evidentemente, le donne hanno maggiori possibilità di azione rispetto a quelle di altre fasce sociali, ma in virtù di un privilegio e non di un diritto, quando la società attribuisce loro un ruolo “politico” in ragione di particolari esigenze, come per esempio quando si impongono soluzioni intese a salvaguardare gli interessi patrimoniali delle classi al potere, in qualche successione in cui manchino un figlio o un cugino maschio, ma è soprattutto


Giovanna Motta nel matrimonio che si mostra l’utilizzazione più dura delle donne, destinate quasi sempre a una esistenza triste, soggette a mariti violenti, a gruppi familiari spregiudicati, mandate in paesi stranieri dove per tutta la vita saranno ostacolate e considerate estranee, chiamate con disprezzo “l’italiana” (come Caterina de’ Medici) o “l’austriaca” (come Maria Antonietta d’Asburgo). Il ruolo del maschio e la successione maschile nei beni perdurano a lungo, anche fra i non nobili, cittadini, artigiani, contadini, in una molteplicità di combinazioni che non esclude realtà diverse in cui, magari eccezionalmente, si possono registrare persino situazioni vantaggiose ritagliate in qualche testamento per le femmine, forse perché erano state particolarmente solerti nell’assistenza dei propri congiunti o per altre ragioni che ci sfuggono, probabilmente attinenti agli interessi della famiglia. Ma sono casi sporadici, l’unità familiare si fonda proprio sulla subordinazione delle femmine ai maschi e sulla consistenza patrimoniale che in genere passa da una generazione a un’altra attraverso questi ultimi, salvo la quota spettante alla donna come dote – spesso promessa e non pagata – o consistente in qualche bene patrimoniale minore proveniente dalla madre. Per molto tempo gli uomini sono artefici di una storia di oppressione che rende amara la vita delle donne, ignorate e sfruttate, calunniate, perseguitare fino alla soppressione fisica quando in qualche modo contravvengono alla condizione sottoposta alla quale sono state relegate. La loro rivolta contro la feroce discriminazione che sono costrette a subire porterà altre ingiustizie: denunciate come streghe e mandate al rogo dovranno affrontare

nuove vessazioni e tanto dolore, fisico e psicologico, in una lunga scia di terrore che dall’età medievale al secolo dei Lumi ha insanguinato il percorso delle donne in seno a società sessuofobiche dominate dal potere degli uomini e da fasi oscurantiste delle gerarchie ecclesiastiche e dei loro tribunali. (Secondo lo storico inglese Trevor-Roper non è possibile comprendere il Cinquecento senza l’analisi della “grande follia delle streghe”). E ciò malgrado la donna abbia il grande compito di madre, “custode amorosa e nutrice fidata… che però viene cacciata come bestia feroce, inseguita in ogni angolo di strada, umiliata, percossa, lapidata, gettata sui carboni ardenti” (Michelet). Sulla triste condizione femminile, nel corso del tempo, comincia ad accendersi qualche spiraglio di luce, in sintonia con il più generale andamento del pensiero politico in seno al quale si pone il dibattito filosofico sul principio di uguaglianza. Lavori “pionieri” dissodano il terreno di quelli che verranno definiti women’s studies e cominciano a mostrare la punta dell’iceberg, presentando donne per qualche verso eccezionali che cercano di assumere ruoli importanti attraverso cui poter affermare le proprie capacità. Le società tradizionali mostrano una notevole ostilità nei confronti dell’uguaglianza di genere e vi si oppongono, anche con l’arma dell’ironia (basti pensare alle opere di Molière che costantemente volge la sua satira contro le femmes savantes). La risposta dà corpo alla feroce misoginia degli uomini, depositari del potere politico e culturale, ma anche della Chiesa la quale usa la sua forza contro le donne, che in fondo ritiene responsabili del peccato originale, pur dovendo tener conto dell’importante 14


Donne in un mondo di uomini ruolo della procreazione loro riservato dalla biologia, cui viene attribuito un valore sacrale. Di fatto, tra Quattro e Settecento, la caccia alle streghe è costante, anche se nel tempo, quando dalla spiritualità del Medio Evo si passa al Rinascimento “laico”, per le donne si apre qualche spazio, specialmente nelle fasce sociali più alte in cui sembrano maggiormente emancipate, non a caso possiamo apprezzarle meglio nelle fonti che in questi casi raccontano le loro vite privilegiate. La vita di corte favorisce i requisiti della bellezza e dell’eleganza che hanno un grande peso nell’ideologia rinascimentale, quando si intravede un nuovo corso che consente loro di conquistare qualche traguardo, innanzi tutto nello studio, della storia e della letteratura, delle lingue, del canto e della danza, persino della filosofia e della teologia. Le signore altolocate dominano a corte, partecipano agli intrighi, dettano legge nella moda, dimostrano capacità intellettuali e politiche, si circondano di letterati, di pittori, di filosofi, per affinare le loro qualità. Nelle fonti è possibile registrare il loro tentativo di emergere, la loro forte domanda di esistere che passa innanzi tutto attraverso il desiderio di imparare e appropriarsi di strumenti culturali che possano elevarle da una condizione subordinata, schiacciate dalla superiorità maschile. L’opera denigratoria nei loro confronti è feroce, vengono accusate anche come avvelenatrici, così crescono le storie maledette di donne che hanno sfidato il sistema, che sono diventate protagoniste in un mondo di uomini che non vuole riconoscerle e accettarle come mostrano le tante storie maledette di sovrane e regine, da Lucrezia Borgia a Caterina de’ Medici. Il legame tra gli

antichi saperi e il mondo della fede si spezza. Ma anche fra la gente comune, è sufficiente che una donna, con semplicità e devozione, cerchi di dare sollievo alle pene di un’altra per essere mandata al rogo, così da ristabilire un confine sociale al di fuori del quale le donne non devono andare. Un ampio dibattito, che ha visto impegnati antropologi e storici nel confronto delle rispettive teorie, svela l’ampia articolazione del tema, dalla individuazione del termine di stregoneria alla sua essenza intrinseca, alla funzione (Douglas e altri), alla connessione delle accuse in ragione del contesto politico-sociale delle diverse epoche. L’età della Controriforma farà di tutto per restaurare il progetto egemonico della Chiesa sul mondo cristiano, applicando un’ampia accezione dell’accusa di stregoneria che il delirio sessuofobico riserva non solo ma specialmente alle donne. Processi sommari e torture consegneranno un enorme numero di donne nelle mani dei carnefici, ancora fino all’ultimo rogo del 1782 in Svizzera (Odifreddi), le donne vengono accusate di ignobili azioni diaboliche. Alle pratiche magiche esercitate dalle donne credono tutti, poveri e ricchi, signori e contadini, «la stregoneria non è più un mancamento dell’anima, ma il frutto di un’alienazione sociale» scrive Roland Barthes nel suo saggio introduttivo a La Sorcière di Michelet, gli aneddoti sono infiniti, raccontano di piccole storie concluse drammaticamente e mostrano anche l’ampiezza del fenomeno, la capillarità della persecuzione “ufficiale” dell’Inquisizione ma anche le caratteristiche della mentalità collettiva che attraversa i secoli e le classi. La superstizione è presente ovunque, alle donne vengono attribuiti 15


Giovanna Motta riti segreti, raduni notturni, cerimonie diaboliche che fanno di loro, colpevoli anche di usare sostanze velenose e magiche, le vere nemiche dell’ordine costituito. Neppure le religiose nei chiostri si sottraggono al triste destino, anzi l’accusa di complicità con Satana è ricorrente, le monache sono spesso incolpate di incontri carnali con il diavolo, sempre perché nella gestione superstiziosa della religione la donna è colpevole di attivare il meccanismo della lussuria e dunque deve essere sempre tenuta a freno, senza dire poi che alla denuncia di stregoneria contribuiscono non poco gelosie personali, invidie, ambizioni che hanno gioco facile nella competizione che nasce tra le consorelle per la conquista di una posizione preminente in seno ai conventi. Le donne – si dice – per il loro fragile spirito, sono facile preda del Maligno e, indotte da quello, possono provocare ogni male, cagionare la siccità, distruggere i raccolti, scatenare una tempesta, affondare una nave, dunque devono essere processate e condannate a morte. In tale azione ogni atteggiamento sospetto diventa eresia, allora le guarigioni praticate dalle donne che con le loro erbe curano il corpo e lo spirito, un mal di pancia come il malocchio – lo raccontano bene gli specialisti di discipline demoantropologiche – diventano massimamente eversive e vanno combattute e distrutte anche fisicamente. Ma le realtà della vita quotidiana sono molteplici, le individualità femminili infinite, la condizione delle donne è estremamente diversa a seconda che vivano nei grandi centri urbani o nei villaggi periferici, che appartengano ai ceti dominanti o alle classi popolari. L’Illuminismo si incarica di proporre in termini razionalistici il principio

dell’uguaglianza per cambiare l’ordine politico ed estirpare dalle società gerarchie di classi e disuguaglianze tra i generi stigmatizzando ogni discriminazione e intolleranza. Con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo (26 agosto 1789) si giunge alla concettualizzazione del principio di uguaglianza, e le donne cominciano ad apparire davvero, finalmente favorite dal cambiamento del pensiero politico e dalla profonda trasformazione delle società alla quale partecipano in maniera attiva militando nel movimento giacobino. Nel 1792 Olympe de Gouges chiede al governo rivoluzionario diritti civili e politici per le donne, e Mary Wollstonecraft, sullo stesso tema, pubblica in Inghilterra il suo libro, considerato l’incipit del movimento femminista. Allora si avvia veramente il lungo processo di rinnovamento culturale che porterà a una diversa considerazione della donna, anche se ancora per molto tempo permarranno condizioni assai diverse in seno a contesti fortemente gerarchizzati in cui i primi cambiamenti sono limitati alle élites. Lo stesso Géorge Duby – che degli studi di genere è stato un creatore e un anticipatore costituendo assieme ad altri “illuminati” una significativa avanguardia – arrivava a dubitare che la Rivoluzione francese avesse cancellato del tutto lo schema sociale dell’Ancien Regime sopprimendo la disuguaglianza fra gli uomini. E infatti ancora a lungo permarranno condizioni molto diverse tra fasce sociali, tuttavia comincia un nuovo corso, le donne hanno conquistato l’accesso alla cultura e alle arti, i primi filosofi contestano la considerazione che le vede inferiori agli uomini sostenendo che questo sia un dato culturale ma non reale (come affermava il filosofo Jean Bodin), anche se si 16


Donne in un mondo di uomini dovrà attendere il secondo Ottocento per la formazione di una nuova mentalità in cui la battaglia per il riconoscimento dell’uguaglianza giuridica viene vinta, sia pure dopo un’azione tenace e varie forme di protesta, anche dai toni forti. Nel 1880, nei consigli municipali e nei consigli di contea, le suffragette inglesi conquistano il diritto di voto, poi dall’Inghilterra e dagli Stati Uniti il movimento si estende agli altri paesi europei. Dopo queste prime affermazioni, la situazione cambia veramente nel primo Novecento, quando a causa della guerra gli uomini non sono disponibili e per mandare avanti la produzione si è costretti a far lavorare le donne nelle fabbriche. È un indubbio avanzamento, ma in un certo senso crescono le contraddizioni: da una parte la donna comincia a uscire dai ruoli tradizionali, dall’altra verrà esaltata proprio nel suo ruolo di fattrice come madre di futuri soldati. È a partire da quel momento, tuttavia, che si giunge realmente all’elaborazione del concetto della diversità di genere come valore, che le società governate dagli uomini fino a quel momento non avevano ancora accettato. La donna comincia ad assumere un peso in qualche modo politico, comincia a fare politica attiva, milita nelle fila del partito socialista costruendo un altro importante segmento del suo processo di liberazione. Il legame femminismo-socialismo costituisce una parte rilevante del movimento che nasce dalla militanza ma che tuttavia non esaurisce tutti gli aspetti del complesso fenomeno della “questione femminile”. Con la precisazione tuttavia che, secondo una parte della storiografia specializzata sul tema, non bisogna usare categorie analitiche classificatorie che apparten-

gono ad altre epoche, e che dunque correttamente non si dovrebbe neppure parlare di marginalizzazione delle donne, poiché il concetto appartiene a epoche successive in cui si guarderà ai diritti delle minoranze, etniche, sociali, sessuali (Zemon Davis), perciò si può solo dire più propriamente che, pure in presenza di un conflitto permanente fra i sessi, la storia delle donne nel racconto diacronico sembra svolgersi in un mondo “separato” da quello degli uomini. La condizione femminile risente del carattere delle società, del loro avanzamento o della loro sostanziale staticità, diventa un indice di valutazione del processo di modernizzazione mostrando un “andamento ciclico dell’esclusione” (Groppi). La differenza di genere, piuttosto che una storia minore, si può leggere per l’età moderna come uno degli indici del processo di modernizzazione, per divenire nell’età contemporanea, uno degli aspetti nei quali si sostanzia il più ampio contesto della differenza di classe. Basti pensare al comportamento eversivo di donne altolocate, nobili o parvenue, mogli e amanti di uomini potenti, donne di spettacolo, che viaggiano, vanno a cavallo, guidano un aereo, hanno condotte scandalose che nessuno deplora nel milieu dorato della Belle èpoque come nella narrativa scottfitzgeraldiana. Ma sono solo favole colorate, accanto alle storie in bianco e nero delle donne “comuni”. Per scandire le diverse epoche con il loro portato ideologico e mostrare come la storia delle donne non sia un percorso lineare ma un campo di battaglia in cui si può vincere un assalto per essere respinte subito dopo, forse è utile raffigurare in maniera schematica alcune tipologie di donne e raccontare 17


Giovanna Motta le loro vite che mostrano quanto sia difficile per loro conquistare degli spazi per affermare le loro capacità. Attraverso questi archetipi è possibile tracciare vite diverse ma singolari in cui la specificità della funzione ha reso più ampio lo spazio spirituale, culturale, simbolico di quelle donne. Sante, mercantesse, regine. Se le donne destinate a Dio sembrano al riparo delle brutture del mondo, le famiglie che le hanno chiuse nei monasteri spesso continuano a esercitare, per il loro tramite, il proprio potere, edificando monasteri, acquistando terreni, collegandosi a ordini religiosi influenti, gestendo gruppi così forti da ostacolare o favorire l’elezione di un pontefice. Al di là delle qualità morali, dunque, a prevalere è sovente lo spirito pratico che segna anche il passaggio dalla spiritualità medievale al dinamismo e agli affari del Rinascimento più laico. Il destino di una donna monacata per forza non si esaurisce perciò negli obblighi della fede ma può diventare la testimonianza emblematica di una delle poche realizzazioni possibili di una donna. È utile ricordare che queste monacazioni sono collegate al vasto movimento quattro-cinquecentesco in cui si manifesta una netta tendenza all’aumento degli ordini religiosi imputabile a ragioni complesse e diverse ma riconducibile essenzialmente alla crescita demografica. Nel tempo, infatti, nel circuito dei matrimoni, le donne sono “in esubero” e le famiglie della classe dominante sempre di più avviano le figlie alla vita monacale per non pagare una ingente dote a un eventuale marito - come è accaduto per secoli – secondo un meccanismo che ha contribuito non poco al loro impoverimento. In tal modo i conventi si riempiono e si moltiplicano per

far fronte al numero crescente di religiose (Zarri), che però tali non sono. O comunque non sempre. E la storia che ho raccontato altrove, la storia di una donna della Messina del Quattrocento – Mascalda – che coltiva l’ambizione di fondare un monastero, un progetto davvero ambizioso ma che porterà a termine usando le risorse di cui può disporre in quanto figlia di un ricco mercante di seta, superando le difficoltà delle procedure necessarie e ottenendo il consenso da parte del pontefice (Motta 2003). Sa trovare così un proprio, ampio, spazio d’azione, possiede anche un certo grado di istruzione, ha delle indubbie capacità caratteriali e come terziaria francescana comunica con le altre sedi dell’ordine, e dunque è informata delle tendenze che maturano altrove. Nei suoi tratti distintivi si costruisce un sapiente equilibrio di sacro e profano che pur cercando la gloria di Dio non le fa trascurare le cose terrene, in tal modo raggiunge la sua finalità ultima, quella di far diventare badessa di quel monastero che ha saputo fondare la figlia Eustochia che sarà venerata prima come beata e infine come santa. Che cosa rappresenta per Mascalda il nuovo monastero? Nato da un’intuizione, deve corrispondere alla realizzazione di un’idea che tende verso un modello di vita in cui convergono devozione, tensione spirituale, fede religiosa, ma anche la realizzazione di un obiettivo che solo in parte è religioso, poiché a Messina, città mercantile aperta sul mondo, gruppi familiari e ceti emergenti mostrano un forte desiderio di promozione sociale che di solito perseguono procurandosi cariche pubbliche e consistenza economica. Mascalda trova nel suo progetto la spinta per emergere. Trasferire in peri18


Donne in un mondo di uomini feria una realtà conventuale ispirata dalla cultura religiosa dominante che continua a vedere nella vita monastica il livello più alto di perfezione può essere estremamente gratificante per una donna che indirizza la propria spiritualità e quella delle figlie verso un obiettivo al tempo stesso simbolico e concreto. Lo spirito che la anima è quello che all’epoca circolava nell’Ordine pure in altre regioni, e per di più la donna nella sua città può godere di un circuito di relazioni che le consente di ottenere permessi e licenze, districandosi tra i lacci della burocrazia locale e vaticana per impiegare le sue risorse in quell’impresa. I documenti d’archivio, specialmente quelli commerciali, ci introducono a un altro tipo di donna che appartiene a una famiglia mercantile in cui si fondono insieme azienda e vita privata. L’esercizio del commercio comporta lo stretto rapporto tra le varie sedi delle Compagnie affinché ciascuna sia a conoscenza delle attività dell’altra, dunque le scritture relative prevedono da una parte i libri contabili che permettono di essere al corrente, in ogni momento, della consistenza dell’azienda e dall’altra la corrispondenza mercantile tra la sede principale e le filiali della società. Non si sottraggono a tale pratica le donne, che di solito intrattengono una fitta corrispondenza con i mariti lontani: l’interesse principale è quello di informarli, durante la loro assenza, di quanto accade ogni giorno in casa e nel lavoro e di rassicurarli che gli affari siano seguiti con la massima attenzione. Le donne sono in grado di mandare avanti l’attività comprando e vendendo, controllando impiegati, garzoni, famigli, schiavi, provvedono al rifornimento delle merci, seguono l’andamento dei

mercati, insomma esercitano una valida collaborazione e di tutto rendono conto per lettera, inserendo anche notizie e commenti su questioni di diversa natura, il pericolo di un conflitto imminente come la successione di un sovrano o un matrimonio reale. Si mostrano informate, pronte ad affrontare ogni evenienza senza eccessiva preoccupazione. Non è senza importanza che, con l’umanesimo, intellettuali come Luca Pacioli (1447-1517) concorrano con le loro opere a una prima diffusione della scienza matematica e tale divulgazione facilita l’accesso delle donne all’apprendimento, prevalentemente di quelle che prendono parte assieme al padre o al marito al lavoro impostato in ambito familiare. La partecipazione della donna all’economia urbana dell’età preindustriale è un fatto acquisito, anche perché lo sviluppo delle manifatture richiede mano d’opera accurata e professionale e le donne sono costantemente inserite nei processi produttivi, nel settore della lavorazione della lana in cui le tessitrici sono più numerose degli uomini, come in quello della seta dove la presenza femminile è massiccia specie per quanto riguarda l’allevamento dei bachi da seta (attività che ha una lunghissima durata e ancora nel Novecento continua a rappresentare un’integrazione al reddito della famiglia contadina). Davanti ai telai a mano, dalle Ande alla Calabria, si trovano soprattutto filatrici e tessitrici, incannatrici, orditrici di panni, anche il posto più elevato è occupato dalle donne, le “maestre” che disegnano i tessuti o tagliano le stoffe, che per lo più vengono dalla Francia. La loro presenza nelle diverse fasi della lavorazione le fa uscire dal nulla, le fa “apparire” attraverso la registrazione dei loro salari, 19


Giovanna Motta mentre altre commerciano in seta, qualcuna fa la “sartoressa”, molte balie offrono “ la popa per uno anno”, e intanto prendono in affitto una casa o una bottega, pagano la pigione, comprano e vendono, “molte mogli e figlie di mercanti-tessitori, divenute orfane, dirigono la bottega familiare” (Le Goff), dunque è possibile trovare i loro nomi nei libri di conto dei mercanti – dalla Toscana alla Sicilia, da Lione ad Anversa – ma è soprattutto nella corrispondenza che le donne sono protagoniste. Le lettere mercantili palesano a pieno il mondo delle donne, ciò in cui credono, ciò che conoscono, le modalità secondo cui si svolge la loro vita giorno per giorno, indicano che hanno imparato a scrivere o almeno a leggere ma anche a far di conto e grazie a ognuna di tali attività, anche separatamente l’una dall’altra, in che misura abbiano saputo costruire una qualche libertà individuale conquistandosi la fiducia del marito e di conseguenza ottenendo da quello un’ampia delega e un consistente margine di discrezionalità nel mandare avanti l’azienda familiare e la casa. Anche se non è dato parlare di un rapporto alla pari, si può registrare una certa considerazione di cui godono, dalla quale deriva una sia pur parziale autonomia, anche se l’ultima parola spetta ancora agli uomini. In un mio lavoro degli anni passati ho raccontato la storia di Margherita Datini, moglie di uno dei più importanti mercanti dell’età medievale, che per tutto il tempo del loro matrimonio è la più stretta collaboratrice di fiducia del marito, Francesco di Marco, che non potrebbe farne a meno per la stima che ha delle sue indubbie capacità. Il carteggio fra lei che abita a Prato – sede principale dell’azienda, dove Francesco ha

edificato un solido e importante palazzo, riccamente arredato e di continuo arricchito da ulteriori interventi – e il mercante che si sposta fra le altre sedi della Compagnia, Pisa, Firenze, Avignone, Maiorca, racconta le molte incombenze della donna, come padrona di casa ma anche come collaboratrice preziosa negli affari. Malgrado si tratti di un’azienda di grande dimensione che ha delle proiezioni esterne, in Spagna come in Oriente (Melis), il mercante confida nella moglie per mandare avanti gli affari e al tempo stesso gestire le dinamiche familiari («fanne che ti pare… provedi come ti pare… pensa a fare quello credi che bene sia… piacemi che ttu governi la casa per modo tti sia onore»). Ma anche quando la definizione del rapporto tra coniugi è di segno positivo come in questo caso, l’ultima parola spetta sempre al marito, pure in ambienti in cui – come le città mercantili – le esigenze delle attività commerciali inducono padri e mariti a fidarsi delle loro donne, preparandole al lavoro che torna utile all’azienda e alla famiglia. In generale, però, non manca chi le considera “di poco cervello”, come scriverà Benedetto Cotrugli (1416-1469), diplomatico alla corte napoletana di re Alfonso e uomo d’affari, che nel suo Libro de l’arte della mercatura dedica alcune pagine al profilo che devono avere le mogli dei mercanti. Un’altra tipologia di donne che è stato possibile studiare è quella delle regine perché per il ruolo che rivestono lasciano tracce nei documenti che arrivano siano a noi. Di certo la loro è una condizione privilegiata e a prima vista le loro vite sembrano rassomigliarsi, le logiche di potere delle società di Antico Regime le utilizzano 20


Donne in un mondo di uomini nelle strategie della politica internazionale usandole in modo spregiudicato nelle alleanze matrimoniali. Le nozze con un sovrano, la nascita di un erede, un viaggio ufficiale, sono tutte occasioni in cui la loro condotta è rigidamente formalizzata da regole prefissate, da protocolli che attribuiscono un significato politico alle loro azioni, nelle cerimonie ufficiali, nelle feste, nelle visite ad altri sovrani e in ogni altra occasione rivolta a concludere un patto familiare, una nuova alleanza, la risoluzione di un conflitto. Sono donne educate per un grande futuro e hanno ricevuto strumenti culturali fuori dal comune da precettori importanti, hanno studiato la storia, il latino, il diritto, le lingue, senza tralasciare altri impegni più mondani come coltivare la musica e la danza, cavalcare, andare a caccia, apprendere i rituali formali delle cerimonie ufficiali. Alle regine ho dedicato una ricerca condotta in sintonia con altri studiosi che mi hanno aiutato a tracciare un’ampia testimonianza delle tipologie umane e politiche (Motta 2002), una rassegna in cui ciascuna di esse interpretava lo stesso ruolo in modo diverso, aggiungendo sapienza, personalità, carisma. Accanto alle regine più note come Elisabetta I Tudor (1533-1603) in Inghilterra o Caterina de’ Medici (15191589) in Francia, altre tessono la loro tela di alleanze più o meno segrete e progettano un futuro per le loro discendenze. Tra queste mi è piaciuto raccontare la vita di Bona Sforza (1494-1557), moglie di Sigismondo Jagellone, re di Polonia, che spende i suoi giorni per realizzare il suo disegno più ambizioso, quello di rafforzare il potere del marito e di dare inizio a una vera dinastia. Ma il sogno della

regina italiana, abituata alla politica, è destinato a svanire, le forze interne che le si contrappongono mantengono il loro vigore. Malgrado abilmente cerchi di usare la contrapposizione fra aristocrazia e nobiltà minore, appoggiandosi a quest’ultima in funzione antimagnatizia, non riesce nel suo intento. Da una parte l’aristocrazia, con l’appoggio dei vescovi, è proiettata su Vienna e si mostra concorde nello schieramento antiturco, dall’altra la nobiltà minore – pure articolandosi su posizioni differenti fra campagna e città – è invece favorevole a mantenere la pace con gli Ottomani sul confine meridionale e si contrappone con forza agli Asburgo e più in generale al processo di germanizzazione del Paese. Questo secondo partito, del tutto minoritario, è quello sul quale investe Bona, animata dall’intento di sottrarre la Polonia alla morsa della casa d’Austria. Ma ci sono anche gli interessi economici che in un Cinquecento ormai avviato alla modernizzazione hanno un peso specifico rilevante, nel cuore produttivo del Vecchio Continente quegli interessi non consentono alcun riformismo a favore di una nascente borghesia come è accaduto altrove, poiché gli scambi internazionali divenuti più complessi alimentano importanti flussi di denaro ricavati dalla vendita dei cereali. La ricchezza proveniente dall’agricoltura estensiva consente alla classe dominante consumi molto elevati comprensivi di attività culturali che danno vita all’alto livello del Rinascimento polacco al quale partecipa attivamente la regina con il suo seguito di intellettuali e di artisti italiani. Bona anima un ambiente culturalmente multiforme nel quale si percepisce la sicura impronta del 21


Giovanna Motta Rinascimento italiano, cui si accompagnano presenze significative dell’Umanesimo polacco. Ma i tempi sono difficili, la contrapposizione interna fra magnati e piccola nobiltà, la pressione esercitata da Carlo V che insegue il suo progetto di Impero universale, le strategie matrimoniali usate dal figlio Sigismondo II Augusto per tessere strategicamente l’alleanza con gli Asburgo, sono tutti elementi che riducono il potere sovrano. Su tutto incombe il pericolo di un’avanzata degli Ottomani che con la vittoria di Mohàcs (1526) sfondano il fronte ungherese e si installano nella pianura danubiana, né mancano le mire della Moscovia su alcuni territori lituano-polacchi. Il contesto in cui opera Bona Sforza, dunque, è segnato da una continua instabilità politica che di certo nuoce ai suoi progetti in quanto sia il re che suo figlio dopo di lui ritengono opportuno allinearsi sulle posizioni di Vienna. La regina perderà su tutta la linea, pubblica e privata, quando i contrasti con il figlio si acuiscono temerà per la sua stessa vita e sarà costretta dagli eventi a lasciare la Polonia, il suo allontanamento ratificato dal re, ha un profondo significato politico, ormai la donna non ha più il suo potere e sa valutare bene il rischio di mantenere le sue posizioni, con la sensibilità politica che le è propria, decide di partire con il pretesto di curare la sua salute “per stare ai bagni”. Dunque rientra in Italia, dove comincia un nuovo capitolo della sua vita tormentata. Bisogna ricordare che Bona ha avuto una cospicua dote dalla madre Isabella d’Aragona: la città di Bari con il titolo di ducato, quella di Rossano con il titolo di principato, la città di Ostuni, altri castelli fortificati con giurisdizione ci-

vile e criminale, di certo non ha problemi economici, parte dalla Polonia con un seguito ridotto ma sempre con grande sfarzo come aveva fatto quando si era allontanata da Napoli, porta con sé i pochi uomini che le sono rimasti vicini ma forse non del tutto fedeli. Insediatasi a Bari, sa gestire la sua ricchezza, può godere delle rendite dei suoi possedimenti e dall’ottima amministrazione dei suoi beni, ma non si rassegna alla normalità, accarezza infatti un altro progetto politico, davvero ambizioso per una donna dell’epoca, vuole diventare viceré di Napoli. E potrebbe permetterselo, poiché ha prestato una somma enorme a Filippo II, suo cugino e perciò si aspetta l’appoggio della corte di Madrid. Non l’avrà, anzi lo spagnolo “rilancia” chiedendole di rinunciare a gran parte dei suoi possedimenti in suo favore. Delle difficili trattative con il sovrano spagnolo si occupa Gian Lorenzo Pappacoda che l’ha seguita dalla Polonia, ma sorge una nuova difficoltà che segnerà la sorte della regina: si innamora del giovane figlio di Pappacoda, al cui fascino non è insensibile neppure una delle sue dame. Mentre i diplomatici cercano la mediazione fra le richieste degli spagnoli e l’interesse del re polacco, lontano ma non del tutto assente dall’entourage della madre, la regina che mantiene il suo carattere forte e risoluto, minaccia ogni giorno di cambiare il proprio testamento, finché il tristo Pappacoda riesce a estorcergliene uno a favore di Filippo II. Bona è circondata da spie, solo dopo pochi mesi si ammala, si comincia a dubitare che la stiano avvelenando lentamente, lascia nuove disposizioni in cui istituisce erede universale il figlio Sigismondo Augusto, salvo gli 22


Donne in un mondo di uomini Stati italiani che sarebbero andati al re di Spagna e una serie di donazioni per le figlie, per le dame italiane e polacche che l’hanno servita, per l’arcivescovo di Bari, per i poveri. Al Pappacoda vanno “legati” consistenti, terre feudali e libere, denaro, gioielli, cavalli, mandrie di bovini e la sua argenteria, famosa per quantità e qualità. Poi, momentaneamente migliorata, fa un nuovo testamento e lascia tutto al figlio. Per anni i tribunali accoglieranno le questioni sorte sia per l’eredità che per il prestito mai restituito dal re spagnolo, la disputa si amplifica e da lite ereditaria di famiglia fra le due corti, di Madrid e di Varsavia, si trasforma in un problema internazionale che coinvolge dinastie reali, diplomatici, partiti politici a livello europeo. Ma intanto la parabola della grande regina si sta concludendo, niente di quanto aveva progettato si è verificato, in Polonia per la mancanza di eredi maschi il trono passa a Enrico di Valois e poi a Stefano Bátory, principe di Transilvania e marito dalla figlia Anna, le trattative con suo cugino Filippo II sono finite nel peggiore dei modi e si trascineranno nei tribunali per decenni, nessuno è Stato generoso con la regina dalla forte personalità che voleva essere protagonista sulla scena politica dalla quale gli uomini l’hanno ricacciata. Persino l’amante

sfrutta la sua posizione per sottrarle ogni ricchezza. Nessuna tolleranza, nessun rispetto delle sue idee e dei suoi sentimenti, nessuna comprensione per la sua ultima follia, quella passione per uomo tanto più giovane che evidentemente le si avvicina per interesse. Una donna del suo livello intellettuale e culturale viene raggirata “da un giovane ignorante che appena sapeva leggere”. Amareggiata e ormai vinta, forse, pensa di tornare in Polonia, allora Pappacoda vedendo sfumare il piano di impossessarsi delle sue sostanze, decide di fermarla. Con la complicità di un medico corrotto che verrà pagato con 500 ducati, la avvelena, mentre lei è ancora in grado di comprendere ciò che sta accadendo, tanto da gridare con le sue ultime forze «traditore, che m’havete assassinata». Si conclude così la vita della regina, una vita che si è articolata fra tragedie familiari e incidenti politici, con poche gioie e molti ostacoli, strappata fanciulla dal ducato che era stato di suo padre (dallo zio Ludovico Sforza), chiude la sua esperienza terrena ancora una volta nella violenza, nel castello di Bari dove si è consumato il tradimento più grave, con quell’ultimo amore che aveva riscaldato il suo cuore appassionato cancellando per sempre la forza e le capacità di una donna di certo superiore a molti uomini.

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Giovanna Motta FONTI D’ARCHIVIO E BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE Archivio Segreto Vaticano, Archivio di Stato di Venezia, Fondo Proprio Contarini, Biblioteca Nacional di Madrid, Biblioteca dell’Università jagellonica di Cracovia. H. Barycz, Bona Sforza, in Dizionario biografico degli italiani, Roma 1966; G. Cioffari, Bona Sforza donna del Rinascimento tra Italia e Polonia, Bari 2000; Duby-Perrot, Storia delle donne in Occidente, Roma-Bari 1991; A. Falco, L’ultimo testamento di Bona Sforza, Bari 2000; E.J. Hobsbawm, L’età degli Imperi (1875-1914), Roma-Bari 1987; id. Il trionfo della borghesia (18481875), Roma-BVari 1975; C. Levi Strauss, Antropologia strutturale, Milano 1967; id. Le strutture elementari della parentela, Milano 1978; J. Michelet, La Sorcière, Paris 1863; G. Motta, Guerra turca e “negozio napoletano”, in Fra spazio e tempo. Studi in onore di L. De Rosa, Napoli 1995; id. Bona Sforza, una regina del Rinascimento, in Regine e sovrane. Il potere, la politica, la vita privata, a cura della stessa, Milano 2002; id. Nell’Europa dell’età moderna. Memoria collettiva e ricerca storica, Firenze 2013; P. Odifreddi, Il matematico impertinente, Milano 2005 H. TrevorRoper, La crisi del XVII secolo, in Crisi in Europa 1560-1660, Napoli 1968; G. Zarri, Solfaroli, Camillocci (a cura di), Donne, discipline, creanza cristiana dal XV al XVII secolo, Roma 1996; N. Zemon Davis, Donne ai margini. Tre vite del XVII secolo, Bari 1996.

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Antigone: nata contro Patrizia Arizza

La dimensione “eroica” di Antigone è originale creazione di Sofocle. Il suo nome significa “nata contro” e contiene in sé la particella anti che esprime opposizione: prodromo, attraverso la sua ribellione, della tragedia che diventerà il simbolo della lotta contro il potere. L’Antigone di Sofocle fu rappresentata nel 442-1 a.C., a distanza di pochi anni dall’Aiace, la più antica tragedia sofoclea rimastaci. Di fatto l’Antigone riprende, ponendolo al centro dell’azione, un problema già emerso nella parte finale dell’Aiace: la liceità morale di lasciare insepolto il cadavere di un nemico ucciso. Le fonti più antiche ignorano la vicenda narrata nell’Antigone, ovvero la storia della figlia del tebano Edipo e di sua madre Giocasta (secondo la più antica tradizione, di Eurigania), sorella di Ismene, Eteocle e Polinice. Omero accenna in un luogo dell’Odissea all’incesto di Edipo con Giocasta (o meglio, seguendo la denominazione omerica, Epicasta), ma sembra dalle sue parole che non siano nati figli da queste nozze: subito dopo l’incesto, infatti, Giocasta si sarebbe uccisa ed Edipo, accecato, avrebbe continuato a regnare su Tebe. Questa parte del mito è arricchita di ulteriori particolari nei ciclici. Secondo l’Edipodia i quattro figli (Eteocle, Polinice, Ismene e Antigone) sarebbero nati dalle nuove nozze di Edipo con Eurigamia; lo

storico Ferecide, raccogliendo questa tradizione, aggiunge che Antigone e Ismene furono uccise da Tideo presso una fonte che prese da allora il nome di Ismene. L’aver fatto dei figli di Edipo il frutto colpevole dell’unione incestuosa con Giocasta sembra un’ulteriore rielaborazione della vicenda mitica, che sarà ripresa dai tragici con intensi effetti drammatici. Nell’argomento del dramma sofocleo compilato dal grammatico Sallustio si afferma che il mito di Antigone era stato trattato nei ditirambi di Ione, secondo cui le due sorelle furono bruciate nel tempio di Era da Laodamante, figlio di Eteocle. Secondo il poeta Mimnermo, invece, Ismene fu uccisa da Tideo per ordine di Era, dopo che si era unita con Teoclimeno. La tradizione generalmente accolta dai tragici riferiva che dopo l’accecamento di Edipo le due figlie seguivano il padre nel suo volontario esilio, mentre in Tebe divampava la lotta per il trono fra Eteocle e Polinice; ma la morte dei due fratelli sembrava segnare la fine della parte più importante della vicenda, e il racconto si occupava dell’ulteriore sorte di Antigone e Ismene in modo molto superficiale e vago. Un solo testo, fra quelli cronologicamente anteriori a Sofocle, introduce Antigone e Ismene a lamentare la sorte dei due fratelli uccisi in duello e accenna alla decisione presa da Antigone di violare il bando di


Patrizia Arizza Creonte seppellendo il fratello: si tratta del finale della tragedia Sette a Tebe di Eschilo, che i critici ritengono quasi concordemente un brano spurio, che ha eliminato il finale originario di questa tragedia e che doveva servire solamente a saldare il finale dei Sette con l’Antigone sofoclea in qualche tarda ripresa di queste tragedie: motivi linguistici e storici conducono con quasi assoluta certezza a questa conclusione.

vanti a Tebe, copre di sabbia il corpo di Polinice ed effettua i riti di sepoltura, non potendo sopportare che il proprio fratello non ricevesse una degna sepoltura, che il suo corpo rimanesse per terra, arroventato dal sole e sbranato da uccelli e cani. La notizia della sepoltura del corpo giunge al re e, per capire chi fosse il responsabile, il cadavere è nuovamente messo allo scoperto; le guardie di Creonte si appostano nelle vicinanze e con sorpresa colgono Antigone sul fatto mentre ricopre un’altra volta il cadavere con terra e acqua. Nessuno si aspettava che fosse proprio lei, una donna giovane, la responsabile. E lei si lascia docilmente arrestare da una guardia uscita da Tebe, insospettita dal sollevarsi della polvere. La ragazza è così portata al cospetto del re, suo zio. Interrogata, risponde ammettendo senza esitazioni la propria colpevolezza. Tuttavia confessa di averlo fatto perché l’editto del re, che vietava la sepoltura del fratello, a suo giudizio andava contro i principi espressi da leggi non scritte ma naturali che accompagnano l’uomo da sempre. Nessuna legge umana poteva, secondo Antigone, contrariare questi principi, nemmeno un editto dell’ente massimo, ossia del re. Nessuno quindi poteva impedire la sepoltura di un corpo, nemmeno se apparteneva a un traditore; e soprattutto nessuno poteva vietare a una sorella di seppellire il proprio fratello. Incredulo che una donna abbia osato disobbedire ai suoi ordini, Creonte decide l’imprigionamento di Antigone e ne decreta l’esecuzione. La fa rinchiudere pertanto in una caverna, dove troverà la morte. Nel frattempo l’indovino cieco Tiresia avverte Creonte che gli dèi sono

Antigone al cospetto di Creonte, Nestoris lucana a figure rosse, (ca. 380 a.C.), Londra, Brit. Mus. F 175, LIMC I, s.v. Antigone, 12

La tragedia sofoclea Semplice e lineare è il nucleo drammatico intorno a cui s’incentra la vicenda dell’Antigone: si racconta dello scontro tra Antigone, figlia di Edipo ― che vuole seppellire i resti mortali del fratello Polinice, morto mentre assediava la città di Tebe per usurpare il potere al fratello Eteocle ― e Creonte, lo zio, divenuto tiranno di Tebe, che invece vuole lasciare il nipote insepolto, in pasto a cani e avvoltoi, perché nemico della città. La pena per chiunque proverà a seppellirne il corpo è la morte. Apprende questa notizia un’infuriata Antigone, che si ostina a pretendere la sepoltura del corpo del fratello affinché il suo spirito possa riposare in pace. Antigone, contravvenendo al divieto, va dunque al campo di battaglia da26


Antigone: nata contro molto adirati per aver rifiutato la sepoltura a Polinice e gli preannuncia imminenti sciagure. Il re di Tebe va dunque a liberare Antigone dalla caverna in cui è imprigionata, ma è troppo tardi per evitare la tragedia: la donna si è impiccata. Questo porta al suicidio del figlio di Creonte, Emone (promesso sposo di Antigone), e poi la moglie del tiranno, Euridice, lasciando il re solo a maledire la propria stoltezza. Il nucleo del dramma sofocleo risiede nello scontro fra due volontà e due concezioni del mondo: quella di Antigone, fanciulla fragile fisicamente ma fortissima moralmente, fondata sul rispetto delle leggi non scritte della natura (physis) e quella di Creonte, tesa a imporre la forza dello Stato e della legge (nomos). In una società come quella della Grecia antica, dove la politica è una esclusiva riservata agli uomini, il ruolo di dissidente della giovane donna Antigone si carica di molteplici significati, ed è rimasto anche dopo millenni un sorprendente esempio di complessità e ricchezza drammaturgica. La sua ribellione non riguarda soltanto la sottomissione al nomos del re, ma anche il rispetto delle convenzioni sociali che vedevano la donna sempre sottomessa e rispettosa della volontà dell’uomo (in tutta la Grecia, ma ancor più ad Atene). Creonte trova intollerabile l’opposizione di Antigone non solo perché si contravviene a un suo ordine, ma anche perché a farlo è una donna. Nel suo ribellarsi, però, la donna risulta essere una figura meno dirompente di altre eroine come Clitennestra o Medea, poiché la sua azione non è rivolta a scardinare le leggi su cui si fonda la polis, ma solo a tutelare i suoi affetti familiari e la legge naturale che sente dentro di sé. Esem-

plare il dialogo tra la protagonista e la sorella Ismene: ΙΣ. […] Ἀλλ’ ἐννοεῖν χρὴ τοῦτο μὲν γυναῖχ’ ὅτι ἔφυμεν, ὡς πρὸς ἄνδρας οὐ μαχουμένα ἔπειτα δ’ οὕνεκ’ ἀρχόμεσθ’ ἐκ κρεισσόνων καὶ ταῦτ’ ἀκούειν κἄτι τῶνδ’ ἀλγίονα. Ἐγὼ μὲν οὖν αἰτοῦσα τοὺς ὑπὸ χθονὸς ξύγγνοιαν ἴσχειν, ὡς βιάζομαι τάδε, τοῖς ἐν τέλει βεβῶσι πείσομαι […] (v.v. 61-67) ΑΝ. Οὔτ’ ἂν κελεύσαιμ’ οὔτ’ ἄν, εἰ θέλοις ἔτι πράσσειν, ἐμοῦ γ’ ἂν ἡδέως δρῴης μέτα. Ἀλλ’ ἴσθ’ ὁποία σοι δοκεῖ, κεῖνον δ’ ἐγὼ θάψω […] (v.v. 69-71) IS. […] Ma bisogna pensare questo e cioè che siamo nate donne e tali da non combattere con gli uomini, e inoltre poiché siamo dominate dai più potenti (bisogna) obbedire a queste e a cose ancora più dolorose di queste. Dunque io chiedendo di ottenere perdono a quelli di sotterra, poiché sono costretta a queste cose, obbedirò a quelli che son saliti al potere […] AN. Io non potrei esortarti a farlo anche se tu in seguito lo voglia potresti compierlo insieme a me di mio gradimento. Ma sii quale a te sembra giusto, io invece seppellirò quello […]

Il contrasto tra le sorelle evidenzia la figura eroica di Antigone, contrapponendola a quella tradizionale di Ismene che, al contrario, rappresenta il modello femminile del suo tempo di donna debole, sottomessa all’uomo 27


Patrizia Arizza e obbediente al potere. Si può peraltro intendere Ismene anche come il contraltare debole della sorella, ossia come colei che esprime i dubbi che sono in effetti anche di Antigone stessa, che però si risolve ad agire.

versità di Halle e in un frammento di coppa omerica del Museo Nazionale di Atene sono rappresentati il suicidio di Giocasta e il lamento di Antigone sui corpi dei fratelli. Nelle urne etrusche Antigone o interviene per impedire il duello, o cerca di dividere i fratelli che combattono, oppure piange sui caduti. Un rilievo di Taranto nel museo di Berlino e un altro in pasta vitrea, nei quali si è voluto riconoscere Antigone che conduce il padre, illustrerebbero l’Edipo re di Sofocle. Un episodio dell’Edipo a Colono è probabilmente rappresentato in un cratere àpulo del Vaticano: la richiesta di ospitalità al re Teseo da parte di Edipo assistito da Antigone. Una parodia dell’Antigone sofoclea è in un vaso fliacico proveniente da Sant’Agata dei Goti, in cui la ragazza con la hydrìa condotta davanti a Creonte, toltasi la maschera, si rivela per un vecchio servo mandato da Antigone al suo posto; forse alla medesima tragedia è da riferire la raffigurazione di un’anfora lucana del British Museum, con una donna condotta prigioniera dinanzi a un re. È forse Antigone la giovane donna che visita la tomba di Edipo raffigurata su due vasi dell’Italia meridionale conservati nel Museo Nazionale di Napoli e nel Louvre. Si possono ricordare anche il disegno di H. Füssli (1770), il gruppo statuario scolpito da A. Canova (1798-1799), il disegno di J. Cocteau (ca. 1922). È singolare che l’episodio dell’Antigone ribelle alle leggi della città non trovi espressioni significative nell’arte figurativa fino all’Ottocento. La pittura ottocentesca ha rappresentato molte volte Antigone in veste di figlia devota, mentre accompagna il padre cieco nel suo esilio di espiazione fino al bosco

Antigone nelle arti Le rappresentazioni pervenuteci sono spesso ispirate più da Euripide e dalla favola di Igino che non da Sofocle. Al racconto di Igino si riferiscono, secondo Heydemann, le scene dipinte su due anfore àpule, una – dove i personaggi sono contrassegnati dai nomi – nella Collezione Jatta a Ruvo; l’altra nell’Antiquarium di Berlino, in cui l’archeologo Friedrich Gottlieb Welcker ha invece visto una derivazione da Euripide. Rappresentano Antigone condotta prigioniera da Creonte, che, riconosciuto il nipote, vuole che il proprio figlio Emone e Antigone muoiano, nonostante l’intervento di Eracle. In un sarcofago di villa Pamphilj, a Roma, la prima scena, con l’incontro di Eteocle e Polinice, che Antigone, Giocasta ed Edipo cercano di distogliere dal duello, e che si è pensato derivasse da una celebre pittura attribuita a Tauriskos oppure da altra pittura in una villa di Napoli descritta da Filostrato, illustra Le Fenice di Euripide; l’ultima, invece, con Antigone e Argia che sollevano il corpo di Polinice per portarlo sul rogo, ricorda il racconto di Igino. Le Fenice sono illustrate anche nelle coppe omeriche e in molte urne etrusche. In una coppa del British Museum e in un frammento nei Musei di Berlino, Antigone corre con Giocasta verso il luogo del duello e prega Creonte di permettere il seppellimento di Polinice, mentre in una coppa dell’Uni28


Antigone: nata contro delle Eumenidi, ma non ha fatto altrettanto con l’episodio della sua ribellione. A parte alcune pitture dell’antichità classica, le successive raffigurazioni si collocano in buona parte nel XIX secolo e sono opere di artisti che, per convenzione, definiamo minori. Al contrario, il personaggio di Antigone penetrò e si radicò tenacemente nella tradizione letteraria occidentale a partire soprattutto dal XIX secolo, favorito dalle speculazioni filosofiche di G. F. W. Hegel, F. Hölderlin e F. W. J. Schelling (il primo, per esempio, prese le mosse da Antigone per le sue riflessioni sullo Stato, sull’etica, sull’individuo). Ma già in precedenza il personaggio di Antigone aveva suscitato notevole interesse nel teatro, dando luogo a numerose riscritture (basti pensare ai drammi intitolati Antigone, per esempio, di R. Garnier (1580); J. De Rotrou (1638); V. Alfieri (1783); o a La Tebaide o i fratelli nemici di J. B. Racine, (1664]). La rappresentazione dell’Antigone di Sofocle diretta da L. Tieck, con le musiche di F. Mendelssohn avvenuta a Potsdam nel 1841 segna l’inizio di un rinnovato impulso a portare in scena le tragedie greche in Europa. Nel ’900, particolarmente degne di menzione sono le rielaborazioni del mito di Antigone di H. St. Chamberlain (1915), W. Hasencleer (1917), J. Anouilh (1942), J. Dantas (1946), B. Brecht (1948).

Il personaggio di Antigone incontra notevole fortuna anche nel teatro musicale, con svariati libretti e musiche da scena: degni di menzione in particolare il pezzo in prosa di J. Cocteau, tratto dall’Antigone di Sofocle e musicato da A. Honegger (1927) o la musica composta da C. Orff per la tragedia, liberamente tradotta da F. Hölderlin (1949), o ancora la musica scritta da M. Theodorakis per il balletto con coreografia di J. Cranko (1959). Un vasto e complesso percorso quello del mito di Antigone nelle arti, che si può (al momento) concludere ricordando come nel volume Antigone illustrata di Valentina Motta si proponga un ritratto – elaborato su fonti letterarie, ma anche e soprattutto iconografiche – dell’eroina sofoclea, soggetto caro in particolare alla pittura neoclassica italiana e francese, ai preraffaelliti inglesi e, in generale, ad artisti europei attivi tra fine Settecento ed età contemporanea. E sono proprio le immagini a guidare il lettore e a introdurlo nella storia di Antigone, fissando e sintetizzando il dramma attraverso cinque nuclei tematici: il rapporto col padre Edipo e la pietas filiale; Antigone, figura di eroina solitaria; lo scontro tra Eteocle e Polinice e il ruolo di mediatrice svolto dalla ragazza; la necessità di onorare Polinice a causa della sua mancata sepoltura; il legame e la rottura dei rapporti familiari.

NOTE 1 Od. XI 271 ss. 2 H. Heydemann, Phlyakendarstellungen, in «Jahrbuch», i, 1886, p. 303 3 Plin., Nat. hist., xxxv, 144 4 Imag., 2, 29 5 Motta V., Antigone illustrata, Albatros, Roma 2019.

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Patrizia Arizza

Marie Spartali Stillman, Antigone (1870)

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Medea: furia e com-passione Angelo S. Angeloni

Appena iniziamo a leggere Medea di Euripide questa donna tremenda si rivela nella sua complessità psicologica che il poeta, grande conoscitore della psiche umana, approfondisce nel corso della tragedia. Ancora non compare sulla scena, ma nel lamento della nutrice c’è già tutto il suo stato d’animo: infelice, sventurata, tradita, ferita nei suoi affetti più cari, violenta «non prende cibo, e tutto il giorno […] si strugge in pianto, si abbandona al dolore, né mai leva gli occhi da terra né il volto, e sta come rupe o flutto marino, sorda ai consigli degli amici»1.

La vita le appare una desolazione, tutto le vacilla intorno, è sola nella sventura e nel dolore, nel rimpianto e nel rimorso lacerante verso il padre, la casa, la patria che ha tradito; sola nel terribile tormento di madre verso i figli. La nutrice non può trattenere più il dolore della sua padrona, e lo comunica alle donne corinzie del coro, che vorrebbero alleviarlo parlandole. *** Medea ci affascina per il sentimento di sim-patia e com-passione che la sua sofferenza suscita anche in noi. Ci affascina il suo tormento, la sua lotta, la sua natura di donna forte e debole, violenta e tenera, istintiva e razionale.

Medea è, infatti, la tragedia della “lotta” di questa donna e, innanzitutto, della lotta con se stessa. Questa lotta attraversa tutta la tragedia, ma si rivela nella sua drammaticità alla fine, nel bellissimo monologo nel quale il cuore di madre si scontra con quello di donna offesa, l’amore per i figli con la vendetta verso Giasone. Il monologo inizia con le parole tenerissime di madre che, come ogni madre, ha riposto le sue speranze nei figli: «Cari figli, invano per voi affanni e pene soffersi, invano acute doglie a partorirvi mi lacerarono il fianco. Quante speranze, infelice, in voi avevo riposte! Che un giorno avreste nutrita la mia vecchiezza e che, morta, pietosamente le vostre mani, gradito pensiero ai mortali, mi avrebbero sepolta. Ora la dolce speranza è caduta. Priva di voi, ho davanti a me un’assai penosa e dolorosa vita. Non più voi coi cari occhi vostri vedrete la madre. Per altri lidi, per altra vita, voi sarete partiti».

Con occhi luminosi e sereni i figli la guardano e le sorridono d’un ultimo sorriso inconsapevole, straziante insopportabile, disarmante; e nel cuore di Medea prende posto l’amore di madre. Ma dura poco. Torna l’orgoglio di donna e il pensiero della vendetta che ella aveva momentaneamente scacciato. Manda via i figli, poi li richiama, li abbraccia con un dolce, ultimo abbraccio, lodando le loro braccia, le


Angelo S. Angeloni ha perfino ucciso orrendamente il fratello e lo zio di Giasone. Allora, sente insieme tutto l’orgoglio e l’umiliazione, trabocca l’odio, si fa prepotente la vendetta.

labbra, la gentilezza del volto e di tutto il corpo; e nell’abbraccio dice loro di essere felici: non lì, ma laggiù (nell’Ade). Immaginiamo con che strazio lo avrà detto, soprattutto perché i figli non capiscono dove. I figli vanno via, ed ella, rimasta sola, dice queste terribili parole:

«La donna» – dice – «è di solito piena di paura, e inadatta alla lotta, e ripugna alla vista di un’arma; ma se offesa nei suoi diritti di sposa, non c’è altro cuore più del suo assetato di sangue».

«Non posso più vedere i miei figli. Il male mi vince. Conosco il misfatto che sto per compiere. Ma il furore dell’animo che spinge i mortali alle più grandi colpe è più forte di me in ogni volere».

Ingiuria Giasone come «il peggiore di tutti», il più spregevole, che assomma in sé tutti i mali. Non sa dire altro per qualificarlo; le parole sono insufficienti, o la collera ne blocca l’uscita dal cuore. Anche Egeo condanna la «turpe azione» di Giasone. E il coro dice di lui:

Ecco il più doloroso dei contrasti. Ma più dolorosa è la coscienza che ne ha. Com’è terribile quel «conosco», che è un «capire», un «prendere coscienza»! Non è freddezza quella di Medea; è confessione dolorosa. Alla fine, ella compie ciò che ha meditato. È vittoriosa? No. È una vinta: vinta dai mali che ha sofferto, vinta per la sua caparbietà che le ha offuscata la mente. Ciò che ha commesso l’annovera tra i vinti; e sarà infelice, sempre. Medea è anche la tragedia dell’infelicità umana. Solo chi non scende in fondo all’animo di questa grande donna può pensare che ella abbia trionfato su Giasone. Quella di Medea, infatti, non è solo la sua lotta interiore; è anche la lotta con Giasone, alla cui base c’è il matrimonio e il tradimento di lui. Anche in Giasone era stata forte la passione amorosa. Ma, giunto a Corinto, abbandona Medea e sposa Glauce, figlia del re Creonte. Medea vede crollare tutto, prende coscienza della sua condizione di straniera in terra greca, si sente smarrita, ingiustamente tradita: lei non ha fatto nulla per meritare questo; anzi, ha amato Giasone d’un amore assoluto; per seguirlo ha abbandonato tutto;

«Aborrito da tutti, muoia colui che dopo essersi insinuato nel candido cuore di amici, non li rispetta più e li tradisce».

Giasone, invece, non prova alcun rimorso, è freddo, insensibile, quasi avesse ragione. Ragiona come un potente. L’esilio che Creonte ha decretato per Medea e i figli (la più grave delle sventure) è colpa dell’arroganza di lei. Egli ha violato la fede dei giuramenti, ma non ritiene immorale questa sua condotta. Ritiene, anzi, di essere stato saggio sposando la figlia del re, e di non aver ceduto a nuova passione. «Quando io venni qui dalla terra di Jolco» – spiega – «traendomi dietro una serie di disperati guai, quale miglior fortuna potevo trovare, bandito com’ero, che sposare la figlia del re? Non già perché avessi in odio il tuo letto - questo è che ti rode - né perché fossi colpito da desideri di nuova sposa, e nemmeno per ambiziosa gara di un maggior numero di figli,

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Medea di vivere insieme con la sua sposa è contento, allora è una vita invidiabile; se no, è meglio morire. Quando poi l’uomo di stare coi suoi di casa sente noia, allora va fuori e le noie se le fa passare; ma noi donne a quella sola persona dobbiamo guardare. Dicono che noi donne vivendo in casa viviamo senza pericoli e l’uomo ha i pericoli della guerra. Ragionamento insensato. Vorrei tre volte trovarmi in battaglia anziché partorire una sola».

mi bastano quelli che ho e non mi lagno; ma perché potessimo avere vita agiata, che è un gran bene, e non patire miseria, ben sapendo che il povero tutti lo fuggono, anche gli amici, e i figli potessi allevarli secondo il decoro della mia gente, e generando fratelli ai figli avuti da te, farne una sola famiglia e così, con le due figliolanze congiunte, vivere felice».

Passione e ragione, sentimento e calcolo; ragioni del cuore e quelle pratiche, razionali, interessate: Medea e Giasone si muovono secondo due visioni contrastanti, inconciliabili, simbolo anche di un contrasto sociale.

È la presa di coscienza della condizione sociale della donna, la condanna di quel sistema contro il quale Medea fa valere i suoi diritti. Siamo lontani, certo, dalle rivendicazioni moderne, ma questa donna ne è l’esempio indimenticabile. Nella lotta contro il potere di qualunque natura, Medea somiglia ad Antigone: ambedue difendono le leggi non scritte degli dèi. A Creonte che l’accusa di aver sovvertito le sue leggi, Antigone risponde:

La lotta di Medea diviene, infatti, anche lotta “sociale” sulla condizione della donna. Due lunghi colloqui ella ha con Giasone: il primo, dove emerge la sua natura, è pieno d’odio; il secondo è di finta calma e remissività, perché deve preparare la vendetta. Nel primo, c’è già la ribellione femminile contro un costume che non condannava l’uomo che in certi casi ripudiava la moglie. Uscita finalmente fuori di casa, le prime parole che dice rivolgendosi alle donne del coro, sono di una forza straordinaria, degne delle migliori lotte femministe:

«Sì, perché non fu Zeus a impormele. Né la Giustizia, che siede laggiù tra gli dèi sotterranei, ha stabilito queste leggi per gli uomini. Io non credevo, poi, che i tuoi divieti fossero tanto forti da permettere a un mortale di sovvertire le leggi non scritte, inalterabili, fisse degli dèi: quelle che non da oggi, non da ieri vivono, ma eterne»2.

«Di quanti esseri al mondo hanno anima e mente, noi donne siamo le creature più infelici. Dobbiamo anzitutto, con dispendio di denaro, comperarci il marito e dare un padrone alla nostra persona; e questo è dei due mali il peggiore. E poi c’è il gravissimo rischio: sarà buono colui o non sarà? Separarsi dal marito è scandalo per la donna, ripudiarlo non può. E ancora: una donna che venga a trovarsi tra nuove leggi e usi e costumi, ha da essere indovina se non riesce a capire da sé quale sia il miglior modo di comportarsi col suo compagno. Se ci riesce e le cose vanno bene e lo sposo

A Giasone, Medea dice: «Dov’è andata la fede nei giuramenti agli dèi? Credi che gli dèi di allora non regnino più, che nuove leggi siano state istituite fra gli uomini? Io non so se tu credi a questo; ma certo sai bene di essere verso di me traditore e spergiuro».

***

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Angelo S. Angeloni scena terza – «ma vivere umanamente, può soltanto l’uomo». E la Medea di Grillparzer dice di non essere più maga, ma solo donna, debole e indifesa, bisognosa d’aiuto che si getta nelle braccia del marito. Medea, inoltre, è divenuta in questi scrittori il simbolo dello “straniero”. Anche in Euripide c’è questo aspetto. Al coro delle donne corinzie, ella dice: «Ma in realtà non vale per me e per te lo stesso discorso [quello sulla condizione della donna che abbiamo riferito]. Qui tu hai la tua patria e la casa paterna, hai comodità di vita e compagnia di amici; e qui io sono sola, senza patria, esposta agli oltraggi di un uomo che mi ha rapita da una terra straniera come una preda, non ho madre, non ho fratello, non ho congiunti a cui riparare da questa tempesta».

Parole che ogni migrante di oggi sente come sue. Ma è nella Medea del Novecento che il personaggio diviene simbolo del “diverso” isolato e discriminato (Grillparzer). In Alvaro è in cerca solo di un «angolo di terra», un «focolare», una «casa» in cui ella sia padrona di sé e dei suoi figli. Anche in Euripide è forte il sentimento della patria; ma lì come rimpianto, qui come disperato desiderio di rifugio. Ma Medea è una “barbara”. A Corinto, tutti la temono. I paesi temono i nuovi occupanti; temono di perdere la loro identità, allora come oggi. È l’origine dell’odio razziale. Ad Alvaro, ella appare «un’antenata di tante donne che hanno subito una persecuzione razziale, e di tante che, respinte dalla loro patria, vagano senza passaporto da nazione a nazione, popolano i campi di concentramento e i campi profughi. Ella uccide i figli per

Eugène Delacroix, La furia di Medea, 1838, Palais des beaux-arts de Lille

Molti scrittori dopo Euripide hanno rivisto e adattato il mito di Medea: Neofrone, Apollonio Rodio, Ovidio, Seneca, Boccaccio, Corneille, Grillparzer, fino alle Medèe del Novecento di Anouilh, Alvaro, Pasolini, Christa Wolf. Ma se gli scrittori antichi rimangono legati, in qualche modo, alla donna di Euripide, terribile, gelosa, crudele, ecc., in quelli del Novecento, soprattutto, questo aspetto si è venuto attenuando, fino alla rappresentazione di una Medea umana (ad eccezione, forse, di quella di Anouilh). «Tu puoi distruggere» – dice la Medea di Corrado Alvaro alla fiamma divina, al fuoco di Prometeo che invoca all’inizio della 34


Medea non esporli alla tragedia del vagabondaggio, della persecuzione, della fame; estingue il seme di una maledizione sociale e di razza, li uccide in qualche modo per salvarli, in uno slancio di disperato amore materno». Come, infatti, dice a Creonte, Medea di Alvaro uccide i figli per salvarli dal suo popolo. Anche Pasolini legge in Medea l’emarginazione sociale, il conflitto culturale. Ella «potrebbe essere la storia di un popolo [Medea ne sarebbe il simbolo] del Terzo mondo [“barbaro” come

lei], di un popolo africano ad esempio, che vivesse la stessa catastrofe, venendo a contatto con la civiltà occidentale materialistica». Nella grande letteratura di tutti i tempi si riflettono le ansie e le aspirazioni di una società o di un popolo. Il suo compito è di farci essere consapevoli di esse, conoscerle e tradurle in coscienza: «Conoscere è rinascere nel conosciuto, e dunque riformarlo nel presente come la forma possibile del suo stesso avvenire»3.

NOTE: 1 Questa e le traduzioni degli altri passi è di M. Valgimigli; in Il teatro greco – Tutte le tragedie; a cura di Carlo Diano; Sansoni, Firenze, 1970 2 Traduzione di E. Cetrangolo, in Il teatro greco – Tutte le tragedie; cit. 3 Massimo Cacciari, La mente inquieta – Saggio sull’umanesimo; Einaudi, Torino, 2019; pag. 11)

Anselm Feuerbach, Medea, 1870, Neue Pinakothek

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NOVITA’ EDITORIALE

Giovanna Motta (a cura di), Pandemie. Nell’immaginario e nella realtà, fra suggestioni, storie, significati simbolici, edizioni della Fondazione Giacomo Matteotti, collana “Testimonianze e ricerche” (4), Roma 2020. 508 pagine, € 42,00 Il volume nasce dalla consolidata collaborazione tra la Fondazione Giacomo Matteotti e la Fondazione Sapienza che ha già dato vita, nel 2019, alla vasta ricerca sul tema Mediterraneo: tradizione, patrimonio, prospettive. Una proposta per l’innovazione e lo sviluppo, pubblicato nella medesima collana “Testimonianze e ricerche” insieme a un DVD con documenti audiovisivi originali. L’iniziativa trae origine dal progetto di Giovanna Motta di indagare, con un approccio multidisciplinare, le risposte della società contemporanea alla sfida della pandemia da Covid-19 in un ampio contesto storico, culturale e sociale. Il volume raccoglie contributi originali di: Alberto Aghemo, Patrizia Arizza, Antonello Battaglia, Antonello Folco Biagini, Martina Bitunjac, Cornelia Bujin, Andrea Carteny, Marco Cilento, Diego Cimino, Lucio d’Alessandro, Ferruccio de Bortoli, Maria Pia Di Nonno, Elena Dumitru, Emmanuele Francesco Maria Emanuele, Eugenio Gaudio, Fabiana Giacomotti, Fabio L. Grassi, Giorgio Leali, Gaetano Lettieri, Donato A. Limone, Vincenzo Mongillo, Mario Morcellini, Valentina Motta, Gabriele Natalizia, Rossella Pace, Giovanni Parapini, Roberto Pasca di Magliano, Nadan Petrović, Beatrice Romiti, Marco Ruggeri, Roberto Ruggeri, Carmelo Russo, Francesca Russo, Alessandro Saggioro, Ana Sbutega, Ciriaco Scoppetta, Donatella Strangio, Lorenzo Termine, Elena Tosti Di Stefano, Alessandro Vagnini, Giuliana Vinci, Shirin Zakeri Stampato in Italia nel mese di settembre 2020 da F.lli Pittini snc ISBN 978-88-940861-4-0


Eleonora D’arborea, legislatrice Antonio Casu

1. Le ragioni di un mito Da oltre sei secoli, poche personalità storiche si sono mostrate capaci di radicarsi nella memoria identitaria di un popolo come Eleonora d’Arborea; e poche leggi fondamentali sono state rispettate e celebrate come la Carta de Logu. Molte sono le ragioni della persistenza del suo personaggio nell’immaginario collettivo, non solo dei sardi, che aiutano a comprendere ed al contempo vanno ben oltre il mito romantico che l’ha avvolta in un passato anche recente. In questa sede vorrei richiamarne essenzialmente tre. La prima. Eleonora è, innanzitutto, una regina, in un tempo dominato dai re. Una donna chiamata dalla storia ad assumersi gravose responsabilità, che non ha declinato, rivelando temperamento forte e risoluto. Poco conta, nel delinearne la figura, la qualificazione formale della sua corona, se cioè sia stata Giudice pleno iure ovvero si sia limitata al ruolo di reggente – anche se nella Carta de Logu, nelle sue lettere a Pietro IV di Aragona e nel trattato di pace del 1388 si firma “juyghissa d’Arbarèe” – facendo eleggere giudici, l’uno dopo l’altro, i suoi due figli. Sul piano sostanziale, infatti, Eleonora ha esercitato le prerogative regie, anche e soprattutto nei momenti di crisi dell’assetto politico e istituzionale del suo tempo.

Non è l’unico caso, nella storia della Sardegna giudicale. I nomi di queste donne ci giungono dal passato come anticipazione della modernità: Padulesa de Gunale ed Elena in Gallura, sua sorella Benedetta di Massa e Agnese a Cagliari, e poi ancora Agalbursa d’Arborea, Adelasia di Torres, e appunto Eleonora. D’altronde, poche altre regnanti hanno avuto un simile pieno riconoscimento interno ed esterno. Vedove, figlie o sorelle, sovrane pleno iure o reggenti, tra i primi decenni del XII e la fine del XIV secolo hanno guidato i quattro giudicati in una difficile transizione storica tra l’eredità politica e giuridica romano-bizantina e il nuovo equilibrio del Mediterraneo occidentale, tra l’influenza delle repubbliche marinare di Genova e Pisa e il peso crescente della corona d’Aragona. Segno evidente, questo, di una tradizione – che trova analogie in quella spagnola - assai distante dalla successione dinastica continentale, legata alla lex salica, che esclude la discendenza femminile dalla successione al trono, salvo estinzione del ramo maschile. Una tradizione diversa da quella osservata dalla corona di Sardegna sotto i Savoia, come si evinceva dallo Statuto albertino del 1848, che al secondo periodo dell’articolo 2 ribadiva che “il Trono è ereditario secondo la legge salica”.


Antonio Casu E tuttavia nessuna di queste donne regnanti, delle sue “antenate”, ha segnato la storia come Eleonora. Perché, ed è questa la seconda motivazione, Eleonora non era solo un capo politico, ma anche, nei termini del suo tempo, un capo militare e diplomatico. Una donna che ha condotto una guerra lunga e sanguinosa, contro la sua terra d’origine e per la sua terra di adozione. È per questo che, nell’immaginario collettivo, è assurta al rango di eroina, come altre eroine della storia. La lunga guerra condotta contro gli Aragonesi, contro le sue stesse radici, è stata allo stesso tempo una guerra di indipendenza politica, di emancipazione giuridica ed economica, di consolidamento dinastico della sua famiglia. Forse l’ultima guerra condotta dai sardi per difendere la propria integrità territoriale. I contorni di questa vicenda storica ci rivelano l’indole di Eleonora, in quell’intreccio di pubblico e privato, di certezze storiche e di zone d’ombra, che caratterizza sempre la storia, e il Medioevo in particolare.

Eleonora, nata probabilmente in Catalogna intorno al 1340, figlia di Mariano IV de Bas-Serra e di Timbora de Rocaberti, aveva sposato il genovese Brancaleone Doria, sul finire del 1376, e con lui si era stabilita nella rocca di Castelgenovese, dove aveva dato alla luce i suoi due figli Federico e Mariano. Nel 1382 si era trasferita a Genova con il marito. E a Genova ricevette, appena l’anno dopo, la notizia della morte del fratello Ugone III, succeduto al padre nel trono, che era stato assassinato insieme alla figlia Benedetta, sua unica erede. L’assassinio del fratello fu la chiave di volta della sua vita. Tornata tempestivamente nell’isola, dove aveva vissuto fin da piccola, si mise alla testa di una schiera di seguaci e, “percorrendo a cavallo con i suoi fedeli i territori giudicali, stroncò con estrema e insospettata energia ogni forma di ribellione” e condusse la guerra, iniziata dal padre nel 1353, anche quando il marito fu tratto in prigionia dagli Aragonesi nel 1384. Eleonora regnante difese le prerogative del Giudicato, che intendeva perpetuare la sua antica e piena sovranità; mentre la corona d’Aragona, al contrario, intendeva far valere la concessione feudale dell’infante Alfonso XIII, sbarcato in Sardegna nel 1323, a Ugone II. Inoltre, il Giudicato aveva una differente prassi relativa alla successione. Il Giudice era infatti eletto dalla Corona de Logu, l’Assemblea dei notabili del Regno (su Rennu): aristocratici, prelati, alti funzionari, maiorales delle città e dei paesi. Con questa antica procedura Eleonora aveva fatto eleggere il suo primogenito, in palese contrasto con la volontà della corona aragonese

Eleonora D’Arborea, di Antonio Carboni 1881

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Eleonora D’Arborea, legislatrice di procedere mediante l’ordinario ricorso all’infeudazione regia. Ma Eleonora tenne ferma la prassi giudicale, e sottopose all’approvazione della Corona de Logu anche il trattato di pace del 1388 concluso con le truppe di Pietro IV, detto il Cerimonioso, dopo tre anni di negoziato. Infine, nell’esercizio delle sue funzioni di governo, Eleonora seppe distinguersi per l’attuazione di una politica più autorevole che autoritaria, come attestato dal largo consenso delle sue genti, frutto della sua ferma difesa della sovranità e delle prerogative del Giudicato, e dalla sua imponente opera di codificazione normativa. E giungiamo così alla terza motivazione, il suo ruolo di legislatrice. Il nome di Eleonora è infatti indissolubilmente legato alla Carta de Logu. Il giudizio storiografico ha concordemente sottolineato, sia pure con differenti accenti, il valore di questo documento, ritenuto di volta in volta “segno di un perfezionamento sociale, dal quale erano allora ancora lontane le più vaste contrade del continente italiano”; un “codice generale”, teso a modernizzare il diritto isolano sulla base degli influssi coevi; non la mera razionalizzazione del diritto autoctono, ma l’espressione di una reale capacità di innovazione. Non posso certo richiamare qui i molti e autorevoli studi condotti sul documento da altri importanti studiosi, dall’abate Simon ad Antonio Pertile, da Enrico Besta a Guido Mondolfo, da Francesco Loddo Canepa ad Antonio Marongiu, da Ginevra Zanetti ad Antonio Era – il primo titolare nel 1935 di una cattedra di Storia delle istituzioni giuridiche ed economiche della Sardegna –, da Antonio Pigliaru ad Alberto

Boscolo, a Francesco Cesare Casula, Antonello Mattone, Marco Tangheroni, a molti altri. E non si possono dimenticare i contributi degli studiosi spagnoli e catalani, da Jeronimo Zurita a Joaquin Arce, ma anche anglosassoni, da Kohler e Dahm in poi. Il rilievo di questi studiosi e la molteplicità degli orientamenti e delle interpretazioni attestano la centralità della Carta de Logu nella storia sarda e nel panorama delle costituzioni italiche di quel torno di tempo. Vorrei sinteticamente inquadrare la Carta come un ordinamento generale, uno statuto giudicale complesso, che coniuga le tradizioni autoctone con le esperienze aragonesi, genovesi e pisane, e che si manifesta come un importante elemento di raccordo giuridico tra l’alto medioevo e lo Statuto albertino, capace di contemperare, come sostiene la migliore storiografia del Novecento, il diritto romano comune (sa lege) con il diritto consuetudinario locale. 2. La Carta de Logu Della Carta in realtà non si conosce con esattezza la datazione (gli studiosi hanno formulato ipotesi che oscillano tra il 1385 e il 1395), l’estensore materiale (forse il canonista Filippo Mameli, come sostiene ad esempio il Marongiu; forse il francescano Guido Cattaneo, a detta dell’Artizzu) e neppure il testo originale, del quale ci sono pervenute solo due redazioni successive, parzialmente diverse tra loro: un manoscritto quattrocentesco probabilmente interpolato ed un incunabolo risalente alla fine dello stesso secolo, di cui ci restano due copie integre ma prive del colophon e del frontespizio, per cui appunto restano ignoti data, luogo ed editore. 39


Antonio Casu La prima sezione (artt. 1-16), l’unica priva di titolo, riguarda i delitti più gravi: lesa maestà, omicidio, veneficio, suicidio, aggressione, ferimento, percosse, grassazione. La seconda (Ordinamentos de furas e de maleficios, artt. 17-44) reca la normativa in materia di furti e reati di varia natura: dallo stupro alla falsa testimonianza, dall’adulterio all’abigeato. La terza (Ordinamentos de foghu, artt. 45-49) tratta la materia di fuochi e incendi. La quarta (Ordinamentos de chertos e de nunzas, artt. 50-80) contiene disposizioni in materia di liti e denunce, sulla giurisdizione e sul processo. La quinta (Ordinamentos de silva, artt. 81-105) regolamenta materie eterogenee prevalentemente riconducibili al rapporto tra uomo e territorio (caccia e pesca, tutela della fauna terrestre e acquatica, cavalieri e cavalli) ovvero alla disciplina del matrimonio e più in generale al diritto di famiglia. La sesta (Ordinamentos de corgios et de mercantes, artt. 106-111) disciplina le attività relative alla concia e al commercio del cuoio. La settima (Ordinamentos de sa guardia de sus laores, vignas et ortos, artt. 112-123) concerne la salvaguardia dei cereali, la recinzione di vigne e orti, lo sconfinamento del bestiame nei campi altrui, i giorni festivi, ma anche l’ordinamento giudiziario, il processo e il notariato. L’ottava (Ordinamentos de salarios, artt. 124-132) stabilisce le parcelle di magistrati, notai e scrivani (gli odierni cancellieri) dei tribunali, le pene per i bestemmiatori, etc. La nona (Ordinamentos de vignas, de lavores e de ortos (artt. 133-154);

La prima pagina della Carta de Logu

Non possiamo conoscere neppure con precisione la reale originalità delle sue singole disposizioni, visto che nel preambolo Eleonora richiama la Carta de Logu del padre Mariano IV, “rimasta immutata per sedici anni”, e che nel testo si trasfondono norme del Codice rurale, risalente anch’esso al padre. E infine le due versioni sono discordanti nel contenuto, ripartendosi il manoscritto in 136 capitoli mentre l’incunabolo in 198. E tuttavia la sua importanza è grande. Seguendo la struttura dell’incunabolo, si presenta ripartita in un Prologo, nel quale Eleonora si presenta “per la grazia di Dio” quale giudicessa d’Arborea e dieci Ordinamentos (sezioni), recanti disposizioni riferite a materie diverse. 40


Eleonora D’Arborea, legislatrice riporta il “codice rurale” di Mariano IV (richiamato espressamente da un breve prologo) non presente nel manoscritto originario. Il codice, emanato “dopo il 1353, anno dell’abolizione della servitù nel regno giudicale di Arborea” fu incluso certamente dopo il Parlamento del 1421. Si tratta dunque di un complesso di disposizioni da coordinare da coordinare con la sezione settima. La decima e ultima sezione (Ordinamentos de cumonis, de maxellos, de terminis e iniurias, artt. 155-198) regolamenta il contratto di soccida (cumone) e anche le accomandite, le macellazioni, i confini e le ingiurie. Si tratta, come si vede, di un corpus iuris normativo imponente e complesso, che affianca norme di principio ad altre immediatamente attuative nonché disposizioni di diritto sostanziale ad altre di diritto processuale; che spazia dal diritto penale (prevalente) a quello civile ed agrario in particolare; che include e normativizza usi civici e consuetudini. In questo contesto spiccano norme che appaiono ai nostri occhi di grande modernità, ed anche ispirate, evidentemente in relazione ai tempi, a principi di garanzia delle libertà individuali e di responsabilità sociale. Risalta tra i primi il ruolo della donna, equiparata all’uomo nella titolarità dei beni immobili (cap. 136) e ai fratelli nella successione legittima. E anche la disciplina del matrimonio, che affiancava all’istituto di tradizione romana, che limitava i doveri del padre all’obbligo di concedere una dote alla figlia, il matrimonio a sa sardisca, che riconosceva la comunione dei beni acquisiti durante il matrimonio. La dottrina più recente ha messo in luce come la posizione della donna

in tema di proprietà e in particolare di successione appaia pertanto migliore, in virtù della sua diretta derivazione dal diritto romano e bizantino, di quella della donna dell’Italia settentrionale, esclusa dalla successione dei beni immobili, nel solco della tradizione del diritto germanico. Inoltre, la donna era esentata dalla requisizione della sua parte di beni dovuta alla condanna del marito perfino nel caso più grave, il delitto di lesa maestà, che prevedeva la pena di morte e il sequestro dei beni; allo stesso modo i beni confiscati a un assassino erano subordinati alla rivendicazione dei diritti della moglie e perfino dei figli avuti da altra moglie; ed era esonerata dal pagamento della multa prevista per aver nascosto il marito ricercato. Interessante è anche la normativa sullo stupro – punito in generale con onerose pene pecuniarie e, in caso di mancato pagamento, con l’amputazione di un piede – che, se perpetrato ai danni di una vergine, poteva essere sanato da un matrimonio riparatore solo in caso di consenso della donna. E ancora meritano una menzione la possibilità delle donne di testimoniare nei processi, nonché l’assegnazione di un procuratore legale a vedove e orfani. Sull’altro versante, costituisce esempio dell’affermazione dei principi di responsabilità sociale, quello che il Besta definiva “il sistema della responsabilità collettiva”, l’istituto denominato s’incarica, cioè della irrogazione di una pena pecuniaria a carico di un villaggio nel caso di mancata individuazione dei responsabili di un reato commesso nel suo territorio (sez. I). Ne sono ulteriore esempio sia la previsione del taglio delle orecchie ai danni degli asini che pascolavano nei 41


Antonio Casu campi seminati, e della confisca degli animali in caso di recidiva, norma evidentemente rivolta a sollecitare la vigilanza dei padroni degli animali e a tutelare le coltivazioni agricole (cap. 144), sia le pene inflitte non solo ai piromani, chiamati a risarcire il danno ovvero a subire l’amputazione della mano destra, ma anche ad interi villaggi, in caso di mancato arresto del colpevole. Più in generale, vorrei ricordare su questi temi l’interpretazione di Antonio Pigliaru circa il pervasivo influsso della Carta de Logu sulla società barbaricina nel consolidamento della responsabilità collettiva (e anche nell’evoluzione del concetto secondo cui “la vendetta è un dovere”, vendetta che peraltro, secondo il codice barbaricino, deve essere adeguata, proporzionata e progressiva). Pigliaru evoca al riguardo il cap. 6 che, attribuendo all’intera comunità del villaggio (e specificamente ai “giurati” e agli uomini) l’onere di catturare e consegnare alla giustizia il colpevole di un omicidio commesso nel suo territorio, imponeva a tutti gli uomini di collaborare al rispetto della legge sia pure entro i limiti della legge stessa. Ciò al fine non solo di applicare la giustizia, ma anche di rompere il velo dell’omertà e infine di sottrarre il reo alla giustizia privata. Da un’altra angolazione, segno di modernità appaiono le molte previsioni che stabiliscono una gradualità delle pene in relazione ai reati, che prevedeva l’irrogazione della pena capitale, salvo che per i delitti più gravi, solo dopo aver esperito i gradini del risarcimento pecuniario e delle punizioni corporali. In parziale contro-tendenza risulta la previsione di una disposizione ritenuta distonica rispetto all’ispirazione romano-bizantina, quella relativa

all’identità della pena per il reo e per colui che vi sia in concorso ovvero vi abbia consentito (agentes et consentientes pari poena puniuntur), tuttavia presente nel diritto canonico, ma anche affine a disposizioni di diritto romano e anche germanico, incluso l’Editto di Teodorico. Ulteriori elementi degni di nota sono il favor testamenti di cui al cap. 51, che consente di dettare testamento, stante la penuria di notai, anche al sacerdote e in subordine al pubblico scrivano, sia pure alla presenza di testimoni, ed ancora la previsione, al cap. 57, del reintegro del possesso dei beni mobili del proprietario che ne venisse spogliato non in base a un provvedimento del magistrato. In definitiva, la stessa ampiezza e complessità della Carta de Logu suggerisce inequivocabilmente un intento ordinatorio e non meramente compilatorio, e rivela altresì la grande ambizione sottesa all’iniziativa, volta a dare finalmente compiutezza all’opera di codificazione avviata dal padre e poi accantonata per oltre tre lustri: la volontà di una dinastia e di un regno di sanzionare in una carta costituzionale il ruolo assunto nei fatti nell’ambito della società e della storia sarda. Questa capacità di visione spiega la lunga vigenza della Carta de Logu anche dopo la fine del conflitto sardo-aragonese. Nella grande differenza di contesto storico e istituzionale intercorrente tra la prima e la seconda sessione del Parlamento sardo, la Carta de Logu si configura come una pietra miliare. Il primo Parlamento sardo si era infatti riunito una prima volta in Cagliari, tra il febbraio e l’aprile del 1355, dunque prima dell’emanazione della 42


Eleonora D’Arborea, legislatrice Carta, per decisione di Pietro IV, che lo convocò e lo presiedette. Le Generales Curiae, come fu chiamato sull’esempio delle corti catalane, erano organizzate in tre ordini, chiamati stamenti o bracci: militare, ecclesiastico e “reale”, cioè civile. Le cronache riferiscono che fu una sessione particolarmente affollata di varie personalità – e d’altronde l’inaugurazione del Parlamento, e in quel momento di tensione politica, non poteva non richiamare la massima partecipazione – nella quale risaltava l’assenza di Mariano IV. Il Parlamento – a parte l’eccezionalità di una partecipazione, peraltro meramente passiva, alle funzioni giurisdizionali legate al processo a Gherardo della Gherardesca, conte di Donoratico, reo di ribellione al sovrano – svolse funzioni di mero conforto alle decisioni assunte dal sovrano, e si risolse nell’accoglimento delle proposte di costituzione presentate dal re. “Essa era – scrive Antonio Marongiu – l’unica forma allora possibile in Sardegna della partecipazione parlamentare alla legislazione”. Al contrario, la seconda sessione del Parlamento sardo venne inaugurata molti anni dopo, il 7 febbraio 1421, circa trent’anni dopo la promulgazione della Carta, a giochi politici e militari ormai conclusi, quando, estinta la dinastia dei Bas-Serra, e quindi anche quella dei visconti di Narbona, a loro imparentati e subentranti nella linea dinastica, i successori, De Tinières, avevano venduto a caro prezzo agli Aragonesi i loro diritti. Sarà necessario attendere il 1446 per vedere riconosciuto al Parlamento il diritto di auto-convocarsi. Resta il fatto che l’estensione della Carta

de Logu a tutto il Regno di Sardegna, decisa nel 1421 da Alfonso V il Magnanimo, ad eccezione delle città regie – esclusa Oristano, che continuò ad adottarla – era in buona sostanza il riconoscimento formale della situazione di fatto, e cioè che la Carta era applicata in modo diffuso, ad eccezione delle maggiori città, e che era ritenuta un presidio normativo valido e adeguato alle esigenze, tanto da prevederne l’aggiornamento, ove necessario, senza inficiarne l’impianto complessivo. A mio avviso, anzi, l’ispirazione garantista della Carta e la buona amministrazione della giustizia che aveva determinato furono prodromiche alle nuove conquiste giuridiche, tra le quali voglio qui ricordare, a titolo di esempio, la libertà di cambiare il proprio domicilio, la validità del processo subordinata alla regolarità formale della citazione, la necessità di seri indizi di colpevolezza per la sottoposizione del detenuto alla tortura, il ricorso al sovrano avverso i provvedimenti del viceré. La Carta de Logu fu abrogata solo con le Leggi civili e criminali promulgate il 16 aprile 1827 da Carlo Felice, ed è degna di nota la persistenza di singoli istituti negli ordinamenti locali attuali. Un esempio di grande attualità è costituito dalla distinzione tra incendi dolosi, sempre perseguiti, e fuochi finalizzati alla distruzione delle stoppie o alla fertilizzazione dei terreni, vietati solo nei mesi caldi, distinzione che trova origine nell’istituto del debbio, disciplinato nella terza sezione della Carta. Risale dunque alla Carta il divieto di bruciare le stoppie prima dell’8 di settembre, dedicato a S. Maria, chi est a die octo de capudanni (art 45), ancora vigente in alcuni comuni sardi. 43


Antonio Casu E così può dirsi delle polizie rurali, le “compagnie barracellari” (termine forse mutuato dallo spagnolo barrachel), derivanti dai jurados de logu e jurados de padro o padrargios, contemplati nella parte che contiene il codice rurale, nonché della sopravvivenza dei contratti di società parziaria (juargiu), o di soccida (il già citato cumone). Da ultimo, è appena il caso di accennare il valore linguistico della carta, redatta in sardo, quale riaffermazione erga omnes di “piena sovranità” e “maturità culturale e civile”, nella cui consapevolezza Eleonora muove la sua ferma difesa delle prerogative del Giudicato.

il complesso delle norme fondamentali dell’ordinamento e dei diritti e doveri dei cittadini, nel quadro di un processo che, in epoca moderna, culminò con il passaggio del potere costituente dalla Corona al Parlamento. E tuttavia, tra le due Carte si può intravvedere un ponte ideale. La Carta de Logu – ispirata, come ci insegna ancora Marongiu, a due criteri concorrenti: severità e giustizia – segna infatti una tappa rilevante nel percorso della civiltà giuridica italiana. Ecco, in considerazione dei tempi nei quali la Carta fu emanata, è proprio nella sua ispirazione lato sensu garantista, nella gradualità e proporzionalità nell’irrogazione della pena, nella commisurazione della pena all’elemento soggettivo del reato (e cioè all’effettiva responsabilità individuale), nella tutela dei diritti della donna e della famiglia, nel bilanciamento dei diritti della proprietà e del lavoro, nel prezioso equilibrio tra tutela del sentimento religioso e autorevolezza della sfera civile e politica – che sembra davvero anticipazione dei tempi nuovi – che a mio avviso si rinvengono i valori fondanti di una civiltà giuridica che, dai liberi Comuni al Settecento, costituirà il basamento della nostra Costituzione repubblicana. Nel grande fiume della storia politica e giuridica italiana, la Carta de Logu rimane dunque come uno degli affluenti più ricchi e fecondi.

III. L’eredità della Carta Certo non è possibile stabilire un collegamento diretto tra la Carta de Logu e la Costituzione italiana. Era diverso lo Stato, dato che il Giudicato era organizzato sui principi della res publica christiana, la cui dissoluzione darà luogo allo Stato moderno, sancito dalla pace di Westfalia del 1648. Era diverso il Parlamento, che in Sardegna, a differenza di altre realtà nazionali, era ancora agli albori, e che avrebbe acquisito carattere realmente rappresentativo, come si è accennato, solo in seguito. Era diversa la Costituzione, che dà atto fondamentale emanato dalla suprema autorità politica divenne, anche grazie all’impulso delle costituzioni trecentesche e degli statuti medievali,

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Eleonora D’Arborea, legislatrice

NOTE 1 M.T. Guerra Medici, Eleonora d’Arborea e la Carta de Logu, in: «Genesis», n. 2 del 2002, pp. 173-181 2 A. Mattone, Eleonora d’Arborea, in: Dizionario biografico degli italiani, vol. 42, Treccani, Roma 1993 3 Trattato sottoscritto dai suoi plenipotenziari Pérez de Arenós, Antonio Casu, Tommaso de Serra e Comita Panza 4 F. Sclopis, Storia della legislazione italiana, vol. II, Progressi, UTET, Torino 1863, p. 190 5 F. Calasso, Medio Evo del diritto, vol. I, Le fonti, Giuffrè, Milano 1954, pp. 449-50 6 E. Cortese, Il diritto nella storia medievale, vol. II, Il Basso Medioevo, Il Cigno-Galileo Galilei, Roma 1995, pp. 350-2 7 La bibliografia è imponente. Per un riepilogo delle principali fonti si veda in particolare l’introduzione del volume, a cura di I. Birocchi e A. Mattone, La Carta de Logu d’Arborea nella storia del diritto medievale e moderno, Laterza, Roma-Bari, 2004 8 A. Marongiu, Sul probabile redattore della Carta de Logu d’Arborea, in: Studi economico-giuridici della Regia Università di Cagliari, 1939; poi incluso nella raccolta Saggi di storia giuridica e politica sarda, Padova, CEDAM 1975, pp. 61-73 9 F. Artizzu, Di Filippo Mameli e di altri, in «Archivio storico sardo», 1981, pp. 125-138 10 A. Era, Le carte de logu, in: «Studi sassaresi», 1960, p. 19 11 L’incipit recita infatti: «A laude de Jesu Christu Salvadori nostru, ed exaltamentu dessa Justicia. Principiat su libru dessas constitucionis ed ordinacionis sardiscas fattas ed ordinadas peri sa illustrissima signora dna Elianora peri sa gracia de Deu juyghissa de Arboree, contessa de Gociani e biscontissa de Basso, intituladu Carta de logu”. E più sotto: “Nos elionora proissa gracia de deus iuyghissa de arbarèe contissa de ghociani et biscòtissa de baso. Deliberando qui sos fideles et subdicosnostros dessu rennu nostru de arbarèe» 12 «Nos Marianus pro issa gracia de Deus iuyghi de Arbaree, compte de Gociano et bisconti de Basso, considerando sos multos lamentos continuamente sunt istados per issas terras nostras de Arbaree et de Loghudore pro issas vignas, ortos et lavores… amus deliberado de faghere et faghemus sos infrascriptos ordinamentos…» 13 F.C. Casula, Introduzione a La Carta de Logu del regno di Arborea. Traduzione libera e commento storico, Delfino, Roma 2008, p. 11 14 In tal senso M. T. Guerra Medici, Eleonora d’Arborea e la Carta de Logu, op. cit., p.178 15 Vedi, a cura di E. Besta e P. E. Guarnerio, La Carta de Logu quale monumento storico giuridico, Dessì, Sassari 1905, p. 40 16 A. Pigliaru, La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, Giuffrè, Milano 1959, p. 171 17 A. Marongiu, Delitto e pena nella Carta de Logu d’Arborea, in Studi in onore di Carlo Calisse, vol. I, Giuffrè, Milano 1939; poi in Saggi di storia giuridica e politica sarda, cit., pp. 75-93 18 A. Marongiu, I Parlamenti sardi. Studio storico, istituzionale e comparativo, Giuffrè, Milano 1979, p. 178 19 G. Pazzaglia, L’istituto del barracellato e l’agricoltura della Sardegna, in Atti del secondo congresso nazionale di diritto agrario (Mussolinia-Cagliari-Sassari 16-19 ottobre 1938), Edizioni universitarie, Roma 1939, p. 95 ss 20 A. Marongiu, Delitto e pena nella Carta de Logu d’Arborea, op. cit., p. 80

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Lady Morgan e l’Italia del Risorgimento Ester Capuzzo

A differenza di quanto sostenuto da Jeanne Moskal in un articolo uscito poco più di venti anni fa e dedicato a Gender and Italian Nationalism in Mary Shelley’s, Rambles in Germany and Italy non sembra, come ha già osservato Lilla Maria Crisafulli, si possa pienamente appoggiare l’affermazione della studiosa inglese che ascrive la nascita della scrittura di viaggio femminile con caratteristiche politiche intorno agli anni ’40 dell’Ottocento. Tale affermazione, infatti, sembra contraddire nell’odeporica femminile, soprattutto in quella prodotta da travellers britanniche, la presenza, seppure non sempre marcata, di un’attenzione specifica da parte delle viaggiatrici che sin dalla fine del Settecento manifestavano nella narrazione del loro tour in Italia posizioni politiche e sentimenti patriottici come nel caso di Ellis Cornelia Knight, coinvolta in una rete di spionaggio della flotta della Royal Navy di stanza nel Mediterraneo, e di sua madre Philippina Deane. Non si discosta da questo profilo una traveller d’eccezione come Sidney Owenson ossia Lady Morgan, scrittrice e patriota irlandese, che qualche decennio più tardi, tra il 1819 e il 1820 dopo la fine delle guerre napoleoniche e l’inizio della Restaurazione, giungeva in Italia con il marito Sir Thomas Charles Morgan. Nel suo diario di viaggio, Italy, scritto in tre volumi e pubblicato

a Londra nel 1821, Lady Morgan manifestava posizioni riformatrici che le sarebbero costate critiche severe fino alla censura dei suoi libri, come dichiarava in una lettera: […] I attempted to exposte the evils of dispotic governements, in opposition to the blessings and benefits of a rappresentative government; - to display the fatal effects of a poweful and a intolerant superstition, as opposed to the enlightned doctrines of rational and releaved religion[…].

René Théodor Berthon, Ritratto di Lady Sidney Morgan (1818) Dublino, National Gallery of Ireland


Ester Capuzzo politici prossimi agli ambienti napoleonici. Frutto del soggiorno parigino era France, uscito a Londra per i tipi dell’editore Colburn come resoconto di viaggio, che sin da subito aveva ricevuto numerosissime critiche. Pubblicato nel giugno del 1817, il testo era stato pesantemente attaccato, sia in Francia che in Gran Bretagna, con l’accusa di supportare l’ateismo e il giacobinismo. Tuttavia, proprio il tanto criticato France che l’aveva resa invisa al governo francese le apriva i salotti liberali della penisola, frequentemente aperti agli ospiti stranieri dove, come in quelli di Milano, città in cui avrebbe soggiornato per qualche mese, dominavano allora donne colte e politicamente impegnate quali Bianca Milesi Mojon e Metilde Viscontini, a cui si sarebbe poi aggiunta Clara Maffei. Secondo un topos classico della letteratura odeporica il travel book della scrittrice irlandese si apriva con un excursus della storia italiana che partiva dall’antichità per giungere all’età risorgimentale. Un panorama storico molto ampio, probabilmente dovuto al marito Sir Thomas Charles Morgan, medico e scrittore, a cui Lady Morgan aveva dato l’incarico di redigerlo. In questo excursus una particolare attenzione veniva incentrata sul valore democratico e costituzionale riconosciuto alle repubbliche medievali e alle repubbliche giacobine sorte in varie parti della penisola nel triennio rivoluzionario, una sorta di contraltare a quella che allora era l’immagine contemporanea dell’Italia asservita a sovranità straniere e dispotiche in cui il richiamo colto e politicamente avvertito era alla lettura di un’opera che aveva avuto larga diffu-

Italy rivelava la posizione di aperta simpatizzante per la lotta e per l’indipendenza italiana della scrittrice irlandese, che durante il suo soggiorno nei vari Stati preunitari era costantemente seguita e controllata da spie governative, e testimoniava quanto Lady Morgan registrava circa le gravi condizioni in cui la penisola versava apparendole, pur nelle sue diversità statuali, assai desolata e di cui lamentava in generale la mancanza di libertà e l’asservimento a monarchi conservatori e liberticidi come l’imperatore d’Austria, il granduca di Toscana e il pontefice. Come per tanti altri viaggiatori stranieri che nell’età della Restaurazione attraversavano le Alpi o raggiungevano la penisola via mare, a Lady Morgan l’Italia, frazionata in vari Stati, appariva – come scriveva pubblicandone le memorie lo storico inglese William Hepworth Dixon – un Paese misterioso nel cuore dell’Europa che attirava una forte attenzione nell’opinione pubblica britannica: [Italy] produced a great sensation than even the work on France. (…). Italy had just passed from the dispotc but intelligent sway of Napoleon to he blessings of the ‘right divine govern wrong’ of the Bourbons; and Lady Morgan’s work is full of eloquent lamentations and description of the charge for the worse that had come over everything. (…). It is still the best description of the state of Italy moral and political, as it was at the period of the restoration of the Bourbons.

Lady Morgan arrivava in Italia insieme con il marito dopo il loro soggiorno a Parigi, dove i coniugi erano stati ricevuti in molti ambienti letterari e nei circoli culturali frequentati dagli esiliati irlandesi, intrisi di valori 48


Lady Morgan e l’Italia del Risorgimento sione in Europa come l’Histoire des républiques italiennes du Moyen âge di Sismonde de Sismondi e a quelle di intellettuali come Ludovico di Breme, Gabriele Rossetti, Carlo Botta. La decadenza dell’Italia era individuata da Lady Morgan nelle invasioni barbariche che avevano devastato le province dell’impero romano giungendo sino a Roma e lasciando un paese desolato e costellato di rovine. Tuttavia, a differenza dei tanti viaggiatori che nei secoli del Grand Tour avevano cercato quelle rovine per giungere alle radici della civiltà classica, la scrittrice irlandese non era mossa da una passione antiquaria bensì da un ideale politico, nutrendo il desiderio di studiare gli effetti della rivoluzione francese sulla penisola perché se l’Italia della romanità era alquanto conosciuta in Gran Bretagna altrettanto non poteva dirsi dell’Italia delle rivoluzioni. Di qui, in Italy, una narrazione delle vicende storiche della penisola che partiva dagli esiti del Congresso di Vienna che dopo l’età napoleonica aveva ripartito l’Italia in sette Stati, di cui cinque legati in maniera diretta o indiretta agli Asburgo. Lady Morgan evidenziava che se Napoleone aveva fatto assaporare agli italiani la libertà e abolito i diritti feudali, aveva dato loro con il codice civile un’unica normativa e li aveva resi uguali di fronte alla legge, aveva costruito strade che avevano agevolato i commerci e unito più facilmente i vari centri, con la restaurazione dei vecchi sovrani e con l’alleanza del trono con l’altare l’Italia era tornata a essere, secondo la nota definizione metternichiana, una pura e semplice espressione geografica.

Frontespizio del secondo volume di Italy nella nuova edizione londinese del 1821

Muovendo da implicazioni politiche Italy appare come una sorta di catalogo in cui a differenza del passato i mirabilia urbis non erano più soltanto monumenti o rovine classiche ma teatri e luoghi di ritrovo che costellavano le diverse città visitate e che venivano percepiti e descritti secondo un criterio pubblico e sociale. Durante il suo soggiorno nella città felsinea Lady Morgan stemperava per le donne di Bologna il negativo giudizio con cui in varie pagine del suo travel book bollava le donne italiane, educate all’ignoranza e alla sottomissione, perché le prime, pur nello Stato del papa-re, erano un modello di emancipazione femminile attestato dall’essere state artiste, intellettuali, scienziate. Nei confronti degli italiani più in generale la scrittrice inglese palesava, invece, impressioni non dissimili da quelle espresse dai suoi compatrioti 49


Ester Capuzzo piate nel Regno meridionale e in Piemonte nel 1820-1821 e che ne avevano subito le conseguenze con l’arresto e l’esilio, a essere considerate dall’occhiuta censura come il riflesso dell’incitamento alla rivolta indotto dall’opera di Lady Morgan. Nel suo viaggio in Italia la scrittrice irlandese giungeva a Roma nel dicembre del 1819 e soggiornava nel rione Monti in Via dell’Agnello. Il suo arrivo suscitava agitazioni e timori nella Curia pontificia, tanto da spingere Leone XII a farla pedinare durante tutti i suoi spostamenti. La Roma che si presentava agli occhi di Lady Morgan era ben diversa dalla città che per secoli aveva dominato incontrastata con il suo fascino sul mondo e che con la cinquecentesca Renovatio Urbis era stata riportata agli antichi splendori. L’aspetto esteriore di Roma non faceva che confermare il suo estremo grado di corruzione e i dintorni della città e la sua campagna sino ai Castelli Romani non apparivano da meno. Osservando direttamente le condizioni tristi e desolanti dei territori e delle popolazioni, la scrittrice irlandese non perdeva occasione per ribadire che in qualunque parte del mondo l’alleanza tra potere temporale e potere secolare aveva prodotto solo distruzione e povertà, sfruttamento e fame per quanti pretendeva di voler salvare. Sensazioni indignate e disgustate animavano Lady Morgan di fronte all’arretratezza delle condizioni di vita della popolazione dell’Urbe e dei Castelli Romani, che visitava secondo lo schema del Classic Tour condotto nella Città Eterna, impossibilità ad entusiasmarsi di fronte a monumenti, rovine, chiese, paesaggi tanto era forte la consapevolezza delle sofferenze e delle ingiusti-

collocandosi all’interno di un’attestata tradizione narrativa carica di pregiudizi verso i costumi e la mentalità degli abitanti della penisola manifestata da altri travellers britannici come Samuel Sharp, Tobias Smollett e Percy B. Shelley, uniti dal carattere tragico della loro morte avvenuta, anche se in tempi diversi, in Toscana, pregiudizi di cui aveva dato prova qualche decennio prima anche Madame de Stäel. In appoggio alle sue impressioni Lady Morgan, riferendosi agli italiani e utilizzando gli stessi argomenti di Thomas Paine e di William Godwin, scriveva che: A century of unmixed despotsm deteriorates the hansomest race; sloth and luxury decompose the physiognomy of the upper class, and ignorance reduces the features, of the lower ranks to a common level of un-idea’d animality.

Affermazioni queste che giustificavano nelle considerazioni della scrittrice irlandese i caratteri degli italiani, anche quelli legati alla fisiognomica, prodotto dello stato di schiavitù in cui erano tenuti da lunghi anni di dispotismo, da cui si distaccavano nel Risorgimento gli italiani politicamente più sensibili, come avrebbe sostenuto successivamente anche Mary Shelley, che, usi al ragionamento attraverso la lettura di romanzi, tragedie, testi di riflessione politica, vivevano l’ansia di liberarsi dai vincoli del potere dispotico, di affrancarsi da quel «torpore selvaggio» che ottundeva le menti e inibiva le azioni, di lottare per la libertà nazionale. Erano proprio quelle frange liberali della società, allora ancora molto ristrette, che avevano partecipato alle fallite rivoluzioni costituzionali scop50


Lady Morgan e l’Italia del Risorgimento zie che vedeva inflitte ai più deboli. Profondamente radicata nei valori della libertà, dell’uguaglianza tra gli uomini, strenua sostenitrice delle innovazioni introdotte da Napoleone in Italia ai danni, soprattutto, degli ordini monastici e del clero, e a favore dell’istruzione, Lady Morgan manifestava in Italy le sue opinioni negative riguardo al potere della Chiesa in temporalibus. La sua opera contribuiva a diffondere nell’opinione pubblica britannica gli ideale della libertà e dell’indipendenza dell’Italia che dovevano essere raggiunte con la cacciata dei governi stranieri, come quello austriaco, e di quelli autocratici locali, come quello pontificio. Le impressioni e le riflessioni contenute nel suo travel book celavano in modo più o meno subliminale un messaggio patriottico a favore

anche della libertà e dell’indipendenza della sua travagliata terra, l’Irlanda, inserita dal 1801 nel Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda e anch’essa, come l’Italia, soggiogata a un potere straniero. Prima della sua visita in Italia la nota fondamentale della produzione letteraria di Lady Morgan era stata quella di dare vita e visibilità alla cultura gaelica attraverso i suoi racconti nazionali e di contribuire attraverso la letteratura alla costruzione di un’identità nazionale irlandese. Dopo i suoi viaggi compiuti in Francia e in Italia la scrittrice irlandese aveva potuto delineare l’idea della indipendenza della sua terra come una delle varie spinte presenti in Europa, come quella italiana, a riconoscere l’identità nazionale di un paese, resa impossibile per la mancanza di libertà.

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Ester Capuzzo NOTE 1 J. Moskal, Gender and Italian Nationalism in Mary Shelley’s, Rambles in Germany and Italy, in «Romanticism», July 1999, vo. 5, no 2, pp. 188-201. 2 L. M. Crisafulli, Viaggiatrici britanniche nell’Italia pre-risorgimentale: lo sguardo riformatore di Lady Morgan e di Mary Shelley, in British Risorgimento, vol. 1, L’Unità d’Italia e la Gran Bretagna, a cura d L. M. Crisafulli, Liguori, Napoli 2013, p. 83. 3 A. Brilli, S. Neri, Le viaggiatrici del Grand Tour. Storie, amori, avventure, il Mulino, Bologna 2020. 4 E. Capuzzo, Due viaggiatrici inglesi nella Campagna romana: Ellis Cornelia Knight e Lady Philippina Deane, in «Clio», 3-4, pp. 7-28. 5 Ead., Viaggio al femminile. Lettere di Philippina Deane Knight a Elisabeth Francis Drake (1775-1795), in Storia postale. Sguardi multidisciplinari, sguardi diacronici. Postal History: Multidisciplinary and Diacronic Perspectives, Prato, 13-15 giugno 2019 / 13-15 June 2019, a cura di B. Crevato-Selvaggi e R. Gerola, Istituto di Storia Postale, Prato 2020, pp. 325-337. 6 D. R. Rean, Morgan [née Owenson], Sidney, Lady Morgan, in Oxford Dictionary of National Biography, Oxford University Press, 2004, URL: http://www.oxforddnb.com/view/article/19234 (visitato il 28 novembre 2020) e D. Abbate Badin, Lady Morgan Italy’s: Anglo-Irish Sensinilities and Italian Realities, Accademia Press, Bethesia 2007, pp. 17-50. 7 Lady Morgan, Italy, 3 voll., A. and W. Galignani, Paris 1821. 8 J. Donovan, Sydney Owenson, Lady Morgan and the Politics of Style, Maunsel & Co., Bethesda 2009. 9 Lady Morgan, Letters to the Reviewers of ‘Italy’ Including an Answer to a Pamphlet Entitled ‘Obsevation upon to the Columnies and Misrepresentation in Lady Morgan’s Italy’, A. and W. Galignani, Paris 1821, p. 5. La lettera è citata anche da L. M. Crisafulli, Viaggiatrici britanniche nell’Italia pre-risorgimentale: lo sguardo riformatore di Lady Morgan e di Mary Shelley, cit., p. 83. 10 A. Brilli, Il grande racconto del viaggio in Italia, il Mulino, Bologna 2014, pp. 118-123. 11 M. Soresina, L’età della Restaurazione 1815-1860. Gli Stati italiani dal Congresso di Vienna al crollo, Milano-Udine, Mimesis, 2015 e Id., Italy before Italy. Institutions, conflicts and political hopes in the Italian States, 1815-1860, Routledge, London-New York 2018. 12 Lady Morgan, Lady Morgan’s Memoirs: Autobiography, Diaries and Correspondance. ed. by W. Hepworth Dixon, vol. II, W.H. Allen & Co., London 1862, p. 144. 13 Lady Morgan, France, 2 voll., Henry Colburn, London 1816-1817. 14 M. T. Mori, Salotti. La sociabilità delle élite nell’Ottocento, Carocci, Roma 2000 e A. De Clementi, Il genere dell’Europa. Le radici comuni della cultura europea e l’identità di genere, Biblink, Roma 2003. 15 M. Cepeda Fuentes, Sorelle d’Italia. Le donne che hanno fatto il Risorgimento, Blu, Torino 2011, pp. 109-112; C. Lucarelli, G. Fazzini, Nobili, cortigiane ed eroine. Storie di donne dell’Ottocento, Greco&Greco editori, Milano 2018, pp. 319-326; F. Piscopo, Bianca Milesi. Arte e patria nella Milano risorgimentale, Tipografia Melchiori, Crespano di Pieve del Grappa 2020. 16 M. Boneschi, La donna segreta. Storia di Metilde Viscontini Dembowski, Marsilio,Venezia 2010. 17 D. Pizzigalli, L’amica. Clara Maffei e il suo salotto nel Risorgimento italiano, Rizzoli, Milano 2004; E. Capuzzo, Verdi e Clara Maffei, in Giuseppe Verdi e il Risorgimento, Rubbettino, Soveria Mannelli 2014, pp. 107116; C. Cappelletti, L’Ottocento di Clara Maffei, Cisalpino – Istituto editoriale universitario, Milano 2017. 18 L. M. Crisafulli, Viaggiatrici britanniche nell’Italia pre-risorgimentale: lo sguardo riformatore di Lady Morgan e di Mary Shelley, cit., p. 93. 19 Lady Morgan, Italy, vol. 2, cit., p. 167. 20 Ivi, p. 28.

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Lady Morgan e l’Italia del Risorgimento 21 C. Sorba, Teatri. L’Italia del melodramma nell’Italia del Risorgimento, Bologna, il Mulino, 2001 e Ead., Il melodramma della nazione. Politica e sentimenti nell’età del Risorgimento, Laterza, Roma-Bari 2015. 22 Lady Morgan, Italy, vol. 2, cit., p. 25. 23 S. Sharp, Letters from Italy describing the Customs and Mnners of that Country..., R. Cave, London 1766. Da v. anche Id. , Lettere da Napoli. Il peggio della Napoli del ‘700 nelle amene cronache di un viaggiatore dissidente, trad. it., pref. e note di S. Di Giacomo, Stamperia del Valentino, Napoli 2004. 24 T. Smollett, Viaggio attraverso l’Italia, traduzione a cura di P. Saitto-Bernucci e C. Spadaccini, Nutrimenti, Roma 2003. 25 L. M. Crisafulli, L’Italia di P. B. Shelley tra utopia e realtà, in Italia e Italie. Immagini tra Rivoluzione e Restaurazione, a cura di S. Tatti, Bulzoni, Roma 1999, pp. 180-191. 26 R. Casillo, The empire of stereotypes. Germaine de Staël and the idea of Italy, Palgrave, Basingstoke 2006. 27 L. M. Crisafulli, Viaggiatrici britanniche nell’Italia pre-risorgimentale: lo sguardo riformatore di Lady Morgan e di Mary Shelley, cit., p. 97. 28 Lady Morgan, Italy, vol. 2, cit., p. 36. 29 E. Marino, Letterati e patrioti italiani nella scrittura di Mary Shelley, in British Risorgimento, vol. 1, L’Unità d’Italia e la Gran Bretagna, cit., pp. 99-109 e Ead., Mary Shelley e l’Italia. Il viaggio, il Risorgimento, la questione femminile, Le Lettere, Firenze 2011. 30 A. Bistarelli, La tela e il quadro. Per una biografia collettiva degli esuli italiani del 1821, «Cercles. Revista d’història cultural», 10 (2007), pp. 201-220 e Id., Gli esuli nel Risorgimento, il Mulino, Bologna 1996. 31 A. Brilli, Il grande racconto del viaggio in Italia, cit., 193-197. 32 E. Biagini, Storia dell’Irlanda dal 1845 a oggi, il Mulino, Bologna 2014, p. 3

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pubblicazioni recenti della Fondazione Giacomo Matteotti


Un’americana a Roma. Sarah Margaret Fuller Scrittrice, giornalista e patriota del XIX secolo

Elena Campana

Woman in the Nineteenth Century is a book which few women in the country could have written, and no woman in the country would have published, with the exception of Miss Fuller. In the way of independence, of unmitigated radicalism, it is one of the “Curiosities of American Literature”. (E.A. Poe) Alla metà del Settecento gli uomini che parlano delle donne si interrogano sul loro ruolo nella società o forse è meglio dire che cercano una giustificazione razionale al ruolo che loro, uomini, hanno da sempre attribuito alle donne: il ruolo di “angelo del focolare”. Compito della donna è di accudire, tra le mura domestiche, il proprio marito e i propri figli che in cambio le assicurano la loro protezione. Il ruolo è senz’altro invidiabile, peccato che a loro giudizio per svolgere tale compito non sia necessario riconoscere alle donne alcun diritto civile. Segue a breve la Rivoluzione francese, si apre la fase delle Dichiarazione dei diritti, delle Carte Costituzionali in Francia e negli Stati Uniti. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789 recita all’art. 1 «Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti», concetto ripreso nel successivo Atto Costituzionale del

24 giugno 1793 che all’art. 3 proclama: «Tutti gli uomini sono uguali per natura e davanti alla Legge». È del 1791 la Dichiarazione dei diritti della Donna e della Cittadina che Olympe de Gouges intendeva presentare all’Assemblea Nazionale per farla adottare. All’art. 1 recita: «La donna nasce libera e ha gli stessi diritti dell’uomo». Con queste premesse è lecito aspettarsi che da lì a poco, il ruolo delle donne nella società cambi e che esse riescano a ottenere un legale riconoscimento di tale uguaglianza. Invece non è così, paradossalmente tutti i cambiamenti che si registrano nelle società sembrano non scalfire il ruolo della donna che rimane beatamente circondata dalle mura domestiche, mura la cui proprietà continua ad essere quasi sempre del padre o del marito. La donna vive in una situazione di sottomissione civile e politica che le stesse donne non riescono a riconoscere


Elena Campana come intollerabile a causa di un’educazione limitata all’economia domestica o, anche nei casi più fortunati, assolutamente ridotta rispetto a quella impartita agli uomini. Queste parole sono di una giornalista americana, una tra le prime giornaliste nella storia, Margaret Fuller. Nata nei pressi di Boston il 23 maggio 1810, riceve dal padre un’istruzione maschile, impensabile per le ragazze dell’epoca, basata sui classici greci e latini, gli storici i grandi poeti, le lingue. Si avvicina al trascendentalismo, frequentando i suoi più illustri esponenti (Emerson, Thoreau, Hawtorne).

l’Inghilterra, la Scozia e la Francia intervistando uomini famosi dell’epoca tra i quali Giuseppe Mazzini, Carlyle, Wordsworth, George Sand, e nel 1847 sarà a Roma per seguire da vicino i moti rivoluzionari.

I colleghi di Margaret alla redazione al «New York Tribune», in una foto di Mathew Brady del 1849. Il secondo seduto a dx è il direttore Horace Greeley

La Fuller parte da una semplice constatazione: alle proclamazioni di libertà ed eguaglianza tra i membri di uno Stato, non ha fatto seguito alcuna azione concreta volta a raggiungere una vera libertà ed eguaglianza. Tale ipocrisia è un crimine insensato. Tuttavia, con un ottimismo, che con il senno di poi dobbiamo dire mal riposto, valuta positivamente la Rivoluzione Francese che ha dato il via ad un processo virtuoso i cui frutti si vedranno nel tempo. Per lei, le protagoniste di questo processo devono essere le donne stesse. Il primo passo, il più difficile, che devono compiere è quello di raggiungere autonomamente la consapevolezza dei propri bisogni: «molte donne parlano tra loro dei propri bisogni, di come possono ottenere una determinata cosa, se capiscono che di questa

Ritratto di Sarah Margaret Fuller Ossili incisione conservata presso la Library of Congress, Washington

Si interessa al tema dell’uguaglianza fra uomo e donna, argomento a cui dedicherà un lungo intervento su «The Dial», il periodico del trascendentalismo di cui divenne redattore capo, dal titolo The Great Lawsuit. Man versus Men. Woman versus Women, pubblicato il 4 luglio del 1843, intervento che svilupperà nella successiva opera Woman in the Nineteenth Century, pubblicato il 15 novembre 1844. Negli stessi anni è chiamata a collaborare con il New York Tribune, per conto del quale nel 1846 visiterà 56


Un’americana a Roma La Fuller riserva parole ironiche all’istituto del matrimonio. Tutti tanto innamorati, tutti ad idolatrare la propria musa femminile ma tutti pronti a sposarsi con matrimoni di convenienza. Pochi sono i matrimoni basati sul reciproco ed armonioso riconoscimento dei valori di ciascun coniuge. Il matrimonio così concepito non fa che rendere inscalfibile la relazione tra i due sessi basata sul possesso della donna da parte dell’uomo. L’ errore di fondo è pensare che l’amore (verso un uomo) esaurisca l’esistenza della donna. Con la fiducia nel progresso dell’umanità in costante e incessante spinta verso uno sviluppo positivo, la Fuller riconosce che già nella sua epoca si possono ravvisare segni di miglioramento nella condizione delle donne. Per proseguire su questa strada, fondamentale è per la Fuller l’istruzione: è necessario riformare le scuole femminili per impartire loro un’istruzione identica a quella data ai ragazzi.Solo così le «donne saranno maggiormente consapevoli di quanto vasto e ricco sia l’universo, non così facilmente accecate dalla limitatezza e parziale vista di un circolo casalingo».

hanno bisogno. Molti uomini ragionano sul fatto che le donne siano o meno capaci di essere ed avere più di quello che sono ed hanno, e in caso positivo se sarebbe opportuno o no acconsentire ad un miglioramento delle loro condizioni». Il nocciolo della questione è proprio questo: la libertà della donna è un diritto non una concessione! La visione che gli uomini hanno della donna, ma anche che le donne hanno di sé stesse si basa su un’immagine ad essa attribuita dagli uomini nel corso dei secoli. Pregiudizi e passioni che accompagnano quotidianamente la crescita dell’individuo, ostruiscono «il santo lavoro di rendere la terra una parte del cielo». Sono stati e sono tutt’ora gli uomini a dire cosa la donna può fare e non fare. Con una carrellata veloce tra i miti antichi, tra le figure del Cristianesimo, prima fra tutte ovviamente la Madonna, e tra le opere dei più famosi poeti di tutte le epoche, ci mostra come l’immagine della donna che viene proposta nei secoli è sempre la stessa. Un’immagine fallace perché creata dai soli uomini. «Non ci potete credere, uomini; ma l’unica ragione per cui le donne fanno sempre ciò che è più appropriato per voi, è perché voi le impedite di trovare ciò che le è più consono. Se fossero libere, se fossero pienamente capaci di sviluppare la forza e la bellezza della donna, le donne non desidererebbero essere uomini o come gli uomini».

«Così tanto è stato detto sul fatto che le donne meglio educate sono migliori compagne e madri degli uomini!!!...Lasciamo libero corso alle anime, lasciamo che le organizzazioni si sviluppino liberamente, e l’essere si adatterà ad ogni relazione in cui potrà essere chiamato».

Gli uomini in questo percorso di liberazione non possono essere di aiuto perché schiavi delle abitudini.

Le donne devono imparare ad essere padrone della propria vita. La vera difficoltà è di arrivare al punto in cui le donne sviluppano naturalmente il rispetto per se stesse.

«Le donne», secondo la Fuller, «al fine di non essere influenzate da loro [gli uomini],

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Elena Campana devono ritirarsi tra loro, ed esplorare le basi dell’essere fin quando non trovino il loro peculiare segreto. Poi quando riemergono, rinnovate e battezzate, sapranno come trasformare tutte le scorie in oro, e saranno ricche e libere sia nella loro vita in una capanna, tranquille, se tra la folla.»

«Questa perfezione può essere raggiunta attraverso vari modi: alcuni dicono attraverso l’intelletto, altri attraverso la vita. Altri dicono che non è necessario né l’intelletto né l’esperienza ma se imbocchi la via vera il tuo destino si compirà nel modo più puro e naturale».

L’effetto è disarmonico ma sarebbe meglio dire inquietante e deprimente! Si succedono le dottrine filosofiche, si parli di Ragione, si parli di Super Uomo, i temi da affrontare per il riconoscimento dei diritti civili per le donne rimangono immutati nei secoli. Per Magaret Fuller la Rivoluzione francese ha rappresentato il momento propizio per alzare la voce a favore delle donne; grazie alla Rivoluzione il principio di libertà è stato compreso meglio, sia dagli uomini che dalle donne, anche se però l’ignoranza sul tema è ancora molta. La Rivoluzione parla di cittadini e di cittadine. In realtà prima ancora di essere cittadini, i cittadini sono uomini e donne; la Fuller usa il termine «subject». Se è vero che alla Rivoluzione francese, alla proclamazione dei diritti non sono seguite riforme concrete, «si pensi alla libertà ed equità che è stata proclamata solo per lasciare spazio ad un mostruoso dispiegarsi della tratta degli schiavi e del mantenimento in schiavitù; si pensi all’Americano libero che così spesso si sente libero, come il Romano, solo per coccolare i suoi appetiti e la sua indolenza sulle spalle della miseria dei suoi compagni di viaggio»; tuttavia «non è in vano che queste parole sono state spese». L’uomo non può essere sordo. È inevitabile che ogni membro della società raggiunga la libertà. Le idee che sono concepite con l’intelletto non possono, prima o poi, non realizzarsi. Per mantenere vivo in

La meditazione deve avvenire in una virginea solitudine. Questo, in estrema sintesi, il pensiero della Fuller esposto, con una scrittura veloce in perfetto stile giornalistico, nell’articolo Man versus Men. Woman versus Women, pensiero che amplierà con più estese argomentazioni nel suo successivo lavoro Woman in the Nineteenth Century. Amplierà ma la struttura delle argomentazioni rimarrà inalterata. In questo secondo lavoro i richiami alla filosofia del trascendentalismo sono molto più ampi, pur se mai espliciti. Tali richiami producono però in noi lettori del XXXI secolo un effetto disarmonico. Le tesi che la Fuller porta avanti in favore delle donne sono ancora attuali, molte saranno riprese e sviluppate dai movimenti femministi successivi, la scrittura è veloce, incalzante ma l’ambito culturale di riferimento risente fortemente degli anni trascorsi. «L’era della vera vita umana è posposta. Quest’Uomo è ancora un estraneo, ancora un pellegrino. Tuttavia la sua felicità è sicura, alla fine. Grazie ai suoi stessi poteri l’Uomo ideale potrà realizzarsi, perché questo è il suo destino.»; «penso che l’energia divina pervaderà la natura ad un livello sconosciuto alla storia dei tempi passati, e che nessuna collisione discordante, ma una incantevole armonia delle sfere, ne seguirà».

E ancora: 58


Un’americana a Roma ciascun individuo il desiderio di virtù e libertà è importante parlarne. È fondamentale che siano le donne stesse a rappresentare pubblicamente i propri desideri, affrontando i forti pregiudizi e i forti attacchi (che negli anni in cui la Fuller scrive non di rado assumevano la forma di violenza fisica) che ricevono ogniqualvolta tentano di farlo. Attenzion, però: «A house is no a home unless it contain food and fire for the mind as well as for the body». Da questo assunto, volutamente lasciato nella versione inglese, la Fuller muove per individuare gli ostacoli che le donne incontrano durante il percorso verso la propria libera autodeterminazione e il proprio sviluppo quali individui nella società al pari degli uomini. Il primo impedimento è il fatto che le donne hanno accettato un ruolo nella società che gli è stato imposto dall’esterno piuttosto che rispondente alle proprie intime aspettative. Non gli si può fare una colpa, sono state influenzate dagli obblighi imposti dai loro guardiani a tal punto che le loro menti hanno perso la capacità di esprimersi liberamente. E certo non è di aiuto il fatto che gli uomini tendono a scoraggiare qualsiasi loro tentativo di “invadere” il terreno dell’uomo. Gli uomini, infatti, sono capaci di onorare le donne forti solo se ormai morte da anni e passate alla storia come eroine. O in alternativa, solo come mamme e come sante. Questa situazione “innaturale” in cui le donne si trovano a dover vivere è la prima causa delle malattie che le colpiscono e che vengono curate con il metodo, tanto in voga nel ‘800, del mesmerismo. In realtà anche in questo caso l’attenzione da parte dei medici è rivolta ai

sintomi piuttosto che alla ricerca delle cause che sono da individuare, per la Fuller, nell’impossibilità per la donna di dare spazio alle proprie aspirazioni. «Spesso il fatto che le capacità di una donna che si sarebbero dovute mostrare gradualmente e gentilmente, sono spezzate e trasformate in malattia da un matrimonio non fortunato». Molti pensano che questo sia il destino della donna. Sposarsi, vivere all’interno delle mura domestiche come in una gabbia, ammalarsi nell’attesa che il marito rientri a casa dopo aver passato il tempo in occupazioni spesso irriguardose per la propria moglie (non dobbiamo dimenticare che al tempo era considerato assolutamente normale che un uomo sposato frequentasse le case chiuse). La critica al matrimonio, che già nel primo articolo sopra analizzato era stata aspra, arriva qui a toni molto accesi. Gli uomini non ne escono bene: sono considerati una sorta di animali selvatici! Hanno frainteso ed abusato dei vantaggi derivanti dalla loro energia fisica, divenendo padroni temporali delle donne, educandole più come schiave che come figlie. E si ritroveranno ben presto re senza regine. Non lo dice esplicitamente ma gli uomini sono animali non solo selvatici ma anche un po’ stupidi, per non aver preso in considerazione il fatto che le donne otterranno prima o poi la loro libertà! «Gli uomini per centinaia di anni, hanno considerato le donne capaci di tollerare il vizio. Ma, allo stesso tempo, hanno loro nascosto la propria natura, così la preferenza che le donne spesso mostrano per gli uomini cattivi nasce dall’idea confusa che loro siano coraggiosi ed

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Elena Campana indossare nel cuore una ferma risoluzione di non arrestare il dispiegarsi del proprio destino a Lui promesso in quanto figlie di Dio. Il loro servizio dovrebbe essere azione e conservazione, non di vecchie abitudini ma di una migliore natura, illuminata da speranze che divengono giornalmente più luminose».

avventurosi, al loro agio in situazioni proibite alle donne. Come il matrimonio, è stato inculcato alle donne, per secoli, che gli uomini non solo hanno passioni più forti, ma che sarebbe vergognoso per loro condividerle o perfino comprenderle; perciò esse devono fidarsi dei loro mariti, cosa che equivale a sottomettersi implicitamente al loro volere».

Una società di novizie: le donne devono imparare ad aiutarsi tra loro, ad unire le proprie forze, a pensare ad agire insieme. In questo processo gli uomini devono semplicemente rimuovere le barriere che arbitrariamente hanno costruito nei secoli. L’importante è che le donne siano indipendenti, anche economicamente, dagli uomini. Margaret Fuller è consapevole che questo processo non si concluderà in tempi brevi (nel periodo in cui scrive negli Stati Uniti ancora si dibatteva sull’opportunità di estendere il diritto di proprietà alle donne), ma non teme affatto l’uso che le donne faranno di questa loro libertà:

La Fuller che, ricordiamolo, analizza la vita della donna negli Stati Uniti, pensa che «il mondo in generale è più pronto a lasciare che la donna sia libera di imparare e manifestare le capacità della sua natura rispetto a quanto lo è stato nel passato, e che qui (negli Stati Uniti) vi è un campo meno gravato e un’aria più pura che altrove. Qui hanno tempo per leggere, per riflettere, hanno meno catene imposte dalla tradizione rispetto ad altre nazioni.». Ritiene che sia importante, e questo vale sia per gli uomini che per le donne, per prendersi cura del proprio spirito ritirarsi in solitudine per un certo periodo e per questo vede con occhio positivo il celibato, grande novità di metà Ottocento. Infatti, per poter essere pronti a vivere in una relazione, le anime, sia maschili che femminili, devono essere capaci di starne senza. Ben venga quindi la donna che sceglie di vivere da celibe nella solitudine. Solo così è possibile allontanarsi dalla schiavitù delle abitudini e compiere un primo, fondamentale passo verso la libertà.

«gli individui possono commettere eccessi, ma la naturale tendenza delle donne all’amore, all’armonia, alla moderazione porterebbe a stabilire norme ugualmente moderate».

Lasciamo fare alle donne ciò che vogliono. Che possano sviluppare i loro potenti poteri in un sempre maggior numero di occupazioni. «Fourier lo ha capito e riconosce che un terzo delle donne ha inclinazioni lavorative maschili e viceversa». La riforma dell’educazione è un argomento molto presente nel dibattito dell’epoca, molti sono stati i tentativi di apportare modifiche al sistema scolastico, non solo negli Stati Uniti. Tutte le riforme proposte avevano in comune l’esigenza di porre al centro

«Al presente io guardo alle giovani, mi piacerebbe vedere una società di novizie non legate da alcun giuramento, che non indossino alcun marchio. Al posto del giuramento [il giuramento del matrimonio] dovrebbero avere una religiosa fiducia nelle capacità dell’Uomo per la virtù; al posto di un marchio dovrebbero

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Un’americana a Roma dell’attenzione il bambino con le sue diverse attitudini e il fine di aiutare il bambino ad utilizzarle a pieno, in vista del suo ottimale inserimento nella società. Questa esigenza di riforma non poteva non riguardare anche le scuole femminili, e numerose furono le proposte volte ad ampliare le materie di studio in vista anche di un futuro, ormai non più rimandabile, inserimento delle donne nel mondo del lavoro. Quest’ultimo accenno a Fourier della Fuller dimostra quanto la giornalista seguisse con un interesse non solamente teorico la questione dell’educazione. Solo educando le bambine ad essere libere è possibile sperare nella conquista della libertà da parte di tutte le donne. Con questo cenno al futuro si chiude il testo della Fuller che cercherà, negli anni successivi, di mettere in pratica con la propria vita il frutto delle sue riflessioni. Riprendo qui la breve biografia della giornalista che come abbiamo visto, nel 1845 parte per l’Europa per giungere nel 1848 a Roma. Rimase affascinata dalla Città Eterna, pur dovendo constatare con rammarico l’arretratezza culturale, il regime intollerante, repressivo e retrogrado dello Stato della Chiesa. Non deve essere stato facile per la Fuller, come la conosciamo ora dopo aver letto le sue due opere americane, adattarsi alla quotidianità della Città. Fu a Roma, durante una visita a San Pietro, che conobbe il Marchese Giovanni Angelo Ossoli; sarà amore a prima vista. Il Marchese è membro della Guardia Nobile del Papa, è sempre vissuto nello Stato Pontificio e come tutti i nobili romani dell’epoca ha passato la vita nell’ozio. Le cronache dell’epoca lo dipingono come una

persona ignorante, quasi analfabeta, e molto superstiziosa. Un abisso culturale separa i due, ma l’amore supera tutte le differenze. Lei rimase incinta e non potendo sposare il Marchese, perché nello Stato Pontificio era vietato il matrimonio tra nobili e borghesi, e non potendo rimanere nella città dove le donne in stato interessante e non sposate non erano tollerate, prima andò a L’Aquila e poi a Rieti, dove partorì il figlio Angiolino.

Una targa, dedicatale nel 2010, ricorda a Rieta la casa nei pressi della Chiesa di San Nicola, in Via delle Verdura, dove abitò Margaret Fuller

Cominciò quindi la spola tra Rieti, dove aveva lasciato il bimbo ad una balia, e Roma per seguire da vicino le giornate rivoluzionarie e proseguire la sua attività di giornalista. La coppia partecipò attivamente ai moti rivoluzionari, il Marchese Ossoli passò infatti nella Guardia Civica a fianco dei rivoltosi e la Fuller si occupò della direzione dell’ambulanza prima presso l’Ospedale Fatebenefratelli e poi presso il Palazzo del Quirinale. Questa partecipazione li costrinse, dopo la caduta della Repubblica Romana, a ritirarsi in Toscana per paura di possibili ritorsioni da parte del nuovo governo pontificio. Fu da Livorno che la famiglia nel maggio del 1850 partì per gli Stati 61


Elena Campana famiglia era imbarcata naufragò il 19 luglio a poca distanza dal porto di New York. I loro corpi non furono ritrovati così come andarono perduti i numerosi appunti che aveva preso nel corso della sua permanenza a Roma e che le sarebbero serviti per una programmata stesura di un libro. Una vita romanzesca, a sua, degna di una trama di un romanzo ottocentesco. E così in effetti è stato, e l’eco di Margaret Fuller, della sua vita più che del suo pensiero, si ritrova in autori noti e meno noti, in romanzi e lavori teatrali dei più disparati spessori, primo fra tutti Henry James (in molti hanno voluto vedere nel protagonista del racconto The Last of the Valerii è la caricatura del Marchese Ossoli), al più recente Possession di Antonia S. Byatt.

L’assalto delle truppe francesi ai bastioni di Roma nel 1948 al tempo della Repubbica Romana in una stampa coeva

Uniti, con l’intento di stabilirsi a New York dove avrebbe lavorato lei, mantenendo il marito con i proventi della sua attività di scrittrice e giornalista. Cosa inaudita, all’epoca, anche nei ben più evoluti Stati Uniti. Purtroppo, però, il piroscafo su cui la

NOTE 1 E. Campana, La ragione pericolosa in «Tempo Presente» nn. 454-456, ottobre-dicembre 2018, pp. 24-29. 2 I testi utilizzati sono di proprietà della Web American Trascendentalism, Virginia Commonwealth University. 3 L’uomo contro gli uomini, le donne contro le donne, di recente pubblicato per conto della Ortica Editrice, traduzione a cura di G. Sofo. 4 E.A. Poe, The Literati of New York City», No. IV, Godey’s Lady’s Book, August 1846.

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Argentina Bonetti Altobelli. Una vita movimentata, una donna eccezionale Anna Salfi1

Peculiarità propria della narrazione e della scrittura femminile è la commistione di aspetti pubblici e privati. Non è un vezzo, né una velleità, né tantomeno un limite. È che per le donne la sfera privata è strettamente interconnessa con quella pubblica. Non è lo stesso per gli uomini proiettati come sono verso l’arena pubblica. Si tratta di un diverso approccio derivante dalla differente condizione sociale che permea e influenza ogni ambito. Le donne e la storia, o meglio come le donne narrano la storia e, ancor più, la memoria è cosa diversa e originale. Lo testimoniano, peraltro, la passione per la storia orale e le numerose attività di raccolta di testimonianze, curate e conservate, in attesa di assurgere al rango di “Storia”. Dalle storie alla Storia, potremmo dire. Dalle vite vissute, tasselli utili alla composizione di quel mosaico complesso che è la Storia. Oggi, questa modalità di approccio alla narrazione dei fatti storici sembra aver travalicato il perimetro femminile per diventare prassi e modalità non solo di donne. D’altro canto, potrebbero comprendersi appieno i fatti della storia senza una loro puntuale contestualizzazione? E per contestualizzazione vorrei intendere non solo quella spazio-temporale, ma anche quella dimensione più privata che rende chi legge in grado di capire e di avere a disposizione ogni possibile

elemento di interpretazione che favorisca il proprio, soggettivo e autonomo convincimento. Oramai sono dieci gli anni di vita della “Fondazione Argentina Bonetti Altobelli”, una fondazione che la Cgil dell’Emilia Romagna ha istituito per la promozione della ricerca storica e sociale. Un decennio speso organizzando convegni, incentivando ricerche, approfondimenti, tesi di laurea, attivando corsi di studio universitari, ma soprattutto promuovendo la conoscenza della straordinaria figura femminile cui la Fondazione è intitolata. Un impegno teso a far emergere gli aspetti poliedrici di questa donna e non solo le battaglie intraprese a favore dei “lavoratori dei campi” come sindacalista o di quelle più spiccatamente politiche come militante socialista, fede che aveva abbracciato “come una nuova religione”, come lei stesso ebbe modo di affermare. Per questi motivi, accanto alla ricostruzione del profilo politico e sindacale di Argentina Bonetti Altobelli, mi accingo a commentare anche fatti, meno noti ai più, che risultano altrettanto utili alla ricostruzione della figura di una donna cui il movimento sindacale e socialista tanto devono. Argentina Bonetti nacque il giorno 2 luglio del 1866 a Imola, città che segna e lega il confine tra l’Emilia e la


Anna Salfi Romagna. A pochi anni dalla raggiunta Unità d’Italia il sentimento risorgimentale è assai vivo negli animi ed è, in particolare, sua madre a trasmetterle tali sentimenti e a orientarla sia verso il pensiero mazziniano che verso l’ammirazione per Garibaldi. Il padre era di idee liberali e aveva portato il suo contributo all’unificazione combattendo per la nazione. Come spesso succedeva, all’indomani della nascita di una sorellina fu affidata alla famiglia dello zio Nicola Bonetti e sua moglie. Gli zii, romagnoli trapiantati a Parma, erano senza figli. Fu così che Argentina si trasferì a Parma presso quella famiglia che le garantì un’infanzia serena e amata. Gli anni della giovinezza furono dedicati alla lettura spasmodica di qualsivoglia testo che da sola reperiva, tanto da riuscire a organizzare una vera e propria biblioteca da lei stessa definita “babilonica” per varietà di temi e interessi. Purtroppo l’iniziativa di una vecchia beghina, che intervenne presso gli zii sostenendo l’opera nefasta della lettura sulla formazione e sull’animo di Argentina, ne determinò la distruzione. Giuseppe Mazzini, Giuseppe Garibaldi, Andrea Costa furono i suoi primi riferimenti. Del primo apprezzava la purezza della dottrina idealistica, ma trovava il pensiero di Andrea Costa più audace e reale. Senza ancora avere chiarezza di idee politiche, era profondamente attratta dal pensiero socialista. Furono il terreno politico parmense, la simpatia per le donne dei campi e la coincidente epidemia di colera a spingerla verso un impegno totale dedicato alle altrui sofferenze e, sin dai primi eventi pubblici, furono evidenti la sua passione politica, la sua ars oratoria, la sua capacità organizzativa. Siamo alla fine dell’Ottocento e,

adottati i principi di fratellanza propri del pensiero socialista, Argentina ne ricercherà la loro attuazione pratica e vivrà come propria missione non solo la conquista di migliori di condizioni di lavoro, di salario e di trattamento, ma anche l’elevazione del lavoro in termini di rispetto e di dignità.

Ritratto giovanile di Argentina Bonetti Altobelli

A Parma tenne la sua prima conferenza nel 1884 su L’emancipazione della donna e nella stessa città su avviò agli studi di Giurisprudenza. Si spostò a Bologna nel 1886. Qui aderì alla Società operaia femminile e ne divenne Presidente nel 1890. A Bologna conobbe Andrea Costa, Aurelio Saffi, Carlo Cafiero, ma soprattutto Abdon Altobelli che diventerà suo marito nel 1889. L’incontro e, di seguito, l’unione in matrimonio avranno un’influenza rilevante sulla vita politica e sindacale di Argentina. Il professore Abdon Altobelli era uomo gentile, simpatico, colto, attraente se non di aspetto, di 64


Argentina Bonetti Altobelli trimonio aveva avuto una figlia e da molti conosciuta come “La Contessa Mattei”, ma del cui titolo nobiliare non abbiamo riscontri certi. Quella che fu la loro abitazione sita lungo la via Emilia Levante, nella prima periferia di Bologna, non casualmente oggi accoglie il Centro diurno “Il Castelletto”3. La contessa Mazza, infatti, la donò al Comune di Bologna alla fine dei suoi giorni. La villa, già “Villa Paradiso” è ancora visitabile. Fu, sin dai primi tempi, luogo di incontri e di accoglienza. In occasione dell’inaugurazione della linea tranviaria Demos volle fosse aperta a tutta la cittadinanza che fu ospitata con benevolenza e amicizia. Più tardi divenne luogo di accoglienza per le famiglie perseguitate dal fascismo e bisognose di un rifugio sicuro. Gli anni dal 1890 al 1902 furono per Argentina quelli della ripresa dell’attività sindacale a tempo pieno dopo il matrimonio e la nascita dei due figli. Propagandista e, al tempo stesso, grande organizzatrice delle leghe, partecipò alla riorganizzazione del sindacato nelle campagne. Argentina entrò a far parte della Commissione esecutiva della Camera del Lavoro di Bologna il 22 gennaio 1893 all’atto della sua costituzione, avvenuta dopo un accesissimo dibattito sulle funzioni che avrebbe dovuto avere. Lo scontro fu violento tra chi, come la Camera di Commercio, proponeva che la Camera del Lavoro si configurasse sostanzialmente come un ufficio di collocamento e intendeva riservarsi sia la presidenza che la potestà eventuale di scioglierla e chi, come Giuseppe Brabanti Brodano – vicino alle posizioni di Osvaldo Gnocchi Viani4 – invece intendeva dare forma a forti organizzazioni di difesa dei lavoratori come contraltare al potere del

certo di spirito; di simpatie anarchiche, aderì al partito socialista e nutrì quanto e, se possibile, più di lei amore per la libertà e la giustizia. Frequentatore dei circoli letterari di Bologna, amico di Giovanni Pascoli e allievo di Giosuè Carducci, si devono a lui l’estremo saluto pubblicato sul Resto del Carlino di Bologna in occasione della morte di quest’ultimo e il volume Ricordi carducciani del 19132. Nonostante l’arrivo dei due figli Demos e Trieste, fu proprio Abdon a insistere affinché Argentina accettasse la proposta di entrare a far parte della Commissione esecutiva della Camera del Lavoro di Bologna. Abdon morirà presto, nel 1909, ma sul letto di morte continuerà a sostenerla e a spingerla a non abbandonare il suo spirito libero e la sua passione sociale. Il figlio Demos, Demostene, sarà Assessore alla Polizia urbana nella Giunta comunale di Francesco Zanardi. Il “Sindaco del pane”, primo sindaco borghese e socialista della città di Bologna, gli affiderà la parte del suo programma sull’istruzione. Durante l’esperienza amministrativa Demos ebbe modo di presentare un progetto per l’istituzione di un Ispettorato del Lavoro che fu approvato il 27 maggio del 1915 dal Consiglio comunale di Bologna. Il figlio tanto amato morirà precocemente nel 1941 e solo la presenza della figlia Trieste le sarà compagna quando, al termine dell’impegno sindacale e politico, si ritirerà a vita privata. Che gli ideali di Argentina e di Abdon fossero praticati tanto nella vita pubblica quanto in quella privata lo attestano anche un fatto di vita vissuta e una testimonianza. A Bologna, Demos incontrò e sposò Maria Luisa Mazza, una giovane vedova che dal primo ma65


Anna Salfi capitale, sostenendo l’utilità delle Camere del lavoro per la classe operaia e anche “all’armonia” dello stesso movimento economico. Argentina interverrà come esponente della Società operaia femminile a favore di quest’ultima opzione contribuendo alla bocciatura del progetto proposto dalla Camera di Commercio. Dopo anni intensi di attività trascorsi nell’organizzare scioperi, dimostrazioni, ma anche nel far sorgere nuove leghe divenne nel 1902 Segretaria della Federazione dei lavoratori della terra di Bologna a seguito del Congresso costitutivo della Federazione nazionale dei lavoratori della terra che si era tenuto nell’anno precedente, nei giorni 24 e 25 novembre del 1901, al culmine dell’esplosione delle lotte bracciantili e delle leghe contadine. A prevalente composizione bracciantile e padana il Congresso nazionale aveva contato 704 leghe presenti, provenienti prevalentemente da Lombardia, Emilia Romagna, Veneto; solo 23 erano le leghe del Centro Sud. Argentina vi partecipò come delegata della Lega di Malabergo (Bologna), proponendo al Congresso l’istituzione di casse pubbliche di maternità per garantire un sussidio alle donne assenti per parto. A capo della nascente Federazione – la Federterra – fu eletto Carlo Vezzani, la sede fu fissata a Mantova e spostata qualche anno dopo, nel 1905, a Bologna quando, a succedere a Carlo Vezzani, verrà chiamata proprio Argentina che ne fu segreteria dal 1906 sino al 1922. La direzione della Federterra da parte di Argentina prenderà il via all’indomani del periodo di crisi delle lotte contadine del 1903-1904 che aveva fortemente indebolito la forza e la consistenza sindacale. La segreteria di

Argentina si caratterizzerà per un particolare slancio politico e un’altissima capacità di proselitismo e organizzativa e, quando la stessa partecipando al Congresso sindacale internazionale di Amsterdam del 1920, illustrerà l’esperienza sindacale italiana, l’organizzazione che dirige è, ormai, in grande espansione e conta 845.000 iscritti. Conquistò salari definiti ad ora e non più a giornata e l’abolizione dell’orario “da sole a sole”, l’impegno da parte dei proprietari terrieri di assumere mano d’opera in proporzione ai fondi coltivati. Fu a capo di scioperi e lotte esemplari e si impegnò nella costruzione di reti di solidarietà per accogliere i figli dei lavoratori in sciopero e permettere loro la prosecuzione della lotta. La sua grande conoscenza del mondo contadino la porterà ad essere di sovente consultata sulle grandi questioni agrarie.

Ritratto fotografico con dedica del 1906

Anna Kuliscioff, che a lei era legata da stima profonda e affetto, le chiederà spesso lumi sulla condizione delle donne dei campi anche perché Argentina non le dimenticherà mai e si batterà 66


Argentina Bonetti Altobelli dei lavoratori della terra aderirà alla Confederazione generale del lavoro. In un più che vivace dibattito tra “riformisti” e “sindacalisti rivoluzionari” si inseriva la vexata quaestio legata all’adesione o meno alla nascente Confederazione da parte delle Federazioni e della Camere dl Lavoro che vedeva le due posizioni scontrarsi senza esclusione di colpi. Grazie ad Argentina, la Federazione nazionale dei lavoratori della terra lascerà alle leghe l’autonomia di aderire o meno alla Confederazione e ne rispetterà la decisione. La nostra si rivelerà così essere donna dotata di alto talento politico e organizzativo il che, tuttavia, non basterà ad evitarle il conflitto con i vertici della Camera del Lavoro di Bologna allora retta da un esponente rivoluzionario, Zurigo Lenzini. La direzione della Federterra continuerà fino al 1922 e allo scioglimento dei sindacati da parte dei fascisti che non risparmieranno le sedi sia della Federazione provinciale che di quella Nazionale, devastandole e incendiandone documenti e arredi. Ma l’opera di Argentina Bonetti Altobelli può leggersi anche attraverso un’altra lente di ingrandimento che riguarda il vario e multiforme impegno svolto a livello internazionale. Nel 1904 partecipò in qualità di delegata dell’Alleanza femminile italiana alla IIa Conferenza internazionale femminile e, nel 1907 fu tra le delegate al II Congresso internazionale femminista di Berlino del 14 giugno e in tale occasione incontrò e conobbe Rosa Luxemburg. Tali partecipazioni arricchirono la sua già presente consapevolezza verso i diritti delle donne che accompagnò sempre ogni sua attività politica e sindacale e la sostenne nel convincimento di porre anche all’in-

per il miglioramento delle condizioni di vita di donne e fanciulli. Questa sua alta considerazione verso chi lavorava la terra la spingerà ad assumere una posizione assolutamente propria e originale anche nei confronti della battaglia delle donne per l’acquisizione del diritto di voto. Quando in Italia, sotto l’impulso di Anna Maria Mozzoni, il proclama di Maria Montessori rivendicherà il diritto di voto per le donne, la questione verrà posta tenendo conto delle leggi vigenti e, quindi, legando tale diritto a un certo livello di istruzione e di reddito5. Argentina, invece, si dichiarerà per il diritto di voto universale senza limitazioni di censo e di istruzione asserendo che nessuno meglio della donna dei campi avrebbe potuto esercitarlo con maggiore consapevolezza6. E che l’attenzione verso le donne non si limitasse al mero miglioramento delle condizioni di vita materiali, ma che dovesse riguardare tutti gli aspetti di una compiuta cittadinanza, lo dimostra il fatto che già nel 1902, a Pesaro tenne con successo una Conferenza sul divorzio7. In quegli anni, altro evento di rilievo è la costituzione a Milano della Confederazione generale del lavoro – la CGdL – che avviene al termine del Congresso del 30 settembre e del 1° ottobre del 1906. Pochissime le donne presenti e di tre sole abbiamo certezza: Argentina Bonetti Altobelli, Segretaria della Federazione nazionale dei lavoratori della Terra, Ines Oddone Bitelli, della Organizzazione sindacale degli insegnanti e Commissione esecutiva della Camera del Lavoro di Bologna, Ida Persano, della Federazione arti tessili di Torino. Argentina entrerà nel Consiglio nazionale della neonata Confederazione e la Federazione nazionale 67


Anna Salfi terno del Partito socialista come pure nella CGdL la “questione femminile” come una più generale “questione sociale”. Fu portatrice di una visione internazionale e internazionalistica e in questo ambito le sue frequentazioni portano nomi illustri: Anna Kuliscioff, Angelica Balabanoff, Clara Zetkin, Louise Kautsky, Olimpiada Kutuzova Cafiero che ospitò per un certo periodo a Bologna. Quella che si formò in lei era l’idea che l’impegno a favore delle donne e dei fanciulli non dovesse essere espressione di un filantropismo borghese, ma della rivendicazione legittima delle donne ad essere parte integrante del mondo del lavoro tanto industriale quanto delle campagne e del semi-sommerso lavoro a domicilio. Anche per l’attività più strettamente legata alla Federterra non lesinò le partecipazioni a Congressi internazionali: nel 1906 al I Congresso internazionale contro la disoccupazione che si tenne a Milano, nel 1911 a Ginevra, nell’agosto del 1920 fu delegata al Congresso internazionale dei lavoratori della terra di Amsterdam di cu si è detto, nel 1922 delegata al Congresso della Federazione internazionale dei lavoratori dell’agricoltura di Vienna del 15-16-17 agosto. Si deve alla sua visione globale l’azione svolta a favore della stipula di Convenzioni reciproche per la disciplina dell’emigrazione all’estero e la difesa degli emigranti. I roghi fascisti delle sedi e la distruzione dei documenti di questa enorme mole di attività ci hanno nel tempo privati delle tante e ulteriori informazioni che ci sarebbero potute servire a dettagliare maggiormente questa vita e quest’opera eccezionale. Tuttavia, a volte qualcosa ancora emerge dal passato. Proprio recentemente

è stato reperito un raro volume edito nel 1912 che tratta dell’Emigrazione agricola in Brasile. Contiene la Relazione della Commissione italiana designata dalla Federazione nazionale dei lavoratori della terra, in collaborazione con la Confederazione generale del lavoro, la Lega nazionale delle cooperative e l’Ufficio di Emigrazione della Società Umanitaria. La firma in calce alla presentazione, dal titolo Alle organizzazioni operaie di resistenza e cooperazione, che introduce i risultati dei lavori della Commissione è di Argentina Altobelli. Sue le parole che seguono: “ … consci di un’alta responsabilità, animati da amorosa premura verso i fratelli che vanno edificando una nuova Italia lavoratrice nelle terre lontane di oltre Oceano, accettammo la proposta di esaminare le condizioni presenti e di suggerire consigli e provvedimenti per l’avvenire, perché, in uno Stato ove centomila lavoratori emigrano ogni anno, giunga la nostra voce incoraggiatrice, il nostro ausilio, la nostra solidarietà per l’opera che noi intendiamo, ed auspichiamo mondiale, di emancipazione proletaria”8.

L’Italia è, nei primi anni del Novecento, un Paese dall’alto tasso di analfabetismo che rende schiavi dell’ignoranza e sudditi. Non deve stupire perciò che Argentina si butti con slancio anche in un’opera di emancipazione e di riscatto verso chi non ha mezzi. Come lei tante donne fonderanno giornali, scriveranno e svilupperanno l’azione politica e sindacale attraverso la stampa e la penna. Come Argentina lo faranno anche altre sindacaliste: Maria Goia, maestra cervese, che diresse la Camera del lavoro di Cervia e di Suzzara che oggi porta il suo nome; Alda 68


Argentina Bonetti Altobelli Costa maestra ferrarese e Vicesegretaria della Camera del Lavoro di Ferrara; Ines Oddone Bitelli, coeva di Argentina e componente della Commissione esecutiva della Camera del lavoro di Bologna, solo per citarne alcune9. Argentina, forte della sua inventiva e del suo slancio fece di più. Inventò anche un atto unico, La Zappa sui piedi, una pièce teatrale piuttosto semplice ma dal messaggio chiaro, univoco: senza educazione, formazione, coscienza politica e di classe la povera gente sarà sempre limitata e finirà per perdersi in piccole invidie e bagattelle di poco conto. Non c’è perciò in Argentina solo uno slancio politico eccezionale, c’è pietà umana, rispetto e considerazione per i più deboli, per i più poveri, per i meno fortunati e la spinta ad unirli, ad unirsi a loro per il traguardo di una società più giusta.

l’incarico di Consigliere di amministrazione e di Componente del Comitato esecutivo della Casa nazionale infortuni. Per la sua profonda conoscenza dell’agricoltura e delle condizioni dei lavoratori e delle lavoratrici della terra le fu chiesto di contribuire alla ridefinizione della politica agraria nazionale, riconoscendole oltre che la competenza anche rare capacità organizzative utili a risollevare la situazione dell’agricoltura italiana Per questo, alla fine della Prima guerra mondiale, il Presidente del Consiglio dei Ministri Vittorio Emanuele Orlando le proporrà di far parte della Commissione incaricata della riorganizzazione della produzione agricola post-bellica. Altrettanto prestigioso il suo percorso all’interno e ai vertici del Partito socialista di cui fu componente della Direzione dal 1908 al 1910 e nel quale aderirà alla corrente riformista. Durante il Congresso di Livorno del 1921, nel quale era componente della Presidenza, tuttavia, sceglierà di schierarsi con la corrente cosiddetta “integralista”, sorta proprio per integrare le opposte tendenze espresse dai rivoluzionari e dai riformisti, ai fini dell’unità del partito. Nel 1922 aderì al Partito socialista unitario che ebbe come segretario Giacomo Matteotti e con lui condivise ogni successiva battaglia: il suo assassinio segnò, per lei, il punto di non ritorno del suo impegno politico. Un aspetto di rilievo per conoscere la personalità di questa “Donna contro”, attiene al rapporto intrattenuto da Argentina con i compagni di partito o del sindacato. Pur aderendo convintamente al partito socialista, non è molto nota la posizione che tenne in merito alla relazione esistente tra partito e sindacato. Il fatto di essere socialista e di

1915: Argentina con alcuni dirigenti della CGdL e del PSI. Tra gli altri, Serrati, Buozzi e Rigola

Anche la sua presenza attiva presso le istituzioni pubbliche riveste un particolare rilievo. Fu Consigliere del lavoro e rappresentante dei contadini presso il Ministero dell’Agricoltura, industria e commercio dal 1912 al 1914 e, per la Federterra, entrò nel Consiglio superiore del lavoro – organo consultivo dello Stato – e assunse 69


Anna Salfi ritrovarsi nella stessa corrente politica e sindacale del Segretario della CGdL Rinaldo Rigola non le impedì di opporsi strenuamente alla “Commissionissima” per gli studi del dopoguerra proposta ai sindacati da parte del Governo nel 1918, all’indomani della fine della prima guerra mondiale. Il Segretario generale sosteneva questa posizione e il Direttivo aveva deciso per l’invio di delegati. L’ordine del giorno, di ispirazione più intransigente, che vietava ai sindacalisti la partecipazione ai lavori della commissione, fu presentato proprio da Argentina10 e, una volta approvato, innescò la fine della vecchia direzione confederale di Rigola. La questione trattava del confine esistente tra partito e sindacato, vicenda mai risolta una volta per tutte, che tocca la relazione e gli ambiti delle due diverse aggregazioni sociali e che riguarda la qualificazione e l’essenza stessa del sindacato confederale. Lo si segnala, non tanto per entrare in tali questioni, quanto per evidenziare, da un lato, la personalità e il temperamento di Argentina, ma, al tempo stesso, per sottolineare come le categorie abusate e divisive di “riformisti” e “rivoluzionari” non spiegano, non giustificano e non rilevano al fine di definire compiutamente posizioni politiche, persone e personalità differenti anche se, per certi versi, affini. Né possono giustificare, come accadde, operazioni di rimozione – di damnatio memoriae

– tanto ingiuste quanto inutili e di cui certamente anche Argentina Bonetti Altobelli è stata oggetto. Di questa donna colpiscono l’autonomia di giudizio, il coraggio, la lealtà che si riscontrano nelle battaglie condotte a viso aperto, la chiarezza del dovere di rappresentanza, l’approccio pragmatico sorretto da una struggente e forte idealità, la lungimiranza. Nel periodo più opaco della vita sindacale di inizio Novecento, quando dal sindacalismo rivoluzionario spuntarono segni e protagonisti del nascente fascismo, quando il riformismo non seppe vedere la deriva incipiente, Argentina capì ciò che stava accadendo e, con la deriva autoritaria che si palesava dinanzi, l’irrimediabilità del confronto con i compagni di un tempo11. All’indomani dell’omicidio di Giacomo Matteotti, prima che assumesse su di sé tutta la «responsabilità politica, morale e storica» dell’assassinio, lo stesso Mussolini, in quello che fu uno tra gli atti dell’estremo tentativo di recuperare il consenso perduto, le proporrà un incarico di governo come Sottosegretaria all’Agricoltura in nome di una presunta riappacificazione. Argentina rifiuterà con una frase incisa nella storia asserendo che «… la vera riappacificazione è il ripristino della libertà». Trasferitasi a Roma, lavorò come bibliotecaria presso l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale. Morì il 26 settembre del 1942.

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Argentina Bonetti Altobelli NOTE 1 Presidente della Fondazione Argentina Bonetti Altobelli. 2 Di Abdon Altobelli ricordiamo alcune pubblicazioni: il racconto Emigranti, la serie di novelle Decaduti, un Saggio di geografia economica, Quadretti di genere, Torneando. 3 In occasione del ventennale del Centro diurno “Il Castelletto” fu edita la pubblicazione Castello di ricordi, a cura della Cooperativa CADIAI, Bologna 2015. 4 «Il sindacato nel bolognese» in Le Camere del Lavoro di Bologna dal 1893 al 1960 – Contributi per una storia sociale, Ediesse, Roma 1988. 5 Marco Severini, “Dieci donne” – Storia delle prime elettrici italiane, Liberilibri, Macerata 2012; Maria Rosa Cutrufelli, Il Giudice delle donne, Frassinelli, Milano 2016. 6 Argentina Altobelli, Il voto alle donne, «La Squilla», Bologna 17 marzo 1906. 7 Argentina Altobelli, Il Progresso, Pesaro1902. 8 Emigrazione agricola in Brasile – Relazione della Commissione Italiana 1912, Casa editrice U. Berti & C., Bologna 1912. 9 Maria Goia, Alda Costa, Ines Oddone Bitelli: www.fondazionealtobelli.it/biografie. 10 Fabrizio Loreto Il sindacalismo confederale nei due bienni rossi, in I due bienni rossi del Novecento, Ediesse, Roma 2006; Carlo Cartiglia, Rinaldo Rigola e il sindacalismo riformista in Italia, Feltrinelli, Milano 1976. 11 È di Argentina Bonetti Altobelli la lettera “ideale” scritta al Fascista proletario, dietro cui con chiarezza emerge il profilo di Benito Mussolini, cui Argentina si rivolge rievocandone radici e idealità abbandonate.

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Velia Titta Matteotti


Velia Titta Matteotti. Uniti in qualsiasi lotta Alberto Aghemo

dovesse costarmi la vita io vorrò perdermi tutta nell’amore che avrò sempre per lei Velia a Giacomo, 16 ottobre 1912 Un bacio a te proprio d’amore Velia a Giacomo, 15 maggio 1924

Velia non è stata mai soltanto la moglie di Matteotti. Meglio: lo è stata forse nella vulgata popolare, nel culto del martire antifascista per eccellenza, in un mito che molto ha sottratto alla comprensione della reale statura del Matteotti politico e, in misura non inferiore, di quella fine intellettuale, poetessa e narratrice appassionata e colta che con lui ha condiviso dodici anni di una vita intensa, tesa, drammatica. Mai compagna di partito, Velia Titta ha rappresentato per Giacomo Matteotti la forza intima, il conforto degli affetti, la partecipe appartenenza a un destino, la passione condivisa. In una parola, l’amore. E, non disgiunti da questo, il supporto affettivo e ideale, quella tensione etica che, in tempi estremi, si è dovuta spingere nella comunione di ansia e dolore ben al di là della sana ragionevolezza, dei doveri coniugali, delle convenienze sociali. * Ultima di sei fratelli1, Velia nasce a Pisa il 12 gennaio del 1890 da Oreste Titta, “artefice del ferro battuto” assai apprezzato, libero pensatore e di indole insofferente, e da Amabile Sequenza, donna austera, sensibilissima,

profondamente religiosa, che lascia nella figlia un’impronta profonda. La giovane segue con profitto e disciplina corsi regolari di studio e consegue la “licenza” preso la Scuola Normale femminile di Pisa manifestando sin da giovanissima una personalità spiccata e autonoma, naturalmente rivolta a grandi temi spirituali del suo tempo approfonditi attraverso molte e intense letture di autori italiani e stranieri, delle quali si trova ampia traccia nella sua precoce opera letteraria oltre che nell’intensa corrispondenza con Giacomo Matteotti e con la cognata Lea, moglie di Titta Ruffo2. È lettrice vorace, curiosa, poliglotta: oltre alla lingua francese, bagaglio irrinunciabile della fanciulla di buona educazione del tempo, conosce l’inglese che a volte si diverte a italianizzare (ho forghettato, ti kisso). Non si interessa di politica. Preferisce la poesia, la narrativa, la musica, l’arte. È credente e praticante, senza bigottismo ma con genuino fervore. È dolce ma tenace: una giovane donna, come si diceva allora, “di temperamento”. E ha un talento precoce. Ha appena diciotto anni quando dà alle stampe le poesie di Primi versi e


Alberto Aghemo la raccolta È l’alba, due pubblicazioni uscite entrambe nel 19083. Si tratta prevalentemente di poesie d’occasione, dedicate ai familiari4, accompagnate da descrizioni paesaggistiche e confessioni autobiografiche. Le composizioni sono in strutture chiuse di tradizione romantica e di forte eco pascoliana, non disgiunta da suggestioni dannunziane:

l’intima suggestione dei giganti – Pascoli, Carducci, D’annunzio – di una stagione letteraria irripetibile; lo fa con una mimesis creativa che esalta la sua adesione interiore a quei mondi poetici e fissa nel verso una spiritualità profonda, prorompente, già matura, votata alla sensibilità ma spogliata di ogni sensiblerie.

Quest’abbandono che le tue membra inonda di una fiera stanchezza travolta m’ha nell’onda del tuo destino!5

La reminiscenza pascoliana emerge, con evidenti richiami alle cadenze e al colore di Myricae, nei versi de Il Messaggio: Fuori si udiva appena un canto d’usignolo, e un eco d’acque in fuga con un sussurro che pareva un volo6.

Non manca, in quelle prime ma già felici prove, il riaffiorare di icastici ricordi carducciani: Mugghia correndo il fiume rapido verso la foce; mandan le argentee spume tra l’infuriar la voce7.

L’istantanea ritrae una giovane Velia Titta

Negli anni successivi lascerà la poesia per la prosa: un percorso coronato dalla pubblicazione, nel maggio 1920 nelle edizioni Treves, del romanzo L’idolatra, firmato con lo pseudonimo di Andrea Rota. Nel mezzo stanno le pagine diaristiche dal titolo Veglie di Boscolungo, che non vedranno mai la stampa, della cui esistenza sappiamo da due lettere a Giacomo datate, rispettivamente, 13 settembre e 10 novembre 1912. Il titolo è rivelatore di un evento destinato a cambiare la vita di Velia non

Si tratta nell’insieme di composizioni, come nota Caretti, “di levigata cantabilità parnassiana” nelle quali “l’acerbità del dettato non impedisce di apprezzare le buone letture e, insieme, la ricerca di una nettezza espressiva […] con tratti di asciutto riserbo e di castigata semplicità”8. La giovane Velia legge dunque rapita e fa proprio il respiro poetico, la cadenza metrica, 74


Velia Titta Matteotti meno di quella di Giacomo Matteotti. Il loro incontro, infatti, avviene in proprio a Boscolungo, nei pressi dell’Abetone, nell’estate del 1912: lei ha ventidue anni, lui ventisette e l’amore nasce immediato, pur nella consapevolezza della differente formazione, di diversi percorsi di vita che saranno poi tuttavia destinati a intrecciarsi indissolubilmente. Velia era allora orfana della madre, morta a soli 50 anni nel 1094, e priva del padre, che aveva da tempo lasciato la famiglia per unirsi a un’altra donna. A fare le veci del padre è il fratello Ruffo, che offre alla sorella minore il proprio sostegno affettivo e materiale e saprà essere un punto di riferimento saldo in anni decisivi per la sua formazione. Il loro rapporto è illuminato da un affetto reciproco, profondo e tenace, da cui nasce, con la conoscenza di Giacomo, la militanza antifascista di Titta Ruffo che molto costerà al cantante ormai affermato a livello internazionale: esule in Francia dopo l’assassinio del cognato, fu poi imprigionato nel corso di una successiva vista a Roma; liberato a seguito delle pressioni degli ambienti culturali d’Oltralpe, è privato del passaporto e costretto a interrompere la sua brillante carriera musicale9.

E prosegue nella seconda: […] c’è dentro tutto ciò che ho sentito e sofferto per lei, dal giorno che mi sono accorta di amarlo […] le più segrete ed intime sensazioni che passano e vivono in me, e non c’è in esse pensiero o palpito che non sia strettamente legato a lei, in modo che solo a vedermele accanto, che a toccarle, mi pare di accarezzare il suo viso, di baciare la sua fronte.

Non è letteratura. Non c’è in queste parole caste eppure ardenti, vibranti di tenerezza e di passione alcun compiacimento dannunziano, alcuna studiata posa estetica: c’è, piuttosto, la declinazione di un sentimento genuino e profondo, un darsi generoso e totale che è la cifra del grande amore, quello di una vita. E c’è, pure, l’abbandono languido ma consapevole della donna che sente, “sa” senza dubbio alcuno – pur nella differenza di genere e di espressione del sentimento – che il proprio slancio è totalmente ricambiato. Questa sensibilità appassionata e questo stesso percorso emotivo si riverberano naturaliter nella Velia narratrice: L’idolatra è la storia dell’amore infelice, mai vissuto tra Dani (Daniele) e Lella (Raffaella), la giovane protagonista senza famiglia nella quale non è difficile scorgere qualche tratto autobiografico. Dopo una forzata separazione i due si ritrovano per scoprire di condividere un amore a lungo inconfessato, reso impraticabile dalle nozze di lei, celebrate nel periodo di lontananza, con Landino, abile restauratore nella cui bottega la giovane si distingue per il suo talento, e dal quale tuttavia è già separata. Il ritrovato amore per Dani è un luminoso presagio nella vita sentimentale precocemente spenta di Lella, che tuttavia rifiuta l’offerta di Dani di

Tornando alle Veglie, non resta che il rimpianto per un’opera mai nata che, al di là del valore letterario soltanto ipotizzabile, avrebbe reso una testimonianza di sicuro spessore sulla genesi di una potente passione che plasma e dà vita a una profonda relazione amorosa. Scrive Velia nella prima delle due lettere ora citate: […] le manderò un giorno il frutto di tutta la mia passione minuto per minuto da quando partì da Boscolungo fino ad ora. 75


Alberto Aghemo seguirlo, per riguardo nei confronti di Landino e a causa dei sentimenti che ancora la legano al suo ambiente. Dani partirà senza di lei e la giovane, disperata, vede inaridire la propria vita in una desolazione che presto la porta alla morte. Non ostante l’essenzialità della trama10, la psicologia dei personaggi è tratteggiata con una cura che denota partecipe sensibilità e la scrittura elegante restituisce al lettore immagini intense nelle quali il naturale pudore non fa velo all’abbandono della passione. È il caso dell’incontro d’amore tra i due giovani, la cui narrazione è tutta dalla parte di lei:

Solo dopo l’assassinio di Giacomo Velia mediterà di ordinare per la stampa le proprie memorie che pensa anche di sottoporre, per raccoglierne il parere, a Gaetano Salvemini, che dopo il delitto si è avvicinato alla vedova e alla causa del socialismo riformista, come testimonia il non ampio ma intenso carteggio tra i due14, ma la cosa non avrà seguito. Analoga sorte tocca ad alcuni racconti scritti a due anni e mezzo dalla scomparsa di Giacomo durante una permanenza in Abruzzo. Ne dà notizia l’autrice in una breve premessa trovata nelle Carte Matteotti, di cui riferisce Caretti:

Si diede, come cadere in un’acqua profonda senza riaversi più dal brivido dell’annegato che si salva11.

Dedico alla sua veneranda memoria il racconto di alcuni episodi a me avvenuti e narrati durante la nostra permanenza su la montagna dell’aquilano: […] consolante fatica nelle lunghe sere di solitudine15.

Da quel momento l’amore finalmente raggiunto trasforma la protagonista nell’idolatra del titolo: Dani è ormai una presenza ossessiva, perennemente al centro dei suoi pensieri (“Egli le era davanti come un idolo”). Ma il romanzo restituisce anche, con una forte vena di impressionismo pittorico, ben tratteggiati scorci di una Pisa “evanescente e umbratile, chiaroscurata e impalpabile, percorsa da lampi e fremiti di luce”12: una perfetta quinta per la messa in scena del dramma interiore di due coscienze inquiete e destinate al dolore. Romanzo intimista e di impronta sentimentale, dalla prosa misurata ed elegante, L’idolatra non sfugge alla critica letteraria del tempo e incontra un certo, incoraggiante favore13, buon viatico per future prove che tuttavia non vedranno mai la luce: la nascita di tre figli in rapida successione e le drammatiche vicende familiari frustreranno ogni ulteriore ambizione letteraria.

Il riferimento alla “consolante fatica” fa fede di una vocazione letteraria profonda e mai sopita; il fatto che i racconti non siano mai approdati alla stampa testimonia le difficoltà, morali e materiali, dell’ora: gli anni difficili ma felici sono ormai alle spalle e si è definitivamente consumata una stagione che non tornerà più e ha ceduto il campo alla cupezza esistenziale della vedovanza. Di più: si vivono tempi sinistramente condizionati dalla cappa che il regime fascista impone al Paese e, ancor più duramente e con triste efficacia, ai suoi oppositori, a coloro che, come Velia, rappresentano una minaccia o possono gettare un’ombra sul ritratto che di sé il duce intende consegnare alla storia. Abbiamo lasciato Velia e Giacomo al loro primo incontro montano del 1912: da allora e sino al gennaio del 76


Velia Titta Matteotti 1916, quando si sposano, trascorrono gli anni assai intensi del fidanzamento nei quali si misurano le distanze tra le rispettive formazioni e vocazioni e pure si rinsaldano le affinità che cementeranno il loro legame: su tutte, tra la morale religiosa della giovane letterata e la morale laica del militante socialista. La solidità crescente della loro unione, fondata su una sincerità assoluta e sul rispetto dell’altro, è testimoniata, scandita dall’intenso carteggio tra i due giovani, quasi sempre costretti a una forzata lontananza che diventerà ancora più dolorosa e pesante dopo il matrimonio e negli anni della Grande Guerra.

siasi lotta […] Sii tranquillo, nulla potrebbe separarmi mai da te17.

Ma non sa dottore che non potrò mai dirle nulla che non senta né viva, perché mi parrebbe disonesto

sottolinea Velia a Giacomo in una delle prime lettere del settembre del 1912, per poi confidargli il 13 luglio del 1913 (si noti il passaggio al “tu”):

non ti invito a rompere tutto quello che ha formato la tua vita fin’ora […] voglio che tu debba sentire in me tutto il conforto di ciò che arresta e abbatte spesse volte nella via che ognuno si sceglie […] una vita di solo amore, non potrebbe mai bastare a un uomo come te16.

Velia con il fratello Titta Ruffo

“Uniti in qualsiasi lotta”: si fondono in quelle parole una consapevole esperienza di vita condivisa, un impegno saldo per il futuro e un terribile presagio del tempo a venire. Velia le scrive tra la sera del 7 e la mattina dell’8 gennaio 1916: quella stessa sera si sposano in Campidoglio. Siamo in piena guerra mondiale: un travaglio epocale la cui tragica portata è ben presente ai giovani sposi. Velia condivide il pacifismo di matrice cristiana e l’orrore per l’“inutile massacro” denunciato, peraltro alquanto tardivamente, da Benedetto XIV. D’altro canto, il pacifismo laico intransigente

Il conflitto sulla religione torna a imporsi quando i due decidono di sposarsi, in piena guerra. Dopo un confronto travagliato Velia accetta le nozze con rito civile, ma non rinuncia a riaffermare le proprie convinzioni e scrive a Giacomo: No, no vieni, saremo felici lo stesso, tu continuerai la tua vita, e io non posso in questo giorno mentire e dirti cosa non vera o nascondendo il mio cuore. Sarò religiosa lo stesso, ci vorremo bene lo stesso, vivendo uniti in qual-

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Alberto Aghemo 1919 Giacomo è finalmente congedato e riprende a pieno ritmo e con rinnovato entusiasmo l’attività politica e sindacale nel Polesine e a Roma: viene eletto deputato per la prima volta nello stesso anno e quindi riconfermato nelle tornate elettorali del 1921 e del ’24. All’intensa azione parlamentare accompagna un’ardimentosa militanza antifascista nei paesi del suo collegio e nelle piazze di Rovigo e di Ferrara. Il vagheggiato ritorno alla “cara vita lasciata” non è che una fuggevole illusione. Giacomo, che per il temperamento irruento è chiamato “Tempesta”, molto si espone contro i fascisti e gli agrari, particolarmente violenti nel Polesine, e rischia in prima persona. Nel gennaio del 1921 il militante socialista, ormai leader riconosciuto, è aggredito una prima volta a Ferrara, dove è accorso per partecipare ai duri scontri tra socialisti e fascisti seguiti all’eccidio di Castello Estense; due mesi più tardi, a Castelguglielmo, viene sequestrato, oltraggiato e minacciato di morte da squadristi polesani che lo bandiscono dalla sua terra; altre aggressioni si succederanno a Padova, a Siena, a Cefalù. Velia, che ha appena dato alla luce Matteo, è comprensibilmente turbata e scrive:

e determinato di Matteotti segna una linea di non ritorno nei confronti del Partito Socialista, del quale non può condividere la prudente, debole linea del “non aderire e non sabotare” e nei confronti dello Stato in guerra: Giacomo sarà un irriducibile “sabotatore” e pagherà per la sua presa di posizione pubblica il prezzo dell’isolamento politico e l’arruolamento forzato18, con destinazione la Sicilia, sotto vigilanza come “sovversivo”. Inizia per i giovani sposi un periodo difficile, scandito da nuove lunghe separazioni. Per essere vicina al marito Velia si trasferisce tra mille difficoltà per qualche tempo, da sola, nel settembre del 1916 in albergo a Messina, dove giovani sposi occasionalmente si incontrano. Nella primavera dell’anno successivo scrive a Giacomo: il pensiero che io partecipo con te, vicinissima a ogni tua cosa, ne l’unica attesa del tuo bene e del nostro ritorno alla vita cara lasciata, ti sia almeno di aiuto e di conforto morale19.

Il tono affettuoso e partecipe e, insieme, l’oggetto di questa missiva – il sostegno morale e la salda condivisione degli affetti nella lontananza e in una difficile congiuntura – si ritroveranno come una costante in tanta corrispondenza successiva e troveranno sempre un’espressione composta, rassicurante: una conferma e un conforto in un’esistenza che, soprattutto negli anni aspri e vilenti del dopoguerra, sarà scandita da mille incertezze quotidianamente vissute e da tante violenze patite o minacciate. Nel maggio del 1918 nasce Gian Carlo; seguiranno Gian Matteo, nel febbraio del 1921, e Isabella, nata il 7 agosto del 1922. Nella primavera del

Mi è difficile persuadermi che arrivato a questo punto non ti è ammessa nessuna viltà, anche se questo dovesse costare la vita20.

Con il drammatico susseguirsi degli eventi al timore presto segue lo sgomento: Non desidero che di veder finire questo flagello e di saperci tutti in una vita civile […] temo qualsiasi decisione, qualsiasi eventualità che possa nascere portandoti pericoli.

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Velia Titta Matteotti quando la famiglia si riunisce a Roma, nella nuova casa al Flaminio, nella speranza, brutalmente negata dagli eventi, di una nuova serena stagione di convivenza. Nel maggio del 1924 Velia è a Milano e da lì scrive a Giacomo, con genuino trasporto di madre e di sposa:

Costretta con sempre maggiore frequenza a un penoso distacco da Giacomo che, mentre la famiglia è nella grande casa di Fratta Polesine, si divide tra l’impegno parlamentare a Roma e il presenzialismo legato al ruolo di segretario del Partito Socialista Unitario, e i cui movimenti sono spesso imposti dalla necessità di sfuggire alla vigilanza o alla rappresaglia di un fascismo ormai divenuto regime, Velia lancia al marito accorati inviti alla cautela:

Scrivimi due righe, che state tutti bene, e che non vi duole che stia lontana questi giorni; bacia i piccoli e dammi notizie, un bacio a te proprio d’amore.

Del loro vibrante epistolario è l’ultima lettera. Poche settimane più tardi Giacomo Matteotti, a trentanove anni, morirà per mano fascista. L’assassinio consumato il 10 giugno del 1924 cambia la storia d’Italia e segna la fine di una comunione d’amore e ideale durata dodici anni. Per Velia si apre una nuova, dolente stagione della vita. * Gli anni a venire, non molti invero per Velia, sono segnati dal rimpianto, incupiti dalla solitudine e spesso resi ancor più amari da un clima di ostilità e di sospetto. La vedovanza, portata peraltro con grande dignità e fermezza, si rivela un cammino difficile. Grava su tutto, come emerge dalle Carte Matteotti ordinate e restituiteci da Stefano Caretti, il rimpianto di Giacomo, della sua presenza e di “non averlo saputo e potuto strappare alla morte”, che si accompagna al peso di essere amorevole e fedele custode non solo dei figli, ma anche della memoria del marito e del suo lascito ideale, come rivela il carteggio con Filippo Turati e con Gaetano Salvemini, intenso a partire dagli anni immediatamente successivi al delitto e poi via via più rarefatto. I primi tempi sono durissimi e la chiamano a fronteggiare non solo l’in-

per carità non esporti, non fare imprudenze, vorrei annegare i pensieri che amareggiano la separazione, il domani incerto, i timori che li avvenimenti possano colpirci nelle cose più care

e tuttavia non manca di confermare il rispetto per le motivazioni ideali che spingono Giacomo all’azione e la profonda adesione a quel rigore morale che della sua militanza politica è il sostanziale presupposto: Nulla è più importante di compiere i doveri che sentono: questo ti scrissi in momenti per te assai più tragici di questi, e ti ripeto.

Parole ancor più dense di significato quando si consideri che la minaccia non incombe solo su Giacomo, ma lambisce anche lei e i bambini, vittime di intimidazioni dei fascisti a Varazze dove, nell’estate del 1922, si era rifugiata poco dopo la nascita della terzogenita Isabella. Altre minacce seguiranno nel 1923 a Fratta Polesine, in un clima divenuto sempre più ostile. Archivio fedele e puntuale dei sentimenti, il carteggio tra Velia e Giacomo di quegli anni “tragici” ci restituisce tuttavia anche slanci di passione, vibranti testimonianze di un amore che sembra aver trovato un nuovo approdo 79


Alberto Aghemo sopportabile tragedia personale, ma anche l’onere di una responsabilità ideale che si fa più grande mano a mano che il regime, proprio a seguito dell’assassinio di Giacomo di cui il duce farà propria ogni responsabilità, si mostra nella sua natura di feroce dittatura. Su Matteotti Mussolini mette subito una sordina che diventerà, nel volgere di pochi mesi, prima strettissima censura, poi una vera damnatio memoriae. Pochi sono, di conseguenza, i momenti “pubblici” nei quali Velia è chiamata a rendere testimonianza di sé e della sua condizione di vedova. Il primo è l’incontro con Mussolini a Palazzo Chigi del giugno del 1924 – quando ancora non vi era certezza ma solo un fortissimo tragico presentimento circa la sorte di Giacomo – affrontato con dignitosa e gelida compostezza e del quale tuttavia la propaganda del duce costruì immediatamente una vulgata in pieno stile mussoliniano. Una triste ribalta si offre alla vedova di Matteotti ancora nel marzo del 1926 quando a Chieti si celebra il processo-farsa ai membri della “Ceka fascista” che, guidati da Amedeo Dumini, hanno materialmente assassinato Giacomo. Velia rifiuta di costituirsi parte civile e così argomenta le sue fondate ragioni nella lettera inviata al Presidente della Corte d’Assise:

Mi parrebbe accedendo all’invito, di offendere la memoria stessa di Giacomo Matteotti, per il quale la vita era cosa terribilmente seria. Quella memoria nella quale e per la quale, e solo per educare i figli all’esempio ed alla fermezza paterna, vivo ancora appartata e straziata.

La rinuncia aveva palesemente solide motivazioni, alle quali un’altra – politica e giuridica – se ne aggiunge. Il processo a Dumini e ai suoi camerati avvalora la tesi che il delitto fosse maturato tra zelanti sodali fascisti mossi da patriottico, incontrollabile ardore e nega di fatto l’esistenza di mandanti, di ben più alti istigatori. E che tale riserva fosse fondata è dimostrato dal fatto che di lì a poco il Senato del Regno, costituito in Alta corte di giustizia, avrebbe prosciolto da ogni accusa il capo della polizia e comandante della Milizia Emilio De Bono, il quadriumviro pesantemente implicato nel delitto Matteotti. La scelta di Velia non è tuttavia sempre accettata e rispettata, e ciò le vale qualche incomprensione, che lei vive con amarezza. Non bastasse, in quanto vedova di Matteotti è oggetto di offese e minacce da parte fascista. Non soltanto ingiurie, ma anche colpi di pistola esplosi sotto le sue finestre: atti intimidatori assai gravi che limitano la sua libertà e le impongono, in quanto madre di tre bambini, una condotta estremamente cauta e riservata. La sua vita, già “appartata e straziata”, si fa ancora più difficile con la promulgazione delle “leggi eccezionali” del 1926. L’intera famiglia è da allora soggetta a una strettissima vigilanza: chiunque visiti Velia viene fermato e interrogato, tutta la corrispondenza è sotto controllo nel timore che la vedova di Matteotti coltivi contatti

L’assassinio di Giacomo Matteotti, tragedia mia e dei miei figli, tragedia dell’Italia libera e civile, mi lasciò credere che giustizia sarebbe stata non invano invocata. […] Ma nelle varie vicende giudiziarie, e per la recente amnistia, il processo – il vero processo – a mano a mano svaniva. Ciò che oggi ne rimane non è più che l’ombra vana. […] Chiedo perciò mi sia concesso di estraniarmi dall’andamento di un processo che ha cessato di riguardarmi. […]

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Velia Titta Matteotti polizia fascista di Giuseppe Germani, un amico di Giacomo riparato a Parigi, appositamente rientrato in Italia per organizzare l’espatrio. Ancorché fallito, il piano comporta un inasprimento delle misure di polizia nei confronti di Velia e dei figli: cresce ancora la pressione sulla famiglia Matteotti, che da qualche tempo si dibatte anche in difficoltà economiche, accuratamente seguite, quando non alimentate, dal regime. Nel 1929, ricorderà in seguito Matteo Matteotti, i fittavoli della principale tenuta della famiglia, “già assoldatori di bande fasciste”, incendiarono edifici e fienili, avvelenarono il bestiame, ferirono a fucilate il fattore. Nello stesso periodo il regime fascista riesce a infiltrare in casa Matteotti un suo informatore, che gode della stima di Velia. È Domenico De Ritis, amico di lunga data di Giacomo, poi passato al servizio di Bocchini con il nome in codice Tisde 331. Sarà De Ritis a incoraggiare la vedova a beneficiare degli aiuti nel frattempo offerti dal regime sotto forma di mutui a tassi agevolati, in ciò sostenuto anche da Casimiro Wronoski, già giornalista del «Corriere della Sera» e imparentato con la famiglia, anch’egli collaboratore dell’Ovra. Se a Fratta Polesine il clima si è fatto ostile, le condizioni di vita a Roma non sono meno difficili. Ricorda Gian Carlo Matteotti:

con esponenti dell’antifascismo o mediti l’espatrio. La condizione di Velia, sottoposta a un’avvilente sorveglianza, diviene progressivamente di completo isolamento. Oramai, scrive a Salvemini nell’aprile 1927, nessuna notizia arriva più dai vicini e dai lontani. Nessuna possibilità di far giungere una parola.

È in questo contesto che dalla concentrazione antifascista di Parigi giungono inviti a espatriare. Filippo Turati già nell’estate del 1927 propone di riparare in Francia con la famiglia dalla madre di Giacomo, Isabella, che rifiuta. Non avrà seguito nemmeno un progetto promosso da Giustizia e Libertà due anni più tardi, sull’onda del successo dell’impresa di Lipari che aveva portato Oltralpe i fratelli Rosselli, piano di cui Velia viene messa a conoscenza in circostanze avventurose. I tentativi dei fuoriusciti non sfuggono tuttavia alla stretta sorveglianza fascista: il capo della polizia Bocchini in persona impartisce disposizioni perché fosse “assolutamente impossibile qualsiasi tentativo di espatrio” e il questore di Rovigo ricorre alle minacce: se avesse acconsentito alle proposte di espatrio, Velia “difficilmente sarebbe uscita viva dal Regno”. Quando nel 1931, dopo la scomparsa di Isabella e con il venir meno della principale remora al trasferimento all’estero, i Rosselli rinnovano l’invito, Velia è ormai molto prostrata e in ansia per la strettissima sorveglianza subita ancor più che da lei, dai figli. Il trasferimento clandestino, programmato per l’estate del 1931, prevedeva un imbarco notturno dalla costa ligure ma il piano di fuga salta a causa dell’arresto da parte della

A Roma eravamo isolati. Sotto la nostra abitazione di Via Pisanelli eravamo sorvegliati 24 ore su 24. Persino quando andavamo a scuola un’auto ci seguiva. Tutti avevano paura a frequentarci.

Velia, annota ancora il figlio maggiore, è ormai “caduta in un profondo 81


Alberto Aghemo stato di prostrazione”: una condizione esistenziale certamente non estranea al suo precoce declino e alla prematura scomparsa, all’età di soli 48 anni. Si spegne il 5 giugno del 1938 in una clinica romana dove era stata sottoposta a un delicato intervento chirurgico. Per il regime è ancora nel “novero dei sovversivi” e sino all’ultimo non vengono meno le rigorose misure di polizia nei suoi confronti, che anzi la accompagnano anche in occasione dei funerali celebrati a Fratta in forma strettamente privata: viene impedito di seguire il feretro, la chiesa è sgomberata, si vieta di rendere omaggio alla salma al passaggio del corteo funebre. Le quattordici persone presenti alla cerimonia sono oggetto di indagini minuziose, così come coloro che hanno espresso per lettera partecipazione al lutto. Due mazzi di fiori deposti dai parenti sul

feretro sono zelantemente sequestrati perché “tutti rossi”. Nemica del regime anche post mortem, come Giacomo: si può ipotizzare che la cosa non le sarebbe dispiaciuta. La morte, scrive nelle sue memorie Vera Modigliani, “pareva aver perfezionato la loro comunione ideale”. L’osservazione è amara ma acuta. Velia, dopo l’assassinio di Giacomo, gli sopravvive 14 anni, più di quanti ne abbia vissuti al suo fianco ma il suo è, appunto, un sopravvivere. La sua brillante personalità, l’accesa sensibilità, il grande talento di poetessa e narratrice, il vibrante rigore morale, la tenace determinazione alla lotta: tutto comincia a spegnersi a partire da quel 10 giugno del 1924, quando le ammazzano Giacomo. Non un compagno – lo aveva, lo avevano entrambi capito subito – ma l’amore di una vita, l’amore per la vita.

Ritratti di famiglia 82


Velia Titta Matteotti NOTE 1 Due maschi, Ettore e Ruffo, che diverrà un celebre baritono, noto in arte come Titta Ruffo, e quattro femmine: Fosca, Nella, Settima e, appunto, Velia. 2 Fondamentali per ricostruire la personalità di Velia sono i due volumi delle Opere di Giacomo Matteotti nella monumentale edizione critica in tredici tomi curata da Stefano Caretti per i tipi di Nistri-Lischi (e poi della Pisa University Press) dedicati alla corrispondenza intercorsa con Giacomo: le Lettere a Velia, con prefazione di Eugenio Garin, del 1986, e Lettere a Giacomo, del 2000, con prefazione di Stefano Timpanaro. Entrambi i testi sono preceduti da ampie introduzioni di Caretti che con accuratezza, eleganza ed efficacia tratteggia un ritratto prezioso di Velia Titta Matteotti. Altri utili rifermenti si trovano, tra l’altro, in: G. Cornali, L’idolatra, «I libri del giorno», a. III, n. 5, maggio 1920, pp. 255-256; G. E. Modigliani, L’assassinio di Giacomo Matteotti, Casa Editrice Avanti!, Roma 1945; V. Modigliani, Esilio, Garzanti, Milano 1946; F. F. Nitti, Le nostre prigioni e la nostra evasione, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1946; R. Titta, La mia parabola. Memorie, Staderini, Roma 1977; A. G. Casanova, L’epistolario di Matteotti, in «Critica Sociale», giugno 1986, pp. 75-79; S. Timpanaro, Lettere a Velia, in «Belfagor», 31 maggio 1987, pp. 357-360; S. Caretti (a cura di), Matteotti. Il mito, Nistri-Lischi, Pisa 1994; M. Canali, Il delitto Matteotti, il Mulino, Bologna 1997; A. Parini, La vita di Giacomo Matteotti, a cura di M. Scavino e V. Zaghi, Minelliana, Rovigo 1998; Stefano Caretti, Il delitto Matteotti. Storia e memoria, Lacaita, Manduria - Bari-Roma 2004; Valentino Zaghi, Nella terra di Matteotti. Storia sociale del Polesine tra le due guerre mondiali, Minelliana, Rovigo 2014; P. Locatelli, Con gli occhi di Velia. Da Matteotti ai Rosselli, intervento al convegno omonimo tenuto a Rovigo il 13 gennaio 2018, http://www.pialocatelli.info/con-gli-occhi-di-velia-da-matteotti-ai-rosselli/. Curata, anche se non particolarmente approfondita, la voce Velia Titta di Wikipedia, https://it.wikipedia. org/wiki/Velia_Titta. A parte si segnalano gli intensi ricordi familiari di Matteo Matteotti in Quei vent’anni, Rusconi, Milano 1985. 3 Per i tipi della Tipografia Prosperi, Pisa 1098. 4 Alla madre, al cognato Emerich, alla sorella Fosca e al fratello Ruffo. Alcuni di questi ultimi furono ripresi il 24 dicembre 1908 dal giornale madrileno «Correo Español» che lodò la giovane autrice per il “talento extraordinario”. 5 La siesta nella vita, vv. 2-5. 6 Il Messaggio, vv. 9-12. 7 Effetti estivi, vv. 5-8. 8 Così Stefano Caretti nell’«Introduzione» al volume, da lui stesso curato, Velia Titta Matteotti, Lettere a Giacomo, cit., pp. 16-17. 9 Cfr. S. Timpanaro, «Premessa» a V. Titta Matteotti, Lettere a Giacomo, cit., pp. 8-9, H. Sachs, Musica e regime, Il Saggiatore, Milano 1995, pp. 200-202. 10 «La favola è esile e statica» chiosa Stefano Caretti nel già ricordato saggio introduttivo alle Lettera a Giacomo, p. 18. 11 A. Rota, L’idolatra, Treves, Milano 1920, p. 21. 12 La puntuale notazione è di S. Caretti – op. cit., p. 19 – che nel romanzo coglie temi e motivi di Antonio Fogazzaro ed echi dei romanzi di Romain Rolland, dei quali Velia è lettrice attenta. 13 Ne scrive in termini ampiamente positivi Gino Cornali su «I libri del giorno» del maggio 1920, che ne loda la “passione fremente”; più cauto Luigi Tonelli su «Il Marzocco», a. XXV, n. 41, del 10 ottobre del 1920 che parla di un “frutto immaturo di un ingegno promettente”. 14 Una traccia importante di tale intenso rapporto intellettuale e umano è nell’epistolario pubblicato in appendice alle più volte ricordate Lettere a Giacomo curate da S. Caretti: «Carteggio Velia Matteotti – Gaetano Salvemini», pp. 315-320. Si segnala su tutte la splendida, vibrante lettera del 3 febbraio 1926 che Salvemini indirizza a Velia da Londra. 15 Citato da Caretti dalle Carte Matteotti. Cfr. Lettere a Giacomo, cit., p. 21. I racconti sono complessivamente ventuno. I titoli – se ne riportano alcuni – danno conto della loro varietà tematica: L’uomo in fiamme; Il morto di Barisciano; Il mazzolino di more; La caccia al lupo; Il cimitero antico; La casetta dell’eremita; Il cane ucciso. 16 Lettere a Giacomo, cit., p. 22, il corsivo è nostro. 17 Op. cit., p. 23 e pp. 103-105, passim. Il corsivo è nostro. 18 Giacomo Matteotti era affetto da tisi, malattia che aveva già portato a morte il fratello maggiore, Matteo, e il più giovane Silvio. A seguito della prematura scomparsa dei fratelli era anche figlio unico di madre vedova e già collocato in congedo illimitato. In una lettera alla cognata Lea, moglie di Ruffo, in data 7 giugno 2016 Velia confida: «l’ordine veniva dal ministero della guerra […] veniva trasferito come sospetto di possibili fatti sobillatori della massa; si isolava dunque per pura ragione politica». 19 Lettera del 31 marzo 1917, indirizzata al “Soldato dr. G. Matteotti/ 4° artiglieria/ 97° compagnia/ Montecampone/ Messina”, in op.cit., p. 24 e pp. 152-3. 20 Lettera a Giacomo del 25 gennaio 1921, op. cit., pp. 26 e 214-15.

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Alberto Aghemo 21 Lettera dell’aprile e del dicembre 1921, ibidem. 22 Lettera dell’11 luglio 1923, op. cit., pp. 27 e 275-76. 23 Lettera del 25 febbraio 1922, op. cit., pp. 27 e 238-40. 24 Lettera del 15 maggio 1924, op. cit., pp. 27-28 e 282, il corsivo è nostro. 25 Il riferimento è in Lettere a Giacomo, cit., p. 28. 26 Entrambi pubblicati, a cura di S. Caretti, in Appendice al citato Lettere a Giacomo, pp. 217-320. 27 Una puntuale e pour cause minuziosa ricostruzione dei fatti è nella lettera a Salvemini (Doc. XXIX), in Lettere, cit., pp. 316-17, che confuta la narrazione del «brevissimo colloquio» apparsa sul «Giornale d’Italia» del 15 giugno 1924. 28 In G. E. Modigliani, L’assassinio di Giacomo Matteotti, cit., p. 55. 29 Di tali aggressioni – che la costringono nell’estate del 1925 a lasciare Castellammare Adriatico dove era con i figli ospite di amici e l’anno successivo a rinunciare a una vacanza a Castel Del Monte – si trova ampia testimonianza in F. F. Nitti, Le nostre prigioni e la nostra evasione, cit., e nelle Carte Matteotti. 30 F.F. Nitti, Le nostre prigioni e la nostra evasione, cit., pp. 29 e 167. 31 Doc. XXX, in Lettere, cit., pp. 317-18. 32 Per sfuggire alla censura il messaggio di Rosselli, Lussu, Tarchiani e Rossetti è scritto con inchiostro simpatico sui margini delle pagine di un libro francese affidato a Zanotti Bianco. 33 Cfr. S. Caretti (a cura di), Matteotti. Il mito, Nistri-Lischi, Pisa 1994, pp. 356 e 351. 34 L’evento ebbe all’epoca grande risalto sulla stampa internazionale. Intervenne personalmente Stefan Zweig che scrisse a Mussolini ottenendo la commutazione del carcere inflitto a Germani in cinque anni di confino a Ponza. Cfr. S. Zweig, Il mondo di ieri, Mondadori, Milano 1980 e G. Germani, Carcere e dolore, Mosetti, Trieste 1945. 35 Una dichiarazione di Matteo Matteotti, in «Avanti!», 6 ottobre 1945, ripreso in Lettere a Giacomo, cit, p. 31. 36 Sul punto si veda M. Canali, Il delitto Matteotti, cit. 37 Canali riferisce di un mutuo agevolato presso l’Istituto San Paolo di Torino per un milione e duecentomila lire, seguito da un mutuo a tasso particolarmente agevolato erogato dal ministero dell’Agricoltura. 38 Dopo la morte di Velia, De Ritis e Wronoski diverranno tutori dei tre orfani nel tentativo di annetterli al regime. Il doppio gioco di De Ritis emergerà con la liberazione di Roma, quando i documenti del ministero dell’Interno finiranno nelle mani dei partigiani. 39 Gli fa eco la testimonianza del fratello Matteo: «Da bambini, io e mio fratello eravamo sorvegliatissimi». Entrambi sono citati in S. Caretti, Introduzione a Lettere a Giacomo, cit., p. 31. 40 Matteotti. Il mito, cit., p. 349. 41 È Mussolini in persona ad annoverarla tra i suoi nemici. Scrive Galeazzo Ciano il 18 giugno del ’38, nel suo Diario 1937-1943, che qualche giorno dopo la morte di Velia, avvenuta in ospedale dopo una delicata operazione, Mussolini, commentando l’atteggiamento da tenere nei confronti degli oppositori interni ed esterni al regime afferma: «I miei nemici sono finiti sempre in galera e qualche volta sotto i ferri chirurgici». Riportato in P. Locatelli, Con gli occhi di Velia, cit. 42 V. Modigliani, Esilio, cit., p. 12.

Velia e il piccolo Gian Matteo negli anni Venti

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Maria Giulia Cardini. Quando “Ciclone” divenne Antonio Rossella Pace

Giuditta e Abra «Fermatasi presso il divano di lui Giuditta – nel noto passo del Deutoronomio – così pronunciava: Signore, Dio d’ogni potenza, guarda propizio in quest’ora all’opera delle mie mani. […] È venuto il momento di pensare alla tua eredità e di far riuscire il mio piano per la rovina dei nemici che sono insorti contro di noi. […] Avvicinatasi alla colonna del letto che era dalla parte del capo di Oloferne, ne staccò la scimitarra; poi, accostatasi al letto, afferrò la testa di lui per la chioma. E con tutta la forza di cui era capace lo colpì due volte al collo e gli staccò la testa»1. L’episodio biblico di Giuditta e Oloferne, riprodotto su tela per ben due volte da Artemisia Gentileschi nella prima metà del Seicento, è a nostro giudizio l’esempio migliore per spiegare quello che significò per tutte le donne coinvolte, la Resistenza: battersi per un ideale, per il trionfo della libertà sulla tirannide, facendolo, però, insieme. Come Giuditta e Abra, che dall’unione trassero la loro forza. Moltissime donne parteciparono attivamente alla Resistenza, alcune di loro pagarono addirittura con la vita i loro ideali, molte soffrirono lunghi mesi nelle carceri: La [loro] presenza in campo politico, specie in questo, contribuì a portare in fondo un discorso di libertà e di difesa delle ideali. Esse

seguirono i loro uomini in montagna, soffrirono con loro disagi spirituali e materiali, lottarono dimostrando capacità e senso di responsabilità; uscirono dalla casa per entrate nella storia riscrivendola2.

Un impegno che, sarebbe stato in seguito sempre presente nella loro esperienza e sarebbe continuato anche dopo il conflitto. L’emancipazione conquistata sul campo avrebbe fornito un valido modello alle generazioni successive di donne che ereditarono quelle conquiste, dopo un ventennio di mortificazioni, restrizioni e di sofferenze intellettuali. Un modello inteso non come il trionfo della propria ideologia politica di appartenenza, bensì come difesa della patria e affermazione di se stesse. Accanto all’impegno militare negli anni della Resistenza andò quindi delineandosi sempre di più la volontà di chi, soprattutto donne, voleva dare il proprio apporto alla guerra di liberazione nazionale, e intendeva farlo senza prendere in mano armi, ricorrendo ad azioni che rientrassero nell’ambito dell’attività femminile consolidata, tesa a rivendicare l’importante ruolo che queste avrebbero dovuto svolgere nella società, ma che era stato loro sempre negato.Una vera e propria rivendicazione questa, in un momento cruciale per la storia del Paese, alla quale molte donne decisero di aderire. Questo tipo di opposizione al nemico si incentrava soprattutto sulle don-


Rossella Pace Quando Giuditta divenne Antonio Come si diceva pocanzi l’opposizione civile portata avanti, in primo luogo, dalle donne fu risolutiva dell’azione maschile in operazioni strategiche e delicate. Croce al merito di guerra, la liberale Maria Giulia Cardini, sconosciuta ai più, è l’unico esempio ad oggi trovato di partigiana liberale equiparata al grado di combattente nelle formazioni di montagna. Questa ribelle «Giuditta», nata a Orta Novarese nel 1921, fin da bambina portava in sé i tratti caratteristici dell’anticonformismo e della ribellione. Crebbe in un ambiente in cui il regime non fu mai accettato: il padre Romolo, fermamente liberale, si era sempre rifiutato di prendere la tessera fascista. La stessa Maria Giulia così lo ricordava, confermando ancora una volta l’assunto dell’importanza dell’ambiente familiare: «siamo cresciuti in un’atmosfera liberale in famiglia e quindi automaticamente questi valori ci hanno portato ad essere antifascisti». Dopo l’infanzia passata a Omegna, la prima svolta nella vita di questa giovane donna avvenne con il trasferimento a Torino per gli studi, da lei così descritto:

ne, in grado di essere decisive al pari degli stessi uomini e delle «colleghe» donne di altri partiti in operazioni strategiche nel rispetto di loro ruoli sociali e delle loro competenze specifiche.

Ho iniziato l’Università al Politecnico, dove ho incontrato diversi compagni di corso antifascisti che, dopo l’8 settembre 1943, al momento della chiamata alle armi, sono entrati a far parte attiva della Resistenza. E questa, anche a me, è sembrata la scelta più naturale, così avrei potuto dar loro una mano3.

La sua iniziazione avvenne in automatico: infatti, in quanto studentessa, la Cardini tornava a casa ogni fine settimana, e quindi fu naturale per lei svolgere azioni di collegamento tra il

Maria Giulia Cardini

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Maria Giulia Cardini Comando Militare di Torino e il CLN di Novara e di Omegna. Azioni in cui venne coinvolta anche la sorella diciasettenne Adriana, inviata in montagna dal comandante Beltrami per comunicazioni e rifornimenti. Gli spostamenti avvenivano sempre a piedi e su lunghe distanze.

Le accuse che risultavano dal mandato di cattura a suo carico erano molto pesanti e facevano presagire il peggio, essendo così formulate: • Insurrezione armata contro i poteri dello Stato • Costituzione e rifornimento di bande ribelli • Propaganda antinazionale • Appartenenza al CLN di Torino • Apologia di propaganda liberale Venuto a conoscenza del suo arresto, Edgardo Sogno cominciò subito ad ordire trame per liberare lei ed altri detenuti. L’azione compiuta dalla Franchi4 avrebbe dovuto portare allo scambio in favore oltre che della Cardini, anche di Ottorino Balduzzi e Alberto Li Gobbi. A tale scopo venne organizzato, il rapimento della figlia del console tedesco a Torino, Ursula von Langen, durante una festa. La buona riuscita dell’azione venne dalla rete di conoscenze che legava la famiglia alla città. La prigione venne allestita in casa dei fratelli Savoretti5. Ma l’affaire non si concluse con il pieno successo: i tedeschi, infatti, non rilasciarono i prigionieri richiesti, ma liberarono soltanto “Ciclone” insieme ad alcune partigiane detenute e a un esponente del PC torinese6.

Esterno ed interno della carta d’identità falsa della Repubblica Sociale Italiana, appartenuta alla Cardini, alias Petrone Milena (Istituto Storico della Resistenza di Novara)

Questa sua attività continuò fin al maggio del 1944, precisamente fino al momento in cui «Ciclone», questo il nome di battaglia scelto all’inizio, venne arrestata, consegnata ai tedeschi e destinata al famigerato comando militare dove venivano portati i condannati a morte dai tribunali speciali, il Martinetto.

Castello di Carimate, estate 1945: riunione plenaria della Franchi (Archivio Privato Edgardo Sogno)

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Rossella Pace A scarcerazione avvenuta. la nostra, non potendo più stare a Torino in quanto persona troppo nota, si spostò da Novara a Milano, poi di nuovo a Novara dove svolse funzioni di collegamento tra il CLN della capitale lombarda e le formazioni partigiane. Durante il periodo della liberazione dell’Ossola e della Giunta provvisoria di governo stette a Domodossola, presso i cugini Chiovenda, dove svolse funzioni di assistenza, distribuendo alla popolazione il pane e la pasta provenienti dalla Svizzera. Chiusa anche questa parentesi, nell’ottobre del 1944, non volendo espatriare in Svizzera, si trasferirsi in montagna con la Brigata del comandante Filippo Beltrami, che nel frattempo era già stato fucilato, in Vallestrona, costituendo l’intendenza della 1a Brigata Romagnoli. La permanenza in montagna fu di breve durata a causa dei pesantissimi rastrellamenti tedeschi, che vessavano costantemente gli appartenenti alla Brigata. Una volta giunta alle dipendenze del SIP (Servizio Informazioni Politiche), Maria Giulia passò al Comando di Divisione del servizio di informazione e collegamento in qualità unica di rappresentante. Ma il passaggio da giovinetta a partigiana avvenne verso la fine dell’autunno del 1944, quando il SIP si trasformò in SIMNI, vale a dire quando la Cardini venne nominata capo cellula della missione alleata Chrysler con missioni nelle valli di Susa, Aosta e Pellice. È in questo preciso momento che avviene la metamorfosi che vede «Giuditta» diventare Antonio (il nome da lei scelto in questa seconda fase). Da un documento del 30 giugno 1945, la Sezione Comando Zona di Torino risultava essere così composta: Caposezione Maria Giulia Cardini,

Aldo Bianco (agente), Giuseppe Bosia (informatore), Sergio Camerone (informatore), Tenente Casassa Riccardo (agente, combattente nelle formazioni), Tenente Contessa Giacomo (agente), Maggiore Galli Diego (agente), Lera Nino (agente), Piero Martinetto (agente), Capitano Roberto Mosca (collegante), Capitano Giuseppe Rubeo (agente), Sottotenente Piero Stroppiana (agente, comando gruppo cellule, combattente nelle formazioni) e infine il Sotto tenente Giuseppe Vanossi e la Staffetta Rina Rocca, attiva per il SIMNI dal febbraio del 1944 all’aprile del 19457. Allo stato attuale, la Cardini risulta essere, per quanto riguarda le donne appartenenti al Partito Liberale, la sola donna capo cellula di una missione alleata così importante e l’unica ad aver vissuto in montagna con una banda di uomini. Emblematica è la scelta in questa seconda fase di un nome maschile, spiegabile alla luce delle carte esaminate e, come si vedrà, dal fatto che gli uomini mal volentieri prendevano consigli e suggerimenti da qualcuno inadatto a quel ruolo, figurarsi poi da una donna. Questa difficoltà emerge dal carteggio della Cardini con il Tenente Aldo Aicardi a capo della Chrysler Mission. In una lettera del 21 aprile del 19458 si legge l’imbarazzo della sua controparte maschile a confrontarsi con lei: Tenente Aldo, ho avuto un lungo colloquio con Sam9. Si rende assolutamente necessaria la tua presenza. Egli non ha tue istruzioni circa il suo comportamento nei miei confronti, quindi noto continue esitazioni da parte sua e restano in sospeso quelli che sono i rapporti essenziali tra noi. […] È necessario che io possa sapere tempestivamente le direttive imposte al Vostro Comando. Posso garantire il riserbo assoluto da parte mia.

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Maria Giulia Cardini

Nel documento la qualifica di Maria Giulia Cardini, «capo cellula» nell’ambito della missione alleata Chrysler, firmata con il nome di battaglia Antonio (Istituto Storico della Resistenza di Novara)

Dichiarazione dell’attività svolta dal 1943 al 1945 dal «Part. Comb. CARDINI Maria Giulia» (Istituto Storico della Resistenza di Novara)

Nonostante queste difficoltà di comunicazione e le varie incomprensioni, alla fine Antonio riuscì a portare a termi-

ne la sua missione militare con accanto gli uomini, questa volta, però, come coadiuvanti dell’azione femminile.

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Rossella Pace NOTE 1 Libro di Giuditta 13, 4-8. 2 Testimonianza di Mirella Imperiali, ASC, ISML, Fondo Camurani, b. 22. La relazione rimasta inedita, alla quale si fa riferimento, è uno dei vari interventi che si susseguirono nel corso del Convegno promosso dalla Fondazione Einaudi del 19 giugno del 1971. 3 Testimonianza del 23 agosto 2012 in G. Buridan, In cielo c’è sempre una stella per me. Diario di guerra partigiana, Tararà, Cuneo 2014, pp. 150-154. 4 La Franchi di Edgardo Sogno fu una delle più famose organizzazioni militari, di matrice liberale, attive nella Resistenza. 5 L’attività di Angelo, Giovanni e Piero Savoretti durante il periodo della lotta di liberazione nazionale separatamente da quella svolta dalla loro intera famiglia [Famiglia Lanza]. Quando l’8 settembre Piero, in servizio presso l’aeroporto di Ostia, riuscì a sfuggire ai tedeschi, raggiunse a Roma il fratello Lello. Intanto l’altro fratello Lilli, in licenza a Gavix, recuperava con l’aiuto della madre e delle sorelle tutto il materiale bellico abbandonato dalla compagnia costiera del Regio esercito, nascondendolo. Nel frattempo, lo raggiungevano gli altri due da Roma. Il 22 settembre, giorno in cui avrebbero dovuto presentarsi alle autorità tedesche in quanto ufficiali in servizio l’8 settembre, si recarono, invece, sulle montagne di Chiavaresa con il materiale bellico sottratto in precedenza da Lilli. Qui, insieme ad altri ex soldati ed ex ufficiali, diedero vita ad una banda armata. Prendeva il comando della banda, ingrossata da ex prigionieri inglesi, Lello, che si occupò poi di stringere i contatti con tutte le altre bande del luogo. Nel novembre del 43 Lilli, a Roma, sì unì con Montezemolo, Manlio Brosio, Cattani e l’ambasciatore americano. Nell’Urbe Giuseppe Cordero di Montezemolo, piemontese di ascendenza, nel giugno dello stesso anno assunse il comando dell’11° Reparto Genio Motorizzato per andare poi a dirigere in luglio la segreteria del maresciallo Badoglio, succeduto a Mussolini. Dopo l’8 settembre, aiutato da Calvi di Bergolo e Mario Argenton, diresse l’Ufficio Informazioni Civili, per poi «scomparire» qualche mese dopo organizzando l’attività militare clandestina degli ufficiali di orientamento monarchico a Roma. Catturato dalle SS, venne trucidato insieme ad altre 330 persone alle Fosse Ardeatine. Percorso analogo a quello di Montezemolo nella capitale, senza arrivare al tragico epilogo, fu quello di Manlio Brosio e Leone Cattani. Il primo, avvocato a Torino, svolse la sua attività di opposizione al fascismo mantenendo i contatti con le varie anime dell’antifascismo, da Croce ad Einaudi. Dopo l’8 settembre anch’egli, nella Roma occupata, prese parte alla Resistenza ed entrò nella giunta militare del CLN in rappresentanza del PLI. Il trentasettenne Leone Cattani, invece, dopo l’arresto del 1927 per attività cospirativa, negli anni ’30 rappresentava il PLI nel comitato nazionale centrale di Roma, ricostituendo il partito a Roma dopo l’8 settembre.. Mentre cercavano di prendere contatti con il gruppo liberale romano, il 14 dicembre, Lello e Lilli furono arrestati, mentre Piero riuscì miracolosamente a fuggire, abbandonando la Riviera e riparando a Genova. Riuscirono a sfuggire alla prigione e ad essere scarcerati soltanto grazie all’intervento della madre e dopo un periodo di permanenza a Genova, dove presero contatti con Bruno Minoletti ed Errico Martino, i tre fratelli si trasferirono a Torino. Lì essi si unirono a Sogno, Cornelio Brosio e Greco. Lello continuò ad occuparsi delle bande di Chiavari e spesso fu a Genova, mentre Piero e Lilli iniziarono l’attività di partito e di CLN nel torinese. Lilli diventò segretario del PL insieme a Brosio e a Marsaglia. Piero rappresentò il Fronte della Gioventù, costituendo la sezione giovanile, quella femminile e le squadre d’azione liberale. Dopo il colpo Von Langen, (la quale fu tenuta prigioniera in casa loro) i tre dovettero lasciare Torino. I fratelli Savoretti, a seguito di questo episodio, fecero ritorno a Genova, dove svolsero attività di partito. Lello entrò nella Franchi. Nel 1944, Piero ritornò a Torino ad occupare il posto di segretario del partito, quindi fece ritorno a Genova, dove tra il 22 e il 23 dicembre furono arrestati prima la madre e una sorella, poi il padre e l’altra sorella. I tre fratelli ripararono a Milano, con l’intenzione di andare in Svizzera. Decisero alla fine di restare a Milano, Lello continuando ad occuparsi della Franchi, Lilli e Piero del Partito, fino ai primi di febbraio. Quest’ultimo decise poi di andare a Torino, divenendo segretario del CLN regionale piemontese. I tre continuarono a occupare le loro posizioni a Milano e a Torino fino alla liberazione. 6 Cfr., E. Sogno, Guerra senza bandiera, cit., pp. 188 e ss. 7 ISRN, Fondo Maria Giulia Cardini, b.1. 8 ISRN, Fondo Maria Giulia Cardini, b.1. 9 Tenente Sam Paul Dieli del Team Strebery.

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Dialogando con Hannah Arendt: Un giudizio sul presente Rosaria Catanoso

Chi è Hannah Arendt? Cosa ha rappresentato per la filosofia? Una tra le figure più importanti e discusse del pensiero del Novecento, autorevole teorica della politica, come è stata solita definirsi, non riconoscendosi nel solco dei pensatori di professione1. Di origine ebraica2, allieva di Jaspers e di Heidegger, ha meno di ventisei anni quando nel 1933 è costretta a rifugiarsi a Parigi, per scampare alle persecuzioni, da lì partirà per gli Stati Uniti, paese in cui risiederà fino alla morte. Durante l’ascesa del nazismo, amici intellettuali si schierano silenziosamente, in seguito ad un’irrealistica sottovalutazione dei fatti; la loro adesione dimostra, agli occhi di una giovane Arendt, l’incapacità del pensiero soprattutto quello politico di far fronte al fenomeno totalitario3.

Ritratto giovanile di Hanna Arendt

Infatti, l’antitetico ruolo assunto dai suoi due maestri, Karl Jaspers e Martin Heidegger, ha impresso un significativo rilievo non solo nella vita personale della Arendt, ma ha condizionato anche il ruolo da lei assegnato alla filosofia innanzi alla politica. Heidegger, infatti, è stato risucchiato dalla marea crescente del nazionalsocialismo, per il quale scioccamente si è illuso di poter fungere da filosofo4. Jaspers, invece, non ha mai tentennato ed ha sempre dichiarato la sua inequivocabile repulsione per il nazismo5.Tutto in lei è stato stravolto da quegli avvenimenti: amicizie perdute o finite, legami divenuti impraticabili, maestri trasformati in ipocriti imbarazzati, la Germania della giovinezza riconquistata solo con la fedeltà alla lingua materna6. L’emigrazione dalla Germania nazista e l’allontanamento dall’ambiente della filosofia afferente alla sua formazione universitaria7 sono stati gli eventi biografici che hanno condizionato tutta la sua produzione filosofica e politica. Nel periodo dell’esilio francese Arendt frequenta le riunioni che si tengono a casa di Walter Benjamin; si tratta di incontri tra un gruppo eterogeneo di esuli in cui si discute di politica, di letteratura, della situazione tedesca e delle prospettive future. A Parigi, la condizione degli intellettuali tedeschi ebrei emigrati è assimilabile a quella del paria consapevole, incapaci


Rosaria Catanoso di inserirsi nella società mondana, rimangono fuori dai circuiti sociali. Nel 1940, si trova in Francia, quando le giunge l’ordine di presentarsi al Vélodrome d’Hiver per esser poi avviata al campo di internamento di Gurs, dove trascorrerà tutta l’estate. Riuscita a scappare, con il precipitare delle condizioni, insieme agli altri ebrei tedeschi si sposta verso il sud della Francia, per poi fuggire negli Stati Uniti. A Marsiglia, in attesa di visto di espatrio, Benjamin affida ad Arendt una borsa di manoscritti, tra cui l’ultima versione delle Tesi di filosofia della storia. Arendt riesce a giungere in America, Benjamin, purtroppo, bloccato dalla polizia di frontiera, morirà suicida al confine con la Spagna. Arendt consegnerà, poi, gli scritti di Benjamin all’Institute for Social Research diretto da Horkheimer e Adorno. Per diciotto anni, Hannah Arendt è stata priva dei diritti politici, nel 1951 le viene concessa la cittadinanza americana. Dagli eventi che hanno sconquassato il Novecento prendono forma le sue opere più importanti: Le origini del totalitarismo (1951, 1956), Vita activa. La condizione umana (1958), Sulla rivoluzione (1963), La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963). Questi saggi hanno avuto un’immediata risonanza, per le tesi coraggiosamente controcorrenti rispetto ai dogmi ideologici e alle regole del sapere accademico. La sua opera annovera testi disparati, biografici, storici, filosofici, politici e letterari, privando l’autrice di un’identità disciplinare univoca. Insegnando, tenendo conferenze, scrivendo anche poesie e molte lettere, Arendt è stata una filosofa che ha sempre seguito il monito di Lessing e di Kant, non stancandosi mai di pensare da sé.

Oggi, nel contesto di una fama postuma consolidata, nonostante le innumerevoli polemiche suscitate dalle sue teorie politiche, durante i dibattiti più scottanti della seconda metà del Novecento, il lascito arendtiano è in gran parte di dominio pubblico. Ed è innegabile che la scoperta del suo pensiero sia stata ampiamente assorbita e alcune sue tesi – sul totalitarismo, sulla banalità del male, sull’agire politico- siano diventate indispensabili per capire la realtà contemporanea. In tempi diversi da quelli vissuti dalla filosofa, si pensa ancora con e contro Arendt. E forse, anche lei, sentirebbe estranei alcuni rimandi teorici, che la trovano protagonista, suo malgrado; proprio perché legati a esperienze di un mondo radicalmente diverso. Tipico è il debito che il pensiero femminile ha dichiarato di avere nei riguardi di una filosofa ostile ai movimenti femministi. Qualcosa di analogo si può dire delle interpretazioni spesso opposte della sua idea di politica. Ecco perché Hannah Arendt ci riguarda. Su di lei si scrive tanto; si pensi solo al fatto che in tempi recenti in Italia sono stati editi ben quattro saggi ed un testo letterario. Di certo, quindi, come sottolinea Laura Boella: «Arendt ha accompagnato la mia generazione nell’attraversare l’esperienza di questo tempo con l’esempio di un esercizio libero del

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Dialogando con Hannah Arendt: un giudizio sul presente riguarda fatti ed eventi che meritano d’essere narrati e compresi per essere giudicati. Proprio il giudizio è sempre stato il suo assillo più impellente; non esimersi dal prendere una posizione netta, decisa ed a volte anche scomoda. Il giudizio è sulle azioni compiute, sulle vicende accadute. Quindi, in questa prospettiva, il giudizio è al contempo etico, politico e storico; proprio perché interpella la morale; viene espresso all’interno di una comunità nella quale gli spettatori, che assistono ad un evento, non possono rimanerne estranei; ed in ultimo deve evitare l’irenismo che possa accadere semplicemente perché non si sia stati presenti nelle medesime circostanze.

pensiero, acrobatico e insieme dotato della tenacia del costruttore, arrischiato per le conseguenze irritanti dell’indipendenza, ma soprattutto per la fantasia necessaria e per il coraggio di creare nuove regole del gioco. Per preservare l’intelligenza spassionata e lo humor, la straordinaria capacità di sperimentare andando oltre l’ovvio, di vedere il mondo come esercizio di domande, e non come palcoscenico di risposte».

Il presente contributo ha lo scopo di sottolineare quel che rende la sua filosofia contemporanea, prendendo le mosse proprio dalle pubblicazioni di Francesco Fistetti e di Adriana Cavarero. Entrambi gli studiosi, infatti, in forme diverse, mostrano come Arendt voglia restituire alla filosofia la sua vocazione più profonda, cioè quella d’essere e farsi forza politica in grado di agire nel mondo, sollecitando a pensare. Francesco Fistetti, in Hannah Arendt a Gerusalemme. Ripensare la questione ebraica, si concentra sul legame tra etica e politica, ricostruendo come dal processo ad Eichmann sorga l’interesse per la facoltà del pensare. Adriana Cavarero, in La democrazia sorgiva note sul pensiero politico di Hannah Arendt, si chiede, adoperando le categorie di pluralità, apparenza, spazio politico, se nell’era della demagogia populista ci sia ancora spazio per un’esperienza democratica dell’agire politico. Cosa emerge? Pensare insieme ad Hannah Arendt è sempre affascinante, e non è affatto semplice, se non si vuol rischiare d’essere superficiali e di appiattire una riflessione filosofica densa, corposa, passionale e attenta alla realtà ed alla storia. L’acume delle sue analisi è dato dal fatto che queste sorgano sempre da esperienze particolari e concrete. L’esplorazione filosofica

Questo, del resto, le è costato molto caro. Pensiamo alla solitudine, ed all’isolamento subito per aver esternato giudizi affilati e del tutto fuori dal coro in occasione del processo ad Eichmann. Riflettiamo sugli attacchi subiti dopo la pubblicazione de La banalità del male. Arendt, più volte, è costretta a precisare come le sue analisi vertano su certi fatti accaduti. Il suo metodo storiografico appare essere, a tratti, dissacrante per gli storici di professione; del resto, da teorica della politica, da studiosa dissidente si è posta «domande filosofiche radicali che trascendevano l’orizzonte di ricerca degli storici». 93


Rosaria Catanoso Ella, infatti, vuol cogliere la dinamica degli eventi, allo scopo di mostrare come nemmeno un regime totalitario possa vanificare la resilienza dei fatti. Chi dice la verità su quanto accaduto rischia di mettere a repentaglio la propria vita. Non a caso è Socrate il modello cui guardare; critico e dissidente, ma mai in disaccordo con se stesso. Socrate, così, rimanda ad una forma di vita etica nella quale agire e pensare non possono porsi in dissonanza. L’attività del pensare ricerca il significato, ed ha come obiettivo la comprensione ed il giudizio su quanto accaduto. Da ciò emerge come le riflessioni filosofiche proposte, nelle opere speculative successive a La banalità del male, abbiano sempre come intento quello di declinare un pensiero quale facoltà che sia in grado di coniugare azione e parola nello spazio pubblico, al fine di costruire un mondo comune.

Eichmann, un caso non concluso In America, nel 2014, si siano riaccesi i riflettori su quest’aspetto dell’opera arendtiana, con la pubblicazione del saggio di Bettina Stangneth La verità del male. Eichmann prima di Gerusalemme. Con la volontà di allontanare il processo Eichmann dalle interpretazioni della Arendt, nel 2011 si è tenuto a Parigi il convegno internazionale su “Le procès Eichmann. Réceptions, mèdiations, postérités”. Quello che emerge, dal saggio di Stangneth, è un personaggio cinico, ma consapevole del ruolo assunto. Lo zelo fanatico e la sete di sangue, emerse dalle ultime riflessioni storiografiche, non sono in contrasto con l’espressione coniata dalla Arendt,per descriverlo. Quello che va rimarcato, e sul quale bisogna soffermarsi è proprio il fatto che l’antisemitismo nazista introduca una frattura insanabile nella storia politica occidentale. Quell’antisemitismo è un crimine che mira a stravolgere la natura umana; poiché giunge a ritenere superflua la spontaneità, a considerare inutili gli esseri umani che non corrispondono alle categorie previste dalle leggi razziali. Da ciò discende il grande errore di prospettiva compiuto dagli ebrei nel momento in cui non hanno colto cosa stesse accadendo. Arendt imputa al popolo ebraico di non aver, ancora una volta, avuto uno sguardo politico. La pianificazione del genocidio è stata solo l’ultima fase di un percorso volto ad escludere il popolo ebraico dalla comunità. Infatti, resi privi di qualsiasi statuto giuridico, gli ebrei sono diventati eliminabili. Il paradosso dei diritti umani, e degli stati nazionali risiede proprio in ciò. Un diritto associato al fatto stesso

Hanna Arendt negli anni della maturità negli Usa

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Dialogando con Hannah Arendt: un giudizio sul presente di esistere non è stato sufficiente, proprio perché senza una cittadinanza, senza un riconoscimento politico, la vita umana smette di aver valore. In ciò, certo risiede la contemporaneità della lettura arendtiana della storia del Novecento. Quella definita “schiuma della terra”, apolidi, stranieri, discriminati, profughi, clandestini popolano i mari del Mediterraneo, accalcano le frontiere dei nostri territori, reclamano riconoscimento ed ascolto. Ecco l’attualità delle analisi arendtiane.

folle. E forse anche disgustata. Non ha conosciuto la forma che ha assunto quel populismo nell’era del digitale, che sfocia in una politica partecipativa in rete, in cui non è più il popolo ad essere al centro, ma l’individuo in versione network. Non le è stato dato d’assistere alle novità tecnologiche introdotte dal selfie, ed a come tali strumenti abbiano modificato la relazione tra folla neopopulista e capo. Adoperare, quindi, categorie filosofiche ideali per leggere il presente. Gesto rischioso, ma ben riuscito. Vediamo allora come per Arendt «l’azione politica possa aver luogo solo a condizione che il corpo appaia», sottolineando la razionalità degli attori politici incarnati, non soffermandosi sul contenuto del discorso. Questo è alla base della ragione per cui il populismo sembri incompatibile con l’idea arendtiana di politica. Quindi, la tesi di fondo risiede nel sottolineare come Arendt proponga una fenomenologia del politico che si focalizzi sul momento nascente e sorgivo della democrazia. La democrazia si rigenera ovunque uomini appaiano in uno spazio comune per mezzo di parole e discorsi, provando entusiasmo e sentendosi felici per il fatto d’esser riconosciuti pubblicamente. Ecco perché Cavarero adoperi l’appellativo sorgiva; criticando il populismo imperante, e disdegnando la democrazia digitale. Ed in un tempo in cui alla democrazia si danno innumerevoli appellativi allo scopo di pensarla, di criticarla, di rinnovarla, siamo sempre più consapevoli che la Grecia, in particolare, e l’Occidente abbiano ideato qualcosa di grandioso. Infatti, mai come ora, in tempi di isolamento virtuale e virale, non possiamo fare a meno della democrazia.

L’interesse per la partecipazione democratica Si possono adoperare a pretesto alcuni concetti politici cari al pensiero di Hannah Arendt per analizzare le democrazie populiste del nostro tempo. Questa è l’operazione proposta da Adriana Cavarero. Il nostro tempo, infatti, nota Cavarero, mostra un desiderio e l’esigenza di manifestare il nostro dissenso nelle piazze, ed a riscoprire quel pathos insito nel partecipare, generatore di una felicità che Arendt rinvia alla sfera pubblica. La politica attuale, secondo Cavarero, può esser interpretata per mezzo delle categorie care alla Arendt. Da ciò, per mezzo dei concetti di pluralità, di felicità pubblica, della differenza tra massa e folla getta uno sguardo sulle piazze politiche dell’oggi, allo scopo non tanto di attualizzare Hannah Arendt, ma di dialogare con le sue analisi su fenomeni coevi, quasi a volerle chiedere come lei avesse interpretato il nostro mondo. Difficile a dirsi. Hannah Arendt non ha visto il fenomeno della “Primavera araba”. Non ha assistito al risvolto populista delle attuali democrazie liberali. Sarebbe rimasta basita nell’osservare come i leader populisti gestiscano le 95


Rosaria Catanoso

NOTE 1 H. Arendt, Che cosa resta? Resta la lingua, in S. Forti (a cura di), Archivio Arendt 1(1930-1948), Feltrinelli, Milano 2001, pp. 35-36: «io non appartengo alla cerchia dei filosofi. La mia professione, se si può considerarla tale, è la teoria politica». 2 Arendt, assumendo su di sé il ruolo di uno dei tanti rifugiati senza ridici e protezione legale, ha sempre percepito la sua origine ebraica come un fatto incontrovertibile, e di per sé politico. H. Arendt, Che cosa resta? Resta la lingua, cit., p. 46: «se si è aggrediti in quanto ebrei, bisogna difendersi da ebrei; non in quanto tedeschi, cittadini del mondo, fautori dei diritti dell’uomo o chissà che altro. La questione è piuttosto: che cosa posso specificamente fare in qaunto ebreo?». 3 H. Arendt, La lingua materna. La condizione umana e il pensiero plurale, p. 39: «anche gli amici si allineavano. Il problema, il problema personale, non era tanto quello che facevano i nemici, ma quello che facevano gli amici». 4 Arendt nel saggio per gli Ottanta anni di Heidegger definirà la sua adesione al nazismo come un “passo flaso”, un “errore” compiuto per non aver colto la portata politica delle vicende di quegli anni. H. Arendt, Martin Heidegger compie ottant’anni (1969), in F. Volpi (a cura di), Su Heidegger. Cinque voci ebraiche, Donzelli, Roma 1998, p. 72: «Questo passo falso, che oggi- una volta che l’amarezza si è placata e, soprattutto, le infinite notizie false sono state corrette- viene definito per lo più come un”errore”, ha molteplici aspetti, fra i quali anche quelli legati all’epoca della Repubblica di Weimar, che non si mostrava affatto a colo che vivevano in essa in quella luce del tutto rosea, in cui essa viene vista oggi, sullo sfondo degli eventi terribili che la seguirono […]. Chi mai, oltre a Heidegger, ebbe l’idea di vedere nel nazionalsocialismo “l’incontro tra la tecnica planetaria e l’uomo moderno” – a meno che, anziché leggere il Mein Kampf di Hitler, avesse letto qualche scritto dei futuristi italiani, ai quali il fascismo, a differenza del nazionalsocialismo, si è occasionalmente ispirato?». 5 H. Arendt, K. Jaspers, Carteggio (1926-1969). Filosofia e politica, a cura di A. Dal Lago, Feltrinelli, Milano 1989. 6 H. Arendt, Prologo, in Responsabilità e giudizio, Einaudi, Torino 2003, pp. 4-5: «non ho mai sviluppato un desiderio di appartenenza, nemmeno in Germania […] ciò che per chi mi stava accanto era un paese, o un paesaggio, vale a dire un insieme di costumi e tradizioni, coerenti con una precisa mentalità, per me si

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Dialogando con Hannah Arendt: un giudizio sul presente riduceva essenzialmente a una lingua». 7 H. Arendt, La lingua materna. La condizione umana e il pensiero plurale, pp. 38-39: «io provenivo da attività puramente universitarie, e da questo punto di vita il 1933 mi ha fatto un’impressione indelebile […]. Io vivevo in un milieu di intellettuali, ma conoscevo anche altre persone, e potevo constatare che trai suoi rapporti con gli amici ei sodali ebrei di un tempo, tra i quali Gershom Scholem». 8 H. Arendt, Noi profughi (1943), in Ebraismo e modernità,Unicopli, Milano 1986, pp.36-37. 9 L’ammirazione della Arendt per lo studioso Benjamin e la fedeltà all’amico scomparso sono presenti nei saggi che a lui dedica nel 1968, con il titolo di Illuminations, in cui è compreso il lungo saggio Walter Benjamin 1892-1940. H. Arendt, Walter Benjamin, SE, Milano 2004. 10 F. Fistetti, Hannah Arendt, l’inquietudine dell’apolide, in “MicroMega”, n.3, 1989, pp. 142-152. 11 Nella primavera del 1975, Arendt riceve un riconoscimento per il suo lavoro di storica del totalitarismo e di teorica della politica. Il governo danese le assegna il premio Sonning per i contributi alla civiltà europea, ed è invitata a Copenaghen. I danesi, infatti, si erano rifiutati di aderire alle richieste naziste, e avevano aiutato molti ebrei a uscire dal paese e rifugiarsi nella sicura Svezia. E. Young-Bruehl, Hannah Arendt. Bollati Boringhieri, Torino 2006, pp. 517-518. 12 M. McCarthy, Addio a Hannah, in Vivere con le cose belle, a cura di F. La Polla, il Mulino, Bologna 1990, p. 153: «osservarla mentre parlava a un uditorio era come vedere i moti della mente trasferiti nell’azione e nel gesto». 13 H. Arendt, L’umanità in tempi bui. Riflessioni su Lessing, Raffaello Cortina, Milano 2006. 14 E. Young-Bruehl, Hannah Arendt: perché ci riguarda, Einaudi, Torino 2009. 15 R. Catanoso, Hannah Arendt. Imprevisto ed eccezione lo stupore della storia, Giappichelli, Torino 2019; A. Cavarero, Democrazia sorgiva. Note sul pensiero politico di Hannah Arendt, Raffaello Cortina, Milano 2019, F. Fistetti, Hannah Arendt a Gerusalemme. Ripensare la questione ebraica, il melangolo, Genova 2020, L. Boella, Hannah Arendt, Feltrinelli, Milano 2020. 16 S. Massini. Eichmann. Dove inizia la notte. Un dialogo fra Hannah Arendt e Adolf Eichmann. Atto unico, Fandango Libri, Roma, 2020. 17 L. Boella, Hannah Arendt, cit., p. 34. 18 Sull’argomento mi permetto di rinviare al paragrafo «Dal giudizio estetico al giudizio storico-politico» del mio saggio R. Catanoso, Hannah Arendt. Imprevisto ed eccezione. Lo stupore della storia, cit. pp. 268- 282. 19 F. Fistetti, Hannah Arendt a Gerusalemme, cit. p. 7: «un dibattito incandescente, che turbò profondamente la Arendt, anzitutto perché quel libro incinò 20 Ivi, p. 16. 21 Ivi p. 23. 22 F. Fistetti Hannah Arendt a Gerusalemme, cit., p. 37. 23 B. Stangneth, La verità del male, Eichmann prima di Gerusalemme, Louiss University Press, Roma 2014. 24 A. Wieviorka e S. Lindeperg, Le Moment Eichmann, Albin Michel, Paris 2016. 25 26 Cavarero, op. cit, p. 147: «scattare un selfie e postarlo in rete è tecnicamente facile, alla portata di tutti. È l’apoteosi democratica del fai da te, senza intromissioni e senza intermediari. L’autocelebrazione in rete, la vetrinizzazione del sé rispetto a innumerevoli altri, come forse noterebbe Arendt, ha evidentemente soppiantato la passione di eccellere fra gli altri. E il nuovo dispositivo ha finalmente dato modo al popolo delle facce di pubblicare la sua felicità privata.» 27 Ivi p. 39.

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Pensione Leoncini a Firenze, luglio 1954. Da sinistra: Ruth Draper, Liliana Gadaleta Minervini, Giovanni Minervini, Penelope Draper Buchanan (nipote di Ruth). Salvemini al centro (Archivio Liliana Gadaleta Minervini)


Il Mio incontro con Salvemini. Intervista a Liliana Gadaleta Minervini Mirko Grasso

I “dialoghi” su Gaetano Salvemini, dopo la conversazione con Ernesto Galli della Loggia che ci ha introdotti alla figura dello storico, partono con un importante e originale contributo: un’intervista a Liliana Gadaleta Minervini che ha avuto modo di conoscere e frequentare Salvemini dal 1954. Nata nel 1931, molfettese, laureanda in quell’anno presso l’Università Cattolica a Milano, Liliana si mette in contatto con lo storico dopo aver finito la propria tesi di laurea: da qui nasce un’intensa amicizia che mette in luce sia le doti di Salvemini come maestro, sia il suo interesse verso le problematiche dell’emancipazione del mondo femminile nell’Italia degli anni Cinquanta.

Liliana Gadaleta Minervini nella sua casa di Molfetta

Lei è di Molfetta -la città in cui è nato Salvemini nel 1873- e ha frequentato Salvemini a partire dal 1954. Come si avvicinò alla sua figura? In realtà, pur essendo di Molfetta, il mio avvicinamento a Salvemini non è stato così immediato. Bisogna partire da un dato che oggi potrebbe suonare strano: negli anni Cinquanta il nome di Salvemini a Molfetta, e più in generale nel panorama culturale italiano, non era poi così popolare o ben visto. Sosteneva, come sempre aveva fatto, posizione scomode. Inoltre, dai tempi dell’esilio che risaliva al 1925 le sue opere erano rare o introvabili. Ho capito che Salvemini era uno dei più grandi meridionalisti a Milano, studiavo filosofia all’Università Cattolica, quando il giovane studente Ciriaco de Mita mi fece notare che mentre io venivo dalla città di Salvemini lui era concittadino di Guido Dorso. Quindi ha avuto un iniziale approccio a Salvemini nell’ambiente universitario milanese… Alla Cattolica nascevano gruppi “spontanei” di studenti per l’approfondimento di particolari problemi dell’Italia di allora. Io seguivo quello che si occupava della questione meridionale e in quelle circostanze mi fu commissionato di recuperare un libro introvabile: gli atti del convegno del CLN tenutosi


Mirko Grasso a Bari il 28-29 gennaio 1944 presso il Teatro “Piccinni”. Ritornata a casa fui indirizzata verso Giovanni Minervini, un appassionato studioso di storia del Mezzogiorno e collezionista di libri di Molfetta che in effetti possedeva quel prezioso volume1. Succede poi qualcosa di imprevisto… Non potevo immaginare che Giovanni – era undici anni più grande di me – sarebbe divenuto mio marito! Non sapevo nemmeno che Giovanni era parente di Salvemini dal ramo di Maria Minervini, la prima moglie dello storico che morì insieme ai cinque figli nel terremoto di Messina del 1908. Il nonno di Giovanni aveva sostenuto Salvemini durante le elezioni giolittiane, la nonna si era occupata dell’ospitalità di Umberto Zanotti Bianco e Ugo Ojetti che accompagnavano lo storico nei suoi giri elettorali pugliesi. Per i Minervini Salvemini è stato sempre un culto, la stessa cosa non si può dire per il complicato ramo della famiglia Salvemini. Giovanni mi diceva che spesso in casa sua i bambini recitavano sotto forma di filastrocca le vicende politiche salveminiane! Inoltre mio marito era stato allievo di Tommaso Fiore e anche per questo si era avvicinato a irriducibili intellettuali salveminiani della zona come Sergio Azzollini, Giacinto Panunzio, Nicolò Altamura. Mi trovavo improvvisamente in un contesto abbastanza anticonformista. In quali circostanze è nato l’incontro con Salvemini? Avevo già composto la mia tesi di laurea sui catasti molfettesi del periodo murattiano e dovevo discutere la tesi il 1° luglio del 1954. Giovanni mi con-

sigliò di mandarla a Salvemini, io gli scrissi e inviai copia del dattiloscritto. A brevissimo giro di posta mi recapitò il testo con numerose correzioni, richieste di chiarimenti, suggerimenti e critiche. Ero impressionata e preoccupata per le sue numerose revisioni, a dir la verità. Andammo avanti con correzioni e modifiche per ben cinque versioni della tesi con la speranza di farne poi una pubblicazione! Quello dei catasti del 1813 era un argomento che lo interessava tanto, voleva sapere il tragitto fatto dei beni ecclesiastici dopo l’Unità, credo per le sue ricerche di storia del Risorgimento. Poi il 19 luglio dello stesso anno ci sposammo e Salvemini ci invitò (addirittura!) come suoi ospiti a Firenze, presso la pensione Leoncini dove ancora si fermava quando tornava in città da Sorrento. Lì conoscemmo Ruth Drapher, la vedova di Lauro De Bosis, e immortalammo il momento in questa foto che pubblichiamo. In quei giorni Salvemini invitò a farci compagnia altri giovani come Elio Conti, Gaetano Arfé, Elio Apih tutti futuri grandi storici. Voleva sempre circondarsi di giovani. Certo il suo legame con i giovani è fondamentale, voleva conoscerli per capire l’Italia del tempo. Salvemini aveva la rarissima dote e predisposizione d’animo a mettersi non di fronte al giovane interlocutore, ma a fianco. Quando rivedeva la mia ricerca avevo proprio questa sensazione, quella cioè di trovarmi a discutere con un pignolo ed esigente storico che non perdeva mai di vista il senso dell’educazione, il rispetto dell’altro, la voglia di costruire “insieme” un discorso e non di imporre una certa visione.

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Il mio incontro con Salvemini. Intervista a Liliana Gadaleta Minervini Nel 1954 Salvemini riscrive la sua prima inchiesta su Molfetta, l’eccezionale scritto di esordio sulla “Critica sociale” di Turati2. Per il lavoro del ’54 Lei ha avuto un ruolo di primo piano. Reperivo (insieme ad altri giovani molfettesi) le informazioni di cui Salvemini aveva bisogno: voleva dati, fatti precisi, elementi concreti che egli incanalava in quella sua ultima inchiesta. Anche in questo è stato terribile: non lasciava nulla al caso e si accertava con estrema precisione di ogni cosa. Credo che il suo ritorno allo studio di Molfetta in qualche modo sia stato sollecitato dalla mia ricerca sulla nostra città. Egli, pur non volendo tornare “pubblicamente” a Molfetta perché non voleva rivedere i suoi nemici e denigratori di un tempo, in realtà ci tornò di nascosto alla fine degli anni Quaranta con i coniugi Bolaffio che lo accompagnarono alla ricerca dei luoghi della sua gioventù.

Liliana Gadaleta Minervini

Lei è cattolica e questo è stato un elemento molto importante nel suo legame con Salvemini…. Oggi è difficilmente percepibile, ma negli anni Cinquanta c’era una guerra fredda tra cattolici e laici. Salvemini, mantenendo le sue posizioni laiche, era stato sempre per il dialogo con il mondo cattolico. Ne è riprova la sua amicizia con Giovanni Modugno, Giuseppe Donati, Giorgio La Piana e in ultimo con don Rosario Scarpati. Aveva anche l’interesse a capire come funzionava il mondo giovanile che si rifaceva al cattolicesimo, in particolare come erano i giovani dell’Università presso la quale studiavo. Non si muoveva mai con facili preconcetti, molto in voga nel mondo laico, ma sempre con la voglia di dialogare e comprendere l’altro. Don Tonino Bello, vescovo di Molfetta negli anni ’80, dell’anticlericalismo di Salvemini diceva giustamente che “non ha mai spartito nulla né col vilipendio, né con la dissacrazione, né con le smanie iconoclaste”. Io poi venivo da un percorso particolare perché a Milano, prima del legame con Salvemini, avevo avuto modo di conoscere l’opera di David Maria Turoldo, Zeno Saltini, Primo Mazzolari, preti operai e altri inquieti uomini di chiesa che ci inducevano a sviluppare un senso critico anche in merito ai problemi che pesavano sulle spalle della donna (ruolo nella famiglia, maternità ecc.). Quando ha avuto la seconda figlia (1956) lo storico Le inviò un particolare opuscolo… Sì, mi inviò il saggio di Berneri e Zaccaria sul controllo delle nascite3! Il testo era accompagnato da una sua battuta: “Non vorrai arrivare a undici 101


Mirko Grasso figli?!”. La contraccezione allora era considerata qualcosa di osceno, tanto che gli autori hanno avuto numerosi problemi per quel testo, ma questo era un aspetto sentito dalle nuove leve anche cattoliche. A proposito della contraccezione, in una delle sue ultime lettere (del maggio 1957), Salvemini mi scriveva: “Il problema non può essere risoluto che individualmente, cioè ogni individuo deve decidere per conto suo, se commette un peccato o no. Questo è problema di coscienze individuali in cui non c’entrano né papi, né cardinali, né vescovi: male non fare e paura non avere”. Anche in questo ha rivelato la sua straordinarietà nel cogliere i problemi del tempo, soprattutto nei giovani che cambiavano mentalità rispetto alla generazione precedente.

la vita comunitaria. E che quindi per costruirla bisogna lavorare anche in piccoli gruppi che diventano tessere di un mosaico più grande, quello cioè della società in tutte le sue forme, rifuggendo da ogni forma di settarismo e da sterili prese di posizione. È quello che cerco di fare ancora oggi, chiedendomi sempre se su questo Salvemini sarebbe d’accordo. La conversazione è stata registrata nel settembre/ottobre del 2020; a questo incontro seguiranno conversazioni su Salvemini con: Giuseppe De Rita, Giuliana Gargiulo, Raffaele Colapietra, Alberto Benzoni.

Quale è stato l’insegnamento dello storico che ha sentito vicino? Intanto che non bisogna avere paura delle proprie idee e che bisogna professarle sempre con la coscienza pulita, rimanendo pronti a riconoscere i propri errori. Poi che la “democrazia” è prima di ogni cosa uno stile di vita, un modo di intendere i rapporti sociali,

Mirko Grasso

NOTE 1 Il volume che si richiama è il noto Gli Atti del Congresso di Bari. Prima libera assemblea dell’Italia e dell’Europa libera, Messaggerie Meridionali, Bari 1944. Di Giovanni Minervini (1920-1990) si veda il libro (postumo) Salvemini e la democrazia. Note sui salveminiani tra politica e cultura. Prefazione di M. Proto, Piero Lacaita Editore, Manduria 1994. 2 Le due inchieste si leggono in G. Salvemini, Scritti sulla questione meridionale (1894-1955), Einaudi, Torino 1955; si veda anche M. Grasso, La rigenerazione di una comunità urbana: Molfetta nelle inchieste di Gaetano Salvemini, in Città di fondazione, a cura di S. Misiani, R. Sansa, F. Vistoli, FrancoAngeli, Milano 2020, pp. 91-104. 3 La prima edizione del volume Il controllo delle nascite è del 1948 e appare nella collezione dei Quaderni di Rivoluzione Libertaria.

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Liliana Segre. Il fattore S: il linguaggio e la politica Maria Paola Gargiulo

L’opposto di amore non è odio, è indifferenza. L’opposto di arte non è brutto, è indifferenza. L’opposto di fede non è eresia, è indifferenza. L’opposto di vita non è morte, è indifferenza. Elie Wiesel, numero A-7713 Queste pagine non sono opera né di una studiosa né di una esperta bensì di una persona coinvolta, e di cui talora sono coinvolte anche le emozioni (MPG)

Basta «C’è un momento in cui una persona di novant’anni, come sono io adesso, dice basta, ho bisogno di riposarmi, non voglio più ricordare, non voglio più soffrire... Non voglio più». È con queste parole che Liliana Segre, il 9 Ottobre del 2020 ha scelto di chiudere una stagione lunga, enorme e delicata della sua vita. Per l’ultima testimonianza pubblica sulla Shoah ha scelto Rondine, un borghetto medioevale in provincia di Arezzo: un laboratorio di pace, luogo ideale per il passaggio di testimone. Di Lei si è detto e scritto molto soprattutto dalla data “stellare”, la chiamerebbe così Stefan Zweig, della sua nomina a Senatrice a vita, il 19 gennaio del 2018. Con questo alto riconoscimento, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha “elevato a sistema la memoria”. La Signora è, innanzitutto, un’osservatrice attentissima del mondo e dei suoi attori. Una mente dai

pensieri lunghi, così agile nel ragionamento che mi verrebbe da attribuirle la vecchia battuta che si può avere tre volte trent’anni senza averne novanta. Dunque? Queste poche pagine sono dedicate ai suoi primi mille giorni in Parlamento il cui sottotitolo potrebbe suonare così: una pacata apologia della moderazione. La cifra della sua personale azione politica è tutta concentrata nel debutto, in Aula, il 5 giugno del ‘18, in occasione del voto di fiducia all’inedita alleanza “giallo-verde”: Tenterò di dare un modesto contributo all’attività parlamentare traendo ispirazione da ciò che ho imparato. Ho conosciuto la condizione di clandestina e di richiedente asilo; ho conosciuto il carcere; ho conosciuto il lavoro operaio, essendo stata manodopera schiava minorile in una fabbrica satellite del campo di sterminio. Non avendo mai avuto appartenenze di partito, svolgerò la mia attività di senatrice senza legami di schieramento politico e


Maria Paola Gargiulo

Liliana Segre a Rondine, 9 ottobre 2020

rispondendo solo alla mia coscienza. Una sola obbedienza mi guiderà: la fedeltà ai vitali principi ed ai programmi avanzatissimi – ancora in larga parte inattuati – dettati dalla Costituzione repubblicana”1.

La danza a tre che tesse le relazioni del mondo ha una sua rappresentazione anche nell’agire politico della Senatrice a vita. Il progetto è svelato in 3 pilastri: la Costituzione, la Storia, i Diritti umani ... e successive modificazioni. Il filo conduttore, quello che tutto tiene e ricomprende è l’articolo 3, quartier generale dell’Eguaglianza, dove la E sta in potente risonanza con il principio francese dell’égalité. È anche l’articolo, intoccabile, della “razza”. Il capolavoro istituzionale di Lelio Basso e Massimo Severo Giannini (Giorgio La Pira, formalmente, non partecipò alla stesura delle dieci righe più potenti della Carta ma, diremmo oggi, seguiva da remoto) i quali ebbero l’intuizione, perché visionari, di collegare la radice della razza al razzismo. Commenterà poi la Senatrice che quell’inchiostro nero, con cui il

Re Vittorio Emanuele III aveva firmato le leggi razziste, produsse un lungo binario (un meridiano di sangue ndr) che da San Rossore portava direttamente ai cancelli di Auschwitz. Il pacchetto “difesa della razza”, convertito in legge dal Senato del Regno il 20 dicembre del 1938 avvia, in forma ufficiale, la politica antisemita del fascismo in Italia, una linea che rompe ed irrompe, per la prima volta nella storia del giovane Regno, l’unità nazionale ed il valore della cittadinanza creando cittadini di serie “alfa e omega”: i non ebrei e gli ebrei. Per questi ultimi, umiliati e offesi, le nuove norme rappresentano la morte civile. L’articolo tre, dieci anni più tardi, lavora sul tessuto lacerato, in macerie, della Nazione, ricompone la frattura ed avviando un processo, a tratti incerto, di guarigione civile, morale e materiale. È questa la lettura filologica, questo significa «è compito della Repubblica rimuovere…». «Papà spiegami a che cosa serve la storia». Così, pochi anni or sono, un ragazzo che mi è

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Liliana Segre. Il Fattore S: il linguaggio e la politica molto vicino, interrogava suo padre, uno storico. Vorrei poter dire che questo libro, rappresenta la mia risposta, perché non credo ci sia lode migliore, per uno scrittore, che di saper parlare, con il medesimo tono, ai dotti e agli scolari. Ma una semplicità tanto elevata è privilegio di alcuni rari eletti. Tuttavia, la domanda di quel fanciullo, di cui in quel momento non riuscivi granché bene a soddisfare la sete di sapere, la conserverei volentieri qui, come epigrafe. Senza dubbio, alcuni ne giudicheranno ingenua la formulazione; a me pare invece del tutto pertinente. Il problema che essa pone, con la sconcertante dirittura di quell’età inesorabile, è, né più né meno, quello della legittimità della storia2.

Ma proviamo a ripartire dalla Storia. Nella temperie dei primi mesi del 2018 un fantasma (uno dei tanti) volteggiava sulle aule parlamentari e, soprattutto, in viale Trastevere 76/a, sede storica del Ministero della pubblica istruzione: il ridimensionamento della prova di Storia negli esami di maturità, che sarebbe stata giustificata sulla base di una considerazione meramente statistica poiché negli ultimi anni solo il 3% dei maturandi avrebbe scelto il tema di Storia. Scelta miope, anzi ottusa, dall’esito felice grazie anche ad un appello pubblico a tre firme: Liliana Segre, Andrea Camilleri e lo storico Andrea Giardina. Rilanciato dal quotidiano «la Repubblica» l’appello raccoglie cinquantamila adesioni in pochi giorni. Il passo successivo, nel gennaio del 2019, su impulso della stessa neo-Senatrice è la Commissione 7 (di cui è membro) che avvia un ciclo di audizioni dal titolo «Affare sui percorsi didattici nelle scuole della storia, con particolare riferimento a quella del Novecento

e sulla presenza della traccia di storia tra le prove dell’esame di maturità». Salvatore Settis, storico dell’arte, insigne archeologo, umanista, sarà il primo audito del breve e, mi permetto di aggiungere, fortunato ciclo di audizioni il cui esito, non scontato, ha prodotto il migliore dei risultati possibili: la reintroduzione della traccia di storia. «Come tutti sappiamo, l’Italia repubblicana fu il primo Stato al mondo a porre il diritto alla cultura e la tutela del patrimonio culturale e del paesaggio non solo nella propria Costituzione, ma fra i principi fondamentali dello Stato. […] Vi propongo dunque la seguente riflessione: la funzione e lo statuto della Storia come ingrediente essenziale della cultura non è un orpello esornativo della Costituzione, ma fa parte della sua più intima essenza. S’innesta sul ventaglio dei diritti della persona e della comunità dei cittadini. Non rappresenta un’astratta utopia, ma è consustanziale alla sovranità e alla cittadinanza, che richiedono il pieno esercizio del diritto al lavoro, alla giustizia, alla salute, alla libertà, alla cultura, all’istruzione, alla democrazia. Le discipline storiche, in quanto componente imprescindibile della cultura, sono il cuore e il lievito dei diritti costituzionali della persona e insieme il legante della comunità. Sono funzionali alla libertà, alla democrazia, all’eguaglianza, alla dignità della persona. […] Prendiamo una parola indubitabilmente greca, che oggi è più importante che mai: democrazia. Abbiamo mille ragioni di ammirare la democrazia ateniese e i suoi raggiungimenti (la tragedia, per citarne uno). Ma sappiamo che in quella democrazia le donne non votavano, e la schiavitù era ritenuta normale. Fra la democrazia antica e la nostra c’è qualcosa di profondamente simile e qualcosa di irrimediabilmente diverso. Questa continua “ginnastica” (mentale e morale) fra il simile e il diverso dovrebbe essere il sale della didattica delle discipline storiche. In

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Maria Paola Gargiulo tal modo, il «classico», e più in generale le discipline storiche, possono essere oggetto di attenzione e di studio nella scuola, non come immobile e privilegiato gergo delle élites, ma come efficace chiave d’accesso alla molteplicità delle culture del mondo contemporaneo, come aiuto a intendere il loro processo di mutuo interpenetrarsi»3.

Il 2018 ė l’anno delle grandi ricorrenze, una straordinaria coincidenza ci porta a festeggiare le Carte che ci orientano: la Costituzione repubblicana entrata in vigore il primo gennaio del ‘48, seguita, in un gran finale, il 10 dicembre dalla Dichiarazione universale dei diritti umani. La genesi stessa di queste carte e dichiarazioni conferma come dopo il dramma della Seconda Guerra Mondiale, dopo la tragedia della Shoah, dopo due regimi totalitari come il fascismo ed il nazismo, colpevoli di genocidio, e mentre ancora vaste aree del mondo vivevano sotto regimi dittatoriali e repressivi, si sentiva ovunque la necessità di una svolta. Alla metà circa del terribile Novecento, age of extremes, il genere umano come tale iniziò ad avvertire in maniere sempre più impellente e diffusa il bisogno di darsi regole e valori condivisi, di definire un idem sentire valoriale sostenuto da istituzioni in grado di garantire un futuro di pace e sviluppo ai popoli della terra. [...] Il Preambolo della Dichiarazione è in questo senso paradigmatico. Enuncia infatti un insieme di principi assolutamente innovativi nell’ambito delle relazioni internazionali. Innanzitutto, quello secondo cui il rispetto dovuto indistintamente a «tutti i membri della famiglia umana» e ai loro diritti uguali e inalienabili sta alla base delle libertà, della giustizia e della pace nel mondo. Venivano così davvero definiti termini e valori di un inedito ordine mondiale. Per la prima volta esplicitamente il valore della dignità umana era posto

al di sopra della sovranità degli stati. Le persone prima delle istituzioni. E queste al servizio di quelle. […] In effetti ancora nell’anno in cui celebriamo il settantesimo della Dichiarazione di Parigi e dell’entrata in vigore della nostra costituzione abbiamo dovuto assistere a una serie di fatti inquietanti che interrogano le nostre coscienze. Ovunque nel mondo si ha notizia del diffondersi di politiche razziste cosiddette alt-right è improntate al “suprematismo bianco”; violenze e ingiustizie nei confronti di quanti sono costretti ad emigrare riempiono quotidianamente le cronache, si diffondono Hate Speech e Hate crimes. Ma quel che forse è ancora più inquietante è il montare di un clima quasi di abitudine alla violenza ed al razzismo, di “banalizzazione” del problema4.

Ciò che emerge, a occhio nudo, è l’inestricabile legame tra storia e memoria. Nel fattore S, l’orizzonte di senso si colma quando un giovedì pomeriggio, nella Sala Kock del Senato, su iniziativa della Nostra, si aprono i lavori del convegno «Stragi e deportazioni nazifasciste: per la giustizia contro l’ambiguità»5. Argomento scottante oggi come allora. Il parterre è di somma qualità a cominciare dal Presidente Emerito della Corte Costituzionale, Professor Giuseppe Tesauro, estensore della bella sentenza della Corte Costituzionale n. 238 del 22 ottobre 2014 che smonta la sentenza della Corte internazionale di Giustizia (Cig) del 3 febbraio 2012, che ci ha visto soccombenti. La Consulta ha infatti stabilito che la regola secondo cui lo Stato estero è immune da giurisdizione anche in caso di commissione di crimini internazionali non può essere accolta nel nostro ordinamento, poiché contrasta con i principi fondamentali della nostra Costituzione (diritti inviolabili dell’uomo

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Liliana Segre. Il Fattore S: il linguaggio e la politica e accesso alla giustizia). In ballo ci sono milioni di Euro di risarcimenti, in sede civile per gli eredi di quelle stragi. Faber fit in fabricando: Decisi allora di dare ai parenti dei miei sfortunati compagni la notizia della morte dei loro cari. Non posso descrivere la mia pena nel vedere tanto dolore così dignitosamente affrontato. Solo lacrime e sospiri, non invettive o imprecazioni. Ma le espressioni di quei volti segnati dalla tragedia non potrò più dimenticarle. Mi dissi disposto a condurre i parenti, che lo avessero desiderato, sul posto del massacro e Lia volle accompagnarmi. Non mi fu difficile ritrovare quel luogo e la tragica fossa. La moglie del carabiniere, che aveva voluto – malgrado la sua gravidanza – venire con noi, non riusciva a convincersi del fatto che là fosse sepolto il suo giovane sposo, e fu soltanto quando alcuni uomini, scavando dietro mio consiglio, trovarono le giacche dei loro cari, che prese coscienza della terribile realtà. In attesa di poter esumare i corpi, sulla fossa furono poste delle croci fatte con rami d’ulivo, e io, unico superstite della strage, portai così a compimento la promessa fatta ai miei sfortunati compagni di prigionia”6.

Prima di fare i conti con la storia occorre “ridisegnare” i confini geografici. L’Europa, la casa madre, è il centro di gravità permanente di uno spazio democratico che nasce dalla bancarotta della ragione. Ancora una volta, però, è il paradosso a farla da padrone. Invitata dal Presidente del Parlamento Europeo, David Sassoli, il 30 gennaio del 2020, per ricordare il 75° anniversario dell’apertura dei Cancelli di Auschwitz, la Senatrice ha difronte a sé un ritratto di famiglia “al tramonto”. Una bizzarra coincidenza fa incrociare le agende. La Brexit è ormai cosa fatta e consumata, così quella seduta, per

i sudditi di Her Majesty, si trasforma nell’ultimo giorno di scuola (europea). L’ultima volta dell’Ue a 28. Il clima è surreale perché per loro, eredi di Wiston Churcill, quello «Dell’ora più buia beh! ci vuol poco a riavvolgere il nastro. La storia è magistra vitae? Il suo intervento, a braccio, rinominato subito Il discorso delle bandiere diventa virale facendo il giro d’Europa: Il Parlamento Europeo e la mia non estinzione mi appaiono in questo momento come lo stesso miracolo ... immodestamente. Che la farfalla gialla voli sempre sui fili spinati7.

Hate speech Se è vero che i tempi difficili che stiamo vivendo sono pieni di opportunità nuove ed inedite una di queste va estrapolata dalla “crisi epistemica”, come la chiama nel suo ultimo libro Luca Celada, tutta incentrata sul tentativo di confondere ciò che è vero e ciò che è falso. È dalla guerra tra il falso e il vero (di cui è popolata la rete) che dipende il futuro della nostra società: benvenuti nel cuore della battaglia: Hate speech. L’idea di istituire una Commissione Speciale che avesse compiti di monitoraggio, controllo e studio del fenomeno, dei discorsi d’odio, il così detto Hate speech, è stato il principale obiettivo politico di Liliana Segre, uno speciale “atto dovuto”. Il terreno è fertile perché il Senato è un’Istituzione storicamente attenta al tema della tutela e sviluppo dei valori costituzionali. Il precedente più autorevole e significativo è l’istituzione, nella legislatura XIV (e da allora sempre ricostituita), della Commissione Straordinaria Diritti Umani. 107


Maria Paola Gargiulo Il progetto e le intenzioni sono ben specificati in premessa alla Mozione (Atto n. 1-00136) approvata dal Senato il 30 ottobre 20198. Negli ultimi anni si sta assistendo a una crescente spirale dei fenomeni di odio, di intolleranza, di razzismo, di antisemitismo e neofascismo che pervadono la scena pubblica accompagnandosi sia con atti e manifestazioni di esplicito odio e persecuzione contro singoli e intere comunità, sia con una capillare diffusione attraverso vari mezzi di comunicazione e in particolare sul web. Parole, atti, gesti e comportamenti offensivi e di disprezzo di persone o di gruppi assumono la forma di un incitamento all’odio, in particolare verso le minoranze; essi, anche se non sempre sono perseguibili sul piano penale, comunque costituiscono un pericolo per la democrazia e la convivenza civile. Si pensi solo alla diffusione tra i giovani di certi linguaggi e comportamenti riassumibili nella formula del “cyberbullismo”, ma anche ad altre forme violente di isolamento ed emarginazione di bambini o ragazzi da parte di coetanei. Nell’illustrare la mozione, la prima firmataria usa parole chiare e forti: la lotta contro il razzismo e la xenofobia «è il cuore di ogni politica dei diritti uma-

ni, perché la tolleranza e il rispetto per la dignità altrui costituiscono le fondamenta di ogni società davvero democratica e pluralista». Razzismo e xenofobia in ogni loro forma e manifestazione, però, sono incompatibili, ovviamente, anche con i valori su cui si fonda l’Unione europea. Che il razzismo sia un male congenito ormai è evidente. Riemerge ciclicamente dalle sue stesse ceneri. È stata una posizione debole, illusoria, quella di chi ha pensato che il razzismo fosse definitivamente scomparso dal nostro orizzonte. L’assunto di primo Levi che quanto è avvenuto al tempo del nazismo potrebbe succedere ancora per il fatto stesso di essere accaduto funziona, regge eccome. È guerra sempre. Ecco perché occorre attrezzarsi con uomini e mezzi all’altezza della sfida di una cruciale battaglia di civiltà. La tendenza sportiva a smarcarsi del nostro Paese non aiuta. L’Italia che si è sottratta a una seria resa dei conti con il proprio passato fascista, dove è mancato l’esame di coscienza inevitabile e laborioso, come ha osservato Guido Crainz nella sua Autobiografia di una Repubblica, è un Paese ad alto rischio.

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Liliana Segre. Il Fattore S: il linguaggio e la politica Quando la Memoria indulgente incontra gli “imprenditori politici della xenofobia e dell’intolleranza” nessuno è più al sicuro. In anni recenti il radicamento localistico, che assume una torsione razzista, imporrebbe analisi che non possono essere svolte in questa sede. Ecco perché serve la Commissione Segre. Oggi si parla di “crimini di odio” ma forse sarebbe meglio dire “crimini di fanatismo”: ne avvengono quotidianamente anche contro i musulmani. Genocidi, jihad, crociate, inquisizione e gulag, campi di sterminio e camere a gas, stanze delle torture e attacchi terroristici senza distinzione: non c’è niente di nuovo e quasi tutto precede di secoli l’ascesa dell’estremismo islamico. Più le domande si fanno ardue e complicate più aumenta la sete di risposte semplici dai più, risposte fatte di una sola frase, risposte capaci di additare senza esitazione i colpevoli di tutte le nostre sofferenze, di garantirci che basterebbe distruggere e annientare i cattivi e tutti i nostri guai sparirebbero. “È tutta colpa della globalizzazione!”, “È tutta colpa dei musulmani!”, “È tutta colpa del lassismo!”, “É tutta colpa dell’Occidente!”, “È tutta colpa del Sionismo”9. Conclusione Bisognerebbe essere degli ottimisti a oltranza o avere il dono di sapere ingannare se stessi per sostenere che andrà tutto bene. L’ultima frontiera è la manutenzione della memoria. «Non pensiate che le conquiste siano tali a vita, difendetele sempre» diceva Tina Anselmi. L’inabissarsi della “Memoria” è narrato in una pagina di Franz Kafka, intitolata Prometeo, che cito per intero:

Di Prometeo narrano quattro leggende: Secondo la prima egli, avendo tradito gli dei in favore degli uomini, venne incatenato al Caucaso, e gli dei mandarono delle aquile a divorargli il fegato che ricresceva continuamente. La seconda narra che Prometeo, per il dolore causato dai becchi, che lo dilaniavano, si serrò sempre più contro la roccia, finché divenne una cosa sola con essa. Secondo la terza, il suo tradimento venne DIMENTICATO attraverso i millenni: gli dei, le aquile egli stesso dimenticarono. Secondo la quarta tutti si stancarono di colui che ormai non aveva più senso. Gli dei si stancarono, le aquile si stancarono, la ferita si richiuse stancamente. Rimase l’inesplicabile montagna di roccia. La leggenda tenta di spiegare l’inspiegabile. Poiché nasce da un fondo di verità, deve finire nell’ inspiegabile10.

Prima di conoscere Liliana Segre, il mio rapporto con la categoria dell’INDIFFERENZA era teorico, condizionato dalle pagine, insuperate, del sardo Antonio Gramsci: “vivere vuol dire essere partigiani. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia”. Un approccio alto ma astratto, a tratti inattingibile. Poi da quelle pagine sono passata ai fatti, fatti storici talmente tangibili, storie di banchi vuoti, di bambini invisibili che è cambiata la personale prospettiva. Ora la mattina, attraversando via Vespucci, sotto casa di Elsa Morante, al civico 41 saluto Cesare, Ada, Marco, Mirella, Lazzaro, Eleonora. Famiglie nel vento, ma le pietre d’inciampo ricordano 109


Maria Paola Gargiulo che hanno vissuto la loro breve vita, in quel bel palazzo di Testaccio. PS Scrivere queste pagine a urne chiuse, quelle d’oltreoceano, mi ha messo di buonumore. La battaglia sull’hate speech non è geopoliticamente neutra. Le parole dei politici, in particolare quelle del Presidente degli Stati Uniti, sono importanti? Da quando è in carica, il Presidente Trump ha continuamente demonizzato i suoi avversari politici definendoli malvagi e li ha sminuiti chiamandoli stupidi. Ha chiamato gli immigrati senza documenti “animali”. La sua retorica

ha contribuito in modo determinante al nostro clima d’odio, amplificato dai media di destra e dalla virulenta cultura online. Certo, è difficile dimostrare che i discorsi incendiari siano una causa diretta di atti violenti. Ma gli umani sono creature sociali – compresi, e forse soprattutto, gli svitati e i disadattati tra noi – che sono facilmente influenzate dalla rabbia che è ovunque in questi giorni. Questo potrebbe spiegare perché solo nelle ultime due settimane abbiamo visto l’orribile massacro di undici ebrei in una sinagoga di Pittsburgh, con l’uomo arrestato descritto come un rabbioso antisemita, così come l’invio di pacchi bomba ai critici più influenti di questa Amministrazione da parte di un esaltato sostenitore di Trump11.

Liliana bambina con il padre Alberto Segre, deportato con lei e morto ad Auschwitz

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Liliana Segre. Il Fattore S: il linguaggio e la politica NOTE 1 http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/18/Resaula/0/1067706/index.html?part=doc_dc-ressten_rs. 2 Marc Block, Apologia della storia o Mestiere dello storico, trad. Carlo Pischedda, Einaudi, Torino 2009, pag 24. 3 http://www.senato.it/application/xmanager/projects/leg18/attachments/documento_evento_procedura_ commissione/files/000/001/801/Settis.pdf. 4 Dichiarazione universale dei diritti umani, Prefazione di Liliana Segre, Garzanti «i piccoli grandi libri», Milano 2018. 5 https://youtu.be/gpDYeJPX4gU. 6 Elio Toaff, Perfidi giudei fratelli maggiori, Le scie, Arnoldo Mondadori Editore. 1987, pag. 121. 7 https://multimedia.europarl.europa.eu/it/international-holocaust-remembrance-day-75th-anniversary-of-the-liberation-of-auschwitz-speech-by-liliana-segre_I183542-V_v. 8 http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/18/Resaula/0/1125229/index.html?part=doc_dc-ressten_rs. 9 Amos Oz, Cari (8) https://youtu.be/gpDYeJPX4gU.Fanatici, trad. E. Loewenthal, Feltrinelli, Milano 2017, pag. 15. 10 Franz Kafka, Prometeo, in Il messaggio dell’imperatore, Racconti II, trad. di A. Rho, Adelphi, Milano 1981, p. 297. 11 Richard A. Friedman, The neuroscience of Hate Speech, «The New York Times» oct.31, 2018.

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La Fondazione Giacomo Matteotti ha pubblicato per i tipi di Donzelli un’edizione critica del volume “Reliquie”, che nel 1924 propose un’antologia degli scritti sul regime mussoliniano del giovane segretario del Psu, da poco assassinato dalla Ceka fascista guidata da Amerigo Dumini: Giacomo Matteotti, Il fascismo tra demagogia e consenso. Scritti 1922-1924, a cura di Mirko Grasso e con una Prefazione di Alberto Aghemo, Edizioni della Fondazione Giacomo Matteotti per i tipi di Donzelli Editore nella collana “Saggi. Storia e scienze sociali”, Roma, 2020, pp. XXI – 229, € 28,00. Dalla Prefazione, “Giacomo Matteotti, antifascista”, di Alberto Aghemo: «Non di rado la Storia procede per amari paradossi. Particolarmente beffardo è stato quello legato alla tragica fine di Giacomo Matteotti: il brutale assassinio del più fiero e intransigente oppositore del fascismo diede il via alla resistibile ascesa del potere mussoliniano, consolidandone il passaggio da regime a dittatura. Un altro paradosso: si vuole – in questo concordano sia la vulgata sul «martire», sia gran parte della storiografia più autorevole – che a decretare la morte di Matteotti sia stato il celebre, vibrante discorso di denuncia della violenza fascista eretta a sistema e dei brogli elettorali che, tenuto alla Camera il 30 maggio del 1924, fu un atto d’accusa teso, lucido, documentato, puntuale, sferzante e quindi insopportabile per le orecchie di Mussolini e dei suoi zelanti sicari. Ma fu un j’accuse pronunciato a braccio, del quale non esiste alcun testo predisposto, bensì solo il resoconto (involontariamente drammatico nella sua icastica registrazione delle interruzioni, delle accuse, degli insulti, delle minacce) degli stenografi della Camera.


L’avventuroso fondatore di una religione nuova Gerardo Padulo

Emilio Gentile ha pubblicato la parte della biografia di Mussolini che va dall’infanzia alla fine del 1919 e l’ha intitolata Quando Mussolini non era il duce (Garzanti, 2019). Gentile ripercorre i temi e i problemi affrontati dal suo maestro Renzo De Felice in Mussolini il rivoluzionario edito nel 1965 in modo diverso ma con pari simpatia verso Mussolini. Simpatia a parte, è comunque opportuno riguardare e tenere presente la variegata e imponente base documentaria esibita dal Maestro per meglio valutare il diverso approccio dell’Allievo. Il lavoro di Gentile è, in massima parte, costruito sugli scritti e sui discorsi pubblici di Mussolini. L’intento è di cogliere il senso, per così dire, pensato e pubblicamente divulgato, di quel singolare itinerario che portò un indocile e inquieto ragazzo di provincia a diventare il “duce” della maggior parte degli italiani. L’Autore parte dalla formazione del rivoluzionario e giunge al disastro elettorale del novembre del 1919. “Duce, maestro e signore” in questo viaggio è lo stesso Mussolini. Il problema è, però, che Mussolini non fu un filosofo per il quale una esegesi puntuale dei testi può far scoprire il ritmo di un pensiero che si sviluppa. Mussolini, in verità, fu soltanto un giornalista, certamente talentuoso, che ogni giorno doveva partorire le due colonne per l’articolo di fondo o la nota di commento alle ultime notizie.

Una fatica inutile, quella di Gentile? Non direi. Alla condizione, però, che l’esegesi riguardi sistematicamente tutti gli scritti e tutti i discorsi. Per un’elementare ragione di metodo. Di fatto, Gentile silenzia e tacita alcuni articoli di Mussolini apparsi sull’«Avanti!» tra il 26 settembre e il 2 ottobre 1914 nei quali sono contenuti cenni precisi contro la massoneria che vuole l’intervento dell’Italia in guerra mentre il proletariato è, ad essa, contrario. Cosi come tacita alcuni altri documenti utili all’esplorazione del “pensatore”. Per esempio, il 9 aprile 1910, a seguito di scontri tra braccianti socialisti e “i contadini gialli del Ravennate”, Mussolini scrisse: Io ho del socialismo una nozione barbara – io lo immagino come il più grande atto di negazione e di distruzione che la storia registri, io penso un socialismo che non “distingue” che non “patteggia” che non si “mortifica”. Avanti, nuovissimi barbari! Al di sopra e contro Monarchia Repubbliche e contro tutti gli sfruttamenti borghesi! Come tutti i barbari anche voi siete precursori di una nuova civiltà.

Poco dopo Mussolini confidò a Prezzolini che si sentiva “spaesato” fra gli stessi compagni rivoluzionari aggiungendo che la sua”concezione religiosa del socialismo” era molto lontana dal rivoluzionarismo “filisteo” dei suoi amici.


Gerardo Padulo Dunque, quale era il socialismo più vero di Mussolini? La nozione barbara o la concezione religiosa? O erano vere entambe, una per i lettori barbari e una per gli intellettuali alla moda? Da qualsiasi parte sia la verità, nell’autunno del 1914, a barbari e filstei Mussolini ordinò, essendo già duce, il dietro-front! e nel giro di poche settimane si ritrovò a combattere con un giornale tutto suo – «Il Popolo d’Italia» – per l’intervento dell’Italia in guerra a fianco di monarchici, di repubblicani e dei massoni contro i quali aveva tuonato nel 1912 a Reggio Emilia e nell’aprile 1914 ad Ancona. E contro il proletariato che si era espresso contro la guerra rispondendo sulle pagine dell’«Avanti! » al referendum indetto dallo stesso Mussolini. In verità, la conversione di Mussolini non ebbe nulla in comune né con la caduta da cavallo di Paolo di Tarso né con le tempeste del dubbio di mazziniana memoria. Fu una banale compra-vendita di un giornalista da parte delle forze decise a portare l’Italia in guerra. Non andò in questo modo per Gentile il quale dedica molte pagine alle quattro virate, per complessivi 180 gradi, con le quali Mussolini, da sé solo, decise di trasformare se stesso da un neutralista assoluto in un interventista zelante. E, soltanto per stabilire parametri di riferimento, mentre De Felice suggeriva una qualche manovra del ministro degli esteri, marchese di San Giuliano, per indurre Mussolini a predicare la guerra, in Gentile la decisione è tutta e soltanto di Mussolini. Il problema non è, ovviamente, quello di rivedere Gentile attraverso De Felice ma di suggerire, piuttosto, quanto l’ampliamento dello spettro delle fonti potrebbe giovare alla formulazione di un giudizio più meditato e più equilibrato sugli eventi e sull’uomo.

In definitiva, basta allargare un po’ lo sguardo sulle tracce lasciate qua e là dal “nomade avventuroso” – con questa locuzione dannunziana l’Autore definisce il personaggio – per rendersi conto che non è possibile giudicare Mussolini soltanto attraverso gli scritti e i discorsi pubblici. Il 3 novembre 1904, per esempio, Mussolini si offrì ad Arcangelo Ghisleri come traduttore dal tedesco della rivista «Freidenker» [Il libero pensatore] ma nel giro di qualche anno divenne un abituale mangiatore di massoni. Mario Viana, un nazionalista sui generis, che ebbe “una certa consuetudine di vita” con Mussolini nel 1913 e 1914, gli chiese un giorno “a bruciapelo: «Ma insomma qual’è il tuo programma?». E Mussolini rispose, risoluto: «Me a vui cmandè», io voglio comandare. Viana aggiunge che era nello stesso tempo docile, timido, riflessivo, qualche volta quasi pauroso, che disprezzava il denaro e che a modo suo era patriota, oltre che impressionante oratore e grande tribuno. Si dirà che testimonianze come quelle di Viana non bastano per definire un personaggio del quale si vuol disegnare il percorso politico; ed è vero. Ma allora, per esempio, si può onestamente non cogliere la contraddizione tra la sbandierata guerra rivoluzionaria e l’esaltazione di Cadorna come possibile dittatore fatta nell’estate del 1917 dal «Popolo d’Italia», ancora “quotidiano socialista”? Se Viana non basta – e non basta – perché non chiedersi se il senatore Alfredo Frassati abbia posseduto o no documenti, che sarebbero stati offerti poi anche all’«Avanti!», sul viaggio a Ginevra di Mussolini qualche settimana prima della fondazione del «Popolo d’Italia»?

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L’avventuroso fondatore di una religione nuova È esistita o no l’«amichevole congiura» di Leonida Bissolati e di Giusepppe De Felice Giuffrida per tenere Mussolini, «debole com’era di salute», lontano dai rischi della guerra nel novembre del 1916? All’“adunata” di piazza San Sepolcro, poi, il 23 marzo 1919 aderirono e furono presenti molti massoni: tra gli altri, e presenti, il vecchio presidente, Riccardo Luzzatto, e il giovane segretario, Eucardio Momigliano, della Società Democratica Lombarda. La loro assenza e quella di altri massoni nel lavoro di Gentile è dovuta, per caso, ad un colpo di sonno del tipografo? Tutto è possibile. Comunque, così com’è costruito, il lavoro di Gentile costituisce l’approdo prevedibile della “interpretazione” derivata da George L. Mosse del fascismo come religione politica: ovvero è un monumento di carta innalzato al “nomade” che attraverso varie avventure avrebbe dato vita al fascismo come religione politica. In altre parole, siamo di fronte alla vita del fondatore di una religione laica, attraverso le parole che ebbe a scrivere – ma non sempre e non tutte – e a pronunciare mentre era in vita. Si potrà dire che il lavoro di Gentile è una lettura originale e che sarebbe errato non cogliere le novità che le nuove interpretazioni recano, generalmente, agli studi. In verità, chi scrive cerca di non avere pregiudizi ma si ostina a conservare e seguire quello secondo il quale compito dello storico è capire come si sono svolti i fatti e, se possibile, le ragioni che li hanno determinati. Le interpretazioni sono utili se portano a mettere in luce altre e importanti facce di fenomeni complessi. Se oscurano quelle già acquisite come importanti, e che restano comunque strutturali, la loro utilità è dubbia. Ne deriva, per chi

scrive, che gli uomini si giudicano dai fatti come gli alberi dai frutti fermo restando il principio che è una ricchezza per tutti quella di avere opinioni diverse, su tutto. A Mussolini il lavoro di Gentile sarebbe piaciuto, di sicuro. In definitiva, anche perché il lemma “rivoluzione” nei titoli dei capitoli e dei paragrafi compare spessissimo, avrebbe apprezzato le buone intenzioni del nuovo biografo. Così come apprezzò nel 1928 il giudizio, scritto e stampato, di Gioacchino Volpe secondo il quale egli era stato sempre rivoluzionario, sia da socialista che da salvatore della patria. A fine lettura, c’è da chiedere a che cosa serva fare storia, oggi. Viviamo in tempi nei quali il battito d’ali di una farfalla a Tokio può provocare la caduta della borsa di New York. Con i fatti ricostruiti alla maniera di Gentile, aiuteremo la farfalla a battere più velocemente le ali o impediremo che cada la borsa di New York? O daremo vita ad un’altra religione politica? O col vecchio Mussolini – qualche volta tacitato – spezzeremo le reni ai nuovi barbari che ci invadono dal mare? In queste domande risiede, probabilmente, l’acquisizione più importante che si può ricavare da questo libro.

Emilio Gentile, Quando Mussolini non era il duce, «Saggi», Garzanti, Milano 2019, pp. 396, € 20,00.

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Della lettura, della scrittura e del tradimento Angelo S. Angeloni

Ci interroghiamo spesso sulla sorte del libro oggi, in una società velocizzata, frenetica, rumorosa, distratta, indifferente, dominata dall’immagine, dall’apparenza, da internet, dalla televisione e da ogni altro new medium. I sondaggi ci riferiscono che si stampano annualmente molti libri, ma anche che si legge poco, che c’è un analfabetismo degli alfabetizzati, che ci è quasi straniera la nostra lingua, che nei giovani delle nostre scuole manca la capacità di riflessione, che sta venendo meno la memoria individuale e storica. Ci sono certamente i leggenti, ma pochi sono i lettori: quelli che, nonostante questa società, non dimenticano il valore fondamentale del libro e della lettura. Cercano un momento di solitudine, e vi si rifugiano. «Bisogna riservarsi un retrobottega tutto nostro, sicuro, in cui possiamo collocare la nostra vera libertà e il più importante ritiro e la solitudine. In questo luogo bisogna di solito intrattenersi con noi stessi» (Montaigne). E con noi stessi ci intratteniamo soprattutto con la lettura. La lettura, infatti, richiede silenzio, calma, attenzione, riflessione, perché quando leggiamo veramente, dialoghiamo con l’autore del libro e con noi stessi. E scriviamo, diventando noi stessi co-autori. «Scrivere è un tornare a sé, dentro di sé; è un concentrarsi, un guardarsi a fondo, un confrontarsi:

operazione difficile, a volte dolorosa, per cui si può dire che ogni vero scrittore è alla ricerca di se stesso, scrive per giungere alla scoperta del Sé». Così Ferrarotti a pag. 14 di un suo recente libro Dello scrivere e del leggere non alla leggera e del tradurre senza troppo tradire. Tornare dentro di sé attraverso la scrittura, vuol dire poi ricordare. Ma la memoria (l’imparare a memoria) è stata abbandonata nelle scuole con l’accusa (erronea) di nozionismo, e nella società con l’interesse rivolto solo al presente e all’utile pratico. Tutto, con grave danno per l’individuo, perché (dice Ferrarotti) noi siamo ciò che siamo stati; o meglio, ciò che ricordiamo di essere stati. Tornare dentro di sé, infine, avviene anche attraverso il confronto con il diverso. Da qui l’importanza della traduzione: «tradurre senza troppo tradire. Tradurre non solo letteralmente, ma scoprire nella parola lo spirito del tempo, il senso profondo, il tono medio di un ambiente, il suo clima mentale» (pag. 38). La traduzione delle diverse lingue europee, infatti, è un mezzo attraverso cui avviene l’identità dialogica (cap. VII), la quale deve abbattere il feticismo delle singole identità nazionali, che creano odio. «L’estrema differenziazione etnica e linguistica del continente europeo e la grande plura-

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Della lettura, della scrittura, del tradimento lità di popoli e di culture, anziché ostacolare la ricerca di una comune identità europea, può riuscire un punto di forza, poiché è la corretta interpretazione di questa pluralità a rappresentare, anziché un problema, un insegnamento: essere sardi o frisoni senza per questo rinunciare ad essere italiani o olandesi può insegnarci a essere italiani o olandesi senza contraddizioni col sentirsi europei» (pag. 73). In un mondo in cui siamo informati di tutto in tempo reale e crediamo, per questo, di conoscere tutto, ci manca invece la capacità di assimilare, di filtrare ciò che ci viene fornito dalla comunicazione di massa, e di vincere l’emotività dell’immagine con la riflessione razionale che solo la lettura può darci nel silenzio e nella calma.

Franco Ferrarotti, Dello scrivere e del leggere non alla leggera e del tradurre senza troppo tradire, «Micromegas», Edizioni Solfanelli, Chieti 2020, pp. 96, € 9,00.

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Le parole della convivenza Alberto Aghemo

Secondo la Carta europea del plurilinguismo, promossa dall’Osservatorio Europeo istituito dall’Ue per analizzare il fenomeno, il plurilinguismo è un vettore essenziale della cittadinanza democratica in Europa e rappresenta «la forma più auspicabile ed efficace di comunicazione nell’ambito del dibattito pubblico [in quanto] trasmette valori di tolleranza e di accettazione delle differenza e delle minoranze». Studiare i caratteri le dinamiche di sviluppo del plurilinguismo significa dunque riflettere sull’evoluzione delle culture – intese in senso antropologico non meno che civile e politico – e delle identità e sulla possibilità di costruire solidi rapporti di convivenza con l’altro, con lo “straniero” al di là delle barriere etniche, religiose e storiche che tornano ad ergersi nel contesto continentale e non solo. Il fenomeno si pone con drammatica consistenza in un presente caratterizzato da una crescente facilità di movimento e da un sostanziale meticciato nel quale il plurilinguismo testimonia la compresenza di più lingue in un medesimo ambito territoriale, sociale, lavorativo. Ancor più alla luce dell’epocale flusso migratorio al quale stiamo assistendo, spesso privi di adeguati strumenti di accoglienza, di comprensione, di integrazione. Non dobbiamo andare lontano per comprendere il fenomeno nella sua complessità e nella sua logica, resa stringente dai grandi numeri: oggi in

Italia risiedono circa 5 milioni di stranieri che appartengono a quasi 200 diverse nazionalità, con una manifesta migrazione dei linguaggi in costante confronto con la lingua italiana e con i suoi dialetti. Ma il plurilinguismo non riguarda solo le migrazioni più recenti: è realtà ben radicata in un Europa che include attualmente oltre 60 idiomi ufficiali che esprimono un’indubbia ricchezza storica e culturale ma costituiscono al contempo una remora ai processi di aggregazione e di integrazione nell’ambito dell’Unione europea, incidendo sul suo funzionamento sia in termini burocratici e di efficienza di sistema, sia nella sostanza della rappresentanza democratica. È proprio per indagare il fenomeno nella sua intrinseca complessità e nelle sue articolate dinamiche che è nato il progetto editoriale Plurilinguismo e Migrazioni (PLURIMI) destinato a raccogliere in una collana ad hoc gli studi svolti presso istituti del Consiglio Nazionale delle Ricerche afferenti al Dipartimento Scienze Umane e Sociali, Patrimonio Culturale. L’obiettivo è pubblicare gli esiti di progetti di ricerca sui fenomeni di plurilinguismo connessi al tema delle migrazioni, anche nelle sue connotazioni culturali e tenendo presenti più prospettive disciplinari, favorendo il dialogo tra i ricercatori e le intersezioni tra differenti linee di indagine.

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Le parole della convivenza

MACRO Asilo, Roma, Presentazione collana PLURIMI, giugno 2019 (foto F. Palmieri)

Linguaggi, ricerca, comunicazione. Focus cnr è titolo del primo volume della collana, curato da Maria Eugenia Cadeddu e Cristina Marras, che riassume i principali temi degli articoli raccolti e l’obiettivo della pubblicazione: al centro il linguaggio e la comunicazione come circolazione di idee e come fattore di relazione e condivisione di risultati della ricerca. Il volume presenta nove contributi originali ed è suddiviso in due sezioni: una relativa a contesti e situazioni del passato anche recente (In prospettiva storica), con studi di carattere storico, archeologico, linguistico e filosofico; l’altra (Tempo presente) dedicata alla contemporaneità, con analisi di tipo socio-demografico e giuridico, oltre a studi di ambito linguistico e letterario. Il volume include anche tre schede su specifici progetti particolarmente innovativi.

Il progetto editoriale rappresenta un importante ed originale contributo al tema del plurilinguismo interconnesso con quello delle migrazioni con un approccio integrato e organico e con l’apporto convergente e sinergico di prospettive demografiche, socio-politiche, linguistiche, computazionali, storiche, filosofiche e giuridiche: «Una translatio studiorum – come scrivono le curatrici nella Prefazione – che presuppone un plurilinguismo con valenza orizzontale e verticale, geografica e socio-politica, e mette l’accento sulle complesse dinamiche fatte di trasposizione di testi, riscritture, traduzioni, interpretazioni, metamorfosi e prassi della lingua, delle culture e della società. Inoltre, a partire dalla ricerca e dai suoi risultati, il progetto vuole offrire punti di vista critici, informazioni, tematizzazioni, dati e categorie interpretative». 119


Alberto Aghemo La collana, così come il volume Linguaggi, ricerca, comunicazione, si rivolgono non solo agli specialisti ma anche alla scuola e al mondo della formazione configurandosi, vale sottolinearlo, come strumento didattico e di approfondimento. Da qui la scelta della pubblicazione on line e a libero accesso, coerente peraltro con le politiche del CNR e della scienza aperta. Da rimarcare il fatto che la collana e questo suo primo volume sono anche il frutto di un lavoro collaborativo e collegiale che ha riguardato sia i contenuti sia le scelte grafiche ed editoriali ed ha coinvolto l’intero staff di cnr Edizioni, in particolare Sara Di Marcello, Marco Arizza (che ha realizzato l’originale progetto grafico insieme a Silvestro Caligiuri), Tiziana Ciciotti e Vittorio Tulli, oltre ai componenti del Comitato Scientifico. Un pregevole lavoro collettivo, dunque, che efficacemente combina i singoli contributi, dovuti – dobbiamo qui limitarci ad una mera citazione – a Maria Eugenia Cadeddu, Michele Colucci, Giuseppe Garbati e Tatiana Pedrazzi, Cristina Marras, Giulio Vaccaro, Grazia Biorci, Corrado Bonifazi con Alessio Buonomo, Angela Paparusso, Salvatore Strozza, Mattia Vitiello, Manola Cherubini e, infine, Irene Russo insieme a Lucia Marconi, Paola Cotugno e Monica Monachini. Le schede finali che integrano la ricerca sono di Ada Russo, Michela Tardella, Mariasole Rinaldi e Emiliano Giovannetti. L’ampio mosaico offerto dai ricercatori del CNR tratteggia un disegno corale di vasto respiro scientifico caratterizzato da un’assai varia articolazione tematica che va dallo studio del plurilinguismo nell’Ogliastra in Sardegna nei secoli XVII e XVIII all’analisi

delle risorse digitali per l’integrazione in contesti multilingui, dalla migrazione delle tecnologie e dei linguaggi all’approfondimento della conoscenza della lingua nei processi di integrazione. A fare da collante è sempre l’idea che le parole sono ponti tesi verso la comprensione, la civiltà, la condivisione. Il lievitare inarrestabile del multilinguismo ci costringe a riflettere sul fatto che – come aveva acutamente intuito Heinrich Böll nello scorse secolo – la lingua è luogo di libertà. E non è un caso che una citazione del Nobel tedesco apra il volume e al contempo riassuma con efficacissima sintesi il senso di questo percorso di ricerca: «…dietro ogni parola vi è un mondo. Chi usa le parole mette in moto mondi…» (H. Böll, La lingua come luogo di libertà,1959).

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Maria Eugenia Cadeddu, Cristina Marras (a cura di), Linguaggi, ricerca, comunicazione. Focus CNR, Collana «PLURIMI, Plurilinguismo e Migrazioni» – I, Edizioni CNR, Roma 2019, pp. 146. Il testo è liberamente accessibile presso https://doi.org/10.36173/PLURIMI-2019-1




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